L'età del Risorgimento

Note sparse recensioni

NOTE SPARSE E RECENSIONI

L'impresa di Lepanto.

A. Salimei, Gli Italiani a Lepanto (Roma, auspice la Lega Navale). Il Salimei ha raccolto diligentemente tutti i dati che si riferiscono alla organizzazione delle forze che parteciparono all'impresa di Lepanto e ha dimostrato che esse, dalle navi agli uomini, furono in maggioranza italiane. Negli Archivi Vaticani esistono i documenti coi conti per la ripartizione delle spese tra il re di Spagna e la repubblica di Venezia per la lega cristiana del 1571, rimessi al successore di Pio V perché decidesse sulle controversie insorte nello stabilire l'ammontare del rispettivo credito e debito. Con tali documenti è possibile precisare il numero e il nome delle galee, delle navi, delle fregate, ecc. e il numero dei reggimenti e delle rispettive compagnie con i nomi dei colonnelli e dei capitani tanto per la fiotta e le fanterie che si trovarono alla battaglia di Lepanto, quanto per quelle che non vi si trovarono ma furono egualmente mobilitate per la spedizione nello stesso anno 1571.

Delle più che duecento navi partecipanti alla battaglia solo 14 erano spagnole, tutte le altre erano italiane; dei 34 mila armati, solo 5000 fanti «vennero dalla Spagna», e 6000 erano tedeschi (ma 1000 di questi non parteciparono al combattimento), tutti gli altri erano di «nazionalità» italiana. Dall'elenco degli «ufficiali, venturieri e militi» distinti secondo le nazionalità e, «per quanto riguarda l'Italia» anche secondo le regioni e le città di origine, il Salimei deduce che non c'è parte della penisola e delle isole, dalle Alpi alla Calabria, compresa la Dalmazia e le isole di dominio veneto, dalla Sicilia alla Sardegna alla Corsica a Malta, che non vi partecipi. Questa ricerca è molto interessante e potrebbe essere analizzata opportunamente. Il Salimei la inquadra in una cornice retorica, perché si serve di concetti moderni per fatti non omogenei. Rivendica il carattere «nazionale «di Lepanto, che è attribuito di solito alla cristianità (cioè al Papa) con prevalenza alla Spagna e afferma che a Lepanto per l'ultima volta gli Italiani, anzi tutti gli Italiani, «combatterono per una causa che non fosse quella degli stranieri» e che «con Lepanto si chiude l'èra della nostra efficienza navale e militare come popolo italiano, fino al 1848».

Sarebbe da vedere, a questo proposito perché nacquero le controversie tra Venezia e Spagna per dividersi le spese, e sotto quali bandiere erano arruolati i soldati che avevano origine da paesi italiani1.

La Romagna e la sua funzione nella storia italiana.

Confrontare l'articolo di Luigi Cavina, Fiorentini e Veneziani in Romagna, nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929. Tratta la quistione specialmente nel periodo immediatamente precedente alla lega di Cambrai contro i veneziani, dopo la morte di Alessandro VI Borgia e la malattia del Valentino.

La Romagna era elemento essenziale dell'equilibrio interno italiano, specialmente dell'equilibrio tra Venezia e Firenze e tra Venezia e il Papa: tanto Firenze che il Papa non potevano sopportare un'egemonia veneziana sulla Romagna. (Machiavelli e il Valentino durante la campagna di questi per la conquista della Romagna; Machiavelli e il Valentino dopo la morte di Alessandro VI, durante il Conclave e nei primi tempi di Giulio II: al Valentino era venuta a mancare la base statale; tutta la sua figura politica e anche la «capacità» politico-militare, crolla; egli è diventato un comune «capitano di ventura» e, ancora, in cattive acque).

In questo articolo del Cavina c'è uno spunto «curioso». Egli cita il principio del Machiavelli: «Alcuna provincia non fu mai unita e felice, se la non viene tutta alla obedienza d'una repubblica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia e alla Spagna» e continua: «E che questo non sia avvenuto all'Italia è bensì da imputarsi, con giudizio empirico, specialmente alla Chiesa — che non fu mai tanto torte da potere occupare essa tutta la penisola, né mai tanto debole da dover permettere che un altro l'occupasse, come dice il Machiavelli — e in parte anche agli altri Stati; ma è soprattutto da imputarsi al sistema dell'equilibrio delle potenze italiane. Qui è da vedersi la ragion^ storica e nazionale della mancata unione della patria, in quanto essa derivava non già da un pensiero individuale, ma da un effettivo pensiero universale, tramandatosi da generazione a generazione, lungo i secoli, e rispondente dunque al genio nazionale». Cosa vuol dire tutto ciò? che il «genio nazionale» consisteva nel non essere «nazionale»? E il «sistema di equilibrio» delle potenze italiane non era in gran parte determinato dalle necessità di esistenza dello Stato pontificio, che era potenza mondiale e italiana nello stesso tempo?

Una grande confusione viene in questa serie di problemi dal fatto che si cercano le cause del perché un certo evento storico (unità terri- ritoriale-politica della penisola italiana) non si è verificato prima del 1870. Ora se è difficile trovare e mettersi d'accordo sulle cause di un evento determinato, è certo molto più difficile e quasi assurdo voler trovar le cause del perché la storia si sia sviluppata in un senso piuttosto che in un altro. In realtà non si tratta di un problema storico, ma di una necessità di carattere sentimentale e politico. Si parte dal presupposto (di carattere sentimentale e pratico immediato) che la nazione italiana sia sempre stata una nazione nei quadri attuali geografici ed ecco che allora ci si domanda perché non ha conseguito prima l'unità politica territoriale, come la Francia o la Spagna, ecc.

Tuttavia il problema non è completamente assurdo, purché sia inteso e circoscritto esattamente nel suo carattere attuale, cioè per spiegare certi sviluppi storici legati alla vita moderna, o come elemento per studiare determinati criteri di metodo. L'accenno del Cavina all'«effettivo pensiero universale» è uno spunto interessante, se precisato e svolto nel senso che io ho fatto in altre note. Cioè, l'Italia, per la sua «funzione cosmopolita» durante il periodo dell'Impero romano e durante il Medioevo sub} passivamente i rapporti internazionali; cioè nello sviluppo della sua storia i rapporti internazionali prevalsero sui rapporti nazionali. Ma il Papato appunto è l'espressione di questo fatto; dato il carattere duplice del regno papale, di essere sede di una monarchia spirituale universale e di un principato temporale, è certo che la sua potenza terrena doveva essere limitata. Il Machiavelli vide benissimo ciò come si rileva dal terzo capitolo del Principe e da ciò che egli riporta d'aver detto al cardinale di Roano; il Roano, al tempo in cui il Valentino veniva occupando la Romagna, gli aveva detto che gli Italiani non si intendevano di guerra, ed egli rispose, che i Francesi non si intendevano di Stato (di politica); «perché se se n'intendessino, non ìascercbbono venire la Chiesa in tanta grandezza», ecc.

È certo che, se la Chiesa avesse avuto come principato terreno tutta la penisola, l'indipendenza degli stati europei avrebbe corso serio pericolo: il potere spirituale può essere rispettato finché non rappresenta una egemonia politica e tutto il Medioevo è pieno delle lotte contro il potere politico del Papa.

È vero dunque che negli Italiani la tradizione dell'universalità romana e medioevale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le «forze» nazionali non divennero «forza» nazionale che dopo la Rivoluzione francese e la nuova posizione che il Papato ebbe ad occupare in Europa, posizione irrimediabilmente subordinata, perché limitata e contesa nel campo spirituale dal laicismo trionfante. Tuttavia, questi elementi internazionali «passivamente, prementi sulla vita italiana continuarono a operare fino al 1914 e anche (sempre meno forti) fino alla conciliazione del febbraio 1929 e continuano anche oggi in una certa misura, determinando i rapporti esterni tra Stato italiano e Pontefice, costringendo a un certo linguaggio, ecc.

Bisognerebbe poter fare, per comprendere esattamente il grado di sviluppo raggiunto dalle forze nazionali in Italia nel periodo che va dal nascere dei Comuni al sopravvento del dominio straniero, una ricerca del tipo di quella del Groethuysen nelle Origines de l'esprit bourgeois en France. Bisognerebbe ricercare questi elementi nelle cronache, negli epistolari, nei libri di politica, nella letteratura amena, e nei libri dei pedagogisti o dei trattatisti di morale, ecc. Un libro molto interessante è quello di Leon Battista Alberti, per esempio. Si potrebbe vedere per la bibliografia le storie della pedagogia in Italia, ecc. Il Cortegiano di B. Castiglione indica già il prevalere di un altro tipo sociale, come modello, che non sia il borghese delle Repubbliche comunali, ecc. Un posto a parte i grandi scrittori di politica, come il Machiavelli e il Guicciardini. Cosi un posto a parte gli scrittori religiosi, prediche, trattati, ecc.

L'Italia nel Settecento.

L'influenza francese nella politica, nella letteratura, nella filosofia, nell'arte, nei costumi.

I Borboni regnano a Napoli e nel ducato di Parma. Sugli influssi francesi a Parma sono da vedere le pubblicazioni minuziose di Henri Bédarida, Parme dans la politique française au XVIIIe siècle, Paris, Alcan, e altre due precedenti. Ê da vedere anche: Tullio Ortolani, Italie et France au XV1W siècle nei «Mélanges de littérature et d'histoire publiés par l'Union intellectuelle franco-italienne», Paris, éd. Laroux.

Nella politica francese l'Italia, per la sua posizione geografica, è destinata ad assumere la funzione di elemento di equilibrio dinanzi alla crescente potenza dell'Austria: quindi la Francia, da Luigi XIV a Luigi XVI, tende ad esercitare in Italia un'azione di predominio, anticipando la politica dei Napoleoni, anticipazione che si palesa nei ripetuti progetti o tentativi di federare gli Stati italiani a servizio della Francia. Questi elementi della politica francese sono da analizzare attentamente, per fissare*il rapporto tra i fattori internazionali e quelli nazionali nello sviluppo del Risorgimento. È da notare come questa impostazione della politica francese sia agli antipodi di quella sostenuta da Jacques Bainville nella critica della politica napoleonica contrapposta a quella della monarchia.

La Rivoluzione francese e il Risorgimento.

Un motivo che ricorre spesso nella letteratura italiana, storica e non storica è questo espresso da Decio Cortesi in un articolo, Roma centotrent'anni fa («Nuova Antologia», 16 luglio 1928: «È da deplorare che nella pacifica Italia, che s'incamminava verso un miglioramento graduale e senza scotimenti (!!?); le teorie giacobine, figlie di un idealismo pedantesco, che nei nostri cervelli non ha mai allignato, dessero occasione a tante scene di violenze; ed è da deplorare tanto più perché, se queste violenze, nella Francia ancora oppressa dagli ultimi avanzi del feudalismo e da un dispotismo regale, potevano, fino ad un certo punto, essere giustificate, in Italia, dai costumi semplici e schiettamente democratici in pratica (!!?), non avevano uguale (ragione) d'essere. I reggitori d'Italia potevano essere chiamati " tiranni " nei sonetti dei letterati, ma chi senza passione prende a considerare il benessere del quale godé il nostro paese nello splendido secolo xvm non potrà non pensare con qualche rimpianto a tutto quell'insieme di sentimenti e di tradizioni che l'invasione straniera colpi a morte».

L'osservazione potrebbe essere vera se la restaurazione stessa avvenuta dopo il '15 non dimostrasse che anche in Italia la situazione del secolo XVIII era tutt'altra da quella ritenuta. L'errore è di considerare la superficie e non le condizioni reali delle grandi masse popolari. In ogni modo, è giusto che senza l'invasione straniera i «patrioti» non avrebbero acquistato quell'importanza e non avrebbero subito quel relativamente rapido processo di sviluppo che poi ebbero. L'elemento rivoluzionario era scarso e passivo.

La Repubblica partenopea e le classi rivoluzionarie nel Risorgimento.

Nell'edizione Laterza delle Memorie storiche del regno di Napoli dal 1J90 al 1815 di Francesco Pignatelli Principe di Strangoli 2, il Cortese pubblica un saggio Stato e ideali politici nell'Italia meridionale nel Settecento e l'esperienza di una rivoluzione, in cui si pone il problema: come mai, nel Mezzogiorno d'Italia, la nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi ferocemente perseguitata dalla reazione, mentre in Francia nobiltà e monarchia sono unite davanti al pericolo rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo [di] Borbone per trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori aristocratici e quella dei borghesi: per i primi la libertà e le necessarie riforme devono essere garantite soprattutto da un parlamento aristocratico, mentre sono disposti ad accettare la collaborazione dei migliori della borghesia; per questa il controllo deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata all'aristocrazia dell'intelligenza, del sapere, della capacità, ecc., da qualsiasi parte venga. Per ambedue lo Stato deve essere governato dal re, circondato, illuminato, e controllato da un'aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga del re, si ha prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei nobili e poi quella degli innovatori borghesi nella successiva repubblica napoletana.

Pare che gli eventi napoletani non possano essere contrapposti a quelli francesi; anche in Francia ci fu un tentativo di alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia dopo un inizio di rottura tra nobili e monarchia. In Francia però la Rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell'Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Occorre inoltre tener presente che il movimento napoletano avvenne dopo quello francese, quando la monarchia era sotto l'incubo del Terrore francese e vedeva un nemico in chiunque parteggiasse per le idee innovatrici, fosse nobile o borghese. Il libro del Cortese è da vedere.

Confrontare: Antonio Manes, Un cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo e la Repubblica partenopea, Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca di «riabilitare» il cardinale Ruffo addossando la responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul Borbone e sul Nelson. Pare che il Manes non sappia orientarsi bene per fissare le divisioni politiche e sociali nel Napoletano; ora parla di taglio netto tra nobiltà e clero da una parte e popolo dall'altra; ora il taglio sparisce e si vedono nobili e clero nelle due parti. A un certo punto dice che il Ruffo «assume un carattere tutt'affatto nazionale, se può essere usata questa parola di colore troppo moderno e contemporaneo» e allora dovrebbe concludere che non erano nazionali i patriotti sterminati dalle bande sanfedistiche3.

Pubblicazione ed esame dei libri e delle memorie degli antiliberali e antifrancesi nel periodo della Involuzione francese e di Napoleone e reazionari nel periodo del Risorgimento.

Sono necessari, in quanto anche le forze avverse al moto liberale italiano furono una parte e un aspetto non trascurabile della realtà, ma in essi occorre tener presenti alcuni criteri metodici: 1) alcune ristampe, come quella del Memorandum del Solaro della Margarita e forse anche i volumi curati dal Lovera di Castiglione e dal gesuita Ilario Rinieri o hanno uno scopo attuale, di rafforzare certe tendenze reazionarie nell'interpretazione del Risorgimento (rappresentate dai gesuiti della «Civiltà Cattolica») o sono presentati come testi per l'azione attuale (il Papa di de Maistre e lo stesso Memorandum del Solaro, ecc.). 2) Le descrizioni degli interventi francesi nelle varie regioni italiane sotto il Direttorio e successivamente, sono dovute molto spesso solo ai reazionari: i «giacobini» si arruolarono e quindi avevano altro da fare che scrivere memorie: i quadri pertanto sono sempre tendenziosi e sarebbe molto ingenuo ricostruire la verità su tale letteratura.

Fra queste pubblicazioni confrontare Ranuccio Ranieri, L'invasione francese degli Abruzzi nel 1798-99, e una memoria del tempo inedita di Giov. Batt. Simone, Pescara, Edizioni dell'«Adriatico», 1931. Dalla narrazione del Simone, antigiacobino e legittimista, appare che in Chieti città la forza giacobina era di una certa efficienza, ma nella campagna (salvo eccezioni dovute a rivalità municipali e al desiderio di aver l'occasione di fare delle vendette) prevalevano le forze reazionarie nella lotta contro Chieti. Pare che più della memoria del Sidone, enfatica e verbosa, sia interessante l'esposizione del Ranieri che ric^ruisce la situazione dell'Abruzzo in quel periodo di storia.

