Periodici citati da Gramsci

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 Riviste letterarie del primo Novecento

I movimenti letterari, i fatti culturali, l'ideologia stessa del Novecento, sia sul piano letterario che politico, possono essere colti e seguiti nel loro complesso sviluppo attraverso l'articolarsi delle più rappresentative Riviste del Novecento le cui premesse si possono già trovare nelle riviste di fine Ottocento.

Dalla loro analisi scaturisce chiaramente, sia il profilo dei fenomeni sociali, politici, religiosi, scientifici (non solo artistico-letterari), sia quello dei gruppi intellettuali e redazionali che li hanno animati e gestiti e dei loro singoli componenti.

Le riviste rappresentano un modo più concreto, partecipe e militante di lavorare e discutere sui temi e sui problemi che sono stati dibattuti dalla cultura del secolo procedendo dal di dentro dei fenomeni, non solo artistico-letterari, ma politici, sociali, religiosi e scientifici.

Indice

    * 1 Riviste dell'estetismo decadente
    * 2 Periodici del risveglio cattolico e del Modernismo
    * 3 La stampa periodica socialista
    * 4 Fogli-manifesto del nazionalismo e del Futurismo
    * 5 L'idealismo de "La Critica" e le riviste vociane
    * 6 Le riviste degli artisti
    * 7 Le riviste di Gobetti e di Gramsci
    * 8 Riviste dell'era fascista
    * 9 Riviste alternative durante il regime
          o 9.1 La rivendicazione dei cattolici
          o 9.2 Le riviste di Strapaese
          o 9.3 Il novecentismo e l'europeismo
          o 9.4 L'arte non asservita allo Stato

Riviste dell'estetismo decadente

* La Cronaca bizantina: rivista quindicinale a carattere letterario-sociale-artistico, fondata il 15 giugno 1881 a Roma in via Due Macelli dall'editore Angelo Sommaruga. Il numero inaugurale presentava in prima pagina il distico elegiaco carducciano Ragioni metriche. La rivista uscì fino al 26 marzo 1886.La situazione storico-culturale della "Cronaca Bizantina" è quella della Roma trasformista e bizantina. I governi di Sinistra iniziano una politica protezionista garantita dalle protezioni doganali che si contrappone alla politica liberista della Destra. Le masse contadine del Sud sono in situazioni miserevoli, il fenomeno dell'emigrazione inizia.

Nella politica estera l'isolamento dell'Italia nel sistema europeo e l'ostilità della Santa Sede portano, nel 1882, alla Triplice alleanza e gli attacchi e le critiche diventano sempre più fitte.

Giosuè Carducci definisce Depretis "traditore di principi e di uomini" e l'Italia vive senza ideali e speranze.

In questo quadro sconfortante la "Cronaca bizantina" dichiara la sua protesta. Ma questa protesta è, più che ideologia, scapigliata e la rivista mantiene rapporti ambigui con la società borghese che vorrebbe distruggere ma che incrementa attraverso le rubriche mondane e i notiziari scandalistici che distinguono i suoi eleganti numeri.

La Rivista, composta di quattro fogli in stile liberty, manca di obiettivi polemici e ideologici ed esprime nei suoi scritti gli umori scapigliati di Carlo Dossi, il classicismo "barbaro" di Giosuè Carducci, le esperienze veriste di Luigi Capuana e Giovanni Verga e l'estetismo decadente del giovane Gabriele D'Annunzio.

La rivista attraversa tre fasi: nella prima fase, che va dal giugno 1881 all'ottobre 1884, Giosuè Carducci collabora assiduamente con molti dei suoi versi e a lui si aggiungono i capiscuola del verismo italiano (Capuana e Verga) e i veristi minori come Matilde Serao, Nicola Misasi, Gaetano Carlo Chelli, Emanuele Navarro della Miraglia.

Tuttavia lo scarso consenso che ha la rivista non ripaga il Verga che non ottiene il successo sperato presso il pubblico.

Collaboratori importanti furono in questo periodo Ferdinando Petruccelli della Gattina, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Guido Mazzoni, Enrico Nencioni, Giovanni Pascoli e Cesare Pascarella. Sempre in questa prima fase contribuisce alla rivista Carlo Dossi con i suoi virtuosismi stilistici e le tipiche cesellature della scapigliatura e Gabriele D'Annunzio che, a differenza del Carducci, viene accolto dal pubblico con entusiasmo per il Canto novo che l'editore Sommaruga gli stampa nel 1882 insieme a Terra vergine.

Con la partecipazione di D'Annunzio, che mantiene all'interno della rivista posizioni autonome rispetto agli altri collaboratori, l'ideologia della rivista si sposta verso uno spiccato estetismo bizantino e quando, nel 1885, uno scandalo travolge il Sommaruga che è costretto a fuggire all'estero, termina anche, con l'ultimo numero della "Cronaca bizantina" che esce il 16 marzo 1885, la rivista di stampo "sommarughiano".

Usciranno ancora 28 numeri, dal 3 maggio al 7 novembre 1885 (seconda fase) della rivista che nel frattempo era stata rilevata dal giornale romano la "Domenica Letteraria" e che uscirà sotto il titolo "La Domenica Letteraria - La Cronaca bizantina".

La rivista riprenderà il suo nome con l'uscita del 15 novembre 1885 sotto la direzione di Gabriele D'Annunzio. Il 26 marzo 1886 cesserà definitivamente.

Questa rivista può essere definita il primo, anche se non completamente riuscito, tentativo di esprimere modi nuovi di sentire e anticipa, senza dubbio, l'importanza delle Riviste letterarie del Novecento.

   
* La Cultura: rivista fondata a Roma nel 1882, diretta da Ruggero Bonghi. Alla sua direzione gli succedettero: nel 1906 Ettore De Ruggiero e dal 1907 Cesare De Lollis con Nicola Festa.

Dopo il 1913 sempre con la stessa direzione, si unì Giuseppe Antonio Borgese e prese il nome di Nuova Cultura, cambiando poi nuovamente testata in quella de Il Conciliatore sotto la guida del solo Borgese.

Nel 1921, si ripresentò col suo antico nome sotto la guida del solo de Lollis e, dopo la sua morte, fu diretta da Ferdinando Neri.

Per la sua indipendenza critica e l'altezza dei contributi è stata strumento tra i più validi della cultura italiana, svolgendo opera di mediazione tra il crocianesimo e la filologia. Fu soppressa dal fascismo nel 1936.


* Convito: esce a Roma nel gennaio del 1895 come rivista periodica a carattere letterario-artistico.

La rivista "Convito", viene fondata da Adolfo De Bosis, colto uomo d'affari oltre che poeta shelleyano e umanitario, da Gabriele D'Annunzio del Poema Paradisiaco e dei romanzi Il trionfo della morte e Le vergini delle Rocce, e da Angelo Conti, critico d'arte oltre che saggista e pubblica dodici numeri su preziosa carta a mano, in una lussuosa veste tipografica ad intervalli irregolari dal 1895 al 1907.

In realtà il periodico vive come rivista solamente per i primi nove numeri, dal gennaio 1895 al dicembre 1896, perché i fascicoli successivi, contenendo solamente scritti del De Bosis, devono essere considerati a sé.

Ai primi nove numeri collaborano autori di impronta estetizzante della nuova e vecchia generazione, come Edoardo Scarfoglio, Enrico Nencioni, Enrico Panzacchi, Giovanni Pascoli e artisti che, nelle illustrazioni, optano per figure enigmatiche, visioni allegorizzanti, serpentine figure di donne-meduse dando così alla rivista una chiara qualificazione, quella di rivista programmatica del decadentismo italiano.

Dal Proemio, pubblicato nel gennaio del 1895, veniva presentato il quadro sociologico di una società corrotta dall'industrialismo borghese che era penetrato nelle mani della politica e contro questa Italia affarista e sporca, il gruppo elitario e nietzschiano degli artisti impegnati nel Convito, lanciano un proclama che esalta il potere indistruttibile della Bellezza.

Il Proemio, pur non essendo firmato, risulta essere stato scritto dal D'Annunzio stesso per il riscontro di temi e stili che gli appartengono e vuole essere chiaramente il manifesto della nuova rivista

Proemio - Manifesto del Convito

"Alcuni artisti, scrittori e pittori, accomunati da uno stessa culto sincero e fervente per tutte le più nobili forme dell'Arte, si propongono di pubblicare ogni mese in Roma - dal gennaio al dicembre di questo anno - una loro raccolta di prose, di poesie e di disegni composta con insolita severtà e stampata con quella eleganza semplice che aggiunge decoro alle belle immagini e ai chiari pensieri.

C'è ancora qualcuno che in mezzo a tanta miseria e a tanta abjezione italiana serba la fede nella virtù occulta della stirpe, nella forza ascendente delle idealità trasmesseci dai padri, nel potere indistruttibile della Bellezza, nella sovrana dignità dello spirito, nella necessità delle gerarchie intellettuali, a tutti gli altri valori che oggi dal popolo d'Italia sono tenuti a vile, e specialmente nell'efficacia della parola.

In questa Roma tanto triste noi vorremmo portare in trionfo un simulacro di Bellezza così grande che la forza superba della forma - quella 'VIS SUPERBA FORMAE è esaltata da un poeta umanista - soggiacesse agli animi abbruttiti.

Non è più il tempo del sogno solitario all'ombra del lauro o del mirto. Gl'intellettuali raccogliendo tutte le loro energie debbono sostenere militarmente la causa dell'Intelligenza contro i Barbari, se in loro non è addormentato l'istinto profondo della vita".


* Il Marzocco: rivista fiorentina di letteratura e arte, diretta da Enrico Corradini sorta il 2 febbraio 1896 e terminata il 25 dicembre 1932 che prende il nome dal leone simbolo di Firenze.

Nata un anno dopo il "Convito" il settimanale "Il Marzocco", il cui titolo viene scelto da Gabriele D'Annunzio e ripete il nome e l'impresa araldica dell'antico leone rampante in rame (che costituiva uno degli stemmi della Repubblica fiorentina) del Comune, inizia le sue pubblicazioni il 2 febbraio 1896 sotto il futuro direttore de "Il Regno", Enrico Corradini. Il manifesto della rivista, steso da Saverio Garàno e Gabriele D'Annunzio, denota chiari ideali di estetismo antipositivista: Negli anni che vanno dal 1896 al 1899 la polemica del "Marzocco" contro l'accademismo erudito procede di pari passo con le tendenze di carattere estetizzante che vogliono ridare vita alla letteratura e alle arti figurative.

Manifesto del "Marzocco"

"Intendiamo opporci con tutte le nostre forze a quella produzione d'opere letterarie ed artistiche in generale che hanno le loro origini fuori della PURA BELLEZZA.

Noi NON TENTEREMO quella critica delle opere d'arte che in esse tutto ricerca fuori che il segreto della loro vita; NON CI LAMENTEREMO per quello che l'artista non ha messo nell'opera, eviteremo ogni giudizio morale o sociologico in quanto l'arte non può essere messa al servizio delle scienze morali e sociali".

La rivista si presenta subito, alla prima pubblicazione, con i suoi eleganti quattro fogli, in bel formato e con incisioni in bistro (che diventeranno sei grandi in nero, con incisioni e fotografie di opere d'arte).

In questo modo "Il Marzocco" da inizio alla serie fiorentina delle riviste dell'estetismo che continueranno all'inizio del Novecento con il "Leonardo" e "Hermes".

Questa prima fase del periodico (1896-1899) si dimostra antipositivista e simbolista, votata al culto dell'arte per l'arte e dimostra subito il suo entusiasmo per l'opera di Giovanni Pascoli che accoglie e difende.

Sul "Marzocco", nei numeri del 17 febbraio, 7 marzo, 11 aprile 1897, compaiono molte liriche del poeta di Castelvecchio insieme alla prosa Il fanciullino che enuncia la poetica pascoliana di poesia come invenzione pura al di fuori della storia e del tempo.

Nel 1900 la direzione della rivista passa ad Adolfo Orvieto con una inversione di tendenza e il motto sarà: "fare guerra spietata a tutto ciò che è pura arte e pura bellezza perché il tempo della letteratura decorativa è passato".

Negli anni dal 1911 al 1914 si infittiscono sulle pagine della rivista articoli di irrazionalismo politico e riscossa nazionale.

Dopo l'annuncio dello scoppio della guerra dato da Luciano Zuccoli nel n. 31 del 2 agosto 1914, "Marzocco" si schiera a favore dell'interventismo italiano, riducendo così sulle sue pagine gli spazi per le attività letterarie.

Nel periodo bellico "Il Marzocco" conduce un'aspra battaglia contro la "barbarie germanica" coinvolgendo così tutta la cultura.

"Il Marzocco" si fa dunque portavoce di una minoranza di destra che sostiene la necessità del conflitto e che diventa il fautore dell'impresa di D'Annunzio a Fiume in linea con le posizioni del fascismo.

Grazie alle leggi speciali sulla stampa del 1926 la rivista fu risparmiata ma perse il suo valore fino a terminare le pubblicazioni il 25 dicembre del 1932.
   

* Leonardo: rivista letteraria italiana degli inizi del Novecento, edita dalla Vallecchi, pubblicata dal 4 gennaio 1903 all'agosto 1907, per un numero complessivo di 25 fascicoli.

Fu fondata a Firenze da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, insieme a Giovanni Costetti, Adolfo De Carolis, Alfredo Bona, Ernesto Macinai e Giuseppe Antonio Borgese, e nelle prime pubblicazioni – dal 4 gennaio al 10 maggio 1903 – fu influenzata dal pensiero di Nietzsche, dall'estetismo dannunziano e dal rinascente idealismo.

Programma del "Leonardo"

"Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale si sono raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di leonardo per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte.

Nella VITA son pagani e individualisti - amanti della bellezza, dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea.

Nel PENSIERO son personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita - negatori di ogni altra esistenza di fuor dal pensiero.

Nell'ARTE amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono le forme inferiori, aspirano alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena."

La rivista, con la sua volontà di rinnovamento, cercò di aprire le porte della cultura italiana alle correnti più vive della filosofia dell'epoca, come il pragmatismo, Henri Bergson, Friedrich Nietzsche e le esigenze religiose appena nate.

Nella serie delle seconde pubblicazioni, dal novembre 1904 al dicembre 1905, prevalse un orientamento pragmatista e, alla fine, nelle ultime pubblicazioni, dal febbraio 1906 all'agosto 1907, la rivista si orientò verso l'occultismo.

La rivista fu pubblicata nel particolare contesto storico di quel momento che vedeva il crescere dei ceti proletari sotto le bandiere del socialismo e del sindacalismo.

Nello stesso periodo i cattolici, dopo la lezione dell'enciclica Rerum Novarum, pongono reazione al processo di scristianizzazione che sta avvenendo nel popolo attirato dalla ideologia socialista, con l'associazionismo delle leghe bianche e delle casse rurali e, nel campo culturale, con il proporre il rinnovamento del modernismo. Alla vivacità delle forze socialiste e cattoliche si contrapponeva negativamente la profonda inquietudine della borghesia agraria al sud e di quella degli imprenditori al nord.

Questione primaria quindi dibattuta dagli intellettuali del Leonardo sarà quella del possibile "risveglio della borghesia". Fondamentali sono le indicazioni che emergono dal "Programma sintetico" che appare sul primo numero della rivista il 4 gennaio 1903. La testata presenta sotto il titolo Leonardo, una esoterica incisione di Adolfo De Carolis, con una stella che sovrasta un'aquila in volo. Il titolo, la stella, l'aquila sono contornate da una cornice di fronde che riporta in basso, a sinistra, il motto leonardesco: "Non si volge chi a stella è fisso".


* Hermes: rivista di critica e letteratura di ispirazione colta e dannunziana a Firenze nel 1904 da Enrico Corradini e dal giovane Giuseppe Antonio Borgese.

Il 1 gennaio del 1904 nasce a Firenze la rivista Hermes che prende il nome dal greco conduttore di "molte anime al di là dei confini del mondo, nel fantastico Ade".

Prefazione - Manifesto di Hermes

"Qualcuno si maraviglierà leggendo che per noi è aristocratica quell''ARTÈ, nella quale la forma sia espressiva ed intimamente connaturata al contenuto.

È dunque aristocratica l'arte; e l'epiteto sembrerebbe ozioso, se non fosse oggi proprio un'esigua minoranza, una vera aristocrazia quella che riconosce il valore espressivo dell'arte e non ostenta un ebete disprezzo per la FORMA, disgraziatissima fra tutte le parole.

Del resto noi rinunceremmo volentieri all'ambiguità della parola ARISTOCRATICA, se fossero molti anzi che pochi a comprendere quando un poeta sia riuscito ad esprimere e quando sia fallito; se in una parola, la folla tornasse all'intelligenza della forma, che ebbe nella Grecia antica.

Ed anche noi, dunque, con la Grecia. Siamo, diranno, PAGANI e DANNUNZIANI. E si: noi amiamo ed ammiriamo Gabriele D'Annunzio più di ogni altro nostro poeta moderno, morto o vivo che sia, e da lui ci partiamo nella nostra arte.

Siamo DISCEPOLI del D'Annunzio, come il D'Annunzio fu discepolo del Carducci e il Carducci del Foscolo e del Monti. Ma se dannunziano significa scimmia del D'Annunzio disprezziamo l'ingiuria, e passiamo oltre.

Gabriele D'Annunzio è per noi un grande MAESTRO, non un allevatore di fringuelli ammaestrati".

La Rivista si presenta subito di chiara impronta paganeggiante e dannunziana, come viene esplicitamente dichiarato nella Prefazione-Manifesto.

Il primo numero della rivista riporta al posto d'onore la prosa Le parabole del bellissimo nemico. Il figliuol prodigo di Gabriele D'Annunzio e si dichiara subito come rivista dalle disposizioni più che critiche, emotive.

I dodici grossi fascicoli dell'"Hermes", stampati a mano su carta e adorni di incisioni in legno, riportano le parole prodotte dagli intellettuali di un piccolo gruppo borghese: Corradini e Giovanni Papini prima di tutti insieme a Borghese e poi il gruppo dei minori come Mario Maffei, Nello Tarchiani, Marcello Taddei, Luigi Dami.

Nel Congedo dell'ultimo numero di "Hermes" nel 1904, XII, p. 266, viene fatto un consuntivo compiaciuto e generico dell'opera svolta ("fummo alacri scandagliatori di verità e di bellezza, di fantasie e di coscienza"), viene ribadito il culto della forma espressa, la certezza del "prossimo risorgimento" nazionalistico e soprattutto confermata l'idolatrica devozione dannunziana.

Periodici del risveglio cattolico e del Modernismo

* Rassegna Nazionale: nasce nel 1879 a Firenze con carattere letterario-politico e, attraverso alterne vicende, prosegue fino al 1952.

I direttori - il marchese Manfredo Da Passano ed il marchese Paris Maria Salvago - nel primo numero della rivista (luglio 1879), in aperta polemica con le resistenze astensionistiche del momento, si professano cattolici ed italiani.

Avvertenza programmatica di "Rassegna Nazionale"

"Ci diciamo NAZIONALISTI in ispecie, perché vogliamo essere italiani di cuore e quindi trattare ciò che altamente riguarda gli interessi della Nazione.

Intendiamo pure di essere CONSERVATORI, poiché vogliamo conservare ciò che alla Nazione nostra e alla prosperità di lei ed alla sua grandezza si appartiene; ma conservatori amici del progresso e dei perfezionamenti, da che sappiamo non potersi dare conservazione vera senza operosità perfezionatrice, né perfezionamento senza conservazione.

CATTOLICI ed ITALIANI, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui, noi cooperiamo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche dell'Italia".

La rivista venne diffusa soprattutto negli ambienti dell'aristocrazia e della grossa borghesia, nei ministeri, nelle scuole e nelle biblioteche pubbliche.

Il periodo più fecondo ed interessante della rivista fu tra il 1898 e il 1908 dal momento che i densi avvenimenti politici che avvennero in quegli anni, così decisivi per la storia politica e religiosa italiana, (repressioni del 1898, salita di Giolitti al potere, sospensione del non expedit, condanna del modernismo) consentirono ai redattori e ai collaboratori molte attive esperienze.

La rivista fu sempre pronta alla discussione e al vaglio della critica storica applicata all'esegesi biblica, si dimostrò interessata all'evoluzionismo e all'americanismo, attenta allo sviluppo delle nuove correnti del pensiero contemporaneo.

Essa seguì con attenzione e con una certa simpatia, pur tenendo le giuste distanze, il dibattito modernista e l'uscita della rivista "Il Rinnovamento" nel 1907.

* Rivista internazionale di scienze sociali: fondata da Giuseppe Toniolo nel 1893 a carattere politico, sociale, culturale.

Negli ultimi anni del XIX secolo i cattolici erano ai margini del dibattito filosofico e scientifico nazionale. Si erano infatti da poco spente le eco delle scuole rosminiane e delle scuole giobertane (1860-1870).

Nel 1889, due anni prima dell'enciclica Rerum Novarum, Giuseppe Toniolo (1845-1918), docente di economia politica presso l'Università di Pisa, il maggior teorico della sociologia cattolica italiana del tempo, aveva dato avvio a Padova, all'Unione Cattolica per gli studi sociali con l'intento di ridare voce ai cattolici nel campo della ricerca delle scienze sociali.

Nel 1893 l'Unione Cattolica per gli Studi Sociali fondò a Padova, sotto la direzione di monsignore Salvatore Talamo, legato alla filosofia tomistica e dello stesso Toniolo, la nuova pubblicazione.

Nel presentare la Rivista internazionale di scienze sociali, Giuseppe Toniolo si rivolse a quegli uomini "profondamente cattolici, i quali facciano professione di un'intera subordinazione della scienza alla fede e di docile e incondizionata obbedienza al magistero o all'autorità della Chiesa".

Tema ricorrente della Rivista internazionale e dei suoi collaboratori, E. Agliardi, G. De Sanctis. A. Mauri, A. Ratti (il futuro papa Pio XI), Giovanni Semeria, è la "ricostruzione organica dell'intera società" secondo un finalismo religioso convinto del primato del cristianesimo tanto nella vita individuale quanto in quella sociale. Contro l'ideologia marxista, e in armonia con i dettami della Rerum Novarum.


* Cultura Sociale politica letteraria:  viene fondata a Roma dal giovane sacerdote Romolo Murri con il sottotitolo che dal novembre 1899 diventa "Rivista mensile del movimento cattolico popolare".

Essa si propone di avvicinare alla cultura moderna il cattolicesimo interessandosi al mondo del lavoro in quegli anni scosso da gravi problemi sociali e da contrasti di classe.

Murri propone il suo Programma politico sul primo numero di "Cultura Sociale":

Propositi di parte cattolica

"Quale il nostro programma? Quali idee, quali propositi daranno luogo e sviluppo al nostro movimento, come partito d'azione e di conquista della vita pubblica? (...) ormai, 'CONTRO LA VORACE POTENZA DEL CAPITALE ACCUMULATO, CONTRO L'ANARCHIA ECONOMICA E POLITICA E L'ACCENTRAMENTO STATALÈ, il quale perturba profondamente tutte le funzioni sociali, le classi inferiori incominciano o cominceranno presto una contesa lunga (...) in queste agitazioni guelfe contro ogni cesarismo ghibellino, rinnovantesi per i secoli, il popolo italiano ha un alleato storico validissimo: il Papato (...) ora il segreto di questo ricorso singolare di tendenze guelfe, - vale a dire dirette a sviluppare l'organizzazione delle classi e le autonomie locali e il ritorno delle supreme norme cristiane nella vita pubblica e sociale - è appunto una intima unione fra la vita sociale e la religione, fra gl'istituti popolari di vita economica e civile e la Chiesa animatrice e regolatrice potente..."

