I. Riforma e Rinascimento

 

IL RISORGIMENTO E LA STORIA PRECEDENTE

Una doppia serie di ricerche. Una sull'età del Risorgimento e una seconda sulla precedente storia che ha avuto luogo nella penisola italiana, in quanto ha creato elementi culturali che hanno avuto una ripercussione nell'età del Risorgimento (ripercussione positiva e negativa) e continuano a operare (sia pure come dati ideologici di propaganda) anche nella vita nazionale italiana, cosi come è stata formata dal Risorgimento.

Questa seconda serie dovrebbe essere una raccolta di saggi su quelle epoche della storia europea e mondiale che hanno avuto un riflesso nella penisola. Per esempio:

1) I diversi significati che ha avuto la parola «Italia» nei diversi tempi, prendendo lo spunto dal noto saggio del prof. Carlo Cipolla (che dovrebbe essere completato e aggiornato).

2) Il periodo di storia romana che segna il passaggio dalla Repubblica all'Impero, in quanto crea la cornice generale di alcune tendenze ideologiche della futura nazione italiana. Non pare si sia compreso che proprio Cesare ed Augusto in realtà modificano radicalmente la posizione relativa di Roma e della penisola nell'equilibrio del mondo classico, togliendo all'Italia l'egemonia «territoriale» e trasferendo la funzione egemonica a una classe «imperiale» cioè supernazionale. Se è vero che Cesare continua e conclude il movimento democratico dei Gracchi, di Mario, di Catilina, è anche vero che Cesare vince, in quanto il problema, che per i Gracchi, per Mario, per Catilina si poneva come problema da risolversi nella penisola, a Roma, per Cesare si pone nella cornice di tutto l'impero, di cui la penisola è una parte e Roma la capitale «burocratica»; e ciò anche solo fino a un certo punto. Questo nesso storico è della massima importanza per la storia della penisola e di Roma, poiché è l'inizio del processo di «snazionalizzazione» di Roma e della penisola e del suo diventare un «terreno cosmopolitico». L'aristocrazia romana, che aveva, nei modi e coi mezzi adeguati ai tempi, unificato la penisola e creato una base di sviluppo nazionale, è soverchiata dalle forze imperiali e dai problemi che essa stessa ha suscitato: il nodo storico-politico viene sciolto da Cesare con la spada e si inizia un'epoca nuova, in cui l'Oriente ha un peso talmente grande che finisce per soverchiare l'Occidente e portare a una frattura tra le due parti dell'Impero.

3) Medioevo o età dei Comuni, in cui si costituiscono molecolarmente i nuovi gruppi sociali cittadini, senza che il processo raggiunga la fase più alta di maturazione come in Francia, in Ispagna, ecc.

4) Età del mercantilismo e delle monarchie assolute, che appunto in Italia ha manifestazioni di scarsa portata nazionale, perché la penisola è sotto l'influsso straniero, mentre nelle grandi nazioni europee i nuovi gruppi sociali cittadini, inserendosi potentemente nella struttura statale a tendenza unitaria, rinvigoriscono la struttura stessa e l'unitarismo, introducono un nuovo equilibrio nelle forze sociali e si creano le condizioni di uno sviluppo rapidamente progressivo1.

Note

1 Questi saggi devono essere concepiti per un pubblico determinato, col fine di distruggere concezioni antiquate, scolastiche, retoriche, assorbite passivamente per le idee diffuse in un dato ambiente di cultura popolaresca: per suscitare quindi un interesse scientifico per le quistioni trattate, che perciò saranno presentate come viventi e operanti anche nel presente, come forze in movimento, sempre attuali.

La borghesia medioevale e il suo rimanere nella fase economico-corporativa.

Ê da fissare in che consista concretamente l'indipendenza e l'autonomia di uno Stato e in che consistesse nel periodo dopo il Mille. Già oggi le alleanze, con l'egemonia di una grande potenza, rendono problematica la libertà d'azione, ma specialmente la libertà di fissare la propria linea di condotta, di moltissimi Stati: questo fatto si doveva manifestare in modo molto più marcato dopo il Mille, data la funzione internazionale dell'Impero e del Papato e il monopolio degli eserciti detenuto dall'Impero

IL COMUNE MEDIOEVALE COME FASE ECONOMICO-CORPORATIVA DELLO STATO MODERNO

Federico II.