La Costituzione spagnola del 1812.

Perché fu tanto popolare? Bisognerebbe confrontarla con le costituzioni elargite nel 1848. La ragione della popolarità della Costituzione spagnola non pare debba ricercarsi nella sua forma ultraliberale, o nella pigrizia intellettuale dei rivoluzionari liberali italiani o in altre quistioni secondarie, ma nel fatto essenziale che la situazione spagnola era «esemplare» per l'Europa assolutista e i liberali spagnoli seppero trovare la soluzione giuridico-costituzionale più appropriata e più generalizzata di problemi che non erano solo spagnoli, ma italiani, specialmente del Mezzogiorno.

Perché i primi liberali italiani (nel '21 e dopo) scelsero la Costituzione spagnola come loro rivendicazione? Si trattò solamente di un fenomeno di mimetismo e quindi di primitività politica? O di un fenomeno di pigrizia mentale? Senza trascurare completamente l'influenza di questi elemend, espressione della immaturità politica e intellettuale e quindi dell'astrattismo dei ceti dirigenti della borghesia italiana, occorre non cadere nel giudizio superficiale che tutte le istituzioni italiane siano importate dall'estero meccanicamente e sovrapposte a un contenuto nazionale refrattario.

Intanto occorre distinguere tra Italia meridionale e il resto d'Italia: la rivendicazione della Carta spagnola nasce nell'Italia meridionale ed è ripresa in altre parti d'Italia per la funzione che ebbero i profughi napoletani nel resto d'Italia dopo la caduta della Repubblica partenopea. Ora, le necessità politico-sociali dell'Italia meridionale erano davvero molto diverse da quelle della Spagna? L'acuta analisi fatta dal Marx della Carta spagnola (confrontare lo scritto sul generale Espartero nelle opere politiche) e la dimostrazione chiara dell'essere quella Carta l'espressione esatta di necessità storiche della società spagnola e non un'applicazione meccanica dei principi della Rivoluzione francese, inducono a credere che la rivendicazione napoletana fosse più «storicistica» di quanto paia. Bisognerebbe riprendere quindi l'analisi di Marx, confrontare con la Costituzione siciliana del 12 e con i bisogni meridionali: il confronto potrebbe continuare con lo Statuto albertino.

Le sètte nel Risorgimento.

Confrontare Pellegrino Nicolli, La Carboneria in Italia, Vicenza, Edizioni Cristofori, 1931. Il Nicolli cerca di distinguere nella Carboneria le diverse correnti, che spesso la componevano e di dare un quadro delle diverse sètte che pullularono in Italia nella prima parte del secolo XIX. Da una recensione del libro del Nicolli, pubblicata nel «Marzocco» del 25 ottobre 1931, si estrae questo brano: «È un groviglio di nomi strani, di emblemi, di riti, di cui si ignorano il più delle volte le origini; un confuso mescolarsi di propositi disparati, che variano non soltanto da società a società, ma nella stessa società, la quale, secondo i tempi e le circostanze, muta metodi e programmi. Dal vago sentimento nazionale si arriva alle aberrazioni del comunismo e, per converso, si hanno sètte che, ispirandosi agli stessi sistemi dei rivoluzionari, assumono la difesa del trono e dell'altare. Sembra che rivoluzione e reazione abbiano bisogno di battersi in un campo chiuso, dove non penetra occhio profano, tramando congiure al lume di fiaccole fumose e maneggiando pugnali. Un filo che ci guidi in mezzo a questo labirinto non c'è ed è vano chiederlo al Nicolli, che pure ha fatto del suo meglio per trovarlo. Si tenga anche soltanto presente la Carboneria, che è in un certo modo il gran fiume nel quale convogliano tutte le altre società segrete». Il Nicolli si è proposto di «raccogliere sinteticamente quanto da valenti storici è stato finora scritto» sulle società segrete nel Risorgimento.

Si può osservare: 1) che la molteplicità delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all'essere dovuto al carattere clandestino del movimento settario, è certamente dovuto anche alla primitività del movimento stesso — cioè all'assenza di tradizioni forti e radicate — e quindi all'assenza di un organismo «centrale» saldo e con indirizzo fermo; 2) la molteplicità può sembrare più «morbosa» di quanto fosse realmente per la soverchia pedanteria erudita del ricercatore: in ogni tempo, esistono movimenti «settari» bizzarri e curiosi, ai quali non si bada neanche, in maggior misura di quanto non si supponga comunemente.

Articolo di A. Luzio, Le origini della Carboneria, nel «Corriere della Sera» del 7 febbraio 1932. Il Luzio parla di due libri di Eugenio Lennhoff, f.: gerarca della Massoneria austriaca (del Lennhoff ha parlato spesso lo scrittore di quistioni massoniche della «Civiltà Cattolica»): Die Freimaurer e Politische Geheimbünde (Casa ed. Amalthea, Vienna).

Il Luzio incomincia col notare gli errori di lingua italiana contenuti nelle citazioni politiche del Lennhoff e altri errori più gravi (Mazzini confuso col gran maestro Mazzoni, p. 204 dei Freimaurer, e quindi fatto diventare gran maestro; ma si tratta di errore storico o di errore di stampa?). Come recensione del Lennhoff, l'articolo del Luzio non vale nulla. Per le origini della Carboneria: opere dell'Alberti sulle assemblee costituzionali italiane e sulla rivoluzione napoletana del 1820, edite dai Lincei; studi del Soriga, «Risorgimento italiano» gennaio-marzo 1928, e articolo del Soriga sulla Carboneria nell'Enciclopédia Treccani (vol. Vili), libro del Luzio sulla Massoneria. In questo articolo il Luzio riporta dalle memorie inedite del generale Rossetti (di cui parla Guido Bustico nella «Nuova Antologia» del 1927) un rapporto del Rossetti stesso a Gioacchino Murat (del giugno 1814) in cui si parla dei primi tempi della Carboneria, che sarebbe stata conosciutissima in Francia, soprattutto nella Franca Contea, e a cui il Rossetti si sarebbe affiliato nel 1802, essendo di stanza a Gray. (Ma sono cose vaghe e che si perdono nella notte dei tempi, fra i fondatori della Carboneria sarebbe stato Francesco I, ecc.). Secondo il Rossetti, la Carboneria nel reame di Napoli avrebbe cominciato a propagarsi nella provincia di Avellino nel 1811, estendendosi solo verso la metà del 1812.

Michele Amari e il sicilianismo.

Confrontare l'articolo su Michele Amari di Francesco Brandileone nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929, che è poi una lunga recensione polemica de Le più belle pagine di Michele Amari, scelte da V. E. Orlando, con una prefazione molto interessante per capire l'origine anche dell'attuale «sicilianismo», di cui l'Orlando è un rappresentante (a due facce: una verso il continente, velata dei sette veli dell'unitarismo, e una verso la Sicilia, piti franca: ricordare il discorso di Orlando a Palermo durante le elezioni amministrative del 1925 e il suo elogio indiretto della mafia, presentata nel suo aspetto sicilianista di ogni virtù e generosità popolana).

L'Amari nato nel 1806 a Palermo e cresciuto tra la Costituzione del 1812 e la rivoluzione del 1820 quando la Costituzione fu abolita, come tanti altri Siciliani del suo tempo, era persuaso che il bene dell'isola fosse da ricercare nel ristabilimento della Costituzione, ma soprattutto nell'autonomia e nel distacco da Napoli.

«L'aspirazione a costituire uno Stato a sé fu il sentimento dominante fra gli isolani almeno fino al 1848», scrive il Brandileone. L'Amari, come scrisse egli stesso4, si sentiva Italiano (di cultura); ma la vita nazionale italiana gli pareva un bel sogno e nulla più. Volle raccontare gli avvenimenti del 1812-20 per preparare gli animi a una nuova rivoluzione, ma la ricerca dei nessi storici lo spinse a risalire nel passato della storia costituzionale siciliana e così si fissò sulla costituzione avuta dopo i Vespri, che gli parve la «forma più netta», la piti tipica. Ma la ricerca del passato lo portò ancora più in là, fino alla fase musulmana della storia di Sicilia.

L'Orlando, nella sua scelta, ha disposto i brani in ordine cronologico, in modo da dare un racconto abbreviato ma ininterrotto degli avvenimenti siciliani dei cinque secoli, dall'827, inizio della conquista araba, al 1302, pace di Caltabellotta. Nella prefazione (a p. 23) l'Orlando afferma che quei cinque secoli «sembrano costituire un monolitico periodo, durante il quale la storia ha bagliori di epopea» e che essi non sono da riguardare come storia particolare, o locale che dir si voglia, ma come storia universale, perché «se universale è la storia che all'umanità si riferisce come ad un tutto ideale, sebbene abbia il suo centro vitale solo in un determinato punto dello spazio, come Atene, Roma, Gerusalemme, ecc., non si può negare che in quei cinque secoli la Sicilia fu un nodo centrale, in cui si incontrarono, si urtarono, si elisero e si ricomposero le forze dominatrici del tempo». Per il Brandileone, l'Orlando si lascia «guidare un po' troppo dalla carità del natio loco» (è il modo solito di attutire e interpretare canonicamente i sentimenti politici centrifughi). L'Orlando divide questi cinque secoli in due periodi, dei quali il primo (dominio musulmano e normanno-svevo) sarebbe «statico», poiché in esso solo «venne elaborandosi tutta una civiltà specifica che costituì un'èra e culminò nella creazione dello Stato e nella massima potenza di esso» e nel secondo, «più dinamico», «di quello Stato avvenne la consacrazione storica e cioè la passione per la difesa dell'indipendenza nel suo più formidabile cimento».

Il Brandileone polemizza sottilmente coll'Orlando e le cose che dice sono molto interessanti per la storia siciliana e meridionale, ma in questa rubrica interessa il punto di vista dell'Orlando in sé e per sé come riflesso del sicilianismo nella forma intellettuale. Realmente l'Orlando è d'accordo con l'Amari, ne sente lo stesso impulso intellettuale e morale di valorizzare la storia siciliana, di affermare che la Sicilia è stata un momento della storia universale, che il popolo siciliano ha avuto una fase creatrice di Stato, che non può non essere l'espressione di una «nazionalità siciliana» (anche se fino a questa affermazione l'Orlando non voglia arrivare come non arrivava l'Amari, dicendo di essersi sentito italiano anche prima del '48). Il Brandileone oppone all'Orlando il punto di vista espresso dal Croce nella Storia del Regno di Napoli: cioè che «quella storia nella sua sostanza non è nostra o nostra è soltanto per piccola parte e "secondaria", storia rappresentata sulla nostra terra e non generata dalle sue viscere». È vero che il Croce si riferisce al periodo normanno-svevo per il Mezzogiorno, ma secondo il Brandileone deve riferirsi anche alla Sicilia. Il punto di vista del Croce genericamente è esatto, ma nel tempo in cui quella storia si svolgeva era essa sentita dal popolo come propria e in che misura? E qual era la parte creativa della popolazione? In ogni modo questi avvenimenti impressero una certa direttiva alla storia del paese, crearono certe condizioni che continuarono e continuano ancora ad operare in certi limiti.

Luigi Natoli: Rivendicazioni (attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860),

Treviso, «Cattedra italiana di pubblicità», 1927. «Il Natoli vuole reagire contro quella tendenza di studi e di studiosi che ancora oggi o per scarsa padronanza delle testimonianze o per residui di antiche prevenzioni politiche, mira a svalutare il contributo della Sicilia alla storia unitaria del Risorgimento. L'autore polemizza specialmente con B. Croce, il quale considera la rivoluzione siciliana del 1848 come un " moto separatista " dannoso alla causa italiana, ecc.».

Ciò che è interessante, in questa letteratura siciliana, giornalistica o libresca, è il tono fortemente polemico e irritato (unitarismo ossessionato). La quistione invece dovrebbe essere molto semplice, dal punto di vista storico: il separatismo o c'è stato o non c'è stato o è stato solo tendenziale in una misura da determinarsi secondo un metodo storicamente obiettivo, astraendo da ogni valutazione attuale di polemica di partito, di corrente o di ideologia; la ricostruzione delle difficoltà incontrate in Sicilia dal moto unitario potrebbero non essere maggiori o diverse da quelle incontrate in altre regioni, a cominciare dal Piemonte. Se in Sicilia il separatismo ci fosse stato, ciò non dovrebbe essere storicamente considerato né riprovevole, né immorale, né antipatriottico, ma solo considerato come un nesso storico da giustificare storicamente e che in ogni modo dovrebbe servire ad esaltare di più l'energia politica degli unitari che ne trionfarono. Il fatto che la polemica continui accanita ed aspra significa dunque che sono in gioco «interessi attuali» e non interessi storici, significa in fondo che queste pubblicazioni tipo Natoli dimostrano esse stesse proprio ciò che vorrebbero negare, cioè il fatto che lo strato sociale unitario in Sicilia è molto sottile e che esso padroneggia a stento forze latenti «demoniache» che potrebbero anche essere separatiste, se questa soluzione, in determinate occasioni, si presentasse come utile per certi interessi. Il Natoli non parla del moto del '66, e tanto meno di certe manifestazioni del dopoguerra, che hanno pure un valore di sintomo per rivelare l'esistenza di correnti sotterranee, che mostrano un certo distacco tra le masse popolari e lo Stato unitario, su cui speculavano certi gruppi dirigenti.

Pare che il Natoli sostenga che l'accusa di separatismo giochi sull'equivoco, sfruttando il programma federalista che in un primo tempo parve a taluni uomini insigni dell'Isola e alle sue rappresentanze la soluzione più rispondente alle tradizioni politiche locali, ecc. In ogni modo il fatto che il programma federalista abbia avuto più forti sostenitori in Sicilia che altrove e sia durato più a lungo ha il suo significato.

Sulla rivoluzione passiva.

Protagonisti i «fatti» per così dire e non gli «uomini individuali». Come sotto un determinato involucro politico necessariamente si modificano i rapporti sociali fondamentali e nuove forze effettive politiche sorgono e si sviluppano che influiscono indirettamente, con la pressione lenta ma incoercibile, sulle forze ufficiali che esse stesse si modificano senza accorgersene o quasi.

Accanto ai concetti di rivoluzione passiva, di rivoluzione-restau razione, ecc., porre questa affermazione di Giuseppe Ferrari (io novembre 1864 in Parlamento): «Noi siamo il governo più libero che abbia mai avuto l'Italia da cinquecento anni; se io esco da questo Parlamento, io cesso di appartenere alla rivoluzione ordinata, legale, ufficiale».

A proposito della minaccia continua che il governo austriaco faceva ai nobili del Lombardo-Veneto

di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini (minaccia non vana, perché già attuata in Galizia contro l'aristocrazia polacca), sono interessanti alcuni spunti di storia della Polonia contenuti in un articolo della «Pologne Littéraire», riassunto dal «Marzocco» del i° dicembre 1929- Il giornale polacco, ricercando le «cause storiche» dello spirito militare dei Polacchi, per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70.000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta». Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini — il re di russia, l'imperatore d'Austria, e lo zar di Russia — e che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese nell'agosto 1789. «La Polonia fu conquistata con la piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei loro confratelli di Francia, non avevano atteso l'applicazione della carta costituzionale per provocare l'intervento straniero. Costoro preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la libertà al popolo». Secondo l'autore dell'articolo, Z. St. Klingsland, i 70.000 soldati presero la via dell'esilio e si diressero verso la Francia: ciò che è per lo meno esagerato. Il nocciolo degli avvenimenti polacchi è tuttavia altamente istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al 1859 anche in Italia.

Ê da rilevare il fatto che una pubblicazione polacca scritta in francese per la propaganda all'estero (così almeno pare) spieghi la spartizione della Polonia del 1792 specialmente col tradimento dei nobili piuttosto che con la debolezza militare polacca, nonostante che la nobiltà abbia ancora in Polonia una funzione molto rilevante e Pilsudsky si sia ben guardato anche lui dal procedere a una radicale riforma agraria. Strano «punto d'onore» nazionale. Darwin, nel Viaggio di un naturalista intorno al mondo, racconta un episo dio simile per la Spagna: i suoi interlocutori sostenevano che una sconfitta della flotta alleata franco-spagnola era stata dovuta alla slealtà degli spagnoli, i quali se avessero combattuto davvero, non avrebbero potuto essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che «senza spirito militare invincibile».