Il pensiero di Murri e la sua Rivista fu seguita dall'interesse generale dal 1898 al 1901 collocandosi al centro del movimento democratico cristiano.

Sorgono ovunque centri democratici cristiani, sia al Nord che al Sud dove opera molto attivamente don Sturzo e il movimento di Murri è in grado di gareggiare, per la forza politica che esprime, con lo stesso Partito Socialista.

Ma con l'avvento al soglio papale di Pio X, che a differenza di Leone XIII esige un laicato obbediente e sottomesso all'autorità della diocesi, ha inizio la parabola discendente della rivista.

Il 16 luglio 1906, nel n. 207, la direzione annuncia di cessare le pubblicazioni "non volendo entrare in conflitto con l'autorità ecclesiastica".


* Il Rinnovamento:  fondata a Milano nel gennaio del 1907 da parte di Aiace Antonio Alfieri, Alessandro Casati e Tommaso Gallarati Scotti.

I fondatori dichiarano, nelle Parole d'introduzione, di essere liberi studiosi, laici che vivono il sentimento religioso, rinnovatori di se stessi e degli altri.

Parole d'introduzione

"La parola RINNOVAMENTO indica solo un desiderio di rinnovare noi stessi e quelli che in un comune ideale ci sono vicini nella ricerca della verità (...).

Noi NON SIAMO DEI PREDICATORI' di palingenesi sociale, non abbiamo promesse di felicità da distribuire, e sappiamo parlare solo un duro linguaggio di fatti e di idee. Ma SIAMO INTERROGATORI D'ANIMÈ, e vorremmo risvegliare le dormienti, incitandole ad un lavoro interiore che ignorano, rivolgendo loro continue domande, obbligandole a deporre come maschere vecchie le forme del pregiudizio, spezzando gli anelli incantati delle formule nelle quali hanno trovato una pace che è sonno"

Nella prima fase de Il Rinnovamento vengono ribaditi con impeto i valori religiosi aventi diritto ad essere pari ai valori delle altre scienze con la difesa del fatto religioso considerato nel suo aspetto umano.

Nella seconda fase, databile dal secondo anno della pubblicazione, (dopo l'enciclica Pascendi, la minaccia di scomunica del 28 dicembre 1907 porta alla defezione di Fogazzaro e di Gallarati Scotti) i due direttori rimasti iniziano una difficile difesa della rivista dagli attacchi ironici dei filosofi, Gentile, Croce, e dalla loro raison raisonnante, che declassa la religione e i valori religiosi a forme di pseudofilosofia imperfetta e visionaria.

In tutte e due le fasi della rivista viene, comunque, ribadito il richiamo al primato della coscienza in forma limpida e intraprendente anche se con diversi limiti culturali e teorici.

Come scrive Lorenzo Bedeschi: «l'indirizzo ideologico della rivista milanese [fu] tutt'altro che lineare ed omogeneo al di là di una permanente ispirazione riformistico-religiosa». Alla «assoluta estraneità di Gallarati Scotti negli ultimi due anni dopo il suo iniziale impegno nella ricerca di finanziamenti», corrispose invece «l'influenza enorme di p. Gazzola e di p. Semeria sull'orientamento culturale e religioso della prima annata», con una «dispotica direzione dell'eclettico e attivissimo Alfieri nel biennio successivo».[1]

Tra le figure più interessanti che hanno operato in stretta anche se problematica vicinanza con la rivista, va menzionato Giovanni Boine, al quale, oltre che alcune recensioni di testi di Miguel de Unamuno e saggi sul misticismo spagnolo, si devono, al di là della collaborazione con la rivista, numerose pagine di critica alla nozione di esperienza religiosa e del sentimento religioso, sulle quali si giocò molta parte del percorso culturale della rivista.


* L'Eroica: fondata e diretta da Ettore Cozzani, la rivista aveva il proposito editoriale di valorizzare le forze creative nazionali, occupandosi dichiaratamente di "ogni aspetto dell'arte e della vita". Pubblicazione aperta alla Secessione viennese e al Razionalismo, fu subito importante per il suo carattere innovativo, curiosa dei nuovi giovani talenti contemporanei, sia italiani che europei.

Quando il primo numero esce il 30 luglio 1911 con il sottotitolo Rassegna d'ogni poesia, la rivista si qualifica subito per le proprie qualità formali, dalla scelta della carta a mano su cui è stampata alle copertine a colori e dalle illustrazioni artistiche estremamente curate.

Oltre al nutrito gruppo di artisti e all'architetto Franco Oliva, alla rivista collaborano anche lo scultore Magli e il compositore Pizzetti.

Singolare è stata la scelta dei pregevoli lavori in xilografia per le sue copertine e le illustrazioni che oggi costituiscono una fondamentale panoramica di questa tecnica espressiva in Italia rinata, per così dire, nella prima metà del XX secolo.

In effetti la rivista divenne l'organo ufficiale degli xilografi italiani organizzandone, nel 1912, la prima mostra a carattere nazionale, con relativo catalogo.

Chiusa nel 1921 la rivista riprende le pubblicazioni nel 1924, sotto il regime fascista, con collaboratori del calibro di Adolfo Wildt.

In un secondo tempo L'Eroica è divenuta anche una casa editrice con un vasto catalogo di opere di saggistica, biografiche e di narrativa.

Dopo il primo periodo nella città ligure, Cozzani ne ha deciso il trasferimento a Milano dove ha continuato l’attività fino alla chiusura. I bombardamenti del 1943-1944 sul capoluogo lombardo resero più repentina la fine di questa importante esperienza artistica, e danneggiarono gli archivi della rivista.

La stampa periodica socialista

* Critica Sociale: periodico politico italiano di ispirazione socialista. Venne fondato a Milano il 15 gennaio 1891 da Filippo Turati e prese il posto del foglio di sociologia radicale, Cuore e Critica, diretto per quattro anni a Savona da Arcangelo Ghisleri con la collaborazione per il settore politico e sociale dello stesso Turati.

Nella fase che va dal 1891 al 1898, "Critica Sociale" è testimone della presenza politica e dell'autonomia del socialismo e nelle sue pagine diventa l'interprete del periodo dell'intransigenza del partito che si sta fondando.

Nasce in questo periodo la polemica contro gli anarchici e gli operaisti e nello stesso tempo l'opera di autonomia nei confronti della Sinistra borghese, repubblicana e radicale.

Il 1º gennaio 1893 "Critica Sociale", che ha pienamente accettato il programma del Partito Socialista approvato al Congresso di Genova, cambia il sottotitolo della testata Rivista di studi sociali, politici e letterari in Rivista quindicinale del socialismo scientifico ed è pronta ad affrontare tutti i gravi problemi pubblici degli anni Novanta (scandali bancari, repressione dei fasci siciliani, guerra di Abissinia, moti popolari per il pane) con articoli di forte denuncia.

Dal 1º maggio 1898 al 1º luglio 1899 la rivista viene sequestrata e quindi interrotta a causa della condanna del suo direttore e termina così la prima fase, quella senza dubbio più animata e ricca di prospettive.

La nuova fase per la "Critica sociale" si apre nel 1901 e corrisponde al periodo giolittiano. In questa fase la rivista diventa l'espressione della tendenza riformista all'interno del partito.

Nell'arco di tempo che va dal 1902 al 1913 la rivista affronta i problemi della scuola, discutendo il ruolo degli insegnanti, la loro organizzazione, l'edilizia scolastica, l'igiene e la refezione scolastica e non manca di contestare il bilancio del ministero della guerra che afferma bisogna ridurre a vantaggio dei bisogni della scuola.

Critica Sociale adotta, nel discutere di letteratura, una metodologia critica positivista e marxista e, convinta dell'efficacia del libro, dell'istruzione e delle biblioteche, offre ai lettori, indifferentemente, i versi sociologici di Pietro Gori accanto alle poesie di Ada Negri e alle pagine di narrativa di Italo Svevo.

Anche se non sempre attenta a cogliere i fenomeni ideologici-letterari dell'epoca, "Critica Sociale", cerca di informare i suoi lettori sulle nuove tendenze, dando giudizi e valutazioni filtrate attraverso la mentalità socialista.

Le tendenze superomistiche nietzschiane e dannunziane vengono poco o niente accettate da "Critica Sociale" convinta che gli intellettuali debbano aprirsi e promuovere nuove forme di cultura moderna ma intonate alla realtà e alle esigenze della vita sociale.

Quando l'intervento dell'Italia in guerra viene deciso nel maggio 1915 "Critica sociale" non dimette il suo neutralismo né le proprie ragioni riformiste e allo scoppio della rivoluzione bolscevica nell'ottobre del 1917, pur non negando la legittimità del metodo rivoluzionario di Lenin, contesta la sua applicazione in Italia.

Il conflitto tra le due ali socialiste si accentua e diventa insanabile. Al Congresso di Livorno nel gennaio del 1921, la corrente di Bordiga che rappresenta l'ala marxista-leninista esce dal partito e fonda il Partito Comunista d'Italia.

Da quel momento "Critica Sociale" viene sottoposta a censure e sequestri e con lealtà, ma priva di strategie, difende con coraggio l'ordine democratico travolto dai fascisti.

Gli ultimi articoli militanti escono all'indomani dell'assassinio di Giacomo Matteotti.

Al termine dell'anno 1925 "Critica Sociale" si rifugia sul terreno culturale-dottrinale, ma viene comunque soppressa con la legge fascista che vieta la stampa d'opposizione.

L'ultimo fascicolo n.18-19 riporta la data 16 settembre - 15 ottobre 1926.

Un mese dopo i partiti d'opposizione sono sciolti.

   
* La folla: settimanale politico italiano, di carattere tra la pubblicistica popolare e la letteratura di colportage, fu fondata a Milano nel 1901 da Paolo Valera e fu da questi diretto fino al 1904 e poi dal 1912 al 1915.

Il primo numero della pubblicazione apparve il 5 maggio 1901 e recando subito i propri intenti documentari.

Propositi documentari

"Il titolo è la nostra ditta. Tutti capiscono che noi siamo della FOLLA, per la folla, con la folla. La nostra è una folla virile che si muove, che si agita, che strepita e si coalizza tutte le volte che la legge del privilegio le nega un diritto.

La nostra non è più uno stomaco con le mani giunte e gli occhi verso il dio che ha reso divina la miseria. È una testa con la voce imperiosa e col verbo che è tutta una sollevazione: 'ESIGÈ.

Con il senso umano che è in noi e con le teorie che escono dalla vita, noi entriamo nello steccato della LOTTA DI CLASSE ad occupare il nostro posto di combattenti e ad affermare la superiorità fisica e intellettuale della folla che anela all'abolizione dei ricchi e dei poveri.

La bocca del POPOLO sarà il nostro dizionario. La lingua letteraria degli individui è insipida, scolorita, fredda come se uscisse dalla tomba. Quella delle masse è viva, gagliarda, ardente come l'alito di una fornace. Vi si sente il genio collettivo che l'ha riempita d'immagini e di neologismi che la mantengono moderna.

LA FOLLA È DOCUMENTARIA. Non crede alle idee dei personaggi. Essa vuole della vita vissuta, dei documenti umani. Perché sono essi che racchiudono l'esperienza sociale e il polline intellettuale che deve emanciparsi dalle ipocrisie nazionali e dalle virtù borghesi".

"La Folla", sulla quale scrisse per la maggior parte lo stesso Valera in persona, rappresenta la frangia più radicale del socialismo lombardo e non ebbe simpatia per il riformismo di Turati.

Sulla copertina del settimanale, di color scarlatto, risaltano gli articoli che il Valera firmava di volta in volta con frasi significative (L'avvocato della folla, Il follaiolo, Il fotografo della folla) e che rappresentano le inchieste sulla vita dei bassifondi, le case di malaffare per la povera gente e gli opulenti ritrovi di piacere per i ricchi, i dormitori pubblici, le carceri e la prostituzione clandestina.

Tutte le piaghe della società italiana post-unitaria sono poste sotto accusa e tutti i luoghi comuni della politica e della letteratura sono sbandierati, documentati e dissacrati.

I follaioli si dichiarono veristi e zoliani, disprezzano Giosuè Carducci per il voltafaccia da repubblicano a monarchico e denunciano il "patriottardo" D'Annunzio e il "guerrafondaio" Ugo Ojetti.
   

* L'Asino: rivista di satira politica che nacque a Roma il 27 novembre 1892, l'anno del primo ministero Giolitti e della costituzione del Partito Socialista Italiano; fu ideata da Guido Podrecca, uno studente universitario carducciano, positivista e socialista, e da Gabriele Galantara, ex studente di matematica, disegnatore e pupazzettista geniale, anch'egli socialista. I due assunsero gli pseudonimi di "Goliardo" (Podrecca) e di "Ratalanga" (Galantara), e con questi soprannomi firmarono le uscite del settimanale.

Nella scelta del titolo per il loro settimanale politico-satirico i due giovani si rifanno al sonetto del Carducci L'asino, o vero dell'ideale, come si può leggere nell'articolo di presentazione "Prendendo il trotto".

"Prendendo il trotto"

Giosuè, poeta moderno e grande - non ramingo, affamato, ospite di caprai, come l'antico Omero; ma (ohimè!) commendatore lucido e rotondetto nelle corti e tra i ben nutriti -maravigliato dal mio guardare attonito chiesemi con dolcissimo suono di rime:

    Oltre la siepe, o antico paziente,
    de l'odoroso biancospino fiorito,
    che guardi tra i sambuchi a l'oriente
    con l'accesa pupilla inumidita?"
    Io non guardo all'oriente, o poeta, ma guardo al mondo che è del tutto...disorientato.
    Guardo a questa matta popolazione di asini divisa in due categorie:
    Gli asini da soma; e gli asini d'oro,
    I primi vanno ai campi; i secondi stanno alla greppia.
    I primi portano la farina; i secondi...la mangiano!
    Guardo al fenomeno curioso, e ne penso la causa: perché tutto ciò?
    Perché i primi hanno il basto; e i secondi...il bastone.
    Oh vivaddio...basta!Io, nato fra gli asini da soma, non
    Penso l'ardente Arabia e i padiglioni di Giob,
    ma penso, per Giobbe! che è ora di finirla, e col primo vagito mando un raglio di ribellione:
    compagni di fatica! sprangate a calci a destra, a sinistra...e al centro!
    Buttate il basto! e frantumate il bastone!
    Per tutti la fatica! per tutti la farina!

Nella prima fase della rivista, che va dal 1892 al 1901 viene portato avanti un programma di difesa e rivendicazione degli sfruttati e delle posizioni socialiste più aperte, (che costerà a Galantara l'arresto): le vignette del giornale si scagliano contro Giolitti, contro gli scandali politici di quegli anni, la corruzione, le brutalità poliziesche. Il giornale arriva a conquistarsi un grosso numero di lettori, e una tiratura molto elevata.

A cominciare dal 1901 le cose cambiano.

I cattolici si stanno organizzando per preparare il loro ingresso nella vita politica del paese. Podrecca e Galantara non sono capaci di distinguere nel campo avversario tra la propaganda clerico-conservatrice di destra e una nuova milizia cattolica (quella di Murri) che inizia a porsi nei confronti dei socialisti sul piano, non tanto dell'opposizione, quanto della concorrenza motivata e responsabile.

I redattori dell'Asino intraprendono così la strada della controffensiva contro il clero e il Vaticano. È la corruzione della Chiesa, l'atteggiamento aggressivo e superstizioso dei preti a venire descritto nelle vignette, il cui successo nella popolazione porta ad un aumento ulteriore della tiratura.

A seguito però delle violente campagne anticlericali, la rivista viene frequentemente sequestrata per "oltraggio al pudore".

Dopo la Prima Guerra Mondiale, che aveva visto entrambi i fondatori schierarsi dalla parte degli interventisti, il giornale vede perdere di mordente le sue vignette. Le pubblicazioni verranno interrotte dal 1918 al 1921. Nel numero del 25-31 gennaio 1921, quando L'Asino ritornerà alle stampe sotto la redazione del solo Galantara ( nel frattempo 1918 - 1920, Podrecca è diventato interventista e fascista), con l'editoriale "Ritorno", viene fatto un consuntivo e una autocritica all'operato precedente.

L'Asino, a questo punto, aderisce alla corrente massimalista del Partito Socialista e si schiera con la stampa di opposizione.

Diventa così un "Asino" antifascista, chiaramente contro la dittatura di Benito Mussolini: sarà costretto a sospendere le pubblicazioni nella primavera del 1925, dopo una lunga serie di minacce, persecuzioni e di interventi delle squadracce fasciste in redazione.

Galantara verrà nuovamente incarcerato, in un clima di repressione molto più duro rispetto alla fine dell'Ottocento. Dopo la sua scarcerazione collaborerà in forma anonima ad altre riviste di satira politica, come il Becco Giallo e Marc'Aurelio.

Fogli-manifesto del nazionalismo e del Futurismo

   
* Il Regno:  settimanale fondato da Enrico Corradini e pubblicato a Firenze dal novembre 1903 al dicembre 1906.

Esso si vanta di annoverare tra le sue componenti l'ideologia dell'irrazionalismo nazionalistico, antiparlamentare e antisociale in un quadro aggressivo definito di "riscossa" borghese.

Ne furono collaboratori, oltre a Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, Mario Calderoni, Borghese, Mario Morasso, Vilfredo Pareto che, con la sua teoria delle élite, fece da supporto ideologico alla strategia di Corradini.

I temi trattati furono essenzialmente politici e, soprattutto nei primi anni, con preferenza sulla necessità dell'espansione coloniale.

Quando nel marzo del 1905 prese la direzione del settimanale Alderico Campodonico, il problema dell'irredentismo divenne centrale.

Il proposito di questa rivista, così come per Il Leonardo e Hermes, aveva un dato comune che era quello di dare la possibilità ad un gruppo di intellettuali di riunirsi, educare e soprattutto agitare le acque.
  
 
* Poesia: venne fondata a Milano nel 1905 da Filippo Tommaso Marinettii ed ebbe come condirettori Sem Benelli e Vitaliano Ponti.

La rivista aveva un formato a rettangolo orizzontale dalla copertina sontuosa e l'augurio Ma qui la morta poesia risorga. Dominata dalla personalità prevaricante di Marinetti - che dal n. 8 diventa direttore unico - rivela presto presagi e sintomi futuristi.

Nell'articolo programmatico pubblicato in francese come editoriale sul Figaro del 20 febbraio 1909 e in seguito ripubblicato su "Poesia", n. 1-2, febbraio-marzo 1909 seguito dalla versione italiana, non si parla del verso libero, ma viene condensata l'ideologia del futurismo in undici violenti precetti.

Nel Manifesto risaltano i temi vitalistici, "l'amore del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità", gli impegni eversivi, "il disprezzo della donna", "distruggere i musei", "combattere contro il moralismo" e costruttivi del futurismo ("noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, [...] le maree multicolori e politiche delle rivoluzioni delle capitali moderne").

Alla rivista aderiscono presto Paolo Buzzi, Auro d'Alba, Federico De Maria, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Libero Altomare, Aldo Palazzeschi e "Poesia" diventa l'organo ufficiale del futurismo.

Sul n. 7/8/9, agosto-settembre-ottobre 1909 viene pubblicato un secondo manifesto marinettiano Uccidiamo il Chiaro di Luna! che appare come un proclama di guerra allegorico dalla cadenza provocatoria del canto orgiastico.

Quando l'esperienza di "Poesia" sarà finita Marinetti, nell'Introduzione all'antologia I nuovi poeti futuristi, Roma, Edizioni futuriste di "Poesia" 1925, scriverà dell'esperienza fatta con la rivista:

"Fondai Poesia, rivista internazionale che, prima fra tutti i fogli d'Italia, portò il nome e le poesie di Paul Claudel, accanto alle prime poesie di Buzzi, di Cavacchioli, Folgore, Palazzeschi, Govoni.

Nasceva così il movimento futurista, con un largo e frenetico amore per l'arte nuova e per molti ingegni lirici italiani soffocati dallo scetticismo misoneista.

Nasceva il movimento futurista antiscuola, antiaccademia, che doveva sgomberar
  

 * Lacerba: rivista letteraria fiorentina fondata il 1º gennaio 1913 da Giovanni Papini e Ardengo Soffici; si avvalse della collaborazione di Aldo Palazzeschi e Italo Tavolato ponendosi su posizioni simili a quelle del Leonardo e aderendo (per breve tempo) al Futurismo.

Il quindicinale, stampato in caratteri rosso mattone ed in seguito neri, riprendeva il titolo dal poemetto del Trecento di Cecco d'Ascoli - L'acerba - inserendone nella testata un verso: «Qui non si canta al modo delle rane».

La rivista dichiarava le sue tesi nella prima pagina dell'Introibo rivendicando la piena libertà e autonomia dell'arte, l'esaltazione anarchica del "genio" e del "superuomo" ed un rilancio della letteratura frammentaria.

Tesi assiomatica de "Lacerba"

"Chi non riconosce agli uomini di ingegno, agli inseguitori, agli artisti il pieno diritto di contraddirsi da un giorno all'altro non è degno di guardarti.

Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio.

Le nazioni vadano in sfacelo ma crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca.

Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desidero di star più tranquilli e di conservare alla meglio i loro aggruppamenti. Ma c'è un piano superiore - dell'uomo solo, intelligente e spregiudicato - in cui tutto è permesso e tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero!

Di serietà e di buon senso si fa oggi un tal spreco nel mondo, che noi siamo costretti a farne una rigorosa economia. In una società di pinzoncheri anche il cinico è necessario.

Noi siamo inclini a stimare il bozzetto più della composizione, il frammento più della statua, l'aforisma più del trattato, il genio mancato e disgraziato ai grand'uomini olimpici e perfetti venerati dai professori.

Queste pagine non hanno affatto lo scopo né di far piacere, né d'istruire, né di risolvere con ponderanza le più gravi questioni del mondo.

Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale.

Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi, cristianismi e moralismi"

Papini, allora, scrive articoli provocatori come Freghiamoci della politica, Soffici scrive del Cubismo e tiene la rubrica fissa Giornale di bordo, Palazzeschi è presente con numerose liriche come Una casina di cristallo, Postille, Pizzicheria, Tavolato scrive articoli scandalistici come Elogio della prostituzione, Bestemmia contro la democrazia.

La rivista, vista la sua natura e il suo programma, è pronta ad accogliere il contributo (che presto diventerà invadenza tematica) dei futuristi che - dal 15 marzo 1913 - iniziano ad occupare posti di primo piano.

Compaiono così frequentemente i nomi di Filippo Tommaso Marinetti, Luciano Folgore, Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Corrado Govoni.

Nel n. 18 (15 settembre 1913), un "manifesto-sintesi" del poeta francese Guillaume Apollinaire riassume "L'antitradizione futurista", applicando la tecnica delle parole in libertà, mentre Boccioni, Carrà, Severini e Balla confermano a Marinetti, con le loro opere, l'idea della simultaneità.

Nel n. 20 del 15 ottobre 1913, Lacerba pubblica il Programma politico futurista, seguito da una Postilla del neofita futurista Papini.

Il manifesto politico si rivolge agli elettori futuristi in vista delle elezioni del 26 ottobre 1913, le prime a suffragio universale maschile, invitandoli a votare contro le liste clerico-liberali-moderate di Giovanni Giolitti e del cattolico Vincenzo Ottorino Gentiloni e contro il programma democratico-repubblicano-socialista.