In un articolo intitolato II tramonto della potenza sveva e la più recente storiografia («Nuova Antologia» del 16 marzo 1930), Raffaello Morghen riporta alcuni recenti dati bibliografici su Federico II. Dal punto di vista del «senso» della storia italiana esposto nei paragrafi sui Comuni medioevali e sulla funzione cosmopolita degli intellettuali italiani, è interessante il volumetto di Michelangelo Schipa, Sicilia e Italia sotto Federico 11 (Napoli, Società Nap. di Storia patria, 1929).

Naturalmente se è vero che lo Schipa «sembra sdegnarsi» con i Comuni e col Papa che resistettero a Federico, ciò è antistorico, ma si dimostra come il Papa si opponesse all'unificazione dell'Italia e come i Comuni non uscissero dal Medioevo.

Il Morghen cade in altro errore quando scrive che al tempo delle lotte tra Federico e il Papato, i Comuni «si protendono ansiosi e impazienti verso l'avvenire, ecc.» «... È l'Italia la quale si appresta a dare al mondo una nuova civiltà essenzialmente laica e nazionale, quanto più la precedente era stata universalistica e chie sastica». Sarebbe difficile al Morghen giustificare questa affermazione in altro modo che citando dei libri come il Principe. Ma che i libri siano una nazione e non solamente un elemento di cultura, ci vuole molta retorica per sostenerlo.

Fu Federico II ancora legato al Medioevo? Certamente. Ma è anche vero che se ne staccava: la sua lotta contro la Chiesa, la sua tolleranza religiosa, l'essersi servito di tre civiltà — ebraica, latina, araba — e aver cercato di amalgamarle, lo pone fuori del Medioevo.

Era un uomo del suo tempo, ma egli davvero poteva fondare una società laica e nazionale e fu più italiano che tedesco, ecc. Il problema va veduto interamente e anche questo articolo del Morghen può servire.

Dante e Machiavelli.

Bisogna liberare la dottrina politica di Dante da tutte le superstrutture posteriori, riducendola alla sua precisa significazione storica. Che, per l'importanza avuta da Dante come elemento della cultura italiana, le sue idee e le sue dottrine abbiano avuto efficacia di suggestione per stimolare e sollecitare il pensiero politico nazionale, è una quistione: ma bisogna escludere che tali dottrine abbiano avuto un valore genetico proprio, in senso organico. Le soluzioni passate di determinati problemi aiutano a trovare la soluzione dei problemi attuali simili, per l'abito critico culturale che si crea nella disciplina dello studio, ma non si può mai dire che la soluzione attuale dipenda geneticamente dalle soluzioni passate: la genesi di essa è nella situazione attuale e solo in questa. Questo criterio non è assoluto, cioè non deve essere portato all'assurdo: in tal caso si cadrebbe nell'empirismo: massimo attualismo, massimo empirismo.

Bisogna saper fissare le grandi fasi storiche, che nel loro insieme hanno posto determinati problemi, e fin dall'inizio del loro sorgere ne hanno accennato gli elementi di soluzione. Così direi che Dante chiude il Medioevo (una fase del Medioevo), mentre Machiavelli indica che una fase del mondo moderno è già riuscita a elaborare le sue quistioni e le soluzioni relative in modo già molto chiaro e approfondito. Pensare che Machiavelli geneticamente dipenda o sia collegato a Dante è sproposito storico madornale. Cosi è puro romanzo intellettuale la costruzione attuale dei rapporti tra Stato e Chiesa (vedi F. Coppola) sullo schema dantesco «della Croce e dell'Aquila». Tra il Principe del Machiavelli e l'Imperatore di Dante non c'è connessione genetica, e tanto meno tra lo Stato moderno e l'Impero medioevale. Il tentativo di trovare una connessione genetica tra le manifestazioni intellettuali delle classi colte italiane delle varie epoche, costituisce appunto la «retorica» nazionale: la storia reale viene scambiata con le larve della storia. (Con ciò non si vuol dire che il fatto non ha significato; non ha significato scientifico, ecco tutto. E un elemento politico; è meno ancora, è un elemento secondario e subordinato di organizzazione politica e ideologica di piccoli gruppi che lottano per l'egemonia culturale e politica).