Federico Confalonieri.

Per capire l'impressione «penosa» che produceva tra gli esuli italiani l'atteggiamento di inerzia del Confalonieri durante la sua dimora all'estero, dopo la liberazione dallo Spielberg, occorre tener presente un brano della lettera scritta dal Mazzini a Filippo Ugoni il 15 novembre 1838, pubblicata da Ugo da Como nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1928 (Lettera inedita di Giuseppe Mazzini): «Mi sorprende che Confalonieri rientri. Quando tu mi parli della guerra che susciterebbe nel mio cuore il pensiero di mia madre, di mio padre, della sorella che mi rimane, dici il vero; ma Confalonieri da che affetto prepotente è egli richiamato in Italia? dopo la morte di Teresa sua moglie? Non capisco la vita se non consacrata al dovere o all'amore che è anch'esso un dovere. Intendo, senza approvare o disapprovare, l'individuo che rinunzia alla lotta pel vero e pel bene a fronte della felicità o infelicità di persone care e sacre; non intendo chi vi rinunzia per vivere, come si dice, quieto; otto o dieci anni di vita d'individualismo, di sensazioni che passano e non producono cosa alcuna per altri, conchiusi dalla morte, mi paiono cosa spregevole per chi non ha credenza di vita futura, più che spregevole rea forse per chi ne ha. Confalonieri, solo, in età già inoltrata, senza forti doveri che lo legano a una famiglia di esseri amati, dovrebbe, secondo me, aver tutto a noia fuorché la idea di contribuire all'emancipazione del suo paese e alla crociata contro l'Austria».

Il Da Como, nella sua introduzione alla lettera, scrive: «E per questo è pure nella nostra lettera un accorato pensiero per Federico Confalonieri. Egli era passato da Londra, un anno prima, diretto in Francia: Mazzini aveva saputo che era mesto e silenzioso, ma i patimenti, secondo lui, non dovevano mutare il fondo dell'anima. Lo seguiva con trepidazione, perché voleva che fosse sempre un'alta diritta figura, un esempio. Pensava che se egli stesso fosse uscito dallo Spielberg, trovandosi un deserto d'intorno, non avrebbe ad altro inteso che al modo di ritentare qualche cosa a pro dell'antica idea e finirvi. Non voleva che supplicasse, che volesse e ottenesse il ritorno chi aveva sofferto quindici anni senza avvilirsi, senza indizi di cangiamento. Voleva che fosse sempre un nuovo Farinata degli Uberti, come lo raffigurò Gabriele Rosa, affettuoso e costante esaltatore, sino all'ultimo, del suo compagno di prigionia».

Il Da Como è completamente fuori strada e le parole del Mazzini, oltre che accorate, sono aspre e dure. L'agiografia impedisce al Da Como di rilevare il tono giusto delle parole del Mazzini.

Altri accenni al Confalonieri nell'epistolario mazziniano, e nelle lettere degli altri esuli: il giudizio reale bisogna cercarlo appunto in queste lettere private, perché si comprende che gli esuli non abbiano voluto pubblicamente gettare ombra sulla figura del Confalonieri. Una ricerca indispensabile è da farsi nelle relazioni degli informatori austriaci al governo di Vienna dai paesi dove il Confalonieri dimorò dopo la liberazione e nelle istruzioni che questi informatori ricevevano da Metternich.

Silvio D'Amico, in un capitolo del suo libro Certezze5, scrive che in una raccolta del museo dello Spielberg è conservata la «supplica rivolta a Francesco I dal conte Confalonieri di Milano entrato in carcere, come si sa, fiorente di gagliardissima giovinezza: egli scrive all'imperatore come un uomo fiaccato, chiedendo grazia e pietà. Documento spaventevole, dico, perché anche lasciando la debita parte alle forme servili del tempo [da parte del Confalonieri?], difatto qui le parole imploranti denunciano una violazione spirituale cento volte più turpe di una condanna a morte, gemono la disfatta di una tempra spezzata in due: non è più il baldo patrizio che parla, è il fanciullo che un gigante ha costretto a scrivere a proprio talento, schiacciandogli l'esile mano nel pugno d'acciaio, è il meschinissimo che è stato stordito e ubbriacato per vederlo delirare».

Scrive il D'Amico che questo museo dello Spielberg è stato messo insieme, col permesso del governo ceco, dal dottor Aldo Zaniboni, un medico italiano che viveva o vive ancora Brno. Avrà fatto qualche pubblicazione in proposito? E questa supplica del Confalonieri è stata pubblicata?

I Mémoires dell'Andryane6 sono stati tradotti in italiano da F. Regonati, (quattro volumi, 1861, Milano) corredati da documenti.

Posizione del Luzio contro Andryane, mentre giustifica il Salvotti (!), confrontare altre osservazioni del Luzio e il carattere tendenzioso e acrimonioso dei suoi scritti sul Risorgimento.

Confrontare G. Trombadori, Il giudizio del De Sanctis sul Guicciardini, nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931 ; scrive il Trombadori: «La legittima ammirazione che tutti tributiamo al Luzio, soprattutto per l'opera da lui svolta nel campo degli studi sul nostro Risorgimento, non deve essere scompagnata dalla conoscenza dei limiti entro cui è chiusa la sua visione della storia, che sono un moralismo piuttosto esclusivistico e quella mentalità così schiettamente giuridica [ma è esatto dire giuridica o non è piuttosto "giudiziaria "?] che lo ha fatto impareggiabile indagatore di carte processuali, ecc.»

Ma non si tratta solo di temperamento, si tratta specialmente di tendenziosità politica. Il Luzio potrebbe chiamarsi il Cesare Cantù del moderatismo conservatore7. Continuo la citazione sul Luzio del Trombadori: «Sono due atteggiamenti che si integrano e si completano a vicenda, per cui qualche volta ti sembra che la sua portentosa perizia nel sottoporre all'analisi deposizioni e testimonianze e "costituiti" abbia l'unico fine di liberare qualcuno dalla taccia di vigliacco e di traditore, o di ribadirgliela, di condannare o di assolvere. Così avviene che raramente egli si sottragga al gusto di accompagnare ai nomi di uomini che nella storia ebbero la loro parte grande o piccola, aggettivi come vile, generoso, nobile, indegno e via dicendo». Perciò il Luzio partecipò alla polemica che si svolse negli anni scorsi sul Guicciardini, contro il giudizio del De Sanctis, naturalmente per difendere il Guicciardini, credendo che ci fosse bisogno di difenderlo, come se il De Sanctis avesse fatto una requisitoria da procuratore contro di lui e non avesse invece rappresentato un periodo della cultura italiana, quello dell'«uomo dèi Guicciardini»; l'intervento del Luzio anche in questo caso non è un fatto di «temperamento» di studioso, ma un fatto politico tendenziale: in realtà «l'uomo del Guicciardini» è il rappresentante ideale del «moderato» italiano — sia esso lombardo, toscano o piemontese — tra il 1848 e il 1870 e del moderno clerico-moderato, di cui il Luzio è l'aspetto «istoriografico».

E' da notare che il Croce non cita, neppure per incidenza, il nome del Luzio nella sua Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, edizione del 1921, sebbene una parte dell'opera del Luzio risalga agli anni precedenti il 1900: mi pare ne parli però nell'appendice pubblicata recentemente nella «Critica» e incorporata poi nella nuova edizione del libro.

Il Confalonieri, prima di essere tradotto allo Spielberg e, dopo la liberazione, prima di essere tradotto nel carcere di Gradisca, per essere poi deportato, andò a Vienna. Vedere se anche in questo secondo soggiorno a Vienna, che si disse fatto per ragioni di salute, ebbe colloqui con uomini politici austriaci. I dati esterni sulla vita del Confalonieri si possono trovare nelle pubblicazioni del D'Ancona.

Come curiosità sarà da vedere il dramma di Rino Alessi, Il Conte Aquila. Ma perché l'Alessi ha creduto di chiamare il Confalonieri il conte «Aquila»?

Confidenti e agenti provocatori dell'Austria.

I confidenti che operavano all'estero e che dipendevano dalla Cancelleria di Stato di Vienna, non dovevano fare gli agenti provocatori: ciò risulta dalle precise istruzioni del principe di Metternich che in un dispaccio segreto dell'8 febbraio 1844 indirizzato al conte Appony, ambasciatore d'Austria a Parigi, così si esprimeva in merito al servizio che prestava nella capitale francese il famigerato Attilio Partesotti: «Il grande fine che il Governo Imperiale si propone non è di trovare dei colpevoli né di provocare delle imprese criminali... Partesotti deve di conseguenza considerarsi come un osservatore attento e fedele ed evitare con cura di essere agente provocatore». (Documento della Staats\anzlei di Vienna). Il brano è riportato da Augusto Sandonà nello studio, Il preludio delle cinque giornate di Milano - Nuovi documenti, pubblicato nella «Rivista d'Italia» del 15 gennaio 1927 e sgg., con riferimento all'accusa lanciata dal dottor Carlo Casati (Nuove rivelazioni sui fatti di Milano del 1847-48, Milano, Hoepli, 1885) e dall'Archivio triennale delle cose d'Italia (vol. I, Capolago, Tip. Elvetica, 1850) contro il barone Carlo Torresani, direttore generale della polizia di Milano dal 1822 al 1848, di aver organizzato un servizio di agenti provocatori che inscenassero i tumulti. È da osservare però che, nonostante le disposizioni del Metternich, gli agenti provocatori potevano operare lo stesso o per ne­cessità delle polizie locali o anche per necessità personale dei me­desimi «osservatori».

I galeotti politici napoletani8.

« Quando nel 1849 cominciò la reazione borbonica nel Napoletano, gli inscritti nelle liste degli "at­tendibili ", cioè colpiti dalla sorveglianza poliziesca furono 31.062 e raggiunsero fino alla fine i 100.000 ». La maggior parte incorsero nelle pene minori del domicilio forzoso, dell'esilio, della detenzione, della reclusione e scontarono semplicemente il carcere preventivo per mesi e anche anni.

Il Monaco ha cercato di ricostruire la lista di questi lottatori, ma ha dovuto limitarsi ai condannati alle pene più gravi e special­mente ai condannati dalle grandi Corti speciali e che passarono lunghi anni nelle galere. Questi sono stati circa un migliaio, di varia origine sociale : possidenti e commercianti, medici e avvocati, sarti e falegnami, contadini e braccianti... Il libro del Monaco deve es­sere molto interessante per varie ragioni: 1) perché mostra che gli elementi attivi politici furono nel Napoletano pili numerosi di quanto si potesse pensare (100.000 sospetti e sottoposti a misure di polizia è un bel numero in tempi in cui i partiti erano embrionali); 2) perché dà informazioni sul regime carcerario borbonico per i po­litici e per i comuni (che si trovavano insieme): 157 politici morirono in galera, almeno io divennero pazzi; 3) si può, dal libro, vedere quale partecipazione dettero all'attività politica le diverse categorie sociali. Il bagno di Procida fu il pili popolato di politici: nel 1854 ve ne erano 398.

L'episodio dell'arresto dei fratelli La Gala nel 1863. Nell'articolo Ricordi personali di politica interna (« Nuova Antologia », i° apri­le 1929), Tommaso Tittoni dà alcuni particolari inediti sull'arresto dei La Gala a Genova. I La Gala, rifugiatisi negli Stati pontifici, si erano stabiliti a Oriolo Romano, paesello prossimo a Manziana dove era nato Vincenzo Tittoni (padre di Tommaso). Un amico di Vincenzo e corrispondente del Comitato Nazionale romano avverti il Comitato stesso che i La Gala si erano imbarcati a Civitavecchia sul vapore francese, Aunis, che si recava a Marsiglia facendo, scalo a Livorno e a Genova. Il Comitato avverti a Livorno Vincenzo Tittoni al quale la notizia pervenne mentre XAunis salpava per Genova. Il Tittoni corse dal prefetto e lo indusse a telegrafare al prefetto di Genova, il quale, senza attendere le istruzioni del ministro, prese su di sé la responsabilità di arrestare i La Gala a bordo dell'Aunis9.

Carlo Alberto.

Niccolò Rodolico, La prima giovinezza di Carlo Alberto, nel « Pegaso » del novembre 1930 10. Da studiare l'elaborazione, che avviene nella classe politica piemontese, durante l'impero napoleonico, ma specialmente dopo la sua caduta, del gruppo che si stacca dai conservatori municipalisti per indicare alla dinastia un compito di unificazione nazionale, gruppo che avrà la sua massima estrinsecazione nei neoguelfi del '48. Carattere dinastico e non nazionale di questo nuovo gruppo (di cui il de Maistre è elemento notevolissimo): politica furbesca, più che machiavellica, di esso, che però diventerà la politica prevalente dei dirigenti fino al '70 e anche dopo; sua debolezza organica che si mostra specialmente nel nodo '48-49 e che è legata a questa politica di furberia meschina e angusta.

Vedi nel « Corriere della Sera » del 16 ottobre 1931 l'articolo di Gioachino Volpe, Quattro anni di governo nel diario autografo del Re (sul libro di Francesco Salata, Carlo Alberto inedito). Il Volpe è anodino e prudente all'eccesso nei suoi giudizi e nella sua esposizione. Un capitoletto è intitolato : « Contro le ingerenze stra­niere », ma quali sono queste ingerenze? Carlo Alberto è favorevo­lissimo all'intervento dell'Austria nelle Legazioni; è contro l'inge­renza (?) negli affari interni del Piemonte dell'Ambasciatore fran­cese e del Ministro inglese che vorrebbero una conferenza a Torino per regolare le faccende dello Stato e della Chiesa: Carlo Alberto preferi l'intervento armato dell'Austria nelle Legazioni piuttosto che fare intervenire le proprie truppe come il Papa desiderava, perché non voleva che i soldati piemontesi si contagiassero di libe­ralismo o nei Romagnoli nascesse il desiderio di unirsi al Piemonte.

Tradizioni militari del Piemonte.

Non esistevano in Piemonte fabbriche di armi: le armi dovevano tutte essere comprate all'estero. Come «tradizione» militare non c'è male. Su questo argomento sarà bene fare delle ricerche. Le armi che Carlo Alberto mandò al Sonderbund svizzero, e che sguarnirono il Piemonte prima del '48, furono vendute e a quanto o regalate? Il Piemonte ci perdette? Quando fu impiantata la prima fabbrica d'armi? Nel discorso di Cavour al Senato del 23 maggio 1851, si dice appunto che non esistono fabbriche e che si spera, dopo il ribasso del prezzo del ferro che sarà determinato dalla politica liberista (trattato con l'Inghilterra) che fabbriche d'armi potranno nascere.

Solaro della Margarita.

Il Memorandum del Solaro della Margarita va integrato con l'articolo Visita del Solaro della Margarita a Pio IX nel 1846, con documenti inediti (tratti dagli Archivi Vaticani e dall'Archivio Solaro, nella «Civiltà Cattolica» del 15 settembre 1928). La conoscenza della personalità politica di Solaro della Margarita è indispensabile per ricostruire il «nodo storico '48-49». Bisogna porre bene la quistione: Solaro della Margarita era un reazionario piemontese, fortemente legato alla dinastia: l'accusa di «austriacante» è puramente arbitraria, nel senso volgare della parola. Solaro avrebbe voluto l'egemonia piemontese in Italia e la cacciata degli Austriaci dall'Italia, ma solo con mezzi diplomatici normali, senza guerra e specialmente senza rivoluzione popolare. Contro i liberali voleva l'alleanza con l'Austria, si capisce. L'articolo della «Civiltà Cattolica» serve anche per giudicare la politica di Pio IX fino al '48. In questo articolo c'è qualche indicazione bibliografica sul Solaro.