Manifesto politico futurista

"Italia sovrana assoluta. - La parola ITALIA deve dominare sulla parola LIBERTÀ. Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani.

Una più grande flotta e un più grande esercito; un popolo orgoglioso di essere italiano, per la guerra sola igiene del mondo e per la grandezza di un'Italia intensamente agricola, industriale e commerciale.

Difesa economica ed educazione patriottica del proletariato.

Politica estera cinica, astuta e aggressiva. - Espansionismo coloniale. - Liberismo. - Irredentismo. - Panitalianismo. - Primato dell'Italia.

Anticlericalismo e antisocialismo.

Culto del progresso e della velocità, dello sport, della forza fisica, del coraggio temerario, dell'eroismo e del pericolo, contro l'ossessione della cultura, l'insegnamento classico, il museo, la biblioteca e i ruderi. - Soppressione delle accademie e dei conservatori.

Molte scuole pratiche di commercio, industria e agricoltura. - Molti istituti di educazione fisica,- ginnastica quotidiana nelle scuole. - Predominio della ginnastica sul libro.

Un minimo di professori, pochissimi avvocati, moltissimi agricoltori, ingegneri, chimici, meccanici e produttori di affari.

Esautorazione dei morti, dei vecchi e degli opportunisti, in favore dei giovani audaci.

Contro la monumentonomia e l'ingerenza del Governo in materia d'arte.

Modernizzazione violenta delle città passatiste (Roma, Venezia, Firenze, eccc.)

Abolizione dell'industria del forestiero, umiliante ed aleatoria".

Sempre come rivista d'arte e di pensiero che intende portare il pubblico a conoscenza delle forme più avanzate dell'arte moderna, Lacerba pubblica, nel n. 15, 1º agosto 1914, il Manifesto dell'architettura futurista

Quando scoppia la prima guerra mondiale e l'Italia dichiara la sua neutralità, Lacerba, dal n. 16, 15 agosto 1914, passa dal disimpegno politico precedentemente espresso ad un forte entusiasmo politico interventista e afferma che Lacerba, da quel numero sarà solamente politica per riprendere l'"attività teoretica e artistica a cose finite".

Appaiono sui numeri della rivista violenti articoli attivistici contro il governo vile e verso i "piagnoni" neutralisti e socialisti.

Nel 1915 Giovanni Papini assume interamente la direzione della rivista (prima condivisa con Soffici, che continua a collaborare). Con il ritorno di Aldo Palazzeschi, a cui è affidata una rubrica fissa (Spazzatura), letteratura ed arte rientrano sulle pagine di Lacerba, accanto agli articoli politici. In febbraio un articolo firmato da Palazzeschi, Papini e Soffici (Futurismo e marinettismo) sancisce il divorzio tra i tre fiorentini (che si proclamano i soli autentici futuristi) e i futuristi milanesi, chiamati con dispregio "marinettisti". Con questo episodio si conclude la prima stagione del futurismo fiorentino.

La rivista cessa le pubblicazioni il 22 maggio 1915, due giorni prima dell'entrata in guerra dell'Italia: l'ultimo editoriale di Papini reca il titolo Abbiamo vinto!.
  
 
* L'Italia futurista: rivista pubblicata per la prima volta il 1º giugno 1916 sotto la direzione di Emilio Settimelli e Bruno Corra.

Il filone futurista fiorentino, che si era sviluppato all'interno delle pagine lacerbiane, si rafforzò e si proclamò sui fascicoli de "l'Italia futurista", in polemica con "Lacerba", che a partire dal 1915 si erano allontanati dal movimento capeggiato da Filippo Tommaso Marinetti.

No a Lacerba!

"L'ITALIA FUTURISTA non continua assolutamente "Lacerba" di Papini e Soffici. "Lacerba", poco interessante e poco diffusa prima della conversione dei suoi fondatori al futurismo, acquistò grande valore e popolarità quando gli uomini come Marinetti, Boccioni, Russolo, Balla, Pratella, Buzzi, Cangiullo, ecc., le regalarono le loro stupende energie. Ma poi, essendosi ritirati questi vivificatori, Lacerba riprese la sua meschina vita fino alla morte che fu di tisi. L'iniezione futurista nel suo corpo fradicio di passatismo dette risultati per un certo tempo, poi il morbo congenito finì per trionfare".

I giovani italiani futuristi che scrivono su "L'Italia futurista" divergevano da "Lacerba" sul piano artistico-letterario ma concordavano con il foglio papiniano sul piano politico.

La politica e la guerra rimasero quindi gli argomenti principali di ogni numero de "L'Italia futurista" e il contributo maggiore lo darà proprio Marinetti esprimendo - sotto il titolo "Contro Vienna e contro Berlino" - il suo bellicismo nazionalista sul n. 4, 25 luglio 1916:

"La GUERRA è una grande e sacra legge della vita. Vita = aggressione. Pace universale = decrepitezza e agonia delle razze. Guerra = collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo".

Fu ripubblicato su "L'Italia futurista" nel n. 6, 25 marzo 1917 il Programma politico futurista che era già apparso su "Lacerba" del 1913 dove appaiono evidenti i punti di contrasto tra l'ideologia marinettiana e il fascismo. Sul n. 36 del 31 dicembre 1917 viene pubblicato in prima pagina l'elenco del gruppo pittorico futurista fiorentino, rispettivamente composto da Roberto Marcello Baldessari, Primo Conti, Arnaldo Ginna, Achille Lega, Neri Nannetti, Emilio Notte, Ottone Rosai, Giulio Spina, Lucio Venna e Vieri.

Dove però risalta maggiormente la diversità del gruppo degli italiani futuristi di Firenze al confronto con il gruppo milanese e marinettiano è nei racconti e nelle prose dove dinamismo, velocità, paroliberismo sono assenti, e sostituiti da forme letterarie più vicine al prossimo surrealismo.

Di particolare importanza le sequenze di teatro sintetico futurista che appaiono su "L'Italia futurista" dai primi all'ultimo numero del 27 gennaio 1918.

Anche gli italiani futuristi usano il teatro politico per sensibilizzare il pubblico, ma ai generi tradizionali come la farsa, la pochade, la commedia, tutti di carattere pacifista e neutralista, sostituiscono un teatro "sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo, alogico, irreale", come mezzo per incitare la nazione contro gli austriaci.

Nel 1917, dopo Caporetto, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli fondano un foglio politico che dirigono dal fronte, dal titolo "Roma futurista".

Nel frattempo vengono fondati i Fasci italiani di combattimento nel 1919, ai quali inizialmente aderirà il Partito Politico Futurista per poi abbandonarlo non più di un anno più tardi, a causa della svolta reazionaria e totalitaria di Benito Mussolini.

L'idealismo de "La Critica" e le riviste vociane


* La critica: nata nel 1903, fu una delle riviste culturali del primo Novecento che, a differenza delle altre fiorite numerose in questo periodo, ma terminate nel giro di poche annate, durò fedelmente per quarantadue anni, fino al 1944, e per quarantanove se si aggiungono i "Quaderni della Critica".

Ecco quanto lo stesso Croce scriverà  consuntivo del lavoro svolto dalla rivista nel Proemio alla "Critica" nel suo XLII anno (20 marzo 1944), a chiusura dell'ultima annata:

"Consuntivo del lavoro svolto da La Critica"

La Critica, attinge col 1944 il suo quarantaduesimo anno. Grande spazio di tempo al quale ripenso non senza meraviglia e con un tacito atto di ringraziamento verso la buona sorte, che mi ha concesso di lavorare senza intermissioni per quarantadue anni ad un'opera alla quale mi accinsi nella piena virilità, a trentasei anni; ma che altresì con qualche meraviglia sarà forse riguardata nell'aneddotica delle pubblicazioni periodiche, perché una rivista, configurata da un solo sistema di concetti e scritta, se non esclusivamente in massima parte da un solo uomo, la quale duri tanto tempo, non ha, per quel che io ricordi, alcun riscontro. Rimangono bensì memorande alcune riviste programmatiche, di filosofia, di storia, di letteratura, dovute a una persona sola o ad un piccolo gruppo stretto da comuni convincimenti e propositi (come in Italia la Frusta letteraria, il Caffè, il Conciliatore, e in Germania Kritisches Journal für Philosophie di Hegel e Schelling) ma esse tutte consumarono con vorace fiammata, in un anno o poco oltre, la loro vita o, se mai la proseguirono più a lungo, serbarono il primo titolo ma non già il primitivo carattere".

La prima serie

Croce diffonde il programma de "La Critica rivista di storia letteratura e filosofia" il 1º novembre 1902 in appendice al suo libro Conversazioni critiche dichiarando che La Critica che ha intenzione di pubblicare discuterà "di libri italiani e stranieri, di filosofia, storia e letteratura, senza la pretesa di tenere il lettore al corrente di tutte le pubblicazioni sui vari argomenti, ma scegliendo alcune di quelle che abbiano, per argomento o pel merito, maggiore interesse, e meglio si apprestino a feconde discussioni, La rivista sosterrà un determinato ordine d'idee, perché niente è più dannoso al sano svolgimento degli studi di quel malinteso sentimento di tolleranza, che è in fondo indifferenza e scetticismo".

Per quanto riguarda l'indirizzo base del periodico, "il compilatore crede fermamente che uno dei maggiori progressi compiuti in Italia negli ultimi decenni sia stato l'essersi disciplinato il metodo della ricerca e della documentazione; ed è perciò un leale fautore di quello che si chiama metodo storico o filologico. Ma egli crede con altrettanta fermezza, che tale metodo non basti a tutte le esigenze del pensiero, ed occorra perciò promuovere un generale risveglio dello spirito filosofico; e che, sotto questo rispetto, la critica, la storiografia, e la stessa filosofia, potranno trarre profitto da un ponderato ritorno a tradizioni di pensiero, che furono disgraziatamente interrotte dopo il compimento della rivoluzione italiana, e nelle quali rifulgeva l'idea della sintesi spirituale, l'idea dell'humanitas".

La Critica fu per quarantadue anni il punto di osservazione sullo scenario di mezzo secolo di storia italiana e passò in rassegna movimenti filosofici e letterari, correnti d'opinione, vicende politiche e civili: dal positivismo al futurismo, dall'anteguerra nazionalista al decadentismo letterario, dal conflitto 1914-1918 all'avvento del fascismo, dall'idealismo gentiliano fino alla seconda guerra mondiale.

Carducci e Gentile

Nel fascicolo di apertura del 20 gennaio 1903 viene presentato il saggio sul Carducci, prima puntata delle Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX e contemporaneamente Giovanni Gentile inizia la pubblicazione dei suoi studi sulla Filosofia in Italia dopo il 1850, che continueranno fino al 1914 con vari saggi.

Nel 1914 finirà pertanto la prima serie con il termine dei due principali cicli: le Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX (con gli articoli su Luigi Capuana, Alfredo Oriani, Niccolò Tommaseo, Ippolito Nievo, Alessandro Manzoni, la questione della lingua e numerosi altri) e la storia monografica della Filosofia in Italia dopo il 1850.

La seconda serie

La seconda serie si apre dando largo spazio ai problemi della storia, con l'illustrazione della vita e dell'opera di Francesco De Sanctis.

Quando si accendono le forti polemiche tra neutralisti e interventisti, "La Critica" si dichiara dalla parte dei neutralisti e all'entrata dell'Italia in guerra "La Critica" prosegue i lavori saggistici e storiografici "con mente serena nell'animo turbato".

Così mentre altre riviste sospendono le pubblicazioni o smettono di trattare di letteratura e di arte, la rivista crociana continua "come se guerra non ci fosse" affermando che "sopra il dovere stesso verso la Patria, c'è il dovere verso la verità, che comprende in sé e giustifica l'altro".

Francesco De Sanctis

Sempre coerente alla verità scientifica da salvaguardare "La Critica" pubblica Le lezioni di letteratura di Francesco De Sanctis dal 1839 al 1848: dai quaderni di scuola e nel 1918 i grandi saggi crociani su Ariosto e Goethe.

Alla fine del conflitto "La Critica" si proclama contro il decadentismo, il futurismo e il pascolismo e per l'anno 1921 l'obiettivo dichiarato è quello di far sì che gli studi, le ricerche sul pensiero e la cultura italiana "non si superficializzino in mera letteratura, ma attingano vigore e freschezza dagli interessi attuali e dalla vita pratica, e a lor volta apportino alla vita pratica qualche luce di pensiero".

Progetti di riforma scolastica

Sulla rivista, nel periodo che va dal 1921 al 1925, vengono trattate le esperienze del suo direttore Croce, senatore liberale e ministro della Pubblica Istruzione, con questioni specificatamente scolastiche, come il progetto di riforma della scuola media, l'esame di stato, l'insegnamento della religione.

Negli anni che precedono il 1925, "La Critica" pubblica alcuni capitoli crociani di storiografia etico-politica della Storia del reame di Napoli e viene illustrata, con diversi articoli, la storia del Meridione, l'età barocca e il Seicento in Italia.

La terza serie

Nel 1925 la rivista, nel numero del 20 maggio, dichiara la volontà di "partecipare con dilucidazioni dottrinali e storiche e con noterelle polemiche, al chiarimento dei problemi della presente vita italiana, attenendosi per questa parte al programma liberale, che già annunciò nel 1902 e al quale è rimasta fedele".

Croce denigrato

Contro Croce intanto si stava aggravando la polemica già avviata nel 1915 dai futuristi quando Marinetti aveva denominato Benedetto Croce "tedescofilo" e "passatista" ed egli aveva risposto con la famosa e memorabile pagina I giovani.

Ora, nel secondo volume di una collana sui Problemi del fascismo egli leggeva queste dure parole: "La nostra rivoluzione, si badi, era, ed è piuttosto contro Benedetto Croce che contro Buozzi (un sindacalista) e contro Modigliani (un socialista)".

A questa dichiarazione la rivista crociana ribatte con energia.

Nota crociana

"Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l'origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell'ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo (...) Marciare contro di me? E perché? Avverto, ad ogni modo, quei bravi giovani che si tratterebbe di perseguitarmi non a Roma, ma al polo della Logica, dove io mi sono alquanto acclimatato, ma essi, temo, morirebbero di gelo.

Nuova rubrica

Nel frattempo la prima fase dell'ideologia fascista, quella della rottura con il passato stava passando ad una seconda fase, meno squadrista e più disponibile culturalmente.

Adeguandosi pertanto a questa fase di trapasso, "La Critica" inaugura, all'interno della sezione "Varietà", una rubrica intitolata "Documenti della presente vita italiana", per raccogliere tutti i documenti e le testimonianze della cultura italiana in rapporto alla vita politica.

La rubrica non dura più di un anno perché il regime renderà la vita difficile ai suoi avversari.

Gli anni del regime

Dopo il 1925 mentre si afferma l'ideale attualistica con la vittoria politico-culturale di Gentile, che si discosta sempre di più dallo storicismo crociano, "La Critica" ritorna al suo severo e libero programma di studi e nel fascicolo del 20 gennaio 1926 avverte che offrirà soprattutto "saggi di storia costruiti con criteri filosofici e insieme narrata con concretezza e ricchezza di particolari".

Intorno a Croce durante gli anni del regime si forma il vuoto. Nel 1923 era cessata la collaborazione di Gentile e sulle pagine de "La Critica" rimangono pochi nomi (Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora).

Sulla rivista appaiono monografie particolari che illustrano "la storia civile, letteraria e culturale d'Italia" e approfondiscono le condizioni della filosofia negli ultimi anni.

Limiti e importanza della rivista crociana

I limiti della rivista sono gli stessi attribuiti al pensiero e al metodo crociano che rimane ancorato su giudizi di valore, come poesia e non poesia, che, soprattutto alla cultura degli anni Cinquanta e Sessanta, dominata da una mentalità completamente diversa, suonano soggettivi ed arbitrari.

Rimane altresì indiscussa l'importanza civile ed umana della rivista con il suo tenace lavoro di ricerca letteraria e storica e il suo combattivo inserimento nella vita italiana.

  
 * La Voce: rivista italiana di cultura e politica. Fu fondata nel 1908 da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Attraverso diverse fasi continuò le pubblicazioni fino al 1916. È stata una delle più importanti riviste culturali del Novecento.

Nella storia de "La Voce" si possono individuare quattro fasi che corrispondono anche al cambiamento redazionale:

    * Una prima fase va dal dicembre 1908, inizio della pubblicazione sotto la direzione di Giuseppe Prezzolini, fino al novembre 1911 quando, in occasione della campagna di Libia Gaetano Salvemini, collaboratore, lascia la rivista per fondare la sua "Unità".
    * Una seconda fase va dal 1912 fino alla fine del 1913 quando la direzione viene assunta da Giovanni Papini.
    * Una terza fase che dura solamente un anno, 1914, nella quale Prezzolini riprende la direzione della rivista.
    * Una quarta fase che dura dalla fine del 1914 al 1916 quando Prezzolini cede la direzione a Giuseppe De Robertis.

La Fondazione

Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini provenivano dall'esperienza del Leonardo, rivista letteraria dalla breve vita (1903-1907). Nel 1908 cominciarono a progettare la nuova rivista. Non doveva essere un periodico di sola letteratura, ma doveva raggiungere tutti gli intellettuali italiani, di qualsiasi vocazione artistica.

Nel manifesto che appare sul primo numero della rivista, il 27 dicembre 1908, l'editoriale prezzoliniano dichiara:

"Non promettiamo di essere dei geni, di sviscerare il mistero del mondo e di determinare il preciso e quotidiano menu delle azioni che occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiamo di essere ONESTI e SINCERI. Noi sentiamo fortemente l'eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l'angustia e il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito. Sono queste le infinite forme d'arbitrio che intendiamo DENUNCIARE e COMBATTERE. Tutti le conoscono, molti ne parlano; nessuno le addita pubblicamente. Sono i giudizi leggeri e avventati senza possibilità di discussione, la ciarlataneria di artisti deficienti e di pensatori senza reni, il lucro e il mestiere dei fabbricanti di letteratura, la vuota formulistica che risolve automaticamente ogni problema. Di LAVORARE abbiamo voglia. Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di INFORMARE, senza troppa smania di novità, di quel che meglio si fa all'estero; di PROPORRE riforme e miglioramenti alle biblioteche pubbliche, di OCCUPARCI della crisi morale delle università italiane; di SEGNALARE le opere degne di lettura e di COMMENTARE le viltà della vita contemporanea".

Esisteva già sulla piazza di Firenze una rivista letteraria, Il Marzocco. Obiettivo di Prezzolini fu superare il diretto concorrente. Durante tutta la fase preparatoria, Prezzolini e Papini si mantennero in contatto epistolare con Benedetto Croce, che svolse un prezioso lavoro di consulenza. Il nome della rivista fu scelto da Prezzolini . La testata fu progettata da Ardengo Soffici. In prima pagina compariva un unico articolo (un "articolo di copertina" diremmo oggi), su quattro colonne. La tiratura iniziale fu di 2.000 copie.

La prima fase (1908-1911)

La rivista nacque con lo scopo di dare una missione civile all'intellettuale, il quale non deve vivere come se fosse immerso solo nella sua arte, cioè separato dal mondo. La Voce avviò una battaglia di rinnovamento culturale e civile, criticando anche la classe dirigente per la sua inadeguatezza a governare un fase storica caratterizzata da veloci cambiamenti.

Tale programma fu realizzato nella prima fase della rivista grazie alla collaborazione di validi intellettuali, come Benedetto Croce, Giovanni Amendola (che scriveva articoli sulla questione dell'analfabetismo), Gaetano Salvemini (che scriveva sulla questione universitaria), Emilio Cecchi, Romolo Murri, Luigi Einaudi.

La Voce riscosse un immediato successo. In poco tempo la tiratura passò dalle 2.000 copie iniziali a 2.500 (dopo l'ottavo numero) fino ad attestarsi su una media di 3.000. Radicata a Firenze, la rivista ottenne ottimi consensi anche a Torino, Bologna, Milano e Pisa. In poco tempo La Voce aveva conquistato il suo spazio tra le riviste culturali italiane.

Intellettuali e momento storico

Sorgono analisi, inchieste, numeri unici sul problema del ruolo della classe intellettuale nella società italiana, la scuola, la questione meridionale.

L'impegno dei vociani si muove su due fronti: sul fronte della cultura, per un profondo rinnovamento sia del letterato che della sua produzione artistica e per una nuova realtà politico-sociale. La rivista auspica e promuove anche un cambiamento della classe dirigente del Paese.

La tesi sostenuta dai vociani è quella che afferma l'unitarietà dei due fronti, in quanto il nuovo letterato potrà nascere diverso dal letterato puramente estetizzante, solo se opererà con un rapporto di osmosi in un diverso contesto civile e politico.

Si notano in queste premesse la polemica contro Gabriele D'Annunzio che rappresenta i vizi dell'artista che i vociani vogliono combattere e la polemica contro Giolitti, che con la politica del trasformismo stava impoverendo la vita italiana.

La defezione di Salvemini

Questa fu dunque la linea intrapresa dalla rivista nella sua prima fase, anche se a causa delle diverse idee politiche dei suoi collaboratori, divennero inevitabili alcune differenze di valutazione.

Le differenze di vedute all'interno della redazione emersero in tutta la loro profondità in occasione della Campagna di Libia. All'inizio del 1911, mentre il dibattito politico si sviluppava attorno al dilemma se «andare a Tripoli» o meno, Prezzolini dedicò un fascicolo speciale alla Questione meridionale (16 marzo), con saggi di Luigi Einaudi e Giustino Fortunato. Sulla questione di Tripoli, La Voce intervenne con un altro numero speciale (17 agosto) in cui Prezzolini e Gaetano Salvemini valutarono l'opportunità economica di una simile impresa. La loro conclusione fu riassunta nel titolo: «Perché non si deve andare a Tripoli». Salvemini condusse un'accesa campagna sulla rivista scrivendo contro "l'alluvione di menzogne con cui i nazionalisti rendevano popolare l'idea di conquistare la Libia, terra promessa dove gli Arabi ci aspettavano a braccia aperte".

Il 5 ottobre, a pochi giorni dall'avvio della spedizione militare, Giovanni Amendola pubblicava un articolo con il quale chiudeva le polemiche e appoggiava l'iniziativa del governo. La sua era la posizione ufficiale de La Voce. Da parte sua, Prezzolini, a guerra iniziata affermava sulla rivista essere "un dovere di disciplina nazionale sacrificare le personali vedute dinanzi all'interesse pubblico".

Pochi giorni dopo Salvemini, contrario ad ogni forma di nazionalismo, abbandonò "La Voce".

La seconda fase (1912-1913)

In seguito all'allontanamento di Salvemini, La Voce nel 1912 passa sotto la direzione di Giovanni Papini. Con il nuovo direttore vengono dunque annunciati nuovi obiettivi e delineati i nuovi propositi della rivista.

La nuova dichiarazione di intenti vuole fortemente un ritorno alla pura letteratura, abbandonando quel rapporto tra letteratura e vita nazionale che aveva improntato le pagine della rivista nella sua prima fase.

Senza dubbio in questa seconda fase la cultura italiana visse un importante arricchimento. Attraverso i numerosi articoli apparsi sulla rivista infatti gli italiani poterono conoscere tante esperienze letterarie fondamentali di altri paesi, attraverso autori quali ad esempio Stephane Mallarmé, André Gide, Paul Claudel e Henrik Ibsen.

Il 31 ottobre la direzione torna a Prezzolini, che non cambia la linea editoriale, ma anzi allarga il suo interesse a tutte le forme d'arte. Egli stesso introduce qualche articolo sul cinema, che all'epoca non compare nelle riviste culturali.