La dottrina politica di Dante mi pare doversi ridurre a mero elemento della biografia di Dante (ciò che in nessun modo si potrebbe dire e fare per il Machiavelli. Non nel senso generico che in ogni biografia l'attività intellettuale del protagonista è essenziale e che importa non solo ciò che il biografato fa, ma anche ciò che pensa e fantastica; ma nel senso che tale dottrina non ha avuto nessuna efficacia e fecondità storico-culturale, come non poteva averne, ed è importante solo come elemento dello sviluppo personale di Dante dopo la sconfitta della sua parte e il suo esilio da Firenze. Dante subisce un processo radicale di trasformazione delle sue convinzioni politico-cittadine, dei suoi sentimenti, delle sue passioni, del suo modo di pensare generale. Questo processo ha come conseguenza di isolarlo da tutti. E vero che il suo nuovo orientamento può chiamarsi «ghibellinismo» solo per modo di dire: in ogni caso, sarebbe un «nuovo ghibellinismo» superiore al vecchio ghibellinismo, ma superiore anche al guelfismo: in realtà, si tratta non di una dottrina politica, ma di un'utopia politica, che si colora di riflessi del passato, e più di tutto si tratta del tentativo di organizzare come dottrina ciò che era solo materiale poetico in formazione, in ebullizione, fantasma poetico incipiente che avrà la sua perfezione nella Divina Commedia, sia nella «struttura» come continuazione del tentativo (adesso versificato) di organizzare in dottrina i sentimenti, — sia nella «poesia» come invettiva appassionata e dramma in atto.

Al disopra delle lotte interne comunali, che erano un alternarsi di distruzioni ed esterminì, Dante sogna una società superiore al Comune, superiore sia alla Chiesa, che appoggia i Neri come al vecchio Impero che appoggiava i ghibellini, sogna una forma che imponga una legge superiore alle parti, ecc. È un vinto della guerra delle classi, che sogna l'abolizione di questa guerra sotto il segno di un potere arbitrale. Ma il vinto, con tutti i rancori, le passioni, i sentimenti del vinto, è anche un «dotto», che conosce le dottrine e la storia del passato. Il passato gli offre lo schema romano au- gusteo e il suo riflesso medioevale, l'Impero romano della nazione germanica. Egli vuol superare il presente, ma con gli occhi rivolti al passato. Anche il Machiavelli aveva gli occhi al passato, ma in ben altro modo di Dante, ecc.

Le finanze del Comune fiorentino.

Nella recensione del libro del Barbadoro1 pubblicata nel «Pegaso» del luglio 1930, Antonio Panella ricorda il tentativo (incompiuto e difettoso) fatto da Giuseppe Canestrini di pubblicare una serie di volumi sulla scienza e l'arte di Stato desunte dagli atti ufficiali della Repubblica di Firenze ' e dei Medici (nel 1862 usci il primo e unico volume della serie promessa). La finanza del Comune genovese fu trattata dal Sieveking, di Venezia dal Besta, dal Cessi, dal Luzzatto.

Il Barbadoro tratta ora della finanza fiorentina, cronologicamente giunge fino all'istituzione del Monte dopo la signoria del duca di Atene, e per la materia comprende l'imposta diretta e il debito pubblico, cioè le basi essenziali della struttura economica del Comune (pare che il Barbadoro debba completare la trattazione, occupandosi delle imposte indirette).

Prima forma di tassazione, «il focatico»; essa risente ancora dei sistemi tributari feudali e sta a rappresentare il segno tangibile dell'affermarsi dell'autonomia del Comune, il quale si sostituisce ai diritti dell'Impero. Forma più evoluta: l'«estimo», basato sulla valutazione globale della capacità contributiva del cittadino. Sul sistema dell'imposta diretta come cespite principale di entrata reagisce l'interesse della classe dominante, che, come detentrice della ricchezza, tende a riversare i pesi fiscali sulla massa della popolazione con le imposte sul consumo; comincia allora la prima forma di debito pubblico, coi prestiti o anticipazioni che i ceti abbienti fanno per i bisogni dell'erario, assicurandosene il rimborso attraverso le gabelle. La lotta politica è caratterizzata dall'oscillazione tra «estimo» e imposta sul consumo: quando il Comune cade sotto una signoria forestiera (duca di Calabria e duca d'Atene) appare l’«estimo», mentre invece in certi momenti si giunge a ripudiare l'estimo in città (così nel 1315). Il regime signorile, sovrastando agli interessi delle classi sociali (così il Panella: ma realmente rappresentando un certo equilibrio delle classi sociali, per cui il popolo riusciva a limitare lo strapotere delle classi ricche), può seguire un principio di giustizia distributiva e migliorare anche il sistema dell'imposta diretta, fino al 1427, agli albori del principato mediceo e al tramonto dell'oligarchia, in cui fu istituito il catasto.