Bisogna ricordare il fatto che il governo piemontese dette armi ai cattolici del Sonderbund insorti, svuotando i magazzini militari, nonostante che si preparasse il '48. Solaro voleva che il Piemonte estendesse la sua influenza in Isvizzera, cioè voleva spostare l'asse della politica italiana.

Gioberti e il giacobinismo.

Atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo prima e dopo il '48. Dopo il '48, nel Rinnovamento, non solo non c'è accenno al panico che il '93 aveva diffuso nella prima metà del secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai metodi giacobini che potevano essere più dolci, ecc.). Questo atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il '48 è da notare come fatto culturale molto importante; si giustifica con gli eccessi della reazione dopo il '48, che portavano a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del giacobinismo francese.

Ma, oltre a questo tratto, è da notare che nel Rinnovamento il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi: 1) nell'affermazione dell'egemonia politica e militare del Piemonte, che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la Francia: questo punto è molto interessante ed è da studiare nel Gioberti anche prima del '48. Il Gioberti senti l'assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del '48, Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la politica-milizia il primo, per l'ideologia-religione la seconda. Dopo il '48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti dice che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti, sia pure vagamente, ha ii concetto del «popolare-nazionale» giacobino dell'egemonia politica, cioè dell'alleanza tra borghesi-intel- lettuali (ingegno) e il popolo; ciò in economia (e le idee di Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura), in cui le idee sono più distinte e concrete perché in questo campo c'è meno da compromettersi. Nel Rinnovamento (parte II, capitolo Degli scrittori scrive: «... Una letteratura non può essere nazionale se non è popolare; perché se bene sia di pochi di crearla, universale dee esserne l'uso e il godimento. Oltre che, dovendo ella esprimere le idee e gli affetti comuni e trarre in luce quei sensi che giacciono occulti e confusi nel cuore delle moltitudini, i suoi cultori debbono non solo mirare al bene del popolo, ma ritrarre del suo spirito; tanto che questo viene ad essere non solo il fine, ma in un certo modo eziandio il principio delle lettere civili. E vedesi col fatto che esse non salgono al colmo della perfezione e dell'efficacia se non quando s'incorporano e fanno, come dire, una cosa colla nazione, ecc.»11.

In ogni modo che l'assenza di un «giacobinismo italiano» fosse sentita, appare dal Gioberti. E il Gioberti è da studiare da questo punto di vista. Ancora: è da notare come il Gioberti sia nel Primato che nel Rinnovamento si mostri uno stratega del movimento nazionale, e non solamente un tattico. Il suo realismo lo porta ai compromessi, ma sempre nella cerchia del piano strategico generale. La debolezza del Gioberti come uomo di Stato è da cercare nel fatto che egli fu sempre esule, non conosceva quindi gli uomini che doveva maneggiare e dirigere e non aveva amici fedeli (cioè un partito): quanto più egli fu stratega, tanto più doveva appoggiarsi su forze reali e queste non conosceva e non poteva dominare e dirigere. Così occorre studiare il Gioberti per analizzare quello che in altre note è indicato come «nodo storico del '48-49» e il Risorgimento in generale, ma il punto culturale più importante mi pare sia questo di «Gioberti giacobino», giacobino teorico, s'intende, perché in pratica egli non ebbe modo di applicare le sue dottrine.

L'ultimo paragrafo di un lungo articolo della «Civiltà Cattolica» (2 marzo, 16 marzo 1929), Il Padre Saverio Bettinelli e l'abate Vincenzo Gioberti, può essere interessante come spunto. Sempre in polemica col Gioberti, la «Civiltà Cattolica» ancora una volta dice di voler smentire l'affermazione che i gesuiti del secolo xix siano stati avversari dell'Italia e anzi cospiranti coli'Austria. Secondo la «Civiltà Cattolica»: «Cominciando da Pio IX fino al più semplice prete di contado, l'unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all'invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l'unione politica dell'Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori di ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non si oppose all'unità ma la voleva in modo diverso in quanto all'esecuzione. Questa era l'idea di Pio IX, dell'alta gerarchia dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese, capitanato dal conte Solaro della Margarita».

Difende specificatamente i gesuiti dall'accusa di antiunitarismo e austriacantismo contro un articolo di Antonio Bruers pubblicato nella «Stirpe» dell'agosto 1928; il Bruers recensisce sfavorevolmente il libro del prof. U. A. Padovani della Università del S. C., Vincenzo Gioberti e il Cattolicismo, Milano, Soc. Ed. «Vita e Pensiero», 1927, che appunto deve polemizzare col Gioberti per il suo antigesuitismo. Scrive la «Civiltà Cattolica»: «In sentenza definitiva, accertiamo che i gesuiti, come Pio IX, e tutto in generale il clero italiano e l'intero partito conservatore laicale che non era poco, non combatterono mai l'unità in se stessa, ma l'unità violenta come si andava praticando, ossia il modo di attuare, quell'unità che era nel desiderio comune. Oh, che non si può amare la patria se non alla stregua altrui?»

Ricorda poi che «a far porre nell'Indice dei libri proibiti le opere del Gioberti, fu lo stesso re Carlo Alberto», e nota gesuite- scamente: «dunque il re Carlo Alberto avrebbe condannato la politica del Gioberti, cioè la propria»!; ma probabilmente nel momento in cui Carlo Alberto domandava i rigori della Chiesa contro Gioberti, la sua politica era quella di Solaro della Margarita. In ogni modo, è bellissimo il fatto paradossale che oggi i gesuiti possano mettere nel sacco questi scrittorelli tipo Bruers.

Nella prefazione alle Letture del Risorgimento il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovine Italia nel 1834, tornò a quello che il San- tarosa voleva e chiamava " cospirazione letteraria " ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto alta portava la tradizione italiana, finché usci nell'agone col Primato e predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse a sé il giovane clero, che alla sua volta traevasi dietro il popolo credente anche delle campagne». In altro punto il Carducci scrive: «...L'abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che s'era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del '21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d'Italia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll'Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo...»

Risorgimento e Rinnovamento nel Gioberti.

È da vedere la distinzione che il Gioberti fa tra «Risorgimento» e «Rinnovamento», tra la situazione prima del '48 e dopo il '48, sia interna — rapporti tra i vari Stati italiani e le classi sociali italiane — sia internazionale, della posizione dell'Italia nel complesso dei rapporti tra gli Stati europei e le forze politiche di questi Stati.

I moderati toscani.

Confrontare la conferenza di Mario Puccioni, Uomini del Risorgimento in Toscana, pubblicata nella «Miscellanea storica della Valdelsa» e riassunta nel «Marzocco» del 15 novembre 1931. L'attività apologetica del Puccioni a favore dei moderati toscani è un tratto interessante della cultura toscana moderna: dimostra come ancora sia instabile la coscienza nazionale del ceto dirigente toscano e la sua «dignità e prestigio» discussi.

I moderati toscani trovarono aiuto e adesione soltanto nella borghesia colta, nella piccola possidenza e nel popolo della città: l'aristocrazia con la classe agricola rappresentò l'assenteismo e il quietismo. «Scoppiata (!) la rivoluzione, fu provvidenziale che la sera del 27 aprile Ubaldino Peruzzi accettasse di far parte del triumvirato, rassicurando i timidi del granducato e le diplomazie, tutte avverse al movimento, che sotto di lui non si sarebbero ripetuti gli eccessi del 1849».

Cosa c'è di «nazionale» in tutto ciò? I moderati erano espressione dunque, dei «timori» dell'aristocrazia e della gente per bene che aveva paura degli «eccessi» e delle diplomazie; cosa c'è di «nazionale» in questa espressione? E perché le classi agricole erano assenti? Non erano esse la maggioranza del popolo toscano, cioè la «forza nazionale» ? La paura degli «eccessi» non era la paura che tali classi entrassero in movimento per le loro rivendicazioni progressive e i «paurosi» non erano i retrivi conservatori di uno statu quo antinazionale, tanto vero che era quello dell'antico regime? Si tratta dunque di una ripetizione del vecchio principio: «Franza o Spagna, purché se magna». Granducato o Italia unita, purché le cose rimangano come sono: il fatto politico e nazionale è indifferente, ciò che conta è l'ordinamento economico-sociale che deve essere conservato contro le forze nazionali progressive.

Così è della paura delle diplomazie. Come può una rivoluzione aver paura delle diplomazie? Questa paura non significa coscienza di essere subordinati all'estero e di dover trascurare le esigenze nazionali per le pretese straniere? L'apologetica del Puccioni parte da concezioni ben meschine e basse: ma perché chiamare «nazionale» ciò che è solo servile e subalterno?

«Quanto più avevano tardato i moderati ad afferrare l'idea che inspirò i rivoluzionari ed a sentire la necessità dell'adesione al Piemonte, tanto più decisi (?), dopo un lavoro di ricostruzione, furono nel sostenerla, predicarla, effettuarla, a dispetto (!) delle contrarie diplomazie, a contrasto con le indebite (1) ingerenze dei seguaci del sovrano fuggito. Non è il caso di preoccuparci (!) se i moderati accederono a cose fatte (— o non furono precursori? —) alla rivoluzione: constatiamo invece quanto fosse utile e indispensabile il loro appoggio, se non altro (!) a mostrare (!) all'estero che i terribili rivoluzionari erano rappresentati da uomini della migliore società, i quali avrebbero avuto tutto da perdere e nulla da guadagnare da una rivoluzione, quando essa non fosse riuscita seria e prometti trice di migliore avvenire». Migliore per chi? e come? Il Puccioni diventa spassoso, ma è spassoso che egli sia invitato a dir^ tali cose e che le sue proposizioni e il suo modo di pensare siano applauditi.

Politica e diplomazia.

Cavour, aneddoto riportato da Ferdinando Martini, Confessioni e ricordi, 1859-1892 (ed. Treves, 1928), pp. 150- 151: per Crispi, il Cavour non doveva essere considerato come un elemento di prima linea nella storia del Risorgimento, ma solo Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini. «Il Cavour? Che cosa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzione...» Il Martini annota: «Non osai dirlo, ma pensai: "E scusate se è poco!"» Mi pare che il Crispi e il Martini seguano due ordini diversi di pensieri. Il Crispi intende riferirsi agli elementi attivi, ai «creatori» del movimento nazionale-rivoluzione, cioè ai politici propriamente detti. Pertanto la diplomazia è per lui attività subalterna e subordinata: il diplomatico non crea nuovi nessi storici, ma lavora a fare sanzionare quelli che il politico ha creato: Talleyrand non può essere paragonato con Napoleone.

In realtà, il Crispi ha torto, ma non per ciò che il Martini crede. Il Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi essenzialmente un politico «creatore», solo che il suo modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di Garibaldi, ma quello di Cavour trionfò, né si capisce come il Crispi ponga accanto Vittorio Emanuele a Mazzini e Garibaldi; Vittorio Emanuele sta con Cavour, e attraverso Vittorio Emanuele Cavour domina Garibaldi e anche Mazzini. È certo che Crispi non avrebbe potuto riconoscere giusta questa analisi per «l'affetto che l'intelletto lega»; la sua passione settaria era ancora viva, come rimase viva sempre in lui, pur nelle mutazioni radicali delle sue posizioni politiche. D'altronde, neanche il Martini avrebbe mai ammesso (almeno in pubblico) che Cavour sia stato essenzialmente un «pompiere», o si potrebbe dire «un termidoriano preventivo», poiché né in Mazzini né in Garibaldi né in Crispi stesso c'era la stoffa dei giacobini del Comitato di Salute pubblica. Come ho notato altrove, Crispi era un temperamento giacobino, non un «giacobino politico-economico», cioè non aveva un programma il cui contenuto potesse essere paragonato a quello dei giacobini e neppure la loro feroce intransigenza.

D'altronde: c'erano in Italia alcune delle condizioni necessarie per un movimento come quello dei giacobini francesi? La Francia da molti secoli era una nazione egemonica: la sua autonomia internazionale era molto ampia. Per l'Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse concretamente superiore alla politica creativa, fosse la «sola politica creativa». Il problema non era di suscitare una nazione che avesse il primato in Europa e nel mondo, o uno Stato unitario che strappasse alla Francia l'iniziativa civile, ma di rappezzare uno Stato unitario purchessia. I grandi programmi di Gioberti e di Mazzini dovevano cedere al realismo politico e all'empirismo di Cavour. Questa assenza di «autonomia internazionale» è la ragione che spiega molta storia italiana e non solo delle classi borghesi. Si spiega anche così il perché di molte vittorie diplomatiche italiane, nonostante la debolezza relativa politico-militare: non è la diplomazia italiana che vince come tale, ma si tratta di abilità nel saper trarre partito dall'equilibrio delle forze internazionali: è un'abilità subalterna, tuttavia fruttuosa. Non si è forti per sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il più forte senza l'Italia.

A proposito del giacobinismo di Crispi è anche interessante il capitolo Guerra di successione dello stesso libro del Martini (pp. 209-224, specialm. p. 224). Dopo la morte di Depretis, i settentrionali non volevano la successione di Crispi siciliano. Già presidente del Consiglio, Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo, ecc., afferma che non esistono più regionalismi, ecc. Sembra questa una dote positiva di Crispi, mi pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non aver osato, come i giacobini osarono di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali torze si scatenino: «un fogliame» era nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.

Sarà da ricercare attentamente se nel periodo del Risorgimento sia apparso almeno qualche accenno di un programma in cui l'unità della struttura economico-sociale italiana sia stata vista in questo modo concreto: ho l'impressione che stringi, stringi, il solo Cavour ebbe una concezione di tal genere, cioè nel quadro della politica nazionale, pose le classi agrarie meridionali come fattore primario, classi agrarie e non contadini naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi proprietari e grandi intellettuali. Sarà da studiare perciò il volume speciale dei carteggi cavourriani dedicato alla Qui- stìone meridionale. (Altro da studiare a questo riguardo: Giuseppe Ferrari, prima e dopo il '60; dopo il '60 i discorsi parlamentari sui fatti del Mezzogiorno).

Cosa significa nel libro di Alberto Cappa sul Cavour, l'insistere contìnuamente nell'affermazione che la politica del Cavour rappresenta il «giusto mezzo» ? Perché «giusto» P Forse perché ha trionfato? La «giustezza» della politica del Cavour non può essere teorizzata a priori; non può trattarsi di una «giustezza» razionale, assoluta, ecc. In realtà non si può parlare di una funzione da intermediario in Cavour, ciò che diminuirebbe la sua figura e il suo significato. Cavour segui una sua linea, che trionfò non perché mediasse opposti estremismi, ma perché rappresentava lesola politica giusta dell'epoca, appunto per l'assenza di validi e intelligenti (politicamente) competitori. Nel Cappa il «giusto mezzo» rassomiglia molto al «giusto prezzo», all'«ottimo governo», ecc. In realtà avviene che sfugge poi al Cappa quale sia stata la reale politica cavourriana, la politica indipendente, originale, ecc., qualunque sia il giudizio che di essa si possa dare per i risultati che ha avuto nell'epoca successiva, cioè anche se si debba dire che essa fu molto meno «nazionale» di quanto il Cappa, secondo i figurini ufficiali, vuol far credere, anche se essa fu una lotta vittoriosa contro le forze popolari (senza «giusto mezzo») ciò che contribuì a costituire uno Stato angusto, settario, senza possibilità d'azione internazionale perché sempre minacciato dall'insorgere di forze sovvertitrici elementari, che appunto Cavour non volle «nazionalizzare».

Che il Cavour abbia, come metodo di propaganda politica, assunto una posizione da «giusto mezzo» non ha che un significato secondario. In realtà, le forze storiche cozzano tra loro per il loro pro- gramma «estremo». Che, tra queste forze, una assuma la funzione di «sintesi» superatrice degli opposti estremismi è una necessità dialettica, non un metodo aprioristico. E saper trovare volta per volta il punto di equilibrio progressivo (nel senso del proprio programma) è l'arte del politico, non del giusto mezzo, ma proprio del politico che ha una linea molto precisa e di grande prospettiva per l'avvenire. Il Cappa può essere portato come esempio nell'esposizione della forma italiana del «proudhonismo» giobertiano, dell'antidialettica, dell'opportunismo empirico e di corta vista.