Nei mesi successivi gli articoli di Amendola e Slataper si fanno sempre più radi. Il gruppo di collaboratori subisce un'ulteriore disgregazione quando, alla fine dell'anno, Giovanni Papini e Ardengo Soffici lasciano per fondare una propria rivista, Lacerba, che presto otterrà un successo di vendite superiore alla Voce.

La terza fase (1914)

Col n. 1 del 13 gennaio 1914, "La Voce" passa da settimanale a quindicinale, cambia formato (da foglio a quaderno) e si dà un nuovo sottotitolo: «Rivista d'idealismo militante». La rivista riprende la linea editoriale originaria: i temi principali sono la cultura e la politica. I nuovi collaboratori, Longhi, De Robertis, Omodeo e Saitta, sono tutti di estrazione gentiliana, a decretare il passaggio dalla filosofia di Croce a quella di Gentile. Il clima è cambiato: non è più tempo di essere equidistanti. La Voce, pur restando un giornale libero, prende posizione e sceglie l'interventismo.

Alla fine dell'anno avviene la defezione di Prezzolini, che si trasferisce a Roma .

La quarta fase (1914-1916)

Alla fine del 1914 La Voce passa sotto la direzione di Giuseppe De Robertis che ne fa un periodico esclusivamente letterario.

De Robertis dimostra fin dalle prime pagine la sua antipatia per le inquadrature storiche che cercano i rapporti esistenti tra l'artista e il momento storico.

Egli punta esclusivamente sul fatto artistico, sull'aspetto artistico del poeta utilizzando un metodo critico che si risolve quasi esclusivamente sulla parola e sulla concezione di una poesia pura, libera da intralci oratori o intellettualistici.

De Robertis e la poetica del frammento

De Robertis sostiene che la dimensione poetica è realizzabile nel frammento venendo così a formulare quella poetica del frammento che opererà per qualche decennio nella letteratura italiana e che troverà la sua migliore applicazione nelle forme dell'ermetismo.

Sulle pagine della rivista appariranno in questi anni i primi versi di quegli autori che assumeranno in seguito un ruolo fondamentale nella nostra letteratura: Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi, Dino Campana, Corrado Govoni, Riccardo Bacchelli, Vincenzo Cardarelli, Clemente Rebora.

L'ultimo numero della rivista guidata da De Robertis uscirà il 31 dicembre 1916.
   

* L'Unità: nasce dalla crisi de La Voce ai tempi della guerra italo-turca il 16 dicembre 1911 come settimanale di cultura e politica e termina il 30 dicembre 1920.

Quando nel marzo 1911 uscì il numero unico de La Voce su La questione meridionale, oltre a confermare l'importanza del gruppo dei collaboratori salveminiani, esso rappresentò l'anticipazione di un più ampio schieramento che Gaetano Salvemini (1873-1957) avrebbe presto realizzato.

Ai tempi della guerra libica Salvemini, una delle personalità più notevoli della cultura italiana del Novecento, autore del polemico, antigiolittiano volume Il ministro della malavita (1910) rompe la collaborazione con La Voce, esce dal Partito Socialista e fonda a Firenze il nuovo settimanale chiedendo la collaborazione di autorevoli personaggi meridionali come Giustino Fortunato, Antonio De Viti De Marco (leader del movimento liberista) e Benedetto Croce.

In una lettera a Giuseppe Prezzolini, Salvemini dichiarava: "la crisi tripolitana non è che il momento saliente della crisi generale della Voce. I gruppi della Voce non sono due, sono dieci, sono venti... Occorre dividerci. Io ormai non concepisco più La Voce che come un giornale settimanale di problemi politici, una specie di Critica sociale di vent'anni or sono, in cui la critica letteraria e filosofica faccia da contorno, da ornamento, da puntello ad un'edizione politica determinata. Gli altri la considerano come una continuazione del Leonardo".

Nata quindi da una esigenza di azione politica ben precisa la rivista intende affrontare i nodi irrisolti del paese, dal problema meridionale alle questioni doganali, dalla corruzione politica ed elettorale alla riforma del costume, alle riforme tributarie, scolastiche, amministrative caldeggiando soluzioni democratiche e antinazionaliste come risulta dall'articolo programmatico Che cosa vogliamo? che venne pubblicato in due puntate sui nn. 13/14, 9/16 marzo 1912.

Documento programmatico.

Che cosa vogliamo?

"Quale sistema di idee, quale criterio fondamentale d'azione intende seguire L'Unità?. A questa domanda rispondiamo risolutamente e nettamente che L'Unità intende essere un giornale DEMOCRATICO secondo il quale l'azione politica deve essere diretta a liberare da ogni parassitismo, non solo borghese ma anche sedicente proletario, lo sviluppo della ricchezza nazionale, a promuovere un continuo elevamento economico morale e politico della classe lavoratrice a beneficio di tutto il paese, a suscitare nella classe lavoratrice medesima la coscienza e l'organizzazione che le consentono di essere essa stessa artefice prima delle proprie conquiste (...)

Questa nostra posizione ideale e pratica, che continueremo a chiamare DEMOCRATICA spiega perfettamente perché siamo anche risolutamente ANTINAZIONALISTI.

Nel nazionalismo noi vediamo un movimento fondamentalmente conservatore e antiproletario (...), la volontà arbitraria di negare i problemi della nostra vita interna e di farli dimenticare con diversivi di avventure diplomatiche e militari, a vantaggio di tutti quegli interessi parassitari e antinazionali che da un vittorioso sforzo di riforme interne uscirebbero distrutti".

L'Unità porterà così avanti fedelmente, dal 1911 al 1920 con le interruzioni 4 settembre-4 dicembre e 28 maggio 1915-8 dicembre 1916 a causa della partenza per il fronte come volontario di Salvemini, il suo programma analizzando i temi scottanti della vita politica italiana, dagli interventi di Benedetto Croce nei primi numeri, alla denuncia dell'avventura di Fiume da parte di Gabriele D'Annunzio.

Quando scoppia il conflitto mondiale la posizione che prenderà L'Unità sarà quella dell'intervento nella convinzione che la guerra possa essere trasformata in una "guerra per la pace", dichiarandosi per un intervento democratico differente da quello dei nazionalisti (2 marzo 1917).

Per quanto riguarda l'atteggiamento della rivista nei confronti della rivoluzione sovietica essa fu di adesione, inizialmente, per poi passare a numerose riserve che tendevano a considerare la vittoria di Lenin provvisoria nella speranza che il programma pacifista del presidente Wilson potesse vincere.

L'interesse decrescente nei confronti del leninismo influenzò il lavoro della riforma interna a cui L'Unità attende nel dopoguerra.

La preoccupazione crescente nasce dalla consapevolezza che la guerra ha potenziato le organizzazioni capitalistiche ma anche dal timore che nasca una dittatura del proletariato ad esclusivo vantaggio degli operai.

L'Unità, a differenza de La Rivoluzione liberale di Gobetti e dell'"Ordine Nuovo" di Gramsci, non si sente di appoggiare l'esperimento dell'autogoverno operaio e cerca una diversa strada "nella fondazione di un nuovo raggruppamento politico, che dovrebbe assicurare alle masse contadine uno stato maggiore costituito dall'élite della gioventù combattente".

Questo tentativo però fallisce e porta alla sospensione de "L'Unità", con il n. 53, 30 dicembre 1920, considerata ormai indebolita e non più rispondente al suo iniziale programma.

Le riviste degli artisti

Persuasi che la guerra abbia interrotto l'andamento della realtà solamente per quanto riguarda l'ordine temporale ma che non abbia cambiato il destino dell'arte e della letteratura, Alberto Savinio, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli, ritenendosi i restauratori della tradizione artistica italiana, fondano due riviste romane, una di pittura e una di letteratura.

Sono questi, storicamente, gli anni dell'armistizio e dell'immediato dopoguerra e i trattati di pace hanno provocato un diffuso risentimento.

Sul piano sindacale e operaio vi era stata, il 20 settembre 1920, l'occupazione delle fabbriche, era nato nel 1919 il Partito Popolare e la classe dirigente liberale e giolittiana ha difficoltà a controllare sia le forze socialiste, sia i fasci di combattimento e il nuovo Partito Fascista.

In queste condizioni, gli intellettuali di "Valori plastici" e de "La Ronda" si pongono a difesa dell'arte e della letteratura come "questione la più importante" e riaffermano il valore creativo e l'autonomia del genio.

   
* Valori plastici:  rivista di critica artistica nata nel 1918 a Roma sotto la direzione del pittore e collezionista Mario Broglio, edita dal 1918 al 1922, il cui intento è la diffusione delle idee estetiche della pittura metafisica e delle correnti d'avanguardia europea.

Teorizza il recupero dei valori nazionali ed italici, sostenuti dalla politica culturale del regime fascista, non disgiunti da uno sguardo di ampio respiro verso l'Europa all’interno di una vivace dialettica culturale e il ritorno alla cultura figurativa di matrice classica.

Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico (letterato, autore dell'Hermaphrodito, teorico della pittura metafisica e ispiratore del fratello Giorgio, assai più famoso) nel primo numero di "Valori plastici" del 15 novembre 1918, annuncia un programma di completa restaurazione individualista, antifuturista e antibolscevica.

Nell'aprile-maggio 1919 nell'articolo intitolato Anadioménon, Savinio enuncia l'intuizione intellettiva, enigmatica e atemporale del mondo che anima il nuovo classicismo metafisico.

I princìpi saviniani sulla poetica metafisica, vengono applicati in pittura da Giorgio De Chirico, da Carlo Carrà e da Giorgio Morandi.

La vicenda di "Valori plastici", che terminerà la pubblicazione nel 1921, si diffonde fuori dall'Italia con Ritorno all'ordine e in edizione francese dall'organizzazione della rivista Mario Broglio, e aiuta a comprendere la storia parallela del gruppo letterario della rivista La Ronda, ugualmente interessata a rifiutare la modernità, sia quella futurista di Filippo Tommaso Marinetti, che quella simbolista di Giovanni Pascoli e decadente di Gabriele D'Annunzio.
   

* La Ronda: rivista letteraria pubblicata a Roma tra il 1919 e il 1923, inizialmente diretta da un'equipe redazionale formata da sette persone.

I suoi redattori sono i "sette savi" o i "sette nemici" (per indicare i legami di amicizia, ma anche la divergenza di idee) e vengono elencati con spirito ironico da Margutte, soprannome di Antonio Baldini, in questo modo: Vincenzo Cardarelli "pubblicista", Emilio Cecchi "esquire" (scudiero in senso di rispetto per la sua esperienza critica), Riccardo Bacchelli "possidente", Antonio Baldini "baccelliere in lettere", Lorenzo Montano "industriale", Bruno Barilli "compositore", Aurelio Emilio Saffi "docente nelle scuole governative".

A costoro si affiancarono numerosi collaboratori esterni tra i quali Guglielmo Ferrero, Vilfredo Pareto, Filippo Burzio, Giuseppe Raimondi (segretario), Alberto Savinio e, tra i pittori metafisici, coloro che in quegli anni animavano la rivista di arti figurative Valori plastici come Carlo Carrà, che contribuisce con i suoi articoli su Henri Matisse e Paul Cézanne, e Giorgio De Chirico che assimila la "classicità" rondista alla sua "metafisica".

A Cardarelli, che nel 1920 prenderà la direzione insieme a Saffi, si deve il programma antisperimentale e antivanguardistico della rivista: il ritorno della tradizione letteraria italiana, attraverso la prosa di Leopardi, una poetica del frammento a scapito del romanzo e della poesia (il primo perché ritenuto essere scaduto a puro genere di consumo, la seconda perché esaurite le potenzialità stilistiche).

Sul n. 1 de La Ronda dell'aprile 1919 apparve un Prologo in tre parti redatto da Vincenzo Cardarelli i cui punti fermi erano essenzialmente tre: a) simpatia e preferenze per il passato, culto dei classici e humanitas che consentono di sentirsi uomini; b) impegni linguistici e stilistici come il leggere e lo scrivere elegante non in senso formale ma come lucida e leopardiana trasparenza dei moti dell'animo; c) sincera fedeltà alla tradizione senza perdere di vista il livello europeo delle letterature straniere, mettersi in regola coi tempi, senza però spatriarsi.

Prologo in tre parti

"Non sembrerà un paradosso se diciamo che dai classici per i quali, come per noi l'arte non aveva altro scopo che il diletto, abbiamo imparato ad essere uomini prima che letterati. Il vocabolo umanità lo vorremmo scrivere nobilmente con l'H, come lo si scriveva ai tempi del Machiavelli, perché s'intendesse il preciso senso che noi diamo a questa parola (...). Abbiamo poca simpatia per questa letteratura di parvenus che si illudono di essere bravi scherzando col mestiere e giocando la loro fortuna su dieci termini o modi non consueti quando l'ereditarietà e la familiarità del linguaggio sono le sole ricchezze di cui può far pompa uno scrittore decente (...).
Ci sostiene la sicurezza di avere un modo nostro di leggere e di rimettere in vita ciò che sembra morto. Il nostro classicismo è metaforico e a doppio fondo. Seguitare a servirci con fiducia di uno stile definito non vorrà dire per noi altro che realizzare delle nuove eleganze, perpetuare, insomma, la tradizione della nostra arte. E questo stimeremo essere moderni alla maniera italiana senza spatriarci."

Durante il primo anno si svolgono su La Ronda gli interventi di Cecchi, Baldini, Bacchelli, mentre la rubrica Rondesca puntualizza su ogni numero la fisionomia della rivista.

I futuristi e il futurismo, Filippo Tommaso Marinetti di Zang Tumb Tumb e dei manifesti sono violentemente attaccati e denominati distruttori letterari e si polemizza contro gli intellettuali compromessi che hanno dimenticato il loro più importante dovere, quello della "schiettezza disinteressata".

Sulla prima rubrica Rondesca del maggio 1919 viene proclamata la necessaria, assoluta indipendenza dell'arte dalla politica, in quanto l'arte "è libera, inutile, inefficace e indistruttibile. Non può pretendere d'essere considerata, rispettata e renumerata, né dai conservatori, né dai rivoluzionari".

Giovanni Pascoli viene accusato di essere responsabile della decadenza della letteratura contemporanea e nell'ottobre del 1919 "La Ronda" apre un Referendum su Pascoli che si conclude nel gennaio 1920 e la discussione annovera una decina di interventi tra cui quella di Cecchi, Bacchelli, Cesare Angelini e Ardengo Soffici.

Viene invece preso a modello Alessandro Manzoni e il Giacomo Leopardi delle Operette morali e dello Zibaldone.

Un numero triplo, marzo-aprile-maggio 1921, interamente dedicato a Leopardi, pubblica parte dello Zibaldone e ne viene decantata l'eleganza dello stile.

Gli interni e le sezioni de La Ronda vengono completati con gli apporti della letteratura straniera. Vengono riportate le versioni e le traduzioni di autori anglosassoni come Robert Louis Stevenson, Herman Melville, Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc, George Bernard Shaw, Edgar Lee Masters, Thomas Hardy, a cura di Cecchi e Bacchelli scrive un saggio su Leon Tolstoj.

Escludendo il numero straordinario del dicembre 1923, La Ronda cessa per cause interne proprio nel momento in cui il fascismo giunge al potere.

Le riviste di Gobetti e di Gramsci

L'accusa fatta alla "Ronda" di avere appoggiato, nel rapporto tra cultura e politica, la separazione del letterati dai politici incontra su un versante assolutamente diverso l'esperienza delle riviste di Piero Gobetti "Energie Nove" (1918-1920), "La Rivoluzione liberale" (1922-1924), "Il Baretti" (1924-1928), nelle quali l'unione tra politica e letteratura diventa unitario.

Vi erano stati intanto i lunghi e dolorosi anni dalla guerra che avevano lasciato al mondo proletario reale consapevolezza in ordine alla lotta di classe. Per poter meglio gestire queste nuove energie e per "integrare l'attività politica ed economica come un organo di attività culturale" era necessario un terzo organo del movimento dei lavoratori da affiancare al partito e ai sindacati. A questo terzo organo pensa Antonio Gramsci con la rivista "L'Ordine Nuovo" che intende diventare il portavoce della cultura proletaria.

   
* Energie Nove:  rivista politico-letteraria fondata a Torino da Piero Gobetti nel 1918.

Piero Gobetti diciassettenne, ancora studente del Liceo Gioberti, fonda il 1º novembre 1918 la rivista "Energie Nove" insieme a G.Manfredini, E. Rho, E.Ravera, A.Prospero, Maria Marchesini e altri compagni dell'istituto.

La rivista quindicinale si presenta in formato quaderno e subito rivela le influenze dell'idealismo di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile nel settore filosofico-letterario e quelle di Gaetano Salvemini in politica.

Essa riscuote subito la simpatia di Antonio Gramsci, amico di Gobetti dal 1918 e collaboratore di "Energie Nove" dal gennaio successivo.

Sulle pagine della rivista spicca l'amore dialettico per la concretezza e l'esaltazione dei valori della libertà.

Vi sono ampi spazi per i problemi del Mezzogiorno, i problemi della scuola e l'antigiolittismo ideologico.

C'è ampio spazio per le letterature straniere e non viene tralasciata la critica letteraria che puntualmente informa e discute sulle opere e gli autori italiani dimostrando apprezzamento per Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, stroncatura per Filippo Tommaso Marinetti e interesse per i contemporanei Piero Jahier, Alfredo Panzini, Ardengo Soffici, Giovanni Papini di Un uomo finito.

Due momenti soprattutto caratterizzano questa rivista giovanile: il rapporto politica-cultura che dà la predominanza al primo termine e il dichiarato disprezzo per ogni forma di opportunismo in polemica con La Ronda.

Sul n. 5, 5 luglio 1919, Maria Marchesini dedica alla "Ronda" un articolo nel quale, pur riconoscendo la serietà dell'ideale artistico ne disprezza la qualità delle pagine "nitide e limpide come pietre preziose, ma fredde, ma morte".

Nell'articolo n.1 e n.6, 15 maggio e 25 luglio 1919, Gobetti accusa l'editoria del momento di essere commerciale e consumistica; l'editore Treves viene additato come il fornitore di "collane amene". Gobetti auspica invece un'editoria libera, di qualità e non di profitto, con intellettuali e pensatori "nella funzione editoriale".

Nonostante l'indiscutibile fortuna della rivista, essa, con il numero del 12 febbraio 1920 cessa le pubblicazioni per un bisogno di "raccoglimento" e di "silenzio" allo scopo di "un'elaborazione politica assolutamente nuova", come scrive Gobetti stesso nell'articolo di fondo.

Nell'aprile del 1923, sull'esempio delle «Edizioni de La Voce», delle case editrici di Laterza e di Vallecchi, nate e sviluppate "intorno ad una rivista per completarla e rappresentare con essa le "idee", avrà inizio l'attività della Piero Gobetti Editrice. I libri pubblicati da Gobetti, come Una battaglia liberale di Giovanni Amendola, Le lotte del lavoro di Luigi Einaudi, Nazionalfascismo di Luigi Salvatorelli, Ossi di seppia di Eugenio Montale, porteranno impresso il motto greco ti moi douloisin (che ho a che fare io con i servi), che si presenta come un'aperta sfida culturale e politica al regime fascista.
   

* L'Ordine Nuovo: il settimanale L'Ordine Nuovo - fondato a Torino il 1º maggio 1919 da Antonio Gramsci (1891-1937), insieme ad alcuni giovani intellettuali socialisti dell'ambiente torinese, Palmiro Togliatti (amico fin dall'università), Angelo Tasca e Umberto Terracini (dirigenti della federazione giovanile socialista) - dichiarava il suo programma di rinnovamento sociale e proletario nelle Battute di preludio scritte dallo stesso Tasca.

I primi numeri de L'Ordine Nuovo pur presentando caratteri di "disciplina permanente di cultura russa", mantenevano una composizione piuttosto antologica nelle brillanti recensioni ancora crociane e gentiliane di Togliatti per la rubrica La battaglia delle idee, negli studi che Tasca dedica ai maestri socialisti del passato come Louis Blanc e Charles Fourier, negli articoli stranieri di Romain Rolland (La via che sale) e di Henri Barbusse (Il gruppo "Clarté").

Ma presto la tematica interpretativa gramsciana della rivoluzione bolscevica in rapporto storico con lo sviluppo della società italiana produce un colpo di mano redazionale all'interno de L'Ordine Nuovo, cioè la pubblicazione, il 21 giugno 1919, dell'articolo Democrazia operaia:
   
« Complici Togliatti e Terracini, all'insaputa di Tasca, anzi contro l'orientamento astratto e la "vaga passione" culturale rivendicata da Tasca (conforme "alle buone tradizioni della famigliola italiana"), Democrazia operaia propone di "scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano", trasformando la rivista in organo di propulsione, in centro rivoluzionario di nuove forme organizzative, di nuovi istituti da creare anche in Italia sul modello dei soviet. Emerge la grande idea-forza de L'Ordine Nuovo, quella dei consigli di fabbrica, organi dell'autogoverno operaio, che dovranno potenziare politicamente le commissioni interne al livello "soviettista" di altrettanti istituti di democrazia proletaria eletti da tutte le maestranze delle officine torinesi. "Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalismo nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate e arricchite dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Già fin d'oggi gli operai dovrebbero procedere alle elezioni di vaste assemblee di delegati, scelti tra i migliori e più consapevoli, sulla parola d'ordine: Tutto il potere dell'officina ai comitati di fabbrica, coordinata all'altra: Tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini. »

Da questo momento, dal n. 7 del 21 giugno 1919, L'Ordine Nuovo diventa "il giornale dei consigli di fabbrica". In pochi mesi l'idea-forza dei consigli di fabbrica si allarga e si realizza in decine di stabilimenti metallurgici, dalla FIAT alla Diatto, dalla Savigliano alla Lancia (azienda).

Gli articoli de "L'Ordine Nuovo" prendono atto dell'avvenimento suscitando dibattiti in tutto il movimento operaio, politico e sindacale, nonostante le opposizioni di riformisti e di massimalisti.

Il 14 e il 28 agosto Gramsci scrive:

"I

Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso, in tre, o quattro, o cinque (e di quelle nostre discussioni e deliberazioni devono ancora esistere, perché furono compilati e trascritti in bella copia, i verbali, sissignori, proprio i verbali... per la storia!), di iniziare la pubblicazione di questa rassegna Ordine Nuovo, nessuno di noi (forse nessuno ...) pensava di cambiare la faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo nella storia. Nessuno di noi (forse nessuno: qualcuno fantasticava di 6.000 abbonati in qualche mese) accarezzava illusioni rosee sulla buona riuscita dell'impresa. Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? Ahimè! L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita. di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana. Ahimè! L'unica parola nuova, che fosse stata pronunziata in quelle riunioni fu soffocata. Fu detto, da uno che era un tecnico: "Bisogna studiare l'organizzazione della fabbrica come strumento di produzione: dobbiamo consacrare tutta la nostra attenzione ai sistemi capitalistici di produzione e di organizzazione e dobbiamo lavorare per far convergere l'attenzione della classe operaia e del Partito su questo oggetto". Fu detto, da un altro che si preoccupava dell'organizzazione degli uomini, della storia degli uomini, della psicologia della classe operaia: "Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo, solamente russo; il Soviet è la forma in cui, da per tutto ove esistono proletari in lotta per conquistare l'autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino?". Quell'altro, che era stato impressionato da questa domanda rivoltagli a bruciapelo da un compagno polacco: "Perché non si è mai tenuto in Italia un congresso delle commissioni interne?", rispondeva, in quelle riunioni, alle sue stesse domande: "Si, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la commissione interna; studiamo questa istituzione operaia, facciamo un'inchiesta, studiamo pure la fabbrica capitalista, ma non come organizzazione della produzione materiale, ché dovremmo avere una cultura specializzata che non abbiamo; studiamo la fabbrica capitalista come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come "territorio nazionale" dell'autogoverno operaio". Quella parola era nuova; essa fu respinta proprio dal compagno Tasca.