Questo libro del Barbadoro è indispensabile per vedere appunto come la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economica- corporativa, cioè a creare uno Stato «col consenso dei governati» e passibile di sviluppo. Lo sviluppo statale poteva avvenire solo come principato, non come repubblica comunale.

È interessante anche il libro per studiare l'importanza politica del debito pubblico, che si sviluppò per le guerre di espansione, cioè per assicurare alla borghesia un più ampio mercato e la libertà di transito2. Anche le conseguenze del debito pubblico sono interessanti: la classe abbiente che aveva creduto di trovare nei prestiti un mezzo per riversare sulla massa dei cittadini la parte maggiore dei pesi fiscali, si trovò punita dalla insolvenza del Comune, che, coincidendo con la crisi economica, contribuì ad acuire il male e ad alimentare il dissesto del paese. Questa situazione portò al consolidamento del debito e alla sua irredimibilità (rendita perpetua) e alla riduzione del saggio d'interesse con la istituzione del Monte dopo la cacciata del duca d'Atene e l'avvento al potere del popolo «minuto».

Note

1 Il libro di Bernardino Barbadoro, Le finanze della Repubblica fiorentina, Olschki, Firenze, 1929 [N.d. R.]

2 Sarebbe da confrontare con ciò che Marx dice nel Capitale a proposito della funzione e dell'importanza del debito pubblico.

La caduta del Comune.

Nel 1400 lo spirito di iniziativa dei mercanti italiani era caduto: si preferiva investire le ricchezze acquistate in beni fondiari e avere un reddito certo dall'agricoltura, piuttosto che arrischiarle nuovamente in viaggi e in investimenti all'estero.

Ma come si è verificata questa caduta? Gli elementi che vi hanno contribuito sono parecchi: le lotte di classe fierissime nelle città comunali, i fallimenti per insolvenza di debitori regali (fallimento dei Bardi e Peruzzi), l'assenza di un grande Stato che proteggesse i suoi cittadini all'estero; cioè la causa fondamentale è nella stessa struttura dello Stato comunale che non può svilupparsi in grande Stato territoriale. Da allora si è radicato in Italia lo spirito retrivo, per cui si crede che sola ricchezza sicura è la proprietà fondiaria. Bisognerà studiare bene questa fase, in cui i mercanti diventano proprietari terrieri e vedere quali fossero i rischi inerenti allo scambio e al commercio bancario.

L'assedio di Firenze del 1529-30 rappresenta la conclusione della lotta tra fase economico-corporativa della storia di Firenze e Stato moderno (relativamente). Le polemiche tra gli storici a proposito del significato dell'assedio1 dipendono dal non saper apprezzare queste due fasi e ciò per la retorica sul Comune medioevale: che Maramaldo possa essere stato rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente un retrivo, può spiacere moralmente, ma storicamente può e deve essere sostenuto.

Sul fatto che la borghesia comunale non è riuscita a superare la fase corporativa e quindi non si può dire abbia creato uno Stato, poiché era Stato piuttosto la Chiesa e l'Impero, cioè che i Comuni non hanno superato il feudalismo, bisogna, prima di scrivere qualche cosa, leggere il libro di Gioacchino Volpe, II Medioevo. Da un articolo di Riccardo Bacchelli (Le molte vite) nella «Fiera Letteraria» del 1° luglio 1928, tolgo questo brano: «Ma per non uscir nella preistoria, né da questo libro, nel Medioevo del Volpe si legge come il popolo dei Comuni sorge e vive nella situazione di privilegio sacrificato che gli fu fatta dalla Chiesa universale e da quell'idea del Sacro Impero, che, imposta (?l) dall'Italia come sinonimo ed equivalente di umana civiltà all'Europa che tale la riconobbe e coltivò, impediva (!?) poi all'Italia il più (!) naturale sviluppo storico a nazione moderna». Bisognerà vedere se il Volpe autorizza queste... bizzarrie.

Note

1 Cfr. la polemica tra Antonio Panella e Aldo Valori, conclusa con la capitolazione scientifica del Valori, nel «Marzocco», e la sua meschina «vendetta» giornalistica nella «Critica Fascista». [«Marzocco», 22 settembre 1929 e 13 ottobre 1929; «Critica Fascista», 15 gennaio 1930. - N. d. R.

RIFORMA E RINASCIMENTO

Umanesimo e Rinascimento.