Il peso relativamente preponderante che i fattori internazionali ebbero nello sviluppo del Risorgimento risulta dal particolare realismo del Cavour, che consisteva nel valutare in una misura che sembrava mostruosa al Partito d'Azione l'attività diplomatica. Quando Crispi credendo di diminuire l'importanza di Cavour disse a Ferdinando Martini, che Cavour non aveva fatto altro che «diplomatizzare la rivoluzione» in realtà egli, senza volerlo, riconosceva l'indispensabilità del Cavour. Ma, per Crispi, ammettere che organizzare i rapporti internazionali fosse stato più importante ed essenziale che organizzare i rapporti interni, sarebbe stato impossibile: avrebbe significato ammettere che le forze interne nazionali erano troppo deboli in confronto dei còmpiti da risolvere e che, specialmente, esse si erano mostrate impari alla loro missione e politicamente impreparate e abuliche (abuliche nel terreno della volontà politica concreta e non del giacobinismo formale). Perciò il «realismo di Cavour» è un argomento ancora da trattare, senza pregiudizi e senza retorica.

Gli avvenimenti del febbraio 1853 a Milano e i moderati.

Nell'articolo su Francesco Brioschi («Marzocco» del 6 aprile 1930, capitolo del libro Rievocazioni dell'Ottocento), Luca Beltrami ricorda come il Brioschi fu accusato di aver firmato l'indirizzo di devozione a Francesco Giuseppe nel febbraio 1853 (dopo l'attentato di un calzolaio viennese). Il Beltrami afferma che il Brioschi non firmò (se c'è un Brioschi fra i firmatari, non si tratta dell'illustre matematico, professore dell'Università di Pavia e futuro organizzatore del Politecnico di Milano). Il Beltrami annota: «E non sarebbe nemmeno da definire atto di cortigianeria quello dei funzionari del governo, invitati " a firmare la protesta contro l'atto insano e incosciente di un calzolaio viennese», dimenticando: 1) che l'indirizzo fu firmato dopo la repressione di Milano e alla vigilia di Belfiore; 2) che i nobili milanesi firmatari non erano «funzionari»; 3) che se il Brio- schi, funzionario, non firmò, senza essere perseguitato, significa che non solo i nobili ma anche i funzionari potevano non firmare. Pertanto nella sua annotazione è implicita la condanna morale di tutti i firmatari.

Massimo d'Azeglio.

In questi anni molte pubblicazioni apologe tiche su Massimo d'Azeglio, specialmente del nominato Marcus de Rubris (vedere quanti titoli il de Rubris ha inventato per il d'Azeglio: il cavaliere della nazione, l'araldo della vigilia, ecc. ecc.). Raccogliere materiali per un capitolo di «fame usurpate».

Nel 1860, il d'Azeglio, governatore di Milano, impedi che fossero mandate armi e munizioni a Garibaldi per l'impresa di Marsala, «sembrandogli poco leale (!) aiutare una insurrezione contro il regno di Napoli, con cui si era in relazioni diplomatiche», come scrive il senatore Mazziotti12. Poiché il d'Azeglio, in altre occasioni non fu così attaccato alla «lealtà», il suo atteggiamento deve essere spiegato con l'avversione cieca e settaria al Partito d'Azione e a Garibaldi. L'atteggiamento del d'Azeglio spiega la politica pavida e ondeggiante di Cavour nel '60: d'Azeglio era un Cavour meno intelligente e meno uomo di Stato, ma politicamente si rassomigliavano: non si trattava tanto per loro di unificare l'Italia, quanto di impedire che operassero i democratici.

Il 1849 a Firenze.

Nella «Rassegna Nazionale» (riportato dal «Marzocco» del 21 febbraio 1932), Aldo Romano pubblica una lettera di Ruggero Bonghi e una di Cirillo Montazio scritte a Silvio Spaventa nel 1849 da Firenze, durante il periodo della dittatura Guerrazzi-Montanelli, lettere che sono interessanti per giudicare quale fosse l'atteggiamento dei moderati verso la fase democratica del moto rivoluzionario del '48-49. Colpisce il fatto come questi due moderati si mostrino estranei agli avvenimenti, spettatori solo incuriositi ma malevoli e non attori interessati.

Ecco un brano del Bonghi, scritto quindici giorni dopo la fuga del granduca, e di stile brescianesco: «La fazione repubblicana intende a rizzare dovunque quell'albero con così poco concorso rizzato a Firenze, insino dalla sera che si seppe il proclama di de Laugier e mediante l'opera di alcuni Livornesi fatti venire a bella posta. Questo rizzamento ha poco o nessun contrasto nelle città principali o più popolose; ma ne ha molto nelle più piccole e moltissimo nelle campagne. 1er sera si voleva rizzare fuori Porta Romana; furon grida di evviva; poi contrasto di chi voleva e di chi non voleva; poi colpi di coltello e fucilate; infine un grande sconquasso. I contadini dei dintorni, credendo che fosse una baldoria che si facesse per il ritorno del granduca, o che fossero già istigati e preparati alla reazione, o comechessia, cominciarono anch'essi a fare gli evviva a Leopoldo II, a tirar fucilate, a cavar bandiere, ad agitar fazzoletti, a sparar mortaletti e cose simili».

Più sintomatico ancora è lo scritto del Montazio, che dà uno scampolo di quella che doveva essere la propaganda disfattista dei moderati: «La cecità, e, quel che è peggio, la mala fede, l'astuzia, il raggiro, mi paiono giunti al colmo. Si parla molto di patria, di libertà, ma pochi hanno in cuore la patria e saprebbero fare estremi sacrifizi ed esporre le vite a salvamento di essa. Questi santissimi nomi sono purtroppo profanati, ed i più se ne servono come pala (!) ad ottenere o potenza o ricchezza. Forse mi ingannerò, ma l'aspettarsi salvezza da costoro mi parrebbe il medesimo che aspettarsela dal turco. Io non sono avvezzo ad illudermi, né a correr dietro ai fantasmi, ché troppo gli italiani si sono lasciati prendere al laccio delle chimere, e dalle utopie di certi apostoli, i quali ormai sono troppo dannosi alla nostra disgraziata patria».

Le due lettere furono sequestrate allo Spaventa al momento dell'arresto. I Borboni erano troppo angusti di mente per servirsene contro i liberali, facendole pubblicare e commentate dai loro pen- naioli (odiavano troppo i pennaioli per averne al proprio servizio), si limitarono a passarle agli atti del processo Spaventa. (Tutta la spiritosaggine del Bonghi è concentrata in quel continuo ripetere «rizzare» e «rizzamento» alla napoletana).

Stato e Chiesa.

Polemica tra B. Spaventa e il Padre Taparelli della «Civiltà Cattolica» sui rapporti tra Stato e Chiesa. E' da confrontare la raccolta degli scritti dello Spaventa fatta da G. Gentile: La politica dei gesuiti nel secolo XVI e nel XIX, ediz. Albrighi e Segati, 1911. E' da notare anche la prefazione del Gentile, che deve essere messa in rapporto con gli atteggiamenti del Gentile stesso a proposito del Concordato. A proposito dei rapporti tra Stato e Chiesa è da vedere l'atteggiamento del gruppo del «Saggiatore» (nel febbraio 1935 un articolo in proposito al quale si accenna nella «Critica Fascista» del i° maggio). La formula della religione «affare privato» è di origine liberale e non propria della filosofia della praxis, come crede il collaboratore di «Critica». Evidentemente è una formula politica immediata, che può essere fatta propria come formula di compromesso, in quanto non si vuole scatenare una guerra religiosa, né ricorrere alla forza materiale, ecc. Dalla polemica dello Spaventa, appare che neanche per i liberali la religione è un affare privato in senso assoluto, ma liberalismo ha sempre più significato un metodo di governo e sempre meno una concezione del mondo, e pertanto è nata la formula come formula «permanente».

Il movimento del Vieusseux.

Un centro di propaganda intellettuale per l'organizzazione e la «condensazione» del gruppo intellettuale dirigente della borghesia italiana del Risorgimento è quello costituito dal Vieusseux in Firenze, col Gabinetto letterario e le pubblicazioni periodiche: l’«Antologia», l’«Archivio Storico Italiano», il «Giornale agrario», la «Guida dell'Educatore». Manca una pubblicazione tecnico-industriale (come il «Politecnico» di Carlo Cattaneo, che nascerà, non a casa, a Milano). Le iniziative del Vieusseux indicano quali fossero i problemi più importanti che interessavano gli elementi più progressivi del tempo: la scuola e l'istruzione pubblica, l'industria agricola, la cultura letteraria e storica. È vero che l’«Antologia» riassumeva tutte queste attività, ma sarà da vedere se in essa ebbe molta importanza (o quale) la tecnologia industriale. Manca anche un'attività specializzata di «economia politica». (Bisogna vedere se in quel tempo esistevano per l'economia politica e per la tecnologia riviste specializzate negli altri paesi, specialmente Inghilterra e Francia, o se esse venivano trattate e divulgate solo con libri. Il saggio di economia politica e di tecnologia è forse più tardo anche in questi paesi). Cfr. sul movimento del Vieusseux: Francesco Baldasseroni, Il rinnovamento civile in Toscana, Firenze, Olscki, 1931.

Giuseppe Ferrari.

Come il giacobinismo storico (unione della città e della campagna) si è diluito e astrattizzato in Giuseppe Ferrari. La «legge agraria» da punto programmatico concreto e attuale, ben circoscritto nello spazio e nel tempo, è divenuta una vaga ideologia, un principio di filosofia della storia. Da notare che nei giacobini francesi la politica contadina non fu che un'intuizione politica immediata (arma di lotta contro l'aristocrazia terriera e contro il federalismo girondino) e che essi si opposero a ogni «esagerazione» utopistica degli «agraristi» astratti.

L'impostazione della «riforma agraria» nel Ferrari, spiega il fatto della relativa popolarità che il Ferrari ebbe e continua ad avere fra i libertari: molti punti di contatto tra il Ferrari e il Bakiinin e in generale i narodniì(i russi; i nullatenenti della campagna sono mitizzati per la «pandistruzione». Nel Ferrari, a differenza del Bukùnin, è però ancor viva la coscienza che si tratta di una riforma liberalesca. Bisognerebbe confrontare le idee del Ferrari sulla riforma agraria come punto d'innesto delle masse agricole nella rivoluzione nazionale, con le idee di Carlo Pisacane. Il Pisacane si avvicina più al Machiavelli; concetto più limitato e concretamente politico.

(Il Ferrari è contro il principio d'eredità nel possesso terriero, contro i residui di feudalismo, ma non contro l'eredità nella forma capitalistica: cfr. con le idee di Eugenio Rignano).

Campagna e citta.

Pare che da questo punto di vista sia interessante il saggio di Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, pubblicato da G. A. Belloni presso l'edit. Vallecchi (1931).

Il saggio era apparso a puntate nel «Crepuscolo» del 1858 e non fu mai raccolto nelle opere del Cattaneo curate dal Bertani, da Gabriele Rosa e dalla Mario. Secondo il Belloni, il concetto esposto dal Cattaneo della necessità dell'unione tra città e campagna per il Risorgimento italiano era già stato affermato dal Romagnosi. Potrebbe il Cattaneo averlo preso anche dalla letteratura francese democratica del tempo, che seguiva la tradizione giacobina (cfr. per es. I Misteri del Popolo del Sue che ebbero tanta diffusione anche in Italia). In ogni caso il fatto importante sarebbe stato non di esprimere quel concetto, ma di dargli un'espressione politica italiana immediata, ciò che appunto mancò e anzi fu voluto evitare sistematicamente dai partiti democratici del Risorgimento.

Il Partito d'Azione.

Per la storia del Partito d'Azione e del «trasformismo» italiano in generale è molto interessante una lettera di Francesco De Sanctis a Giuseppe Civinini pubblicata nel «Bullettino Storico Pistoiese» da Filippo Civinini, e riassunta nel «Marzocco» del 4 ottobre 1931. La lettera è senza data, ma pare debba essere stata scritta tra il secondo semestre del 1866 e i primi del 1868.

Scrive il De Sanctis, tra l'altro: «La trasformazione dei partiti, la costituzione di un partito progressista di contro a un partito conservatore, è una mia vecchia idea per la quale combatto da tre anni e che è la bandiera del mio giornale». «Per me Partito moderato e Partito di Azione avevano cessato di esistere fin dalla catastrofe di Aspromonte. L'antica Sinistra morì il giorno che Mordini e Crispi non vollero dimettersi, come molti dei loro compagni, per le cose di Sicilia. Da quel tempo la Sinistra entrava in una via di trasformazione e diventò un'opposizione costituzionale progressista. Il programma del Mordini e l'altro di Crispi, al tempo delle elezioni generali, confermarono questo indirizzo. E fu questo il partito che usci molto rinforzato dalle urne e a cui si accostarono in grandissimo numero degli uomini nuovi venuti in Parlamento a costituire la consorteria. Ne' programmi di quel tempo non più traccia di odio napoleonico, di agitazioni di piazza, di insurrezioni, senza e contro il governo, di velleità repubblicane», ecc.

La datazione mi pare errata, perché il De Sanctis scrive di sedere «nella nuova Sinistra», e mi pare che il passaggio del De Sanctis alla Sinistra sia avvenuto più tardi.

Il trasformismo.

Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che è stato già notato sulla «rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione passiva», a proposito del processo di formazione dello Stato moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell'azione militante (Partito d'Azione). Due periodi di trasformismo: i) dal '60 al '900 trasformismo «molecolare», cioè le singole personalità politiche elaborate dai partiti democratici d'opposizione si incorporano singolarmente nella «classe politica» conservatrice-moderata (caratterizzata dall'avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisce un'«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale); 2) dal '900 in poi trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo avvenimento è la formazione del partito nazionalista, coi gruppi ex sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica in un primo tempo e nell'interventismo in un secondo tempo). Tra i due periodi è da porre il periodo intermedio — I890-'900 — in cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra, così detti socialistici, ma in realtà puramente democratici.

Guglielmo Ferrerò nel suo opuscolo Reazione (Torino, Roux edit., 1895) così rappresenta il movimento degli intellettuali italiani degli anni novanta (il brano lo riporto dagli Elementi di scienza politica di G. Mosca, 2a ed., 1923): «C'è sempre un certo numero di individui che hanno bisogno di appassionarsi per qualche cosa di non immediato, di non personale e di lontano; a cui la cerchia dei propri affari, della scienza, dell'arte, non basta per esaurire tutta l'attività dello spirito. Che rimaneva a costoro in Italia se non l'idea socialista? Veniva da lontano, ciò che seduce sempre; era abbastanza complessa ed abbastanza vaga, almeno in certe sue parti, per soddisfare ai bisogni morali così differenti dei molti proseliti; da un lato portava uno spirito vasto di fratellanza e di internazionalismo, che corrisponde ad un reale bisogno moderno; dall'altro era improntata a un metodo scientifico che rassicurava gli spiriti educati alle scuole sperimentali. Dato ciò, nessuna meraviglia che un gran numero di giovani si sia inscritto in un partito dove almeno, se c'era pericolo di incontrare qualche umile uscito dal carcere o qualche modesto repris de justice, non si poteva incontrare nessun panamista, nessun speculatore della politica, nessun appaltatore di patriottismo, nessun membro di quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che, dopo aver fatto l'Italia, l'hanno divorata. La più superficiale osservazione dimostra subito che in Italia non esistono quasi in nessun posto le condizioni economiche e sociali per la formazione di un vero e grande partito socialista; inoltre, un partito socialista dovrebbe trovare logicamente il nerbo delle sue reclute nelle classi operaie, non nella borghesia, come era accaduto in Italia. Ora se un partito socialista si sviluppava in Italia in condizioni si sfavorevoli e in un modo così illogico, si è perché rispondeva più che altro a un bisogno morale di un certo numero di giovani, nauseati di tanta corruzione, bassezza e viltà; e che si sarebbero dati al diavolo pur di sfuggire ai vecchi partiti imputriditi sino nelle midolla delle ossa».