Cosa voleva il compagno Tasca? Egli voleva che non si iniziasse

nessuna propaganda direttamente tra le masse. operaie, egli voleva un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati, egli voleva che si promovesse un convegno con questi segretari, e si costruisse un piano per una azione ufficiale; il gruppo dell'Ordine Nuovo sarebbe stato cosi ridotto al livello di una cricca irresponsabile di presuntuosi e di mosche cocchiere. Quale fu dunque il programma reale dei primi numeri dell'Ordine Nuovo? Il programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti. Quale fu l'idea dei primi numeri dell'Ordine Nuovo? Nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato. Cosa intendeva il compagno Tasca per "cultura ", e, dico, cosa intendeva concretamente, non astrattamente? Ecco cosa intendeva il compagno Tasca per "cultura": intendeva "ricordare", non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio; intendeva far conoscere alla classe operaia italiana, "ricordare" per la buona classe operaia italiana, che è così arretrata, che è cosi rozza e incolta, ricordare che Louis Blanc ha fatto dei pensamenti sull'organizzazione del lavoro, e che tali pensamenti hanno dato luogo a esperienze reali; "ricordare" che Eugenio Fournière ha compilato un accurato componimentino scolastico per scodellare caldo caldo (o freddo freddo) uno schema di Stato socialista; "ricordare", con lo spirito di Michelet (o del buon Luigi Molinari), la Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i comunisti russi, sulle tracce di Marx, ricongiungono il Soviet, il sistema dei Soviet, alla Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i rilievi di Marx sul carattere "industriale" della Comune erano serviti ai comunisti russi per comprendere il Soviet, per elaborare l'idea del Soviet, per tracciare la linea d'azione del loro partito, divenuto partito di governo. Cosa fu l'Ordine Nuovo nei primi numeri? Fu un'antologia, nient'altro che un'antologia; fu una rassegna come sarebbe potuta sorgere a Napoli, a Caltanissetta, a Brindisi; fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine Nuovo nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che Zampelloni cercava un approdo ideale e una via per l'azione. Questo fu l'Ordine Nuovo quale fu varato in seguito alle riunioni che tenemmo nell'aprile 1919, riunioni debitamente verbalizzate, riunioni nelle quali il compagno Tasca respinse, come non conforme alle buone tradizioni della morigerata e pacifica famigliola socialista italiana, la proposta di consacrare le nostre energie a "scoprire" una tradizione soviettista nella classe operaia italiana, a scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano; reale perché coincidente con uno spirito universale dell'Internazionale operaia, perché prodotto. di una situazione storica reale, perché risultato di una elaborazione della classe operaia stessa.

Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna; qualche sera prima di scrivere l'articolo, avevo sviluppato al compagno Terracini la linea dell'articolo e Terracini aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica; l'articolo, per il consenso di Terracini, con la collaborazione di Togliatti, fu pubblicato (1) e successe quanto era stato da noi previsto: fummo, io, Togliatti, Terracini, invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica, fummo invitati dalle commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine Nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine Nuovo (questo possiamo affermarlo con intima soddisfazione), e perché gli operai amarono l'Ordine Nuovo? Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine Nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine Nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate, perché gli articoli dell'Ordine Nuovo erano quasi un "prendere atto" di avvenimenti reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione ed espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono l'Ordine Nuovo ed ecco come si "formò" l'idea dell'Ordine Nuovo. Il compagno Tasca non collaborò per nulla a questa formazione, a questa elaborazione; l'Ordine Nuovo sviluppò la propria idea all'infuori della sua volontà e del suo "contributo" alla rivoluzione. In ciò io trovo la spiegazione del suo atteggiamento odierno e del "tono" della sua polemica; egli non ha lavorato faticosamente per raggiungere la "sua concezione" e non mi meraviglia che essa sia nata sconciamente, perché non amata, e non mi meraviglia che egli con tanta rozzezza abbia trattato l'argomento e con tanta sconsideratezza e assenza di disciplina interiore sia entrato nell'azione, per ridarle quel carattere ufficiale che aveva sostenuto e verbalizzato un anno prima.

II

Nella puntata precedente ho cercato di determinare l'origine della posizione mentale del compagno Tasca verso il programma dell'Ordine Nuovo, programma che si era venuto organizzando, conseguentemente alla esperienza reale da noi fatta delle necessità spirituali e pratiche della classe operaia, interne al problema centrale dei Consigli di fabbrica. Poiché il compagno Tasca non ha partecipato a questa esperienza, poiché egli era anzi ostile a che essa si facesse, il problema dei Consigli di fabbrica gli è sfuggito nei suoi termini storici reali e nello sviluppo organico, che pur attraverso qualche esitazione e qualche comprensibile sbaglio, esso era venuto assumendo nella trattazione svolta da me, da Togliatti e dagli altri compagni che vollero aiutarci: per il Tasca il problema dei Consigli di fabbrica fu semplicemente un problema nel senso aritmetico della parola, fu il problema del come organizzare immediatamente tutta la classe degli operai e contadini italiani. In una delle sue puntate polemiche il Tasca scrive di considerare in uno stesso piano il Partito comunista, il sindacato e il Consiglio di fabbrica; in un altro punto dimostra di non aver capito il significato dell'attributo "volontario" che l'Ordine Nuovo dà alle organizzazioni di Partito e di sindacato a differenza del Consiglio di fabbrica, che viene assunto come una forma di associazione "storica", del tipo che oggi può essere paragonato solo con quello delle Stato borghese. Seconde la concezione svolta nell'Ordine Nuovo, concezione che, per essere tale, era organizzata intorno a un'idea, all'idea di libertà (e concretamente, nel piano della creazione storica attuale, intorno all'ipotesi di una azione autonoma rivoluzionaria della classe operaia), il Consiglio di fabbrica è un istituto di carattere "pubblico", mentre il Partito e il sindacato sono associazioni di carattere "privato". Nel Consiglio di fabbrica l'operaio entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo che il cittadino entra a far parte delle Stato democratico parlamentare. Nel Partito e nel sindacato l'operaio entra a far parte "volontariamente", firmando un impegno scritto, firmando, un "contratto" che egli può stracciare in ogni momento: il Partito e il sindacato, per questo loro carattere di "volontarietà", per questo loro carattere "contrattualista", non possono essere in nessun modo confusi col Consiglio, istituto rappresentativo, che si sviluppa non aritmeticamente ma morfologicamente [cioè assumendo via via funzioni nuove, perché, quanto a numero, comprende fin dall'inizio tutti gli operai] e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell'apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto. Le sviluppo delle forme superiori dell'organizzazione dei Consigli non era perciò dall'Ordine Nuovo indicato con la terminologia politica propria delle società divise in classi, ma con accenni all'organizzazione industriale. Il sistema dei Consigli non può, secondo la concezione svolta dall'Ordine Nuovo, esser espresso con la parola "federazione" o di simile significato, ma può essere rappresentato solo trasportando a tutto un centro industriale il complesso di rapporti industriali che in una fabbrica lega una squadra di lavorazione a un'altra squadra, un reparto a un altro reparto. L'esempio di Torino era per noi plastico, e perciò in un articolo Torino fu assunta come fucina storica della rivoluzione comunista italiana. In una fabbrica, gli operai sono produttori in quanto collaborano, ordinati in un modo determinato esattamente dalla tecnica industriale che (in un certo senso) è indipendente dal modo di appropriazione dei valori prodotti, alla preparazione dell'oggetto fabbricato. Tutti gli operai di una fabbrica di automobili, siano essi metallurgici, siano muratori, elettricisti, falegnami, ecc., assumono il carattere e la funzione di produttori in quanto, sono ugualmente necessari e indispensabili alla fabbricazione dell'automobile; in quanto, ordinati industrialmente, costituiscono un organismo storicamente necessario e assolutamente inscindibile. Torino si è storicamente sviluppata, come città, in questo modo: per il trasporto della capitale a Firenze e a Roma, e per il fatto che lo Stato italiano si è costituito inizialmente come dilatazione dello State piemontese, Torino è stata privata della classe piccolo-borghese, i cui elementi dettero il personale al nuovo apparecchio italiano. Ma il trasporto della capitale e questo depauperamento subito di un elemento caratteristico delle città moderne, non determinarono un decadimento della città; essa anzi riprese a svilupparsi e il nuovo sviluppo avvenne organicamente a mano a mano che si sviluppava l'industria meccanica, il sistema di fabbriche della Fiat. Torino aveva dato al nuovo Stato la sua classe di intellettuali piccolo-borghesi; lo sviluppo dell'economia capitalistica, rovinando la piccola industria e l'artigianato della nazione italiana, fece affluire a Torino una massa proletaria compatta, che dette alla città la sua figura attuale, forse una delle più originali di tutta Europa. La città assume e mantiene una configurazione accentrata e organizzata naturalmente intorno a una industria che "governa" tutto il movimento urbano e ne regola gli sbocchi: Torino è la città dell'automobile, allo stesso modo che il Vercellese è l'organismo economico caratterizzato dal riso, il Caucaso dal petrolio, il Galles del Sud dal carbone, ecc. Come in una fabbrica gli operai assumono, una figura, ordinandosi per la produzione di un determinato oggetto che unisce e organizza lavoratori del metallo e del legno, muratori, elettricisti ecc., cosi nella città la classe proletaria assume una figura dall'industria prevalente, che ordina e governa per la sua esistenza tutto il complesso urbano. Cosi, su scala nazionale, un popolo assume figura dalla sua esportazione, dal contributo reale che da alla vita economica del mondo.

Il compagno Tasca, lettore molto disattento dell'Ordine Nuovo, non ha afferrato nulla di questo svolgimento teorico, che del resto non era che una traduzione per la realtà storica italiana, delle concezioni svolte dal compagno Lenin in alcuni scritti pubblicati dallo stesso Ordine Nuovo, e delle concezioni del teorico americano dell'associazione sindacalista rivoluzionaria degli IWW ,(2) il marxista Daniel De Leon. Il compagno Tasca infatti, a un certo punto, interpreta in un senso meramente "commerciale" e contabile la rappresentazione dei complessi economici di produzione espressa con le parole "riso", "legno", "zolfo", ecc.; in un altro punto si domanda quale rapporto mai debba intercorrere tra i Consigli; in un terzo punto trova nella concezione proudhoniana dell'officina che distrugge il governo l'origine dell'idea svolta nell'Ordine Nuovo, quantunque nello stesso numero del 5 giugno, in cui erano stampati l'articolo Il Consiglio di fabbrica e il commento al Congresso camerale, fosse riprodotto anche un estratto dello scritto sulla Comune parigina, dove Marx esplicitamente accenna al carattere industriale della società comunista dei produttori. In questa opera del Marx, il De Leon e Lenin hanno trovato i motivi fondamentali delle loro concezioni; su questi elementi erano stati preparati ed elaborati gli articoli dell'Ordine Nuovo, che, ancora una volta e precisamente per il numero dal quale ebbe origine la polemica, il compagno Tasca dimostrò di leggere molto superficialmente e senza nessuna intelligenza della sostanza ideale e storica.

Non voglio ripetere, per i lettori di questa polemica, tutti gli argomenti già svolti per sviluppare l'idea della libertà operaia che si attua inizialmente nel Consiglio di fabbrica. Ho voluto solo accennare ad alcuni motivi fondamentali per dimostrare come sia sfuggito al compagno Tasca l'intimo processo di sviluppo del programma dell'Ordine Nuovo. In una appendice che seguirà a questi due brevi articoli,(3) analizzerò alcuni punti dell'esposizione fatta da Tasca, in quanto mi pare opportuno chiarirli e dimostrare la loro inconsistenza. Un punto bisogna però subito chiarire, laddove il Tasca parlando del capitale finanziario scrive che il capitale "spicca il volo", si stacca dalla produzione e si libra... Tutto questo pasticcio dello spiccare il volo e del librarsi della... carta moneta non ha nessun richiamo con lo svolgimento della teoria dei Consigli di fabbrica; noi abbiamo rilevato che la persona del capitalista si è staccata dal mondo della produzione, non il capitale, sia pure esso finanziario; abbiamo rilevato che la fabbrica non è più governata dalla persona del proprietario, ma dalla banca attraverso una burocrazia industriale che tende a disinteressarsi della produzione allo stesso modo che il funzionarie statale si disinteressa dell'amministrazione pubblica. Questo spunto ci servì per un'analisi storica dei nuovi rapporti gerarchici che sono venuti stabilendosi nella fabbrica, e per fissare l'avvento di una delle più importanti condizioni storiche dell'autonomia industriale della classe operaia, la cui organizzazione di fabbrica tende a incorporarsi il potere di iniziativa sulla produzione. L'affare del "volo" e del "libramento" è una fantasia alquanto infelice del compagno Tasca, che, mentre si riferisce a una sua recensione del libro di Arturo Labriola sul Capitalismo pubblicata dal Corriere Universitario, per dimostrare di essersi "occupato" della questione del capitale finanziario (da notare che il Labriola sostiene appunto una tesi opposta a quella dello Hilferding, che divenne poi la tesi dei bolscevichi), nei fatti dimostra di non averne compreso assolutamente nulla e di aver costruito un castelluccio su vaghe reminiscenze e su vuote parole.

La polemica ha servito a dimostrare che gli appunti mossi da me alla relazione Tasca erano fondatissimi: il Tasca aveva una superficiale infarinatura sul problema dei Consigli, e aveva solo una smania invincibile di tirar fuori una "sua" concezione, di iniziare una "sua" azione, di aprire una nuova era nel movimento sindacale.

Il commento al Congresso camerale e al fatto dell'intervento del compagno Tasca per determinare il voto di una mozione con carattere esecutivo, era stato dettato dalla volontà di mantenere integralmente il programma della rassegna. I Consigli di fabbrica hanno la loro legge in se stessi, non possono e non debbono accettare la legislazione degli organismi sindacali che appunto essi hanno il fine immediato di rinnovare fondamentalmente. Allo stesso modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole che le rappresentanze operaie siano emanazione diretta delle masse e siano legate alla massa da un mandato imperativo: l'intervento a un congresso operaio del compagno Tasca, come relatore, senza mandato di nessuno, su un problema che interessa tutta la massa operaia, e la cui soluzione imperativa avrebbe dovuto legare la massa, era talmente in contrasto con l'indirizzo ideale dell'Ordine Nuovo, che il commento, nella sua forma aspra, era perfettamente giustificato ed era assolutamente doveroso."

La piattaforma rivoluzionaria de L'Ordine Nuovo opera il proprio collaudo nel 1920.

A Torino gli industriali nel corso delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro rifiutano la richiesta degli aumenti salariali e, allo sciopero bianco degli operai rispondono con la serrata. I metallurgici reagiscono occupando le fabbriche nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova. Il movimento d'occupazione viene tenuto nei limiti delle officine e fallisce.

Gramsci, Togliatti e Terracini conducono un'intensa campagna che culmina a Livorno il 21 gennaio 1921 con la fondazione del Partito Comunista d'Italia.

Cessate le pubblicazioni come rivista il 24 dicembre 1920, L'Ordine Nuovo diventa il 1º gennaio 1921 quotidiano; il 21 gennaio, con la formazione del Partito Comunista d'Italia a Livorno, diventa organo del nuovo partito «secondo la linea tracciata dal Congresso dell'Internazionale e secondo la tradizione della classe operaia torinese».

Nel 1922 sospende le pubblicazioni per riprenderle nel marzo 1924 pubblicando in modo discontinuo gli ultimi otto numeri fino al marzo 1925.
   

* La Rivoluzione liberale: seconda rivista di cultura politica di Piero Gobetti, uscita nel 1922 e terminata nel 1925.

Piero Gobetti, cessate le pubblicazioni della rivista Energie Nove, tra il 1920 e il 1921, sotto l'influenza di L'Ordine Nuovo (al quale collaborò, dietro invito di Antonio Gramsci, come critico teatrale) e delle lotte operaie di quel periodo, maturò la propria linea politica, staccata decisamente dal modello di Gaetano Salvemini e improntata all'"operaismo liberale" che animerà il nuovo settimanale La Rivoluzione liberale.

L'esordio programmatico

La nuova rivista, che esce il 12 febbraio 1922 a Torino, riporta sul primo numero un trafiletto intitolato Ai lettori che spiega come formare una nuova classe politica capace di guidare le forze popolari, operaie e contadine.
   
«La Rivoluzione liberale, continuando e ampliando un movimento iniziato da quattro anni con la rivista Energie Nove, si propone di venire formando una classe politica che abbia chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato.

Lo studio che pubblichiamo qui accanto (il Manifesto) indica le linee generali del nostro lavoro e gli argomenti che intendiamo approfondire:
1. Revisione della nostra formazione politica nel Risorgimento.
2. Storia dell'Italia moderna dopo il 1870.
3. Esame delle forze politiche e dei partiti e del loro sviluppo.
4. Studio della genesi delle questioni politiche attuali.
5. Storia della politica internazionale esaminata on ogni nazione da un collaboratore fisso, con criteri organici.
6. Studio sugli uomini e la cultura politica. »
    (La Rivoluzione liberale, A. I, n. 1)

Coerente con le premesse del Manifesto e il sottotitolo "Rivista storica settimanale di politica", questo secondo periodico di Gobetti non si occupa di letteratura ma solamente di ricerche storiche e di politica militante.

Sui primi numeri appaiono articoli riguardanti problemi di economia che vengono affrontati da Luigi Einaudi, G. De Ruggiero e A. Crespi. Sempre nei primi numeri, G. Stolfi e B. Giovenale affrontano questioni agricole, mentre Gobetti traccia la storia della Rivoluzione russa e Salvemini informa su come si evolve, in senso democratico, il Partito Popolare di don Sturzo.
Il dibattito politico [modifica]

Il 28 maggio 1922 esce un numero speciale dedicato al fascismo.

In settembre, sulla rivista si apre un ampio dibattito in seguito alla lettera di Giuseppe Prezzolini per una Società degli Apoti (La Rivoluzione liberale n. 28, 28 settembre 1922). In una fase politica in cui le libertà democratiche e civili vanno precipitando (siamo a un mese dalla marcia su Roma), il vociano Prezzolini scrive una lettera aperta avanzando l'ipotesi di una Società degli Apoti, cioè di individui liberi, raggruppati tra loro, che non parteggiano, che vogliono differenziarsi dalla vita e dalla malavita pubblica contemporanea per poter valutare l'attualità politica e la cronaca contingente con chiarezza e imparzialità.

A questa lettera risponde Gobetti (n. 31, 25 ottobre 1922) con una lucida analisi ad appena tre giorni dalla presa del potere di Mussolini:
 
«Di fronte a un fascismo che con l'abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione, formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per difendere la rivoluzione". »
    (La Rivoluzione liberale, A. I, n. 31)

Da questo numero nella tematica della rivista la battaglia contro il fascismo diventa primaria.

Negli anni successivi, vantando contributi illustri (da Don Sturzo a Lelio Basso, per citarne alcuni), la rivista ospitò approfondimenti di notevole spessore.

Dopo il delitto Matteotti

Dopo il delitto Matteotti e la Secessione dell'Aventino, Gobetti deve amaramente denunciare il fallimento del fronte parlamentare antifascista con un articolo comparso il 21 ottobre 1924 dal titolo Processo al trasformismo.

Rimane intatta invece la fiducia di Gobetti nell'autonomia degli operai, nelle forze del "proletariato moderno" organizzate al Nord nel triangolo Genova-Torino-Milano, fiducia che lo stesso dichiara nell'articolo dal titolo Lettera da Parigi, pubblicata sulla rivista il 18 ottobre 1925, numero sequestrato proprio a causa del suddetto articolo.

Durante tutto il 1925 La Rivoluzione liberale viene continuamente censurata per la sua tenace opposizione al regime e l'8 novembre 1925, su diffida del prefetto di Torino e dietro precisi ordini di Benito Mussolini è costretta a sospendere le pubblicazioni.
   

* Il Baretti: rivista fondata da Piero Gobetti, esce come quindicinale di letteratura il 23 dicembre 1924, e termina nel dicembre del 1928.

Quando era uscita la seconda rivista di Gobetti "La Rivoluzione liberale" essa aveva annunciato un supplemento letterario, "Il Baretti" che viene attuato solamente nel 1924 dopo che erano stati annunciati i suoi compiti ai lettori nel numero del 15 novembre dello stesso anno.

Uscito il 23 dicembre 1924 "Il Baretti" convive con "La Rivoluzione liberale" per circa un anno, poi, soppressa quest'ultima per ordini mussoliniani e dopo la morte di Gobetti, essa prosegue mensilmente fino al dicembre del 1928.

Con il titolo la rivista rende omaggio a Giuseppe Baretti, letterato italiano del settecento, e tende così a mettere in evidenza l'impostazione non enfatica dell'idea di letteratura che vi si voleva esprimere, in contrapposizione all'enfasi dei letterati del regime.

Il gruppo redazionale del "Baretti" era formato da alcuni collaboratori della "Rivoluzione liberale" e da alcuni personaggi noti, come Augusto Monti, Umberto Morra, Leonello Vincenti ai quali si aggiunsero, in un secondo tempo, Leone Ginzburg, Giacomo Debenedetti, Natalino Sapegno, Mario Fubini che, pur assediati dalla censura, continuano ad attenersi alla lezione "intransigente" di Gobetti, la cui voce diventa testamento etico da custodire dopo la morte.

Essa accolse, fin dai primi numeri, collaboratori stranieri e si occupò di autori sconosciuti in Italia.

Dal secondo numero divenne assiduo collaboratore Eugenio Montale e dalla metà del 1925 lasciò ampio spazio al dibattito di Benedetto Croce sull'idealismo e sull'estetica.

Sul numero del 1 gennaio 1926 viene riportata la diffida presentata a Gobetti dalla questura di Torino a "continuare qualsiasi attività editoriale" e un articolo della redazione avvisa i lettori del passaggio della rivista dalla direzione di Gobetti ad una nuova società anonima "Le Edizioni del Baretti".

Dopo la morte di Gobetti il periodico continuò ad essere pubblicato fino al 1928 e quindi fu chiuso dalla censura fascista.
   

* Il Caffè: settimanale (1924-1925) fondato da Riccardo Bauer e Ferruccio Parri.

Riviste dell'era fascista

I periodici pubblicati nel fascismo rivelano tre fondamentali orientamenti: l'appoggio al regime; l'astensionismo politico e il ripiegamento nella pratica letteraria; la contrapposizione alla dittatura con la lotta clandestina.
   
* Gerarchia: rivista ufficiale del fascismo. A fondarla, nel 1922, fu lo stesso Benito Mussolini. La cerchia dei collaboratori della rivista è sempre stata "a numero chiuso": i suoi componenti furono sempre ossequenti alle idee mussoliniane. Tra costoro si annoveravano lo storico Gioacchino Volpe, il pittore e poeta novecentista Ardengo Soffici, lo storico e giurista Arrigo Solmi, la giornalista Margherita Sarfatti, il pubblicista Franco Ciarlantini, il critico letterario Lorenzo Giusso.