Cosa significa che il Rinascimento abbia scoperto «l'uomo», abbia fatto dell'uomo il centro dell'universo, ecc., ecc.? Forse che prima del Rinascimento l’«uomo» non era il centro dell'universo, ecc.? Si potrà dire che il Rinascimento ha creato una nuova cultura o civiltà, in opposizione a quelle precedenti o che sviluppano quelle precedenti, ma o corre «limitare» ossia «precisare» in che questa cultura consista, ecc. Davvero che prima del Rinascimento l’«uomo» era nulla ed è diventato tutto? o si è sviluppato un processo di formazione culturale in cui l'uomo tende a diventare tutto? Pare si debba dire che prima del Rinascimento il trascendente formasse la base della cultura medioevale, ma quelli che rappresentavano questa cultura erano forse «nulla» oppure quella cultura non era il modo di essere «tutto» per loro?1

Se il Rinascimento è una grande rivoluzione culturale, non è perché dal «nulla» tutti gli uomini abbiano cominciato a pensare di essere «tutto», ma perché questo modo di pensare si è diffuso, è diventato un fermento universale, ecc. Non è stato «scoperto» l'uomo, ma è stata iniziata una nuova forma di cultura, cioè di sforzo per creare un nuovo tipo di uomo nelle classi dominanti.

Il Walser, che visse a lungo in Italia, osserva, che per comprendere il carattere del Rinascimento italiano è utile, in certi limiti, conoscere la psicologia degli Italiani moderni. Osservazione che mi pare molto acuta, specialmente per quanto riguarda l'atteggiamento verso la religione e che pone il problema di ciò che sia lo spirito religioso in Italia modernamente, e se esso possa essere paragonato non dico allo spirito religioso dei protestanti, ma anche a quello di altri paesi cattolici, specialmente della Francia.

Che la religiosità degli Italiani sia molto superficiale è innegabile, così come è innegabile che essa ha un carattere strettamente politico, di egemonia internazionale. A questa forma di religiosità è legato il Primato del Gioberti, che a sua volta contribuì a rassodare e sistemare ciò che esisteva già prima allo stato diffuso. Non bisogna dimenticare che dal '500 in poi l'Italia contribuì alla storia mondiale, specialmente perché sede del Papato, e che il cattolicesimo italiano era sentito come un surrogato dello spirito di nazionalità e statale, non solo, ma addirittura come una funzione egemonica mondiale, cioè come spirito imperialistico. Così è giusta l'osservazione che lo spirito anticuriale è una forma di lotta contro ceti privilegiati; e non si può negare che in Italia i ceti religiosi avessero una funzione economica e politica molto più radicale che negli altri paesi, dove la formazione nazionale limitava la funzione ecclesiastica. L'anticurialismo degli intellettuali laici, le «facezie» anticlericali, ecc., sono anche una forma di lotta tra intellettuali laici e intellettuali religiosi data la prevalenza che questi ultimi avevano.

Se lo scetticismo e il paganesimo degli intellettuali sono in gran parte mere apparenze superficiali e possono allearsi a un certo spirito religioso, anche nel popolo2 le manifestazioni licenziose (carri e canti carnascialeschi) che al Walser sembrano più gravi, possono spiegarsi allo stesso modo.

Come gli Italiani di oggi, quelli del Rinascimento, dice il Walser, sapevano «sviluppare separatamente e contemporaneamente i due fattori dell'umana capacità di comprensione, il razionale e il mistico, e in modo che il razionalismo condotto fino all'assoluto scetticismo, per un invisibile legame, inconcepibile all'uomo nordico, si riallaccia in modo saldo, al più primitivo misticismo, al più cieco fatalismo, al feticismo e alla crassa superstizione». Queste sarebbero le più importanti correzioni che il Walser porta alla concezione del Rinascimento propria del Burckhardt e del De Sanctis. Scrive il Janner che il Walser non riesce a distinguere l'Umanesimo dal Rinascimento e che, se forse senza l'Umanesimo non ci sarebbe stato il Rinascimento, questo però supera per importanza e per le conseguenze l'Umanesimo. Anche questa distinzione deve essere più sottile e profonda: pare più giusta l'opinione che il Rinascimento è un movimento di grande portata, che si inizia dopo il Mille, di cui l'Umanesimo e il Rinascimento in senso stretto sono due momenti conclusivi, che hanno avuto in Italia la sede principale, mentre il processo storico più generale è europeo e non solo italiano.