Un punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in Italia come il terreno per il trasformismo «molecolare». Il Ferrari, nonostante il suo repubblicanesimo federalista, europeo, entra nel Senato, e così tanti altri fino al 1914; ricordare le affermazioni comiche del senatore Pullé, entrato nel Senato con Gerolamo Gatti e altri bissolatiani.

Il governo inglese e l'arresto dei fratelli Bandiera.

Confrontare Mazzini e Antonio Gallenga apostoli dell'Indipendenza italiana in Inghilterra (con nove lettere inedite di Mazzini), «Nuova Antologia», 16 luglio 1928. Tratta specialmente della violazione di segreto epistolare compiuta dal governo inglese a danno di Mazzini nel 1844 prima della spedizione dei fratelli Bandiera e del servizio reso dall'Inghilterra ai Borboni, comunicandogli i dati della congiura.

I fratelli Bandiera furono arrestati per «merito» del governo inglese o di un mazziniano traditore (Boccheciampe) ? Bisogna vedere con maggiore esattezza perché l'arresto dei Bandiera domandò misure militari e spese così cospicue che solo una grande autorità nella fonte d'informazione poteva decidere il governo a fare, dato che non dovevano mancare le informazioni infondate da parte di provocatori e speculatori su congiure, iniziative rivoluzionarie, ecc. Perciò bisogna precisare meglio se la responsabilità del governo inglese (lord Aberdeen) fu solo morale (in quanto realmente informò) o anche decisiva e immediata (in quanto senza di essa non ci sarebbe stata la repressione così come avvenne).

II deputato radicale Duncombe, che presentò in Parlamento la petizione di Mazzini, in un discorso affermò: «Se un monumento dovesse essere eretto in memoria di coloro che caddero a Cosenza, come spero sarà fatto, la lapide commemorativa dovrebbe ricordare che essi caddero per la causa della giustizia e della verità, vittime della bassezza e dell'inganno di un ministro britannico».

Quintino Sella.

(Cfr. articolo di Cesare Spellanzon nella «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927).

Quintino Sella è uno dei pochi borghesi, tecnicamente industriali, che partecipano in prima fila alla formazione dello Stato moderno in Italia. Egli si differenzia in modo notevolissimo dal rimanente personale politico del suo tempo e della sua generazione: per la cultura specializzata (è un grande ingegnere e anche un uomo di scienza), conosce l'inglese e il tedesco oltre che il francese; ha viaggiato molto all'estero e si è tuffato nella vita di altri paesi per conoscerne le abitudini di lavoro e di vita (non ha cioè viaggiato come turista, visitando alberghi e salotti); ha una vasta cultura umanistica oltre che tecnica; è uomo di forti convinzioni morali, anzi di un certo puritanismo, e cerca di mantenersi indipendente dalla corte, che esercitava una funzione degradante sugli uomini al governo (molti uomini di Stato facevano i ruffiani come il d'Azeglio) fino a porsi apertamente contro il re per la sua vita privata e a domandargli decurtazioni di lista civile (si sa quanto la quistione della lista civile e delle oblazioni occasionali avesse importanza nella scelta degli uomini di governo) e a staccarsi dalla così detta Destra che era più una cricca di burocrati, generali, proprietari terrieri, che un partito politico, per avvicinarsi ad altre correnti più progressive (il Sella partecipò al trasformismo, che significava tentativo di creare un forte partito borghese all'infuori delle tradizioni personalistiche e settarie delle formazioni del Risorgimento).

Quintino Sella tassatore spietato: il macinato; perché fu scelta questa tassa? per la facilità di riscossione! o perché tra l'odio popolare e il sabotaggio delle classi proprietarie si aveva più paura di questo?

Poca partecipazione al '48 (egli aveva visto a Parigi la caduta della monarchia di luglio). A Milano si trovò in una assemblea dove si voleva votare un biasimo a Brescia che piemontesizzava: Sella sostenne Brescia e fu fischiato. Apparteneva alla Destra, ma fu ministro la prima volta con Rattazzi, capo del Centro sinistro (1862), fu avversario del primo ministro Minghetti ('63-64) e col Lanza combatté il ministro Menabrea ('68-69). Deciso per la conquista di Roma. Il Lamarmora nel 1871 scrisse che il Sella «corre sempre, ora in alto ora in basso, un po' a destra, un po' a sinistra; non si sa mai da qual parte egli sia e sovente non lo sa nemmeno lui».

Nel 1865 si reca alla reggia a chiedere al re il sacrifìcio di tre milioni annui della lista civile per far fronte alle immediate difficoltà di tesoreria. Come industriale, andato al governo, cessa i rapporti di fornitura allo Stato. Nel Parlamento «osa rivolgersi con chiara allusione al re, del quale deplora certe sregolatezze della vita intima, per ammonirlo che il popolo non fa credito ai suoi governanti se essi non danno esempio costante di moralità». Si oppone all'approvazione del disegno di legge per la Regìa dei tabacchi, presentata da un ministro di destra perché c'era odor di corruzione e di loschi maneggi in quel grosso affare che il ministero Menabrea si accingeva a convalidare. Sella si oppone risolutamente all'alleanza con la Francia nel '70. Il re intrigava per sostituire Lanza con Cialdini; Sella nel Senato rispose con asprezza all'attacco sferrato da Cialdini (nato nel 1827, morto nell'84).

A Teodoro Mommsen che domandò con quale idea universale l'Italia andasse a Roma, Quintino Sella rispose: «Quella della scienza» (Mommsen diceva che a Roma non si può stare senza un'idea universale). Questo motivo è stato ripreso dal Capo del governo nel suo discorso sul Concordato alla Camera dei deputati.

La risposta del Sella è interessante e appropriata: in quel periodo storico la scienza era la nuova «idea universale», la base della nuova cultura che si andava elaborando. Ma Roma non divenne la città della scienza, sarebbe stato necessario un grande programma industriale, ciò che non fu. La parola d'ordine del Sella è tuttavia no tevole per descrivere l'uomo.

Tuttavia il Sella non era né un ateo né un positivista, che volesse sostituire la scienza alla religione.

Nel discorso tenuto da Alberto De Stefani a Biella per commemorare il centenario della nascita del Sella (riportato nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927), si accenna al macinato collegandolo al dazio doganale sul grano (si abolì il balzello sulle farine, ma poco dopo il doganiere lasciò il mulino e andò sul confine a riscuotere la gabella sul grano). La quistione non è posta bene (è un epigramma, non una critica o un giudizio). Il macinato era insopportabile dai piccoli contadini, che consumavano il poco grano prodotto da loro stessi; e la tassa sul macinato era causa di svendite per procurarsi il denaro e occasione di pratiche usurarie pesantissime. Bisogna collocare la tassa nel suo tempo, con una economia familiare molto più diffusa di ora: per il mercato producevano i grandi e medi proprietari; il piccolo contadino (piccolo proprietario o colono parziario) produceva per il proprio consumo e non aveva mai numerario; tutte le imposte erano per lui un dramma catastrofico; per il macinato si aggiungeva l'odiosità immediata. Le rivolte contro la tassa sul macinato, le uccisioni e le bastonature agli esattori non erano certo inspirate dalle agitazioni politiche: erano spontanee.

L'Italia meridionale.

Studiare le origini e le cause della convinzione che esistè nel Mazzini che l'insurrezione nazionale dovesse cominciare o fosse più facile da fare incominciare nell'Italia meridionale (fratelli Bandiera, Pisacane). Pare che tale convincimento fosse anche nel Pisacane, che pure, come scrive Mazzini13 aveva un «concetto strategico della guerra d'insurrezione». Si trattò di un desiderio (contrapporre l'iniziativa popolare meridionale a quella monarchica piemontese?) diventato convinzione o aveva delle origini razionali e positive? E quali potevano essere?

Riallacciare questa convinzione a quella di Bakùnin e dei primi internazionalisti, già prima del '70: ma in Bakunin rispondeva a una concezione politica dell'efficienza sovvertitrice di certe classi sociali. Questo concetto strategico della guerra d'insurrezione nazionale del Pisacane dove occorre ricercarlo? Nei suoi saggi politico-militari, in tutti gli scritti che ci rimangono di lui e in più negli scritti di Mazzini (in tutti gli scritti, ma specialmente nell'Epistolario) e nei vari atteggiamenti pratici del Pisacane.

Uno dei momenti più importanti mi pare debba essere l'avversione di Pisacane a Garibaldi durante la Repubblica Romana. Perché tale avversione? Era Pisacane avverso in linea di principio alla dittatura militare? Oppure l'avversione era di carattere politico-ideologico, cioè era contro il fatto che tale dittatura sarebbe stata meramente militare, con un vago contenuto nazionale, mentre Pisacane voleva alla guerra d'insurrezione dare oltre al contenuto nazionale anzi e specialmente un contenuto sociale? In ogni caso, l'opposizione di Pisacane fu un errore nel caso specifico, perché non si trattava di una dittatura vaga e indeterminata, ma di una dittatura in regime di repubblica già instaurata, con un governo mazziniano in funzione (sarebbe stato un governo di salute pubblica, di carattere più strettamente militare, ma forse appunto i pregiudizi ideologici di avversione alle esperienze della Rivoluzione francese ebbero gran parte nel determinare tale avversione).

Il popolo nel Risorgimento.

1) Vedere il volume di Niccolò Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, in-8°, pp. 312.

2) Nello statuto della società segreta Esperia, fondata dai fratelli Bandiera, si legge: «Non si facciano, se non con sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai forti, e ai dotti, negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». Occorre raccogliere tutte le osservazioni che nel primo periodo del Risorgimento (prima del '48) si riferiscono a questo argomento e vedere l'origine di questa differenza. Una causa è da ricercare nei processi che seguirono il tentativo di rivolta militare del '21 in Piemonte e altrove: differenza di atteggiamento tra soldati e ufficiali; i soldati, o tradirono spesso o si mostrarono molto deboli dinanzi ai giudizi nell'istruzione dei processi.

Atteggiamento di Mazzini prima e dopo l'insurrezione del febbraio 1853 a Milano; dopo il 1853 sono da vedere le sue istruzioni a Crispi per la fondazione di sezioni del Partito d'Azione in Portogallo, nelle quali si raccomanda di mettere un operaio in ogni comitato di tre.

Nel «Marzocco» del 30 settembre 1928 è riassunto, col titolo La Serenissima meritava di morire?, un opuscolo miscellaneo di Antonio Pilot (Stabil. Grafico U. Bortoli), in cui si estraggono, da diari e memorie di Veneziani, opinioni sulla caduta della Repubblica Veneta.

La responsabilità del patriziato era idea fissa delle classi popolari. L'ultimo doge, Lodovico Manin racconta in certe sue Memorie: «La cosa arrivò al grado che, passando un giorno per una corti- cella a San Marcuola, una donna conoscendomi, disse: " Almeno venisse la peste che così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi che ci hanno venduti e che sono cagione che moriamo di freddo e di fame "». Il vecchio desistette dalla passeggiata e si ritirò. Il Bertucci Balbi-Valier in un sonetto intitolato I nobili veneti del /797 non tradirono la Repubblica, scrive: «No, no xe vero, i nobili tradio - No ga la patria nel novantasete» (ciò che significa quanto profonda fosse la convinzione e come si cercasse di combatterla).

Nella «Lettura» del 1928, Pietro Nurra pubblica il diario inedito di un combattente delle Cinque Giornate di Milano, il mantovano Giovanni Romani, stabilitosi una prima volta a Milano nel 1838 come cuoco alla «Croce d'Oro» in contrada delle Asole, poi, dopo aver girato quasi tutta l'Italia, ritornato a Milano, alla vigilia delle Cinque Giornate, all'osteria del «Porto di Mare» in Santo Stefano. Il diario si compone di una specie di taccuino di 199 pagine numerate, delle quali 186 scritte con calligrafia grossolana, e dicitura scorrettissima.

Mi pare molto interessante perché i popolani non sono solid scrivere di questi diari, tanto più ottant'anni fa. Perciò è da studiare per il suo valore psicologico e storico: forse si trova nel Museo del Risorgimento a Milano.

Confrontare Le più belle pagine di Carlo Bini, raccolte da Dino Provenzal. Giovanni Rabizzani, in uno studio su Lorenzo Sterne in Italia, ricorda il Bini e rileva un notevole contrasto tra i due: lo Sterne più incline alle analisi sentimentali e meno scettico, il Bini più attento ai problemi sociali, tanto che il Rabizzani lo chiama addirittura socialista. In ogni caso è da notare che Livorno fu delle pochissime città che nel 1848-49 vide un profondo movimento popolare, un intervento di masse plebee che ebbe vasta ripercussione in tutta la Toscana e che mosse a spavento i gruppi moderati o conservatori (ricordare le Memorie di G. Giusti). Il Bini è da vedere perciò, accanto al Montanelli, nel quadro del 1849 toscano.

Confrontare nella rivista «Irpinia» (di Avellino) del luglio 1931 (è riassunta nel «Marzocco» del 26 luglio 1931) la lettura di Nicola Valdimiro Testa sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Avellino negli anni 1848-49. La narrazione pare molto interessante per intendere quali fossero i sentimenti popolari e quali correnti di passioni attraversassero le grandi masse, che però non avevano un indirizzo e un programma e si esaurivano in tumulti e atti brutali di violenza disordinata. Partecipazione di alcuni elementi del clero a queste passioni di massa che spiegano l'atteggiamento di alcuni preti verso le così dette «Bande di Benevento». Si verifica la solita confusione tra «comunismo» e «riforma agraria» che il Testa (da ciò che appare nel riassunto del «Marzocco») non sa criticamente presentare (come del resto non sanno fare la maggior parte dei ricercatori di archivio e degli storici). Sarebbe interessante raccogliere la bibliografia di tutte le pubblicazioni come queste per gli anni del Risorgimento.

Paulo Fambri scrisse un articolo sui volontari nella «Nuova Antologia» (o «Antologia») del 1867(?). Nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1928, L'archivio inedito di Paulo Fambri (di A. F. Guidi) è riportata una lettera diretta al Fambri del generale C. di Robilant che era direttore della Scuola superiore di Guerra di Torino (la lettera è del 31 gennaio 1868) in cui si approva la prima parte dell'articolo del Fambri. Il di Robilant aggiunge che dei 21.000 volontari del 1859 solo la metà o poco più era presente nelle file combattenti (cfr. i giudizi di Plon-Plon contro i volontari in questa stessa guerra del '59).

Nel numero del 24 maggio di «Gioventù Fascista» (riportato dal «Corriere della Sera» del 21 maggio 1932), è pubblicato questo messaggio dell'on. Balbo: «Le creazioni originali della storia e della civiltà italiana, dal giorno in cui risorse dal letargo secolare ad oggi, sono dovute al volontariato della giovinezza. La santa canaglia di Garibaldi, l'eroico interventismo del '15, le Camicie Nere della Rivoluzione fascista hanno dato unità e potenza all'Italia, hanno fatto, di un popolo disperso, una nazione. Alle generazioni che oggi si affacciano alla vita sotto il segno del Littorio, il còm- pito di dare al secolo nuovo il nome di Roma».

L'affermazione che l'Italia moderna è stata caratterizzata dal volontariato è giusta (si può aggiungere l'arditismo di guerra), ma occorre notare che il volontariato, pur nel suo pregio storico, che non può essere diminuito, è stato un surrogato dell'intervento popolare, e in questo senso è una soluzione di compromesso con la passività delle masse nazionali. Volontariato-passività, vanno insieme più di quanto si creda. La soluzione col volontariato è una soluzione d'autorità, dall'alto, legittimata formalmente dal consenso, come suol dirsi, dei «migliori». Ma per costruire storia duratura non bastano i «migliori», occorrono le più vaste e numerose energie nazionali-popolari.

L'Italia e il carciofo.