Nel numero di inaugurazione del 25 gennaio 1922, Benito Mussolini - nell'articolo Breve preludio - spiega il titolo della rivista:

Breve preludio

"GERARCHIA vuol dire scala di valori umani, responsabilità, doveri, disciplina; significa prendere "una posizione di battaglia contro tutto ciò che tende - nello spirito e nella vita - ad abbassare e distruggere le necessarie gerarchie", funzionali a qualsiasi sistema. Il FASCISMO rispetta la tradizione ma non può arrestarsi di fronte a gerarchie in declino che, avendo esaurito il loro ciclo storico, sono ormai incapaci di esercitare la loro funzione dirigente. In Italia le gerarchie al tramonto devono cedere il comando alle nuove gerarchie ascendenti nate dal fascismo. L'importante è dunque innestare "nel tronco di talune gerarchie elementi nuovi di vita"

Nel numero del febbraio 1922 di "Gerarchia" Mussolini scrisse un lungo saggio - "Da che parte va il mondo" - nel quale appare angustiato da un dubbio amletico, sintomatico dell'indeterminatezza programmatica del movimento fascista da poco diventato Partito Nazionale Fascista. In questo articolo egli esprime la persuasione che la sterzata verso destra costituisca in Europa un orientamento destinato a durare e a distinguere il nuovo secolo da quello passato. In questo scenario il fascismo sarà lo strumento della restaurazione dell'ordine e della disciplina. Esso dovrà "innestare nel tronco di talune gerarchie elementi nuovi di vita;... preparare l'avvento di nuove gerarchie" ("Gerarchia", gennaio '22). Il messaggio della rivista era che il rinnovamento della società italiana doveva attingere al tradizionalismo antidemocratico verso il quale il fascismo veniva riorientato, rispetto al suo sostanziale e originario sovversivismo, per diventare lo strumento attraverso il quale Mussolini poteva emergere come vincitore dal confronto con la tendenza rivoluzionaria.

Crea così il mito della propria persona, strettamente legato con il mito e il destino del fascismo, e fa nascere quel mussolinismo che assume connotati differenti nella sfera delle immagini, con i nomi dapprima politici di capo del governo, poi di duce del fascismo e in seguito mitici come lUomo Nuovo, lUomo della Provvidenza.

Nel numero di gennaio dell'anno successivo, nell'articolo "Tempo secondo", Mussolini ama definirsi, in modo rassicurante, come capo del governo, colui che ha saputo conquistare lo Stato al giusto momento storico, non per distruggerlo ma per rinnovarlo e fascistizzarlo.

Ma tra il 1925 e il 1930, quando il fascismo cessa di essere elaborazione ideologica e si cristallizza come dovere e credo dell'obbedienza "cieca e assoluta", fascismo e mussolinismo diventano una mistica. E mentre l'ideologia si trascina confusamente, il fascismo di "Gerarchia" tende, appunto, ad esiti mistici per propagandare grandi sogni di grandezza e fare la storia. Mussolini è il Capo e, su "Gerarchia", viene esaltato come l' Uomo della Provvidenza, l' Uomo Nuovo, il Demiurgo fascista, il Principe della Giovinezza, il Duce o solamente DUX. I gesti del Duce vengono definiti "ispirati" e le sue frasi oracolari vengono venerate fino a professare il culto dogmatico della sua Parola come unica fonte di verità, di cultura e di storia.

Nel 1939 viene pubblicato su "Gerarchia" un articolo di Niccolò Giani, docente universitario, direttore e fondatore nel 1930 della Scuola di mistica fascista (la scuola organizza corsi di mussolinismo imperiale e lecturae Ducis) dal titolo "Perché siamo dei mistici" che si basa completamente sulla logica irrazionale del credo quia absurdum:

Perché siamo dei mistici

"Non era assurda per i tiepidi e per i pavidi la marcia su Roma? Per i pessimisti e per i ragionatori non sono state ugualmente assurde la vittoria contro i 52 Stati sanzionisti e la conquista dell'Etiopia? Non era ugualmente assurdo per i miopi, il trionfo della nuova Spagna? (...). A questi assurdi Mussolini ci ha abituati da vent'anni, di questi assurdi, oggi, è imbevuta l'anima di noi tutti (...). La Storia, quella con l'esse maiuscola, è stata e sarà sempre un assurdo: l'assurdo dello spirito e della volontà che piega e vince la materia; cioè mistica. Fascismo = Spirito = Mistica = Combattimento = Vittoria perché credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, marciare e vincere non si può se non si combatte".

In questo modo "Gerarchia", che era nata come rivista di "pensiero fascista", dimostra - a detta di molti - l'incongruenza del suo direttore e dei suoi collaboratori.
   

* Critica fascista:  rivista  fondata il 15 giugno 1923 dall'intellettuale di provenienza futurista Giuseppe Bottai, per approfondire ed arricchire il dibattito intellettuale all'interno del movimento fascista e per sviluppare continuità e spessore dopo la fase della conquista del potere, stimolando la formazione di una nuova classe dirigente. Il nome della rivista allude alla rivista "Critica sociale".

Il periodico, che ebbe come co-direttore Gherardo Casini, uscì senza interruzione per vent'anni, da principio affiancato (1924) dalla rivista Spettatore italiano, sempre diretta da Bottai ma che ebbe una durata di soli dodici numeri, e da Primato (dal 1940 al 1943).

Le finalità della rivista vengono dichiarate nell'editoriale del primo numero e nell'appello ai giovani, che viene stampato sotto l'articolo di fondo in un riquadro a grandi caratteri:
   
«Proponimenti

"Nostro compito e méta del nostro cammino è creare quella CLASSE NUOVA DI DIRIGENTI di cui il fascismo ha urgente bisogno per sostituire l'antica. Nella quale sostituzione noi ravvisiamo il problema centrale del fascismo in questa sua fase di trasformazione: ci piace credere che la seconda ondata abbia a essere finalmente l'avvento, sopra gli uomini che hanno esaurita la loro funzione, degli uomini adatti a fare del fascismo il centro sensibile della vita nazionale.
Noi contiamo molto sul contributo dei GIOVANI, sciupati nell'ingranaggio dell'organizzazione (...). Questa RIVISTA, nasce sopra tutto per INCORAGGIARE e ANIMARE le fresche energie, che sono una particolare ricchezza del FASCISMO, e che sarebbe sommo delitto lasciare intristire, anzi tempo, nei miasmi della demagogia variopinta. C'è nella inesperienza di questi giovani qualche cosa che bisogna cogliere, così come c'è qualcosa da recidere nell'esperienza di coloro che hanno portato nel Fascismo il peso di torbide nostalgie? Opera giovanile vuol essere questa: i giovani ci aiutino e ci confortino"»
    (Giuseppe Bottai)

La rivista, che avrà durata ventennale, ha una fase ascendente dal 1923 al 1932 ed una discendente nel successivo decennio. Si caratterizza per l'affrontare molte questioni in termini duramente polemici, come il rapporto tra lo Stato ed il partito e la denuncia alla violenza esercitata dai ras provinciali.

L'articolo Fascismo e paese di Massimo Rocca esce sul primo numero del 15 settembre 1923 con un dibattito sul revisionismo che viene ripreso nell'articolo Esame di coscienza del 1º ottobre 1923 e in Dichiarazioni sul revisionismo del 17 luglio 1924. In questi articoli viene precisato che il revisionismo non è "una questione di pulizia o di polizia interna del Partito", quanto di ordinamenti e idee.

Dal 1927 al 1932 Critica fascista affronta il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa in vista del Concordato e quello dell'importanza della Carta del lavoro che rappresenta, a detta dello stesso Bottai, un superamento dei "Diritti dell'uomo" della Rivoluzione Francese.

Sul numero del 1º giugno 1928, nell'editoriale Un regime di giovani, inizia la polemica sulla importanza e sulla funzione da attribuire ai giovani che ha più forte riscontro nell'articolo di Bottai, Giovani e più giovani del 1º gennaio 1930 che si diffonderà su tutti i giornali dell'epoca:
 
«Dall'articolo di Bottai Giovani e più giovani "A due riprese, nel 1922 e nel 1924, gli anziani e i vecchi si sono rovesciati nel Partito. Ora, salvo onorevoli eccezioni, essi vi sono vissuti non per pensare, ma o senza pensare o addirittura col fermo proposito di non pensare. Invece i giovani vengono nel Partito non solo per pensare, ma con la volontà di ripensare tutto daccapo". »
    (Giuseppe Bottai, Critica fascista)

Un gruppo di giornalisti e scrittori già collaboratori di "Critica fascista" che ha trovato occupazione al Ministero dell'Educazione Nazionale : Ugo d'Andrea, Agostino Nasto, Mario Sertoli, Tommaso Napolitano.

Nel 1933 Bottai, a causa dell'ostilità degli industriali, viene retrocesso da ministro delle Corporazioni a governatore di Roma e "Critica fascista" inizia a declinare ed a perdere il suo mordente critico-politico.

In questo secondo periodo prendono spazio sulla rivista articoli sull'umanesimo moderno, gli interventi a favore del patrimonio artistico e la valutazione equilibrata degli ermetici che vengono accusati da G. Villaroel di essere antifascisti.[senza fonte]

Nella rubrica Stoccate il giovane Berto Ricci prende le difese dell'arte moderna italiana che era stata attaccata da più parti e sostiene le idee di Bottai, che nel frattempo aveva istituito il Premio di pittura Bergamo dove erano stati premiati Filippo De Pisis, Mario Mafai, Renato Guttuso, decisamente contrarie a qualsiasi forma di arte di Stato.[3]

Nel numero del 15 agosto 1939 appare su Critica fascista l'annuncio di una nuova rivista che uscirà con il nome di Primato, di carattere maggiormente culturale.

Critica fascista, affiancata dalla rivista Primato, continuerà a pubblicare regolarmente i suoi numeri fino al 25 luglio 1943, caduta del regime.
   
* Le Grandi Firme: quindicinale di novelle fondato e diretto da Pitigrilli nel 1924 e chiuso nel 1939.

Prima serie

La pubblicazione nasce nel 1924 e inizialmente riporta in copertina solo il nome, scritto come fosse tracciato a mano, senza la grafica delle figure femminili disegnate da Boccasile, divenute celebri poi come "signorine grandi firme". Pitigrilli ne era il direttore; una sorta di garanzia sulla qualità dei contenuti. La prima serie aveva un formato "rivista", copertina molto semplice, senza illustrazioni e portava il sottotitolo "Quindicinale di novelle dei massimi scrittori, diretto da Pitigrilli". Le pagine erano di regola tra le 48 e le 56. Come promettevano il titolo e il sottotitolo, ospitava, oltre a rubriche a cura della redazione, novelle e racconti di scrittori all'epoca noti, italiani e stranieri (soprattutto francesi).

La selezione delle opere da pubblicare era curata dallo stesso direttore che, nel numero 10 invita i lettori a non inviare manoscritti alla redazione, segno della grande popolarità della rivista e dell'aspirazione di molti a pubblicarvi.

Il genere letterario più presente e caratteristico fu quello del romanzo umoristico (spesso a puntate) e della novella piccante ed erotica.

Nonostante (o forse per merito) dell'alone scandalistico che il genere piccante le procurava, grazie alla capacità promozionale di Pitigrilli e all'accorta selezione degli autori, Le Grandi Firme divenne «la rivista alla moda della buona borghesia italiana[2]».

Seconda serie

La seconda serie inizia il 22 aprile 1937 e termina il 6 ottobre 1938. È la serie più famosa grazie alle copertine, illustrate da Gino Boccasile e talvolta da Rino Albertarelli. A parte il direttore e la testata, cambia praticamente tutto della testata: stampa in rotocalco a colori, prezzo ridotto a un terzo (50 centesimi), nuova linea grafica, cambiamento di formato e diminuzione di numero di pagine.

La proprietà è passata ad una società del gruppo Mondadori e il sottotitolo diventa: "Settimanale di novelle dei massimi scrittori diretto da Pitigrilli".

In questo periodo il tono si fa sempre più leggero e ammiccante, anche grazie alle procaci ragazze in abiti succinti e attillati che animano le copertine. Si tratta delle Signorine Grandi Firme, versione italiana (e mediterranea per tratti e colori) delle pin up statunitensi.

È in quest'epoca, nel 1938, che si svolge la prima edizione del concorso Signorina Grandi Firme, uno dei primi concorsi di bellezza italiani. Ne fu vincitrice Barbara Nardi, in seguito attrice di teatro e di cinema.

Il direttore sarà vittima delle leggi razziali fasciste dell'autunno del 1938 e dovrà abbandonare l'Italia. Ma già nel settembre del 1937 il suo nome scompare dal sottotitolo, nell'aprile seguente anche dalla copertina; poi la direzione viene assunta da Cesare Zavattini.

Terza serie

Dopo il primo periodo della nuova direzione, Le Grandi Firme diviene il sottotitolo di una "nuova" rivista, Il Milione, che mantiene la linea grafica, la redazione e la direzione del precedente. L'esperimento non ha una lunga vita: dopo solo 43 numeri, nel luglio del 1939, chiude i battenti. Mondadori aveva messo in cantiere un nuovo periodico in rotocalco Grazia e la testata Le Grandi Firme - Il Milione dovette cedere alla nuova creatura della casa editrice. Nell'ultimo numero della rivista, uno speciale a soli due giorni dal precedente, la redazione dà l'addio ai lettori, anzi l'arrivederci sul nuovo periodico.
  
 
* Il Bargello: rivista fondata da Alessandro Pavolini nel 1929.
   

* Pégaso: rivista di lettere e arte fondata nel 1929 da Ugo Ojetti che, insieme alla rivista Pan (fondata sempre da Ojetti nel 1933), professa un forte ossequio al regime fascista e ne condivide gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine da instaurare nella società italiana.

La rivista, edita a Firenze da Le Monnier ed in seguito, dal 1932 al 1933, a Milano-Firenze da Treves-Treccani-Tumminelli, riporta nel primo numero del gennaio 1929 una lettera d'apertura indirizzata a Sua Eccellenza Benito Mussolini, dove Ojetti dimostra di preoccuparsi dello stile fascista che deve nascere in arte e in letteratura.

Lettera d'apertura

"Contro la persistente babele architettonica degli edifici e dei monumenti, almeno le fabbriche sulle quali il Regime mura i fasci littori dovranno essere riconoscibili anche tra un secolo. Quanto alla pittura, converrà che i giovani rappresentino in durevole forma d'arte le cronache illustrative dei fasti e delle opere del regime. Nel campo letterario, il Capo, nato scrittore, potrà intervenire statalmente con scuole bene ordinate e biblioteche comode e ricche, sviluppando quelle organizzazioni parallele capaci di salvaguardare e interpretare la cultura classica, secondo lo spirito della riforma gentiliana."

La rivista appare subito specializzata nell'ambito della letteratura italiana moderna e contemporanea con diversi saggi di Diego Valeri e Giuseppe De Robertis sull'Ottocento-Novecento e brani di nuovi articoli da Inverno malato di Alberto Moravia, da Avventura d'estate di Corrado Alvaro, dal romanzo L'Andreana, pubblicato a puntate, di Marino Moretti a opere di Massimo Bontempelli e Guido Piovene.

In "Pegaso", come in seguito nella rivista "Pan", viene professato un generico buon gusto nelle arti nazionali tradizionali, ma vengono rifiutate tutte le forme sperimentali e d'avanguardia dell'arte novecentesca, dal futurismo, all'impressionismo, alla psicoanalisi.

Emilio Cecchi, in un articolo del giugno 1929 dal titolo Argomenti-Psicoanalisi, si dichiara diffidente del rapporto letteratura-psicoanalisi nella paura che la conoscenza psicoanalitica possa portare "pericolosamente a sovvertire strutture e ad allineare difese interne".

La rivista terminerà le sue uscite nel 1933.
   

* L'Universale: rivista dei "GUF" (Gruppo Universitario Fascista) fondata nel 1931 da Berto Ricci e terminata nel 1935. L'Universale, fondata nel 1931 da Berto Ricci, fu il primo tra i periodici giovanili dei "GUF" (i gruppi universitari fascisti fondati nel 1927) che, come li definisce la rivista gentiliana "Educazione fascista", sono "fogli d'avanguardia nati dallo spirito della rivoluzione".

Nel numero d'avvio de "L'Universale" del 1º gennaio 1931, Berto Ricci (nato a Firenze nel 1905 e morto sul fronte libico nel 1941) richiama in modo energico gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, ad elaborare il fascismo universale:

"Avviso. Fondiamo questo foglio con la volontà di agire sulla storia (...). Non ci sentiamo continuatori di nessun vivo: noi s'è imparato a scrivere da Niccolò Machiavelli e dal popolo d'Oltrarno, che sono dunque i nostri più diretti maestri. Chi sognasse d'averci creato, si disilluda: gli uomini li crea Iddio, e nessun compilatore di Lacerba, né Accademico della Farnesina, ha potenza di rubargli il mestiere. La libreria degli ultimi trent'anni ispira a noi rispetto e gratitudine per certi nomi che abbiam cari, ma anche una fiera fede di superarla: superare cioè l'impressionismo, e qualunque avanguardismo vecchio (...). Crediamo nell'assoluto politico, che è l'impero: aborriamo chi lo nomina invano. Oprano all'impero i poeti, ma cantando i campi e gli amori, non con declamazioni sul fante. E con ciò non chiediamo arte pura, impossibile separazione dalla politica; anzi vogliamo e avremo poesia civile, ma in grande, degna di questa patria."

La linea polemica dell'Universale rifiuta il falso antico, dal neoclassicismo al mito della romanità, ma anche ogni forma di regionalismo e di campanilismo.

La rivista afferma la partecipazione degli scrittori alla vita italiana e la loro "lotta ferma e serena contro il barocco, fazioso ambiente dei cerebratucoli camorristi, contro i circoletti della petulante infecondità tipo Solaria".

Il 1º gennaio 1933 "L'Universale" lancia il suo Manifesto realista nel quale nega nazionalismo, capitalismo e cattolicesimo progettando una società fondata sull'universalismo fascista, su un imperialismo popolare "non incorporato in associazioni, ma emanante dal fascismo quale sua conseguenza immediata; e dal Fascismo trasfuso a tutta la patria come coscienza d'una missione universale".

L'ultimo numero della rivista uscirà il 25 agosto 1935 con la giustificazione che allo scoppio della guerra d'Etiopia "non è più tempo di carta stampata".
  

* Il Ventuno: rivista edita a Venezia nel febbraio del 1932 come "gazzetta di poesia" da un gruppo di studenti liceali e terminata nel 1940.

Numerosi e di vario livello furono in questo periodo i periodici universitari e i fogli gufini di provincia. Tra questi ultimi "Il Ventuno" fu uno tra i più singolari.

Nato in origine come "gazzetta di poesia" da alcuni studenti liceali veneziani, "Il Ventuno" diventa nel marzo 1933 fino al gennaio del 1934 "rivista culturale del GUF" e dal novembre 1935 al maggio 1940 rivista dei Littoriali, annoverando tra i collaboratori i fratelli Francesco e Pier Maria Pasinetti, Umbro Apollonio, Renato Birolli, Enrico Emanuelli, Giuseppe Mesirca.

La linea politica della rivista si affida di preferenza alla critica di costume e a prese in giro allusive come le "favole" di Pier Maria Pasinetti che vengono ad un certo punto sospese.

In campo letterario vengono fatti conoscere giovani scrittori come Pier Antonio Quarantotti Gambini ed Elio Vittorini. Ma è soprattutto nel campo del cinema che "Il Ventuno" si propone con risultati critici e proposte politico-culturali spregiudicate ma mature.

Da tener presente che proprio nel 1932 inizia la sua attività a Venezia la Biennale del Cinema e gli articoli critici che escono sulla rivista mostrano di essere sempre attenti al rapporto tra gli aspetti formali e il significato morale, dietro i modelli di René Clair, Alexander Korda, Josef von Sternberg e Robert J. Flaherty de L'uomo di Aran.
  
* Pan:  rivista di lettere, arte e musica, fondata, da Ugo Ojetti nel 1933.

La rivista professava un sollecito ossequio a tutte le forme del regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e del fascismo universale.

Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane scrittore Guido Piovene per la Rizzoli milanese, "Pan", a confronto della rivista Pegaso che l'aveva preceduta, allarga gli orizzonti a interessi più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla storia, alle arti figurative, secondo un ideale di Humanitas completamente antinovecentesco e filofascista che venne espresso nel numero del gennaio 1934 nell'Avvertenza al lettore:

"Gli anni subito dopo la guerra, aprendo allo sguardo degli uomini un mondo senza precedenti, dettero ai più l'illusione di ricominciare la storia dal niente. Donde, la ricerca del nuovo, l'aborrimento del passato, la negazione d'ogni studio e d'ogni pietà. Ma già (...) questa prima, forse necessaria fase di riflessione davanti al mondo nuovo è trascorsa. Prima di tutti ne è uscita l'Italia per merito del Fascismo, ormai riconosciuto dovunque come regime esemplare d'ordine umano e d'intelligenza creativa (...) HUMANITAS è la parola nostra che riunisce, e dimostra uguali, la spontanea e calda umanità dell'animo e la cultura."

L'allineamento al regime di Pan passa dai contributi dell'architetto ufficiale del regime Marcello Piacentini e del compositore Ildebrando Pizzetti, alle adulazioni di Ojetti che nel suo articolo Scritti e discorsi di Benito Mussolini, febbraio 1935, ne esalta l'oratoria e altre virtù.

Per quanto riguarda la musica classicistica e antiavanguardista, Mario Labroca, esalta la "ricchezza ritmica, chiarezza, logicità di linguaggio" dello stile musicale di Strawinski.

A parte le specializzazioni differenti, le due riviste di Ojetti sono sostanzialmente simili. Pan, terminerà le pubblicazioni nel 1935.
   

* Quadrivio: settimanale diretto da Telesio Interlandi e pubblicato dal 1933 al 1941, ha ospitato gli esordi letterari di Francesco Jovine, Carlo Bernari, Alberto Moravia, Antonio Piromalli, Ennio Flaiano [1]
   

* Il Bò: foglio del "GUF" di Padova, nasce nel 1935 dall'iniziativa di Ugo Marsia e Ruggero Zangrandi per terminare nel 1937. l Bò, foglio dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF) di Padova, nasce nel 1935 dall'iniziativa di Ugo Mursia e Ruggero Zangrandi. Il nome è ripreso dal popolare soprannome della sede universitaria di Padova.

Dopo due anni, dal 1935 al 1936 di universalfascismo contro l'espansionismo rosso e quello massonico, il segretario del PNF (Partito Nazionale Fascista) decide che dal 28 gennaio "Il Bo" abbia il compito di discutere su "Corporativismo-Questioni professionali riguardanti le sezioni laureati-Assistenza".

Pertanto gli articoli del cinema e delle arti figurative passano in secondo piano per lasciare spazio a quelli sul corporativismo, il cui dibattito era condotto da Eugenio Curiel, che era diventato nuovo redattore capo de "Il Bò" nel 1937, in collaborazione con Ettore Luccini, ed era già in contatto con l'emigrazione antifascista a Parigi (in seguito divenne dirigente comunista della Resistenza e infine ucciso dai fascisti a Milano alla vigilia della Liberazione).

I suoi numerosi articoli tendono tutti a prendere le difese dei sindacati all'interno della fabbrica, mettendosi così in polemica con Ugo Spirito che, rappresentando la tendenza integralista di destra, mirava invece al primato della corporazione contro il sindacato, seguendo la linea di condotta del Fronte del Lavoro nazista.
   