L'immagine dell'Italia come di un carciofo, le cui foglie si mangiano ad una ad una, viene attribuita a parecchi principi italiani, non solo della casa Savoia. L'ultima attribuzione è quella a Vittorio Emanuele II (e ciò non sarebbe contrario al suo carattere, come mostra l'aneddoto di Quintino Sella, riportato da Ferdinando Martini; cfr. altra nota14). Secondo Amerigo Scarlatti (nell'«Italia che scrive» del febbraio 1928), l'immagine sarebbe dovuta a Vittorio Amedeo II, come risulta dal Voyage d'Italie del Misson, stampato all'Aja nel 1703.

Garibaldi e la frase del «metro cubo di letame».

Nell'articolo Garibaldi e Pio IX («Corriere della Sera» del 15 aprile 1932), A. Luzio scrive che «va escluso assolutamente che fosse sua [di Garibaldi] una lettera in cui il vecchio Pontefice veniva oltraggiato con l'epiteto volgare di "metro cubo di letame"». Il Luzio ricorda di aver già scritto in proposito (Profili, I, 485). G. C. Abba avrebbe detto al Luzio d'aver udito da Garibaldi «le più sdegnose proteste per l'inqualificabile abuso del proprio nome».

La quistione non è chiara, perché si tratterebbe del fatto che qualcuno avrebbe scritto una «intera lettera» col nome di Garibaldi, senza che questi protestasse immediatamente per l'abuso, mentre le «sdegnose proteste» le fece privatamente all'Abba in conversazione privata di cui l'Abba non avrebbe lasciato altra traccia che la conversazione privata col Luzio.

Poiché l'articolo del Luzio è un tentativo di riabilitazione popolare di Pio IX, non molto d'accordo con altre ricostruzioni del carattere di Pio IX, è da pensare che il Luzio, pur non inventando completamente, abbia alquanto «esagerato» qualche espressione di Garibaldi che attenuava la sua drastica frase.

Il Luzio scrive a proposito di Pio IX: «Documenti diplomatici insospettabili confermano, a ogni modo, qualche cosa di più che la "deserta volontà d'amare"; cantata dal Carducci, in Pio IX; la realtà era fors'anche più poetica («V!) e drammatica. Ci mostra infatti il Papa, circuito dal card. Antonelli e da altri intransigenti, chieder loro affannosamente (!!), con mal repressa (!!) ribellione (!): Ma se la Provvidenza ha decretato l'Unità italiana, devo esser io a contrastarla, a frastornare (!) le decisioni divine, col mostrarmi irreconciliabile?» Pare invece, da altri documenti, che l'influsso del- l'Antonelli fosse molto piccolo, ecc. In ogni modo il carattere «romanzato» e da romanzo d'appendice della ricostruzione del Luzio è troppo in rilievo, fino a mancare di rispetto alla personalità del Papa, che non poteva porre in quel modo la quistione di un possibile decreto della Provvidenza e parlare di «frastornamenti» di divine decisioni.

Ebraismo e Antisemitismo.

In una recensione («Nuova Italia» del 20 aprile 1933) del libro di Cecil Roth15, Arnaldo Momigliano fa alcune giuste osservazioni sull'ebraismo in Italia. «La storia degli Ebrei di Venezia, come la storia degli Ebrei di qualsiasi città italiana in genere, è essenzialmente appunto la storia della formazione della loro coscienza nazionale italiana. Né, si badi, questa formazione è posteriore alla formazione della coscienza nazionale italiana in genere, in modo che gli Ebrei si sarebbero venuti a inserire in una coscienza nazionale già precostituita. La formazione della coscienza nazionale italiana negli Ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei Piemontesi o nei Napoletani o nei Siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo. Come dal xvii al xix secolo, a prescindere dalle tracce anteriori, i Piemontesi o i Napoletani si sono fatti Italiani, così nel medesimo tempo gli Ebrei abitanti in Italia si sono fatti Italiani. Il che naturalmente non ha impedito che essi nella loro fondamentale italianità conservassero in misura maggiore o minore peculiarità ebraiche, come ai Piemontesi o ai Napoletani il diventare Italiani non ha impedito di conservare caratteristiche regionali».

Questa tesi, storicamente esatta nella sua essenza, è da confrontare con quella di un altro ebreo, Giacomo Lumbroso, nel libro Imoti popolari contro i Francesi alla fine del secolo XVIII (1796- 1800)16. Che nei moti popolari registrati dal Lumbroso ci fosse qualsiasi traccia di spirito nazionale è un'allegra trovata, anche se tali mod siano degni di studio e di interpretazione. In realtà, essi furono popolari per modo di dire e solo per un aspetto molto secondario e meschino, il misoneismo e la passività conservatrice delle masse contadine arretrate e imbarbarite. Presero significato dalle forze consapevoli che li istigavano e li guidavano più o meno apertamente e queste forze erano nettamente reazionarie e antinazionali o anazionali. Solo recentemente i gesuiti hanno preso a sostenere la tesi dell'italianismo dei sanfedisti, che solo «volevano unificare l'Italia a modo loro».

Un'altra osservazione notevole è accennata nella recensione del Momigliano: che cioè nel tormento e negli squilibri di Leone Ebreo ci fosse una complicata insoddisfazione della cultura ebraica come di quella profana, insoddisfazione che «è tra i più importanti indizi che il Seicento ci offre della trasformazione che stava avvenendo nelle coscienze ebraiche».

In Italia non esiste antisemitismo proprio per le ragioni accennate dal Momigliano, che la coscienza nazionale si costituì e doveva costituirsi dal superamento di due forme culturali, il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico, che erano in stretta connessione fra loro e costituivano la forma italiana più caratteristica di residuo medioevale e feudale. Che il superamento del cosmopolitismo cattolico e in realtà quindi la nascita di uno spirito laico non solo distinto ma in lotta col cattolicismo, dovesse negli Ebrei avere come manifestazione una loro nazionalizzazione, un loro disebreiz- zarsi, pare chiaro e pacifico. Ecco perché può essere giusto ciò che scrive il Momigliano che la formazione della coscienza nazionale italiana negli Ebrei vale a caratterizzare l'intero processo di formazione della coscienza nazionale italiana, sia come dissoluzione del cosmopolitismo religioso che del particolarismo, perché negli Ebrei il cosmopolitismo religioso diventa particolarismo nella cerchia degli Stati nazionali.

Nelle Confessioni e professioni di fede di letterati, filosofi, uomini politici, ecc.

(in 3 voll., Bocca, Torino, 1921) è pubblicata una scorribanda lirico-sentimentale di Raffaele Ottolenghi, che riferisce alcuni suoi ricordi di «ebreo» piemontese, da cui possono estrarsi alcune notizie sulla condizione degli Ebrei nel periodo del primo Risorgimento.

Un Ebreo, veterano di Napoleone, ritornò al suo paese con una donna francese: il vescovo, saputo che la donna era cristiana contro la sua volontà, la fece portar via dai gendarmi. Il vescovo si impadroniva, manu militari, dei fanciulli ebrei che, durante qualche litigio coi genitori, avessero minacciato di farsi cristiani (il Brofferio registra una serie di questi fatti nella sua storia). Dopo il 1815 gli Ebrei furono cacciati dalle Università e quindi dalle professioni liberali.

Nel 1799, durante l'invasione austro-russa, avvennero dei pogrom, ad Acqui solo l'intervento del vescovo riuscì a salvare il bisavolo del- l'Ottolenghi dai fucili della folla. A Siena, durante un pogrom, degli Ebrei furono mandati al rogo, senza che il vescovo volesse intervenire a loro favore.

Nel '48 il padre deil'Ottolenghi tornò ad Acqui da Torino, vestito da guardia nazionale; irritazione dei reazionari, che sparsero la voce del sacrificio rituale di un bambino cristiano da parte deil'Ottolenghi; campane a stormo, venuta dei villani dalla campagna per saccheggiare il Ghetto. Il vescovo si rifiutò di intervenire e l'Ottolenghi fu salvato dal sindaco con un simulato arresto fino all'arrivo delle truppe. I reazionari e i clericali volevano fare apparire le innovazioni liberali del '48 come una invenzione degli Ebrei17.

Femminismo.

Cfr. l'art, di Vittorio Ciati, Femminismo patriottico del Risorgimento, nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1930. Retorico, ma interessante per le indicazioni obbiettive sulla partecipazione alla vita politica delle donne nel Risorgimento.

In una nota è citato questo brano del Gioberti preso dall'Apologia del libro intitolato «Il Gesuita Moderno», cap. III della parte I: «La partecipazione della donna alla causa nazionale è un fatto quasi nuovo in Italia e che verificandosi in tutte le sue province, vuol essere specialmente avvertito, perché esso è, al parer mio, uno dei sintomi più atti a dimostrare che siamo giunti a maturità civile e a pieno essere di coscienza come nazione». L'osservazione del Gioberti non è valida solo per la vita nazionale: ogni movimento storico innovatore è maturo solo in quanto vi partecipano non solo i vecchi, ma i giovani e i maturi e le donne, cosicché esso ha persino un riflesso nella fanciullezza.

Prospero Merimée e il '48 italiano.

Nella «Revue des deux mondes» (fase, del 15 maggio 1932) è pubblicato un manipolo di lettere di Prospero Merimée alla contessa de Boigne, autrice di Memorie famose sul '48 in Italia: «I Piemontesi non si preoccupano affatto del nostro aiuto e noi impediamo agli Italiani di aiutarli col promettere l'aiuto del nostro invincibile esercito: un viaggiatore che viene di Lombardia racconta che il paese, come in pieno Medioevo, è diviso in tante piccole repubbliche, quanti sono i borghi e i villaggi, ostili l'uno all'altro nell'attesa di prendere le armi».

Il Merimée era fautore dell'unità italiana18. Che la speranza di un possibile aiuto dell'esercito francese abbia nel '48 influito a restringere il movimento di volontari, ecc., è possibile; tuttavia non spiega il fatto che i volontari presentatisi furono male impiegati e male trattati, non spiega l'inerzia militare dello stesso Piemonte e l'assenza di una chiara direzione politico-militare, nel senso spiegato in altre note; non spiega neanche il motto «L'Italia farà da da sé».

La stampa periodica.

Cfr. Martino Beltrani-Scalia, Giornali di Palermo nel 1848-1849, con brevi accenni a quelli delle altre principali città d'Italia nel medesimo periodo, a cura del tìglio Vito Beltrani, Palermo, Sandron, 1931.

Si tratta di una esposizione condensata in poche linee del contenuto dei singoli periodici pubblicati a Palermo nel 1848 e 1849 e anche dell'anno precedente, nonché di numerosi giornali del continente (di Napoli, di Roma, della Toscana, del Piemonte e della Svizzera, cioè dell'«Italia del Popolo» di Mazzini), esposizione fatta generalmente giorno per giorno. Per i giornali non siciliani si dà importanza a ciò che riguarda la Sicilia. Nel 1847, i giornali palermitani erano appena sei; nel '48-49 il Beltrani-Scalia ne annovera centoquarantuno e non è da escludere che gliene sia sfuggito qualcuno. Dai sunti del B.-S. appare l'assenza dei partiti permanenti: si tratta per lo più di opinioni personali, spesso contraddittorie nello stesso foglio. Pare che il saggio del B.-S. dimostri che aveva ragione il La Farina, quando, nella Istoria documentata della Rivoluzione siciliana, scrisse che «la stampa periodica, salvo scarse e onorevoli eccezioni, non rispose mai all'altezza del suo ministero: fu scandalo, non forza».

Confessioni e ricordi di F. Martini.

Cfr. per alcuni episodi il libro di F. Martini, Confessioni e Ricordi (1859-1892), Tre ves, Milano, 1928. Del libro sono interessanti alcuni capitoli: il primo, Per cominciare e per finire, è interessante per l'atteggiamento politico dei moderati toscani nel 1859, che non è stato solo un mero fatto di psicologia da descrivere bonariamente, come fa il Martini, ma un netto atteggiamento politico, legato a convinzioni e a una linea precisa, come dimostrano i documenti recentemente pubblicati (cfr. articolo di Panella nel «Marzocco» e polemica col Puccioni). I moderati toscani non volevano la fine del granducato, erano federalisti reazionari. Gli episodi di abulia militare in Toscana nel '59 non sono solo da collegare con la «psicologia» del popolo toscano, come fa il Martini, essi furono un sabotaggio della guerra nazionale o per lo meno una forma di «neutralità» sabotatrice. Lo scarso numero dei volontari fu una conseguenza della cattiva volontà dei moderati.

Anche l'importanza dell'intervento francese nel '59 è messa più in rilievo da questi fatti: come, dalle parole testuali del Martini, è posta in rilievo l'assenza completa di coscienza e orgoglio nazionale nei moderati, i quali dicevano che l’«imperatore deve far lui la guerra» cioè che non l'Italia deve liberarsi da sé, ma la Francia deve liberare l'Italia. Si capisce come nella tradizione burocratica francese della politica estera si siano formate certe convinzioni e si sia costituita una linea nei riguardi dell'apprezzamento del personale dirigente italiano. Altro capitolo interessante è Parlamentum indoctum, dove si possono trovare spunti sulla preparazione intellettuale di molti uomini politici del tempo. Il Martini bonariamente giustifica l'ignoranza crassa di uomini come Nicotera, affermando che le congiure e l'ergastolo non avevano loro lasciato il tempo di studiare. Certo, la vita del Nicotera non era fatta per permettere studi «regolari»; ma il Settembrini fu anch'egli all'ergastolo e pure non perse il tempo. Qualche meridionale, seccato dalla letteratura retorica contro i Borboni (già prima della guerra, ricordo un articolo di Oreste Mosca nella «Vela latina» di F. Russo) scrisse che in Piemonte (con 5 milioni di abitanti) c'erano cinque ergastoli come a Napoli con 10 milioni di abitanti, per cui o in Piemonte c'era più reazione, o c'era più delinquenza, in ogni caso Napoli non ci faceva poi tanto cattiva figura. Detto in forma paradossale, il fatto è giusto: negli ergastoli napoletani i patrioti stavano relativamente meglio che negli ergastoli piemontesi, dove dominarono i gesuiti per molto tempo e una burocrazia militare e civile ben più fiscale e «regolamentatrice» di quella napoletana. Gli ergastolani non avevano la catena ai piedi ed erano in compagnia: la loro condanna era «psicologicamente e moralmente» più grave di quella ai lavori forzati a tempo, ma non «materialmente»: la gravità consisteva che molti ergastolani erano stati condannati a morte, avevano «realmente» creduto di stare per essere giustiziati e poi, all'ultimo momento, furono graziati: per altro, l'ergastolo non poteva essere ritenuto veramente tale da uomini politici che non potevano ritenere che il regime borbonico sarebbe durato quanto la loro vita. Ciò sia detto senza togliere nulla alla valutazione dei loro patimenti. Di fatto essi «potevano studiare», ma alcuni lo fecero (Settembrini per es.), altri no (Nicotera per es.); e quindi la ragione addotta dal Martini, per non essere universale, non è valida. La ragione deve essere ricercata altrove, e cioè nella scarsa coscienza di classe rivoluzionaria di molti di quegli uomini e dei doveri che spettavano a ogni elemento di tale classe, cioè scarsa passione politica da non confondersi col fanatismo e settarismo, che invece abbondavano.

Su Vittorio Emanuele II, il Martini racconta a pp. 152-153 questo aneddoto riferitogli da Quintino Sella: Nell'ottobre 1870 Vittorio

Emanuele ricevette a Palazzo Pitti la deputazione romana che gli portava il plebiscito di Roma. Presenti Lanza e Sella. Il Sella gli disse: «Vostra Maestà deve essere oggi molto lieta». Vittorio Emanuele rispose: «Ca staga ciutô; am resta nen aut che tireme un culp d'revolver; per l'on c'am resta da vive ai sarà pi nen da pie». Perciò il Sella chiamava Vittorio Emanuele: «l'ultimo dei conquistatori».

T. Tittoni, Ricordi personali di politica interna,

«Nuova Antologia», 1° aprile-16 aprile 1929. Il Tittoni ha scritto queste sue memorie subito dopo la conciliazione, per dimostrare come questo evento abbia corrisposto a tutta l'attività politica della sua carriera di liberale moderato, ossia di conservatore clericale. L'interesse dei Ricordi è tutto qui, si può dire: nel cercare di ricostruire la storia italiana dal '70 ad oggi come una lotta tra conservatori clericali e democrazia o demagogia, per il ripristino dell'influsso clericale nella vita del Paese, ponendo pertanto in luce l'attività della corrente conservatrice in quanto rappresentata da Tittoni. Annoto qualcuno degli spunti offerti dal Tittoni:

Per la storia dell'Azione Cattolica.

Nel novembre 1871 l'Unione Romana per le elezioni amministrative coll'assenso di Pio IX, per il quale la partecipazione dei cattolici all'amministrazione comunale e provinciale era compatibile coll'ossequio alla Santa Sede. Cfr. Paolo Campello della Spina, Ricordi di più che ein quant'anni, Roma, Loe- scher, 1910. Vi si legge: «Pio IX, a quel gruppo di visitatori che usava andare alla sua udienza del mattino e lo accompagnava talvolta alla passeggiata nei giardini, disse: " Ma si, ma si, non l'hanno capito e pure l'ho detto tante volte, che mi fa piacere che vadano alle elezioni amministrative "». Notizie intorno al tentativo, fatto da Roberto Stuart e da altri, di creare un partito conservatore cattolico e quindi di un gruppo cattolico alla Camera, tentativo stroncato dal Vaticano, che tuttavia lasciò fare per qualche tempo, il che è da notare.

Positivismo e reazione. Dice Tittoni: «Per molto tempo il Cours de philosophie positive di Augusto Comte è stato il mio breviario filosofico e politico. A mio avviso nessuno meglio di Comte ha risolto il preteso conflitto tra la scienza e la religione, assegnando la prima alla ragione e la seconda al sendmento, e separando nettamente il campo del libero esame da quello riservato alla fede. Comte considerava il Papato come un grande elemento conservatore della società. Egli aveva immaginato negli ultimi anni della sua vita una lega di difesa religiosa e sociale presieduta dal Pontefice. A questa epoca appartiene il volumetto Catéchisme positiviste. In un esemplare che io comprai in Roma da un venditore ambulante di libri, trovai la seguente dedica: " À Monsieur Bex, General des Jésuites offert par l'auteur Auguste Comte, Paris le 10 aristote 69". Littré, al quale scrissi, inviandogli il facsimile dell'autografo, mi rispose garantendone l'autenticità. Il padre Bex non aveva tenuto alcun conto del volumetto poiché i fogli non erano stati nemmeno tagliati». (Ma poteva averlo già letto in altro esemplare).

Intorno ai fatti del '98. Sistemi elettorali escogitati: da un brano di memorie dell'on. Gianforte Suardi riportato dal Tittoni risulta che, quando il gabinetto Rudini-Pelloux mutò la legge elettorale, l'obbligo di votare nel comune di origine fu escogitato, per impedire il voto di artificiali (!) aggruppamenti come quelli di Torino, ove per le officine delle ferrovie si trovava concentrato un gran numero di ferrovieri, tale da costituire un'artificiosa maggioranza fortuita (!) di operai di Romagna e di altre parti d'Italia all'infuori di Torino. Nelle memorie di Tittoni si potrebbero spigolare vari episodi di simili pastette politiche, in cui hanno sempre avuto incontestabile eccellenza i reazionari.

Tittoni prefetto di Napoli, dal '900 al '903. Idillio: non parla dei fatti concreti di cui fu accusato. Cfr. gli Atti parlamentari del 1903: nella seduta del 2 dicembre Tittoni fu attaccato da Barzilai e Bissolati, il quale riportò le accuse della «Propaganda».

Fatti del 1904. Ho già annotato l'azione svolta da Tittoni nel 1904, riassumendo un articolo di Gianforte Suardi nella «Nuova Antologia» del 1° novembre 1927: Tittoni è più diffuso.

Tittoni e Giolitti. Tittoni non spiega con molta chiarezza i suoi rapporti politici con Giolitti, del quale fu intimo collaboratore: è vero che tale collaborazione è significativa anche per giudicare la politica dello stesso Giolitti. Impacciati e reticenti sono anche gli accenni di Tittoni a Sonnino e a Rudini.

Ondata anticlericale del 1907. Nel luglio 1907 scandalo Fumagalli-don Riva, e fatti di Alassio. Tittoni clericaleggiarne. Tittoni propugnatore della guerra civile. Tittoni era rimasto colpito dal fatto che per riunire la forza pubblica necessaria a fronteggiare i tumulti scoppiati in una località, occorreva sguarnire altre regioni: durante la settimana rossa del giugno '14, per reprimere i moti di Ancona si era sguarnita Ravenna, dove poi il prefetto, privato della forza pubblica dovette chiudersi nella Prefettura abbandonando la città ai rivoltosi. «Pili volte io ebbi a domandarmi, che cosa avrebbe potuto fare il governo, se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola». Tittoni propose al governo l'arruolamento dei «volontari dell'ordine», ex combattenti inquadrati da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve degno di considerazione, ma non ebbe seguito.

Il Partito Popolare. Tittoni aveva riposto molte speranze nel P. P. e vi avrebbe aderito, se esso non fosse stato diverso da quello che era stato il primo movimento cattolico politico. Contro Miglioli, ma anche contro Meda e Rodino.

Stefano Jacini, Un conservatore rurale della nuova Italia,

due voll., di compi. 600 pp. con indice dei nomi, Bari, Laterza. È la biografia di Stefano Jacini senior, scritta da suo nipote. Il Jacini ha utilizzato l'archivio domestico, ricco fra l'altro di un epistolario in molta parte inedito. Chiarisce e completa periodi ed episodi della storia 1850-1890. Il Jacini non fu personalità di prima linea, ma ebbe un carattere proprio. Ebbe una parte non trascurabile nell'opera di unificazione economica della nazione (unificazione ferroviaria, valico del Gottardo, inchiesta agraria). Sostenitore di un partito conservatore-nazionale (clericale) (il Jacini era agricoltore e filandiere di seta). Non prese parte al movimento del '48. («Aveva una cultura internazionale fatta in molti viaggi, ciò che gli diede una visione europea della rivoluzione del '48, visione che lo trattenne dal prendervi parte attiva quando scoppiò in Italia»: così su per giù scrive Filippo Meda). Insomma, il Jacini segui l'atteggiamento della sua classe, che era reazionaria ed austriacante. Sotto il governo di Massimiliano, collaborò. Si occupò di quistioni tecniche ed economiche. Fautore di Cavour, cioè dell'indipendenza senza rivoluzione. Fu attaccato, quando era ministro con Cavour, per il suo passato prima del '59 e difeso dal Cattaneo. Nel gennaio 1870 usci il suo libro Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia, dove appare la tesi di un'«Italia reale» diversa e dissenziente dall'«Italia legale» (formula poi usata dai clericali): contro il Parlamento che voleva ridotto alle grandi quistioni della difesa dello Stato, della politica estera, della finanza centrale; decentramento regionale; suffragio universale indiretto col voto agli analfabeti (cioè potere agli agrari). Nel 1879 pubblica I conservatori e la evoluzione naturale dei partiti politici in Italia. Immagina l'equilibrio politico così: Estrema Sinistra: repubblicani; Estrema Destra: clericali intransigenti (egli pensava al prossimo abbandono dell'astensionismo); nel mezzo, due partiti di governo, uno decisamente conservatore nazionale, l'altro liberale monarchico progressivo. — Contro Crispi e la megalomania politica. (Emanuele Greppi, Gaetano Negri, Giuseppe Colombo accettavano il suo pensiero: moderati lombardi). Il Jacini offre un esemplare compiuto di una classe, gli agrari settentrionali: la sua attività politica e letteraria è interessante, perché da essa hanno tratto spunto e motivi movimenti posteriori (Partito Popolare). Contrario nel '71 al trasferimento della capitale a Roma.

La grande industria.

Cfr. articolo di Salvatore Valitutti, La grande industria in Italia, nella «Educazione Fascista» del febbraio 1933, scritto per accenni e rapide allusioni, ma abbastanza interessante e da rivedere all'occasione. Non è però esatto porre la quistione così: «Era vero si che l'economia dell'Italia meridionale era agricola, feudale, e che quella della restante Italia era più industriale e moderna». Nell'Italia meridionale c'era e c'è una determinata attività agricola e il protezionismo agrario giovò più al Nord che al Sud, perché fu protezione sui cereali, di cui il Nord era grande produttore (relativamente più del Sud). La differenza tra Nord e Sud era anche e specialmente nella composizione sociale, nella diversa posizione delle masse contadine, che nel Sud dovevano mantenere col loro lavoro una troppo grande quantità di popolazione passiva economicamente, di redditieri, ecc. Né si può dire che «la pratica di raccoglimento e di modestia» nei primi trent'anni del regno — una pratica più modesta di quella che realmente si ebbe — «avrebbe formato il progresso delle attività economiche più bisognose di movimenti e di ricchezza e, esercitata nell'interesse del meridionale, avrebbe conseguito l'effetto di rifondere e di riorganizzare la vita italiana sulla base del Regno di Napoli». Perché poi «esercitata nell'interesse del meridionale?» Nell'interesse di tutte le forze nuove nazionali contemperate e non gerarchizzate dai privilegi. Invece la struttura arretrata meridionale fu sfruttata, resa permanente, accentuata perfino, per drenare il risparmio delle sue classi parassitarie verso il Nord. Anche la funzione del movimento socialista nella formazione dell'Italia moderna è presentata in modo non esatto per molti aspetti, sebbene sia esaltata e lodata. La posizione di Bonomi fu una caricatura di quella che era stata prospettata da Engels nella «Critica Sociale» (prime annate); e in questo senso era naturale la reazione sindacalista che si ispirò in parte alle indicazioni dell'Engels, e infatti fu piuttosto meridionalista, ecc. (il Valitutti si deve riferire al mio articolo sulla quistione meridionale). Per la posizione del Bonomi sarà da vedere il suo libro sulle «Vie nuove», nel quale tutta la quistione deve essere esposta più organicamente.

Italia reale e Italia legale.

La formula escogitata dai clericali dopo il '70 per indicare il disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa (clericali e legittimisti — passivi e indifferenti). A Torino si pubblicò fino a qualche anno prima della guerra un quotidiano (poi settimanale), diretto da un avv. Scala e intitolato «L'Italia reale», organo del più nero clericalismo.

Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione teorico-politico-morale ne fu data? Occorre fare una ricerca nella «Civiltà Cattolica» e nei primi numeri della stessa «Italia reale» di Torino, che negli ultimi tempi si ridusse ad essere un insulso libello di sagrestia. La formula è felice dal punto di vista «demagogico», perché esisteva di fatto ed era fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la società civile era tutta e solamente nel «clericalismo» ? Intanto la società civile era qualcosa di informe e di caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l'espressione della società civile, perché non riusci a darle un'organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse un'organizzazione forte e formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un certo senso controllava. La formula politica del non expe- dit fu appunto l'espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà era l'espressione dell'opportunismo più piatto. L'esperienza politica francese aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle tendenze reazionarie e clericali (cfr. a questo proposito le ingenue osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia di Francia, quando rimprovera al legittimismo di non aver avuto fiducia nel suffragio universale, come invece aveva fatto Na- poleonc III); ma il clericalismo italiano sapeva di non essere l'espres sione reale della società civile e che un possibile successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l'attacco frontale da parte delle energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870. Esperienza del suffragio allargato nel 1882 e reazione crispino-massonica. Tuttavia, l'atteggiamento clericale di mantenere «statico» il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente sovversivo; e ogni nuova organizzazione espressa dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime costituzionale monarchico: perciò la reazione del '98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Da questo momento comincia pertanto una nuova polidca vaticanesca, con l'abbandono di fatto del non expedit anche nel campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato società civile, e non Stato) e ciò permette l'introduzione del suffragio universale, il patto Gendloni e finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare. La quistione dell'esistenza di un'Italia reale e un'Italia legale si ripresenta in altra forma, negli avvenimenti del '24-26, fino alla soppressione di tutti i partiti politici, con l'affermazione dell'essersi ormai raggiunta l'identità tra il reale e il legale, perché la società civile in tutte le sue forme era inquadrata da una sola organizzazione politica di partito e statale.

Note

1 Sulla Lega di Lepanto cfr.: A. Dragonetti De Torres, La lega di lepanto nel carteggio diplomatico di don Luys de Torre nunzio straordinario di S. S. Pio V a Filippo II, Torino, Bocca, 1931. Dalla preparazione diplomatica della lega dovrebbe apparire più concretamente il carattere dell'impresa.

2 Nino Cortese, memorie di un generale della Repubblica e dell'Impero, 2. voll. di pp. 136, 312

3 Sui rapporti tra nobiltà, clero e popolo cfr. il libro di N. Rodolico sull'Italia Meridionale e il suo articolo nel «Marzocco» n. 11 del 1926. [N. Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento nell'Italia Meridionale, Le Monnier, Firenze. - N. d. JJ.].

4 Cfr. Alessandro D'Ancona, Carteggio di M. Amari raccolto e pubblicato coll'elogio di lui letto nell'Accademia della Crusca, Torino, 1896-97, in tre volumi; cfr. vol. II, p. 371.

5 Treves-Treccani Tuminelli, di prossima pubblicazione; il capitolo è riportato dai giornali del 16 marzo 1932, "Resto del Carlino".

6 Dal libretto: A. F. Andryane, memorie di un prigioniero di Stato allo Spielberg, capitoli scelti e annotati da Rosalino Guastalla, Firenze, barbera, 1916, tolgo alcune indicazioni bibliografiche su Federico Confalonieri: Rosolino Guastalla, Letteratura spielberghese in Le mie prigioni commentate, Livorno, Giusti, 1912; Giorgio Pallavicino, Spilbergo e Gradisca (1856), ristampato nelle Memorie (Loëscher, 1882); Fed. Confalonieri, Memorie e Lettere (Milano, Hoepli, 1890); A. Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma, 1901; Domenico Chiattone, commento alle Mie Prigioni del Pellico.

7 Cfr. Croce su Cantù nella Storia della storiografia italiana nel secolo XIX.

8 Cfr. Attilio Monaco, I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto, Roma, Libreria Internazionale Treves-Treccani-Tuminelli, 1933, pp. 873, in 2 volumi.

9 Sull'affare La Gala cfr. Isaia Ghiron, Annali d'Italia in continuazione al Muratori e al Coppi (« Rassegna storica del Risorgimento », 1927, fase. 1°) e cfr. specialmente la « Civiltà Cattolica » del 1863 (i La Gala furono arrestati
nel luglio 1863).

10 Del Rodolico è annunziato, presso il Le Monnier, un libro su Carlo Alberto principe di Carignano, del quale l'articolo di «Pegaso» è forse un estratto.

11 Per il concetto di letteratura nazionale-popolare bisogna studiare il Gioberti e il suo romanticismo temperato.

12 «Nuova Antologia» 1° marzo 1928, La spedizione garibaldina dell'«Utile». Cfr. Luzio, Il milione di fucili e la spedizione dei Mille nella «Lettura » dell'aprile 1910 e la letteratura su Garibaldi in generale: come Garibaldi giudicò il d'Azeglio? Cfr. le Memorie.

13 Opere, vol. LVIII (Epist., XXXIV), 1931.

14 Si veda oltre Confessioni e ricordi di F. Martini.

15 Gli Ebrei in Venezia, trad, di Dante Lattes, ed. Cremonese, Roma, 1933, pp. VII-44.

16 Firenze, Le Monnier, 1932, in-8°, pp. VIII-228, e in proposito vedi «Critica» del 20 marzo 1933, pp. 140 sgg.

17 Bisognerebbe ricostruire la storia del fanciullo Mortara che ebbe tanta clamorosa eco nelle polemiche contro il clericalismo.

18 Racconta aneddoti piccanti sulla situazione francese: per esempio, i contadini, votando per Luigi Napoleone, credevano di votare per Napoleone I. Inutilmente si cercava di spiegar loro che la salma dell'Imperatore è sepolta agli Invalidi.