* La difesa della razza: rivista diretta da Telesio Interlandi, vide il suo primo numero il 5 agosto 1938 e venne stampata, con cadenza quindicinale, fino al 1943 (l'ultimo numero, il 117 risulta uscito il 20 giugno 1943) dalla casa editrice Tumminelli di Roma. Sul primo numero si affermava:
   
«Questa rivista nasce al momento giusto. La prima fase della polemica razzista è chiusa, la scienza si è pronunciata, il Regime ha proclamato l'urgenza del problema. Si può fare qualcosa di utile chiarendo agli italiani non i termini di una dottrina, che ha trovato ormai la sua più semplice ed efficace formulazione, ma la sua irrevocabile necessità e la sua vasta portata»

Il comitato di redazione è formato da nomi ben noti: Guido Landra (l'estensore del Manifesto della razza), Lidio Cipriani (professore di antropologia a Firenze), Leone Franzì (assistente nella clinica pediatrica dell'Università di Milano), Marcello Ricci (assistente di Zoologia a Roma) e Lino Businco (assistente di Patologia all'Università di Roma), e ne è direttore quel Telesio Interlandi che, alla direzione del quotidiano fascista Il Tevere, si era distinto nelle campagne antisemite del 1934 e del 1936-37. A partire dal 20 settembre 1938 segretario di redazione della rivista fu Giorgio Almirante, che divenne successivamente leader del Msi (Movimento Sociale Italiano). Vi collaborò anche il famoso pensatore tradizionalista Julius Evola - che fu cacciato nel 1942 con l'accusa di "comunista" e "anti-razzista". Tra i collaboratori anche Indro Montanelli, Giovanni Spadolini ed Amintore Fanfani.

La rivista appare sulla scena con un poderoso sostegno finanziario e politico, accompagnata da una martellante campagna pubblicitaria. In particolare, il ministro dell'educazione Bottai, con una circolare ministeriale del 6 agosto 1938, inviata a tutti i rettori delle università e a tutti i direttori degli istituti scolastici superiori, invita in modo assai energico le dette istituzioni a contribuire alla diffusione capillare della rivista e all'assimilazione diligente dei suoi contenuti. Un fascicolo conservato nell'Archivio di Stato di Roma, ci informa che la tiratura della rivista passò dalle 140-150.000 copie dei primi numeri alle 19-20.000 copie del periodo luglio-novembre 1940 (delle quali circa 9000 distribuiti come omaggi o per abbonamenti).

Nel rilanciare l'antisemitismo in termini molto più espliciti e aggressivi di quanto non fosse mai accaduto in precedenza, La difesa della razza si affiancò ad altre testate d'assalto come Il Tevere di Telesio Interlandi, Il regime fascista di Roberto Farinacci, La vita italiana di Giovanni Preziosi, La Civiltà Cattolica dei gesuiti,e tante altre pubblicazioni minori, come Diritto razzista, Razza e civiltà e La stirpe. Ognuna di esse si specializzò su un aspetto particolare della propaganda antisemita per giungere a conclusioni convergenti. Se anche La difesa della razza non riuscì a convincere gli italiani (o la maggior parte di essi) della validità delle sue tesi estremistiche, resta comunque il fatto che essa contribuì a creare (o a consolidare) un clima di intensa diffidenza e di avversione nei confronti degli ebrei (ma anche degli africani, degli zingari, dei meticci, dei malati di mente, e di tutti coloro che venivano presentati come una minaccia per la presunta purezza della razza italiana), senza il quale il regime non avrebbe potuto agire indisturbato.Attraverso la ripetizione martellante di stereotipi razzisti ammantati di autorevolezza scientifica, i 118 numeri de la difesa della razza fornirono, se non altro, un pretesto a coloro che, tra il 1938 e il 1943, scelsero di non vedere, o di non preoccuparsi di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi.

I razzisti italiani, che contribuirono alla redazione della rivista, erano divisi in fazioni: il gruppo guidato da Nicola Pende e Sabato Visco che propugnava il "nazional-razzismo" di matrice cattolica, per molti anni la corrente principale del razzismo italiano; il gruppo diretto da Julius Evola che caldeggiava il "razzismo esoterico", il quale introduceva considerazioni di ordine storico, culturale e spirituale; infine il gruppo capeggiato da Guido Landra e Giorgio Almirante, che sosteneva il razzismo biologico "della carne e del sangue", e definiva la razza in termini puramente fisici e fisiologici. Quando era politicamente opportuno che l'Italia si mostrasse indipendente dalla Germania, Mussolini prediligeva il nazional-razzismo, che aspirava a fondere in un abbraccio ecumenico "l'idea di razza con l'idea di Roma". Quando viceversa ritenne che fosse giunta l'ora di stringere i rapporti con i nazisti, chiese assistenza ai "biologici" e agli "esoterici", entrambi affiliati ai razzisti tedeschi. Fu attorno al nucleo degli assertori del razzismo biologico che si costituì il comitato di redazione de La difesa della razza: gli esponenti cattolici furono presto allontanati, ma continuarono ad apparire sporadicamente nella redazione degli articoli pubblicati.

La rivista presenta una suddivisione per argomenti molto articolata: forme del razzismo fascista (legislazione razziale, difesa della razza nell'impero, aspetti politico-sociali), storia dell'ebraismo dall'antichità all'epoca contemporanea, argomenti "scientifici" (studiosi e teorie del razzismo, antropologia, biologia, paleontologia, geografia razziale). Completano la rivista il "questionario" (interventi dei lettori) e le recensioni librarie.

I principi e la politica del razzismo fascista sono in gran parte dedicati alle tematiche antisemite, svolte spesso con toni di accesa violenza. La difesa della razza propone diverse rappresentazioni dell'ebreo, le quali possono essere fatte risalire alle numerose sfaccettature della "maschera" ebraica. In effetti, gli articoli non aggiungevano molto ai pregiudizi correnti, limitandosi a mettere insieme un'accozzaglia di imputazioni infamanti tratte dalla secolare tradizione antigiudaica e antisemita (ad esempio l'infanticidio rituale, il deicidio, la profanazione dell'ostia, l'avvelenamento dei pozzi, ecc.). Si occupa inoltre dei problemi razziali delle colonie e svolge una propaganda razzista nel segno dell'espansionismo e dell'esaltazione della guerra e delle virtù guerriere della "superiore stirpe ariana" italiana, il tutto col sostegno assiduo di argomentazioni pseudoscientifiche. L'obiettivo era di persuadere gli italiani che il colonialismo, l'eugenetica, il divieto dei matrimoni misti e le leggi razziali fossero scelte politiche legittimate dalle Leggi di Natura.

Per difendere l'italica stirpe dalle presunte "razze inferiori" e dagli individui "degenerati", come venivano talora chiamati gli individui affetti da gravi malformazioni o da "malattie sociali" (pazzia, criminalità, prostituzione, vagabondaggio, ecc.), la rivista proponeva rimedi di tipo eugenetico. Alcuni sostenevano la necessità di rinchiudere, sterilizzare o addirittura di sopprimere tutti coloro che rischiavano di depositare le loro scorie nel patrimonio genetico della nazione. Ma da un punto di vista etico e istituzionale questo creava qualche imbarazzo, e per anni le proposte più accreditate furono quelle avanzate dagli eugenetisti cattolici capeggiati da padre Agostino Gemelli, già firmatario del Manifesto della razza. La difesa della razza accolse il progetto già delineato dal Gemelli nella relazione Religione ed eugenetica, presentata al primo Congresso Italiano di Eugenetica Sociale (Milano, 10-23 settembre 1924), nella quale, scartate misure drastiche come quella della sterilizzazione, erano state avanzate proposte come la prescrizione della castità all'interno del matrimonio o, meglio ancora, la rinuncia del matrimonio stesso da parte dei portatori delle tare ereditarie.

   
* Architrave: foglio della Gioventù Universitaria Fascista (GUF) di Bologna nato nel 1940 come mensile di politica, letteratura ed arte. Nato tardi rispetto ad altri fogli gufini, si proponeva di essere una rivista di cultura intesa come vita. Il programma di cultura-prassi, pensiero-azione venne dichiarato sul primo numero del primo anno di direzione del bottaiano Roberto Mazzetti:

Il programma editoriale, nel primo anno sotto il Mazzetti e nel 1941 sotto la direzione di Reverberi Riva e Dino Gardini, prevede numerose inchieste sull'ermetismo, sull'università, sul nuovo Umanesimo (non la cultura è lavoro ma il lavoro è cultura) e rilancia il concetto di corporativismo insieme alla interpretazione contemporanea data al fascismo come nuova civiltà del lavoro.

Roberto Mazzetti, che era un corporativista di sinistra, spera in una onesta collaborazione tra Italia fascista, Germania nazista e Russia sovietica, tesi che l'aggressione tedesca all'Unione Sovietica smentirà clamorosamente.

Nel settore del cinema gli impegni di "Architrave" sono tutti validi con gli interventi di Renzo Renzi con Pessimismo di Duvivier nel numero del 1º dicembre 1940, e quelli di Guido Aristarco, Ugo Betti, Enzo Biagi, Lamberto Sechi.

Nel campo della letteratura collaborano Agostino Bignardi, Giorgio Vigolo, Oreste Macrì, Roberto Roversi con l'articolo su Sandro Penna o della grazia poetica del 1º dicembre 1941 e Pier Paolo Pasolini con l'articolo "Umori" di Bartolini del 1º maggio 1942.

Il campo della critica dell'arte viene affidato a Virgilio Guidi, Gastone Breddo e Francesco Arcangeli.

Le sconfitte in Libia e le delusioni della guerra dell'Asse aprono gli occhi ai giovani di "Architrave" e nella primavera del 1942 la terza edizione della rivista inizia con una linea politica differente, assumendo tendenze antidittatoriali e antimussoliniane.

Viene coinvolto dalla sfiducia e dal sospetto anche il fascismo di sinistra e lo stesso bottaismo, che viene considerato un ulteriore elemento di corruzione.

Francesco Arcangeli scriverà: "I discorsi che comparivano su Critica fascista e su Primato, anche e proprio perché erano contro l'estremismo farinacciano, finivano col sembrarci più insidiosi. Eravamo, ormai, per il tanto peggio tanto meglio; e dal fascismo non speravamo più nulla".

L'ultimo numero di "Architrave" uscì nel giugno del 1943.
   

* Primato: rivista quindicinale di Lettere e arti d'Italia fondata a Roma da Giuseppe Bottai nel 1940 ed edita fino al 1943.

La rivista proseguì il dibattito sull'identità dottrinaria del fascismo, già avviato da Critica fascista, col tentativo propagandistico di coinvolgere i letterati. L'articolo programmatico di Bottai, pubblicato sul primo numero della rivista il 1º marzo 1940, invitava gli intellettuali a uscire allo scoperto e a riprendere la loro missione di interventisti della cultura.

Linee programmatiche

"Niente di strano se, fatto il confronto di quante volte la parola GUERRA prevalga, ora, sulla parola CULTURA, molti troveranno sorprendente e CORAGGIOSA, piuttosto che NORMALE e DEL TUTTO ADERENTE AL MOMENTO l'uscita di "Primato", di un rivista cioè che reca per sottotitolo lettere e arti d'Italia. Ma chi ha dimenticato o vuole dimenticare - per ricordare soltanto una giornata nella nostra storia recente - che a portare in trincea, con quell'anima e quella volontà, i combattenti del 1915, concorsero proprio le riviste e i giornali, i libri e i quaderni letterari, conservati gelosamente nello zaino e dimostrandosi necessari alla salute dello spirito quanto per la difesa del corpo furono le Sipe e i Novantuno?(...). Con questo spirito dunque, Primato chiama a raccolta le forze vive della cultura italiana; e tenta, attraverso un'azione ordinata, concorde, e, il più possibile, nobilmente popolare, di rendere concreto ed efficace il rapporto tra arte e politica, tra arte e vita; col proposito, insomma, di operare l'unione fra alta cultura e letteratura militante, fra Università e giornale, fra gabinetto scientifico e scuola d'arte, lavorando nel nome e nell'interesse della PATRIA. Questa Patria che un tempo ricorreva frequente e spontanea nelle scritture dei letterati, nelle memorie degli artisti, nelle relazioni degli scienziati, e alla quale essi dedicarono vita e speranze, 'Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra Nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, e assumete il coraggio della concordia'. Il corggio della concordia risultante di quel nutrito amore all'arte e alla Patria, e mezzo indispensabile per imporre il primato spirituale degli Italiani di Mussolini". "

I primi due anni di Primato non furono in grado di far sentire il peso sulla cultura. In questo periodo iniziale, l'esperienza del coraggio della concordia si esprime attraverso le grandi inchieste sull'ermetismo, anche se si augura una maggiore comunicabilità e una maggior chiarezza nell'arte.

Quando la Russia venne invasa dalle truppe naziste (22 giugno 1941) "Primato", ormai convinto di essere dentro la guerra, intensificò l'appello all'interventismo della cultura nel conflitto in atto. Con il termine della non belligeranza e l'entrata in guerra dell'Italia fascista a fianco della Germania hitleriana, crescono i doveri dell'intervento della cultura per contribuire alla vittoria che sarà, come dice l'articolo del 15 febbraio e del 1º marzo 1941, "immancabile".

Quando tuttavia l'assenteismo e la defezione di molti uomini di cultura, nel momento più difficile della lotta, si intensificò e le sconfitte tedesche aumentarono, mentre i bombardamenti distruggevano le città italiane, "Primato" comprese, con grande amarezza, la vuotezza sterile del fascismo universale inutilmente sognato per l'Europa e si fermò davanti all'irrimediabile crollo del regime. La rivista chiuse il 25 luglio 1943.

Riviste alternative durante il regime

La rivendicazione dei cattolici

   
* Vita e pensiero: rivista fondata il 1 dicembre 1914 a Milano dal francescano Agostino Gemelli, Ludovico Necchi e Francesco Olgiati, che si proponeva come mediatrice tra la fede e il mondo.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, il francescano Agostino Gemelli, Ludovico Necchi e Francesco Olgiati diedero vita ad un periodico allo scopo di rimuovere il disagio dei cattolici e farli discutere con rinnovata energia sui problemi politici, economici, sociali.

"Vita e pensiero" bandisce un manifesto non meno famoso di quello futurista pubblicato cinque anni prima da Marinetti, il manifesto medievalista, redatto da padre Gemelli:

Manifesto medievalista

"Ecco il nostro programma! Noi siamo MEDIEVALISTI. Mi spiego. Noi ci sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta cultura moderna così povera di contenuto, così scintillante di false ricchezze tutte esteriori, sia che essa si pavoneggi nelle prolusioni universitarie o che filantropica scenda nelle università popolari a spezzare agli umili il pane della scienza moderna. Essa è un aggregato meccanismo di parti non intimamente elaborato, messe insieme senza connessione intima, organica. Essa è un mosaico costruito da un ragazzo anormale, che non ha il senso dei colori e delle figure. Ancora. Noi abbiamo paura, paura di questa cultura moderna, non perché essa alza le sue armi contro la nostra fede, ma perché strozza le anime, coll'uccidere la spontaneità del pensiero. Ancora. Noi ci sentiamo infinitamente superiori a quelli che proclamano la grandezza della cultura moderna. Questa è infeconda e incapace di creare un solo pensiero ed al posto del pensiero ha eretto a divinità la erudizione del vocabolario e della enciclopedia."

Estremamente duro, il manifesto medievalista era motivato dalla situazione in cui versava allora la cultura cattolica, combattuta dal positivismo e dall'idealismo, aggredita dal materialismo e dal libero pensiero.

Con il ritorno al Medioevo, padre Gemelli prospettava un modello di società armoniosa nella quale la fede potesse ritornare ad animare la cultura in modo che il pensiero cristiano potesse ancora influenzare la realtà quotidiana.

Dopo la guerra del '15-'18, dal dibattito e dalle iniziative promosse dalla rivista scaturisce l'idea dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, centro di cultura, che sarà poi realizzata nel 1921.

Sul terreno politico la rivista combatte i cattolici liberali e polemizza con l'aconfessionalismo e l'interclassismo del Partito Popolare, finché non sopravviene la marcia su Roma, la caduta dello Stato costituzionale e l'avvento del fascismo.

Tra il 1921 e il 1927 il gruppo dirigente di "Vita e pensiero", di orientamento medievalista e neotomista, pur riconoscendo a Mussolini il merito di aver liquidato il liberalismo, la democrazia socialista e la massoneria, diffida del movimento politico fascista e della sua ideologia.

Nel 1929 i Patti Lateranensi stipulati tra l'Italia e la Santa sede risolvono in parte la questione cattolica, ma l'entusiasmo con cui "Vita e pensiero" può accogliere la svolta della Conciliazione, non elimina il problema aperto delle libertà civili e politiche dalle leggi "fascistissime".

Nel periodo che va dalla Conciliazione alla seconda guerra mondiale, l'Università Cattolica e le sue tre riviste (si è infatti aggiunta a "Vita e pensiero", la "Rivista di filosofia Neoscolastica" e la "Rivista internazionale di scienze sociali") s'impegnano attivamente a recuperare i ritardi accumulati dai cattolici nella moderna ricerca scientifica.

Si cerca di dare molta attenzione ai nuovi settori della psicologia sperimentale, dell'economia, degli studi giuridici per formare "una élite culturale, sociale e religiosa" in grado di promuovere "la rinascita cristiana della società".
   

* Frontespizio: rivista cattolica letteraria fondata nel 1929 a Firenze da Enrico Lucarelli e conclusasi nel 1940.

Le origini della rivista " Frontespizio", che esce il 26 maggio 1929 a Firenze, sono modeste. Nasce infatti come bollettino bibliografico della Libreria Fiorentina diretto prima da Enrico Lucatello e poi da Piero Bargellini, per passare quindi dal giugno 1930 all'editore Vallecchi.

La rivista cercherà per tutto il lungo periodo editoriale, sotto la spinta del sacerdote Giuseppe De Luca, di ritrovare e recuperare tutti quei valori religiosi, sia nell'arte che nella letteratura, che erano andati perduti e cercherà di rimanere autonoma nei confronti del potere politico ufficiale del momento.

"Letteratura come vita"

Rifiutiamo la letteratura come illustrazione di consuetudine e di costumi comuni, aggiogati al tempo, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza. A questo punto è chiaro come non possa esistere (...) un'opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt'e due, e in egual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l'assoluta necessità di sapere qualcosa di noi (...). La letteratura è una condizione, non una professione. Non crediamo più ai letterati gelosi dei loro libri (...). Non esiste un mestiere dello spirito (...). La nostra letteratura sale dalle origini centrali dell'uomo (...). È la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita (...) lo scrittore chieda al suo testo la verità che l'urge interiormente e per cui sente di dover scrivere (...). Quando si parla di letteratura come vita, non si chiede che un lavoro continuo e il più possibile assoluto di noi in noi stessi, una coscienza interpretata quotidianamente nel gioco delle nostre aspirazioni, dei sentimenti e delle sensazioni. L'identità che proclamiamo è il bisogno di un'integrità dell'uomo, che va difesa senza riguardi, senza concessioni".

Accanto a Giuseppe De Luca operano due gruppi: il gruppo di destra formato da Bargellini, Papini, Barna Occhini, fedeli alla Scolastica e a San Tommaso, che si esprime in un toscanismo provocatorio di carattere lacerbiano e tradizionalista e il gruppo di sinistra, rappresentato da Carlo Bo e dagli amici Mario Luzi, Oreste Macrì, Alessandro Parronchi, Leone Traverso di impronta agostiniana e pascaliana che accolgono le voci europee e antitradizionali.

A parte stanno Nicola Lisi e Carlo Betocchi con i loro valori semplici e quotidiani, natura, Dio e famiglia, in un mondo che sentono gioioso. Lisi collabora alla rivista con le sue prose e Betocchi con la sua poesia inventiva e consolatoria. Le prose di Lisi pubblicate su Il Frontespizio faranno poi parte dei volumi Favole, Prose dell'anima, L'arca dei semplici e le liriche di Betocchi saranno in seguito raccolte in Realtà vince il sogno.

Il periodo più ricco e contrastato del "Frontespizio" si ha negli anni che vanno dal 1936 al 1938.
La rivista assume in questo periodo un aspetto grafico notevole con riproduzioni d'arte in ogni numero, dalle xilografie di Pietro Parigi ai fiori e alle figure di Giacomo Manzù.

Con il dibattito sociologico sull'ateismo moderno tra Antonio Miotto e Igino Giordani nell'agosto - settembre 1936, il fascicolo leopardiano del settembre 1937 e quello dannunziano nel marzo 1938, la rivista raggiunge un bilancio più che positivo, ma nel frattempo si aggrava la frattura tra la direzione del periodico e il gruppo di sinistra guidato da Carlo Bo a causa degli articoli su Unamuno, Alain-Fournier, Mauriac e Riviére improntati ad una visione cattolica non tradizionalista e delle traduzioni e interpretazioni critiche dei grandi poeti stranieri da parte di Mario Luzi, Giancarlo Vigorelli, Sinisgalli, Sereni, Gatto e altri.

Il saggio Letteratura come vita che sarà il centro della polemica, porterà Bo a lasciare il "Frontespizio" nel settembre del 1938.
Il saggio, che risulta uno dei documenti più validi della nuova stagione ermetica, accredita alla condizione letteraria il senso del "fatto interiore", del movimento integro e vivo della coscienza proprio quando "Il Frontespizio", tra il 1937 e il 1938, inizia a ripiegarsi su posizioni di cronaca conformista.

Con questo documento Bo e i suoi amici dicono no a "Il frontespizio" e al suo allinearsi con la cultura fascista e, mentre la rivista diretta da Barna Occhini li investe con pesanti minacce essi continueranno il loro cammino di giovani esuli in patria su "Letteratura", "Campo di Marte" e "Corrente di Vita Giovanile".

Le riviste di Strapaese

All'indomani del delitto di Giacomo Matteotti il fascismo delle "origini", tutta azione e risoluzione, provoca manifestazioni squadristiche ed episodi difensivi che, all'insegna del movimento di Strapaese e dei suoi fogli, Il Selvaggio di Mino Maccari e L'Italiano di Leo Longanesi, programmano l'utopia dell'Italia terrigena e tradizionalista, barbara e antieuropea.
   
* Il Selvaggio:  rivista ideata da Angiolo Bencini, un ex-ufficiale e vinaio, Ras di Poggibonsi in provincia di Siena. Visse dal 1924 al 1943.

 Bencini contatta il giornalista ed appassionato di disegno ed esperto xilografo ed incisore Mino Maccari, che apprezza molto l'iniziativa ed a cui affida l'incarico di redattore della rivista, diventandone in seguito anche direttore.

Il 13 luglio 1924 Il Selvaggio inizia le sue pubblicazioni a Colle Val d'Elsa, in provincia di Siena, presso la Tipografia Bardini. Due anni dopo la marcia su Roma e dopo un mese dall'assassinio di Matteotti e, sotto la testata del primo numero, riporta la qualifica di Battagliero fascista.

Dal 1924 al 1925 Il Selvaggio presenta contenuti chiaramente ortodossi e allineati col regime, come si può leggere sul numero del 12 ottobre 1924 nell'editoriale Botte ai liberali, o sul numero del 18 maggio 1925 Selvaggia provincia svegliati!.

Nel 1926 la direzione viene assunta da Maccari, che cambia molte cose. Il giornale, dopo numerosi contrasti, si affranca dalla politica. È stesso Maccari ad annunciare, nell'articolo di fondo intitolato Addio al passato, il nuovo indirizzo del Selvaggio, che non intende più essere l'esempio di un fascismo "agonistico" ma una rivista che deve dedicarsi all'arte e alla letteratura.

Dal marzo 1926 al dicembre 1930 il periodico è pubblicato a Firenze. Dopo una parentesi torinese tra il 30 gennaio ed il 30 dicembre 1931, avviene il trasferimento definitivo a Roma. Il giornale viene pubblicato nella capitale dal 31 marzo 1932. Dal 1933 la sede è riunita con quella del periodico L'Italiano, diretto da Leo Longanesi, che diventa il direttore de facto del Selvaggio.

Da tutte e tre i periodi riuscirà a trarre un intelligente vigore per le sue battaglie che difendono, tra tolleranza e censura, l'autonomia dell'arte ed il diritto dell'attività culturale di "ridere" della politica, fatto quest'ultimo che costerà alla rivista numerosi casi di sequestro.

Il Selvaggio tralascia i protagonisti dell'arte di Stato come Cupriano Ofisio Oppo, Filippo Tommaso Marinetti ed Ugo Ojetti, puntando su veri artisti anche se poco graditi al regime o addirittura sconosciuti. Hanno così spazio sui fogli de Il Selvaggio artisti come Giorgio Morandi, Luigi Spazzapan, Renato Guttuso, Quinto Martini, Orfeo Tamburi e tra i narratori, Arrigo Benedetti, Aldo Buzzi, Mario Tobino, Romano Bilenchi, Luigi Bartolini, Elsa Morante e Guglielmo Petroni. La rivista non dispensa inoltre gli attacchi contro i firmatari della Protesta Croce, l'antisemitismo di Ardengo Soffici e la polemica contro i redattori di Solaria.
   
* L'Italiano (1926-1942) L'Italiano fu una rivista storico-letteraria, fondata nel 1926 a Bologna da Leo Longanesi. Dal 1933 fu pubblicata a Roma.

La storia della rivista può essere divisa in tre periodi: 1) dal 1926 al 1929; 2) dal 1930 al 1936; 3) dal 1937 al 1942.
Primo periodo [modifica]

Sul numero d'esordio, uscito il 14 gennaio 1926 appare, a firma di Gherardo Casini, il programma del nuovo periodico, che si presenta subito come tradizionalista e patriottico, convinto difensore della genuinità paesana tosco-romagnola alle prese con le minacce della moderna civiltà. "L'Italiano" si propone soprattutto «d'impedire l'imborghesimento del fascismo, di sostenerne le finalità rivoluzionarie, di colpire a fondo gli avversari di Mussolini, d'inventare un'arte e una letteratura fasciste».
Programma di italianità

"I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col futurismo, con l'utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boekling, con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la tisi Marxista.

L'Italia ha il sole, e col sole, non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, l'entusiasmo, l'armonia, la salute filosofica, il fascismo, l'antidemocrazia, Mussolini.

Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche che sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha dato.

(...) La sostanza genuina dell'italiano nuovo noi la dovremo cercare dove non è arrivata la corrompitrice civiltà moderna. E si badi bene che con questo non intendiamo dire della civiltà meccanica, del telefono, del telegrafo, delle strade ferrate, dell'igiene e se si vuole della radiofonia e del cinematografo, ma di quelle forme di vita e di mentalità forestiere che ci si sforza d'adottare fra noi deprimendo le nostre native qualità paesane."

Il direttore del periodico, il giovane giornalista Leo Longanesi, inserisce come sottotestata «Rivista settimanale della gente fascista». L'impostazione della rivista, così come per la "sorella" Il Selvaggio [1], è basata su un sapiente uso della parte figurativa e iconografica. Mino Maccari, direttore de "Il selvaggio" e Longanesi lavorano insieme esprimendo le loro doti di fini disegnatori e stilisti. Camillo Pellizzi, ideologo della rivista, scriveva tra il 1924 e il 1925 che «il nazionalismo rappresentava l'estrema destra della mentalità borghese democratica nata dalla Rivoluzione francese e apparteneva perciò alla società che fascismo voleva superare [2]. L'Italiano si proclama anti-borghese [3]. In questo primo periodo L'Italiano è di tradizionale formato giornale; impaginato su quattro colonne, si distingue per l'eleganza nella composizione, arricchita dall'uso dei disegni (quasi sempre satirici e, nella prima fase, di mano sia principalmente del Longanesi e di Maccari) e per il recupero, divenuto celebre, dei caratteri Bodoni e Aldini, cioè della grande tradizione tipografica italiana [4]. Esce con periodicità settimanale.

Sul n. 3, a pag. 4 appare il celebre slogan, ideato da Longanesi stesso, «Mussolini ha sempre ragione». La rivista inoltre pubblica i versi scanzonati di Curzio Malaparte, tra cui rimane famosa la "Cantata dell'Arcimussolini" apparsa sul n. 7/8/9 del 30 giugno 1927 [5]. Nel 1928 appare la rubrica Kodak, nella quale Longanesi mostra per la prima volta il suo interesse per la fotografia e il cinema.

Secondo periodo

Con il numero del 9 gennaio 1930 diminuisce il formato e aumenta il numero delle pagine, che passano da quattro a dodici. La periodicità passa da settimanale a quindicinale; Longanesi sceglie come nuovo sottotitolo «Foglio quindicinale della rivoluzione fascista».

Inizia la serie dei «Ritratti»; nascono nuove rubriche: Barnum Museum (una critica alla cultura ufficiale: il Museo offre del mondo l'immagine parziale, incompleta, dei « pezzi forti); I Misteri dell'Italia e Magazzino.

Nel 1929 Camillo Pellizzi si era trasferito a Londra, come corrispondente del Corriere della Sera. Nei primi anni Trenta Giovanni Ansaldo lo sostituisce come politico e ideologo della rivista [6]. Nel 1931 la rivista dedica un numero monografico a Giorgio Morandi (n. 10). Dopo di esso, che riscuote grandi consensi, Longanesi si dedica sempre più ai numeri unici, costruiti attorno a inserti fotografici di grande bellezza e intensità [7]. Longanesi riserverà a sé una rubrica: L'œil de bœuf ("L'occhio di bue").

Nel marzo 1931 L'Italiano esce in formato quaderno, con una foliazione di circa quaranta pagine. La periodicità passa da quindicinale a mensile. Aumenta la presenza di fotografie e disegni. La pubblicità appare su pagine rosa e verdi. Compaiono le prime traduzioni di autori stranieri contemporanei. Nel 1932 Loganesi si trasferisce a Roma, dove porta la direzione della rivista.

Divenuto «Foglio mensile della Rivoluzione fascista», formato 18 per 24,5 cm, ne fa una raffinata rivista d'arte e letteratura: uso di caratteri bodoniani e corsivi, con una redazione più strutturata. La frequenza, diventata mensile, salta più volte: per preparare il numero «L'italiano in guerra. 1915-1918» (L'Italiano n. 25-26, aprile 1934), Longanesi impiega un anno e mezzo.

Scrittori italiani pubblicati: Alberto Moravia, Elsa Morante, Giovanni Comisso, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Antonio Benedetti, Mario Soldati, Mario La Cava, Mario Tobino
Scrittori stranieri pubblicati: notevole presenza americana (William Faulkner, William Saroyan, Ernest Hemingway) e, fra i numerosi altri, Jean Giono, André Gide, Joseph Roth, David Herbert Lawrence.

Terzo periodo

Longanesi, impegnato nella realizzazione di un settimanale d'attualità (Omnibus, il cui primo numero uscirà il 3 aprile 1937), dedica sempre meno tempo a L'Italiano. La rivista prosegue le pubblicazioni, con irregolarità, uscendo una o due volte all'anno, con fascicoli tripli o quadrupli.

Il 1939 è il 14o anno di pubblicazione. Curiosamente, però, Longanesi mantiene fisso l'anno sul 13. E sarà così fino alla fine. La circostanza può essere spiegata con la grande delusione - professionale e personale - dovuta alla cancellazione di Omnibus, che avviene appunto all'inizio del 1939 [8].

Nel 1941 esce un numero unico (settembre-ottobre, intitolato «Ricordo del Positivismo»).
L'ultimo numero de L'Italiano porta la data di novembre-dicembre 1942.

Il novecentismo e l'europeismo

   
* "900", Cahiers d'Italie et d'Europe: rivista che esce nel novembre del 1926, diretta da Massimo Bontempelli con Curzio Malaparte come condirettore che, dopo qualche numero passerà in modo clamoroso nel campo opposto schierandosi con gli strapaesani della rivista "Il Selvaggio".

La rivista, che viene accolta da "una tempesta di discussioni, quasi tutte ostili" nell'ambiente strapaesano e fascista, ebbe redattori di fama internazionale, come Ramón Gómez de la Serna, James Joyce, Georg Kaiser, Pierre Mac Orlan, ai quali si aggiunse dal terzo numero, nella primavera del 1927, il sovietico Ilya Ehrenburg. I segretari di redazione erano due: Corrado Alvaro a Roma e l'emigrato politico Nino Frank a Parigi.

I primi quattro preamboli, Giustificazione, Fondamenti, Consigli, Analogie furono pubblicati in francese nei quaderni dell'autunno 1926, nel marzo e nel giugno del 1927 (vennero poi tradotti nel 1938 dallo stesso Bontempelli) ed espongono le principali linee del Novecentismo, subito rinominata dagli avversari in modo negativo come movimento di Stracittà.

Nel giro di soli tre anni, "900" ospitò il dadaista Ribemont-Dessaignes e il surrealista Soupault; fece conoscere per la prima volta in Italia paragrafi tradotti dall'Ulisse di James Joyce e da La signora Dalloway di Virginia Woolf; riportò il profilo di George Grosz scritto da Ivan Goll, gli inediti di Anton Čechov e "Le memorie postume del vecchio Teodoro Kusmic" di Lev Tolstoj.

Ma il dialogo internazionale che Bontempelli tentò di instaurare, il suo miraggio novecentista di aprire all'Europa la provincia culturale italiana e il progetto ad esso connesso di esportarvi una letteratura più giovane e nuova, si svolse in condizioni difficili e sospette, tanto che, dopo il quarto numero, il regime impose a "900" di usare la lingua italiana e l'"avventura" novecentista di Bontempelli ebbe presto termine[2]. La rivista chiuse infatti nel giugno del 1929.
   

* Solaria:  rivista fondata nel 1926 da Alberto Carocci che ebbe come condirettori in tempi differenti, Giansiro Ferrata e Alessandro Bonsanti.

All'interno della rivista coesistono due gruppi: il gruppo dei rondisti, come Riccardo Bacchelli e Antonio Baldini che, insieme agli stilisti lirici più giovani come Bonaventura Tecchi, Arturo Loria, Alessandro Bonsanti, è convinto di poter realizzare una civiltà letteraria autonoma al di fuori dei compromessi politici e il gruppo solariano al quale fanno parte Eugenio Montale, Leone Ginzburg, Aldo Garosci, Guglielmo Alberti, Giacomo Debenedetti, Mario Gromo, Umberto Morra di Lavriano, Sergio Solmi, che, riprendendo lo spirito intransigente di Gobetti, dichiara un diverso impegno di "denuncia moralistica ideologicamente caratterizzata" nei confronti della realtà contemporanea, quella cioè del fascismo. Tra i collaboratori della rivista, in posizione problematica, compare anche Carlo Emilio Gadda.

Nel corsivo di apertura del primo numero uscito nel gennaio del 1926 compare una premessa non programmatica.

Dichiarazione

"Solaria nasce senza un programma preciso e con qualche non spregevole eredità. Forse l'una e l'altra debbono considerarsi di buon augurio in un momento sazio e invero poco nostalgico di rivoluzioni (...)".

"NON SIAMO IDOLATRI DI STILISMI E PURISMI ESAGERATI e se tra noi qualcuno sacrifica il bel ritmo e magari la proprietà del linguaggio nel tentativo di dare fiato a un'arte singolarmente drammatica e umana gli perdoniamo in anticipo con passione. Per noi, insomma, Dostojevskij è un grande scrittore. Ma non perdoneremo nemmeno ai fraterni ospiti le licenze che non siano pienamente giustificate e in questo CI SENTIAMO RONDESCHI".

"SENZA PRECISO PROGRAMMA ma con una coscienza di alcuni fondamentali problemi dell'arte che si suppone concorde, ci siamo avvistati nei caffè e concertati alla buona come per vestire una commedia in un teatrino di campagna, ma l'esser qui convenuti da luoghi diversi non deve far credere a nessuno che ogni giorno s'aspetti un treno. Né si giudichi male il nostro tono eventualmente svagato: talvolta uno di noi si porrà a discorrere di argomenti che alcuno suppone invecchiati o di cattivo gusto. Sia cortese il pubblico di volerne ascoltare le parole come le battute d'una commedia e s'accontenti di giudicarci a mano a mano che gli si comporrà nella mente la prospettiva di questa nostra CITTÀ IDEALE".

Non manca comunque una linea che caratterizza l'attività della rivista che consiste nella battaglia per il collegamento con le grandi esperienze letterarie europee, in special modo costituito dai contributi di Arturo Loria, Nino Frank e Leo Ferrero, quest'ultimo corrispondente fino al 1933 da Parigi e Yale.

Verranno fatti conoscere non solo gli autori francesi come già consuetudine, ma anche quelli inglesi (Joyce, Eliot, Virginia Woolf), statunitensi (Hemingway, Faulkner), russi (Majakovskij, Esenin, Pasternak) e mitteleuropei (Rilke, Kafka, Thomas Mann, Zweig).

Spesso si nota nelle scelte solariane una preferenza per la grande tradizione del romanzo europeo. Mentre scoprono Svevo e Tozzi ai quali vengono dedicati due numeri doppi speciali, rispettivamente nel marzo-aprile 1929 e nel maggio-giugno 1930, essi valorizzano la poesia di Ungaretti, di Montale e di Saba e frequentano assiduamente Proust, Valéry, Gide, Rilke e Kafka oltre Joyce ed Eliot.

I solariani sperano in una Europa civile capace di arte drammatica e umana proprio nel momento in cui l'Europa vincente dell'universalismo fascista e del nazismo preparano la propria opera di distruzione.

La rivista venne sottoposta più volte a censura e gli ultimi numeri di "Solaria" 1934 escono con due anni di ritardo nel 1936.

Il n. 2, marzo-aprile 1934 riporta due scritti, Le figlie del generale di Enrico Terracini e Il garofano rosso di Elio Vittorini, che era iniziato a puntate dal febbraio-marzo 1933.

Gli scritti in questione vengono ritenuti offensivi per la morale e il buon costume e, con un decreto prefettizio, il numero 2 della rivista viene sequestrato.

Nel 1936 "Solaria" terminò le sue pubblicazioni, sia a causa delle sempre maggiori difficoltà frapposte dalla censura fascista, ma anche per ragioni interne.

Infatti, in seguito alla campagna vittoriosa d'Africa, negli anni cosiddetti del consenso, viene a svuotarsi, in termini europeistici, ogni significato d'opposizione al fascismo.

Inoltre il prevalere dei collaboratori "ideologici", come Giacomo Noventa, Nicola Chiaromonte, Umberto Morra su quelli "letterati" provoca una accesa polemica tra i due direttori.

Carocci infatti sostiene giunto il momento di trasformare "Solaria" in una rivista di idee, come la rivista Esprit francese, che fosse capace anche di discutere con il fascismo, mentre Bonsanti conferma la sua idea di pubblicare i prodotti letterari più significativi che pur comprendendo solariani, frontespiziani, collaboratori di Pegaso (rivista) e Pan (rivista) rimanesse comunque al di fuori della realtà italiana e del fascismo.

Da queste due posizioni ormai inconciliabili vedranno la luce, da una parte, riviste come La riforma letteraria (1936-1939) e Argomenti (1941) che avranno un'impronta filosoficamente e ideologicamente impegnata e dall'altra Letteratura (rivista) (gennaio 1937-novembre/dicembre 1947) che si poggia su una gestione autonoma ed ermetica dello specifico letterario.
   

* Prospettive: rivista fondata nel 1939 e chiusa con il numero di dicembre 1951-gennaio 1952 e diretta da Curzio Malaparte.

L'arte non asservita allo Stato

   
* Campo di Marte: una rivista quindicinale di azione letteraria e artistica fondata a Firenze nell'agosto del 1938, nominalmente diretta da Enrico Vallecchi, ma in effetti dai redattori Alfonso Gatto e Vasco Pratolini.

La rivista che nasce in un clima di chiusura rispetto alle esperienze del Novecento europeo, cerca di camminare in senso contrario vivendo con intensità le proposte di una cultura diversa a quella propagandata dal fascismo, così come farà la rivista Corrente di Vita nata nello stesso anno.

La nascita della rivista, che ebbe solamente un anno di vita, viene a coincidere con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l'Italia in stato di non belligeranza.

In un periodo così difficile, "Campo di Marte", seppe difendere la coerenza integra dell'arte contro gli attentati e le frodi dello stile fascista.

Numerosi e coraggiosi furono tutti i contributi dati sulla rivista, soprattutto quelli riguardanti il rapporto letteratura-società, ma intorno a "Campo di Marte" crescono nel frattempo le ostilità e le polemiche.
La pubblicazione nel numero doppio 10/11 di un brano di Erica di Elio Vittorini e gli attacchi di Giulia Veronesi contro gli architetti "corporativi" mettono in allarme la censura del regime mussoliniano che chiede la sospensione del foglio.

Alcuni autori le cui opere sono apparse sulle pagine della rivista:

   1. Eugenio Montale
   2. Mario Luzi
   3. Paul Valéry
   4. Sandro Penna
   5. Federigo Tozzi
   6. Gianna Manzini
   7. Vittorio Sereni
   8. Piero Bigongiari
   9. Carlo Emilio Gadda
  10. Rainer Maria Rilke
  11. Leonardo Sinisgalli
  12. Tommaso Landolfi
  13. Aleksandr Puskin
  14. Romano Bilenchi
  15. Franco Calamandrei

Nell'agosto del 1939 "Campo di Marte" termina le pubblicazioni e sull'ultimo numero apparirà il Congedo provvisorio di Alfonso Gatto.
   

* Corrente: rivista giovanile fondata a Milano nel 1938 da Ernesto Treccani. Corrente nasce come rivista il 1º gennaio 1938 a Milano dal giovanissimo Ernesto Treccani, finanziato dal padre Giovanni, senatore e fondatore dell'Istituto Treccani.

Sorta con il nome Vita Giovanile, a cadenza mensile, la rivista è poi diventata Corrente di Vita Giovanile, con uscita quindicinale, per poi cambiare definitivamente il nome in Corrente nell'ottobre del 1938.

Corrente, diretta dallo stesso Ernesto Treccani, matura in breve tempo la propria azione collettiva diventando ben presto l'organo milanese-fiorentino dell'intelligenza italiana d'opposizione, e anche ovviamente del movimento artistico culturale omonimo, rappresentati da Raffaele De Grada, Giansiro Ferrata, Luciano Anceschi, Renato Birolli e dagli ermetici cosiddetti "puri" come Bo, Luzi e Bigongiari.

Mentre la situazione italiana precipita verso la guerra Corrente passa, per merito del filosofo Antonio Banfi e del gobettiano Edoardo Persico, all'antifascismo.

La rivista, sul numero del 15 dicembre 1939, propone nell'editoriale programmatico "Continuità" il suo modo nuovo, banfiano e antifascista di intendere l'uomo e la vita, l'arte e la società e professa lo stesso esercizio artistico che accomuni "tutti gli aspetti della realtà che stiamo vivendo come impegno umano nella storia e possibilità d'intervento sul reale".
La collaborazione di banfiani, fenomenologi milanesi ed ermetici fiorentini, tutti insieme per una cultura non asservita alla ragion di stato ma libera e non compromessa, porta Corrente ad approfondire le sue tematiche legate ai rapporti tra cultura e politica, arte e religione.

Il 10 giugno 1940, mentre l'Italia entra in guerra, la rivista viene soppressa dalla polizia, ma i giovani di Corrente non si avviliscono né si disperdono, ma trovano nuove forme per promuovere la cultura.

Nelle Edizioni di Corrente vengono pubblicati "I lirici greci" di Salvatore Quasimodo, "Frontiera" di Vittorio Sereni, "Occhio Quadrato" di Alberto Lattuada.

Per quanto riguarda la pittura vengono inaugurate due importanti mostre nel marzo e nel dicembre del 1939 alla Permanente (che vedono la partecipazione di artisti quali Carlo Carrà, Renato Birolli, Raffaele De Grada e Giacomo Manzù), e nel 1940 (nella seconda edizione sono presenti anche Renato Guttuso, Mario Mafai, Lucio Fontana, Fausto Pirandello).

La Bottega di Corrente, aperta in via Spiga a Milano, promuove vari incontri ed ampi dibattiti dando spazio, essendo anche una galleria d'arte, a tutti quegli artisti che erano maturati nel periodo di pubblicazione della rivista, come Renato Birolli, Bruno Cassinari, Aligi Sassu, Renato Guttuso, Ennio Morlotti, Ernesto Treccani, Emilio Vedova e gli altri già citati.


* La Fiera Letteraria: autorevole giornale settimanale di lettere scienze ed arti fondato a Milano il 13 dicembre 1925 sotto la direzione di Umberto Fracchia.

La rivista ha avuto, in un cinquantennio di pubblicazioni, infiniti mutamenti di direzione e di editore pur mantenendo sempre la periodicità mensile. Dal n°12 del 1928 la sede fu trasferita a Roma, sotto la direzione di Giovanni Battista Angioletti e di Curzio Malaparte. L'anno seguente prese il nome di L'Italia letteraria, con il quale uscirà fino al 1936, quando cessò la prima volta le pubblicazioni. Si proclamò continuatore della rivista Il meridiano di Roma, diretto da Curzio Malaparte.
  

* La Libra: rivista di Novara da novembre 1928 a giugno 1930, diretta da Mario Bonfantini con Mario Soldati, Enzo Giachino, Enrico Emanuelli e altri giovani.
   

* La Riforma Letteraria: mensile diretto da Alberto Carocci e Giacomo Noventa fondato nel novembre 1936 e chiuso nel giugno-settembre 1939.
   

* Letteratura:  è stata una delle principali riviste letterarie del Novecento. Fondata a Firenze nel 1937 (il primo numero uscì a gennaio) e diretta da Alessandro Bonsanti, aveva carattere trimestrale.

"Letteratura" rappresenta il battesimo di fuoco della nuova generazione letteraria. Intorno ad essa si incontrano su dibattiti aperti ad una cultura europea, tutti coloro che nei difficili anni della dittatura avevano saputo rifiutare il linguaggio della ufficialità, dando lezioni di coerenza, impegno e di difesa morale.

La rivista raccolse l'eredità di "Solaria" della quale riuscì a mantenere il gusto per le esperienze formali restringendo i propri interessi al fatto stilistico ed espressivo.

Si delineò subito come rivista di carattere puramente letterario rimanendo estranea ai problemi della società contemporanea ma, in compenso, aprendosi verso le esperienze della letteratura europea.

Raccolse intorno a sé, oltre ai solariani fedeli all'ideale di una letteratura "non di idee", un gruppo di letterati più resistenti al conformismo filofascista ed ebbe il merito di tenersi aggiornata, con eccellenti saggi critici, alle nuove esperienze europee.

La prima serie, chiusa nel 1947, fu particolarmente significativa e ad essa collaborarono validi scrittori come Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Arturo Loria, Luigi Berti, Romano Bilenchi, Reiner Maria Rilke, William Saroyan, Federico Garcia Lorca, Umberto Saba, Tommaso Landolfi, Sandro Penna, Mario Luzi, e critici come Giuseppe De Robertis, Gianfranco Contini, Carlo Bo, Walter Binni.