L'Umanesimo e il Rinascimento come espressione letteraria di questo movimento storico europeo hanno avuto in Italia la sede principale, ma il movimento progressivo dopo il Mille, se ha avuto in Italia gran parte coi Comuni, proprio in Italia è decaduto e proprio coll'Umanesimo e il Rinascimento che in Italia sono stati regressivi, mentre nel resto d'Europa il movimento generale culminò negli Stati nazionali e poi nell'espansione mondiale della Spagna, della Francia, dell'Inghilterra, del Portogallo. In Italia agli Stati nazionali di questi paesi, ha corrisposto l'organizzazione del Papato come Stato assoluto — iniziato da Alessandro VI — organizzazione che ha disgregato il resto d'Italia, ecc. Il Machiavelli è rappresentante in Italia della comprensione che il Rinascimento non può esser tale senza la fondazione di uno Stato nazionale, ma come uomo egli è il teorico di ciò che avviene fuori d'Italia, non di eventi italiani.

Secondo il Janner3 l'idea che noi ci facciamo del Rinascimento è soprattutto determinata da due opere capitali: La civiltà del Ri nascimento di Jacopo Burckhardt e la Storia della letteratura ita liana del De Sanctis.

Il libro del Burckhardt fu interpretato diversamente in Italia e fuori d'Italia. Uscito nel i860, ebbe risonanza europea, influenzò le idee del Nietzsche sul superuomo e per questa via suscitò tutta una letteratura, specialmente nei paesi nordici, su artisti e condottieri del Rinascimento, letteratura in cui si proclama il diritto alla vita bella ed eroica, alla libera espansione della personalità senza riguardi a vincoli morali. Il Rinascimento si riassume così in Sigismondo Malatesta, Cesare Borgia, Leone X, l'Aretino, con Machiavelli come teorico e, a parte, solitario, Michelangelo. In Italia D'Annunzio rappresenta questa interpretazione del Rinascimento.

il libro del Burckhardt (tradotto dal Valbusa nel 1877) ebbe in Italia influenza diversa: la traduzione italiana metteva più in luce le tendenze anticuriali che il Burckhardt vide nel Rinascimento e che coincidevano con le tendenze della politica e della cultura italiana del Risorgimento. Anche l'altro elemento messo in luce dal Burckhardt nel Rinascimento, quello dell'individualismo e della formazione della mentalità moderna, fu in Italia visto come opposizione al mondo medioevale rappresentato dal Papato. In Italia fu meno notata l'ammirazione per una vita energetica e di pura bellezza; i condottieri, gli avventurieri, gli immoralisti, trovarono in Italia meno attenzione.

Queste osservazioni pare siano da tenere in conto: c'è una interpretazione del Rinascimento e della vita moderna che viene attribuita all'Italia (come se fosse nata originariamente e nei fatti in Italia), ma non è che l'interpretazione di un libro tedesco sull'Italia.

Il De Sanctis accentua nel Rinascimento i colori oscuri della corruzione politica e morale; nonostante tutti i meriti che si pos sono riconoscere al Rinascimento, esso disfece l'Italia e la condusse serva dello straniero.

Insomma, il Burckhardt vede il Rinascimento come punto di partenza di una nuova epoca della civiltà europea, progressiva, culla dell'uomo moderno: il De Sanctis, dal punto di vista della storia italiana e per l'Italia il Rinascimento fu il punto di partenza di un regresso, ecc. Il Burckhardt e il De Sanctis però coincidono nei particolari dell'analisi del Rinascimento e sono d'accordo nel rilevare come elementi caratteristici il formarsi della nuova mentalità, il distacco da tutti i legami medioevali di fronte alla religione, all'autorità, alla patria, alla famiglia.

Secondo il Janner, «negli ultimi dieci o quindici anni s'è però andata man mano formando una controcorrente di studiosi, per lo più cattolici, che contestano la realtà di questi caratteri del Rinascimento [fatti risaltare dal Burckhardt e dal De Sanctis] e tentano di farne risaltare altri in gran parte opposti. In Italia l'Olgiati, il Zabughin, il Toffanin, nei paesi tedeschi il Pastor, nei primi volumi della Storia dei Papi e il Walser». Del Walser è uno studio sulla religiosità del Pulci {Lebens- und Glaubensprobleme aus dem Zeitalter der Renaissance, in «Die Neueren Sprachen», 10, Beiheft). Egli — riprendendo gli studi del Volpi e di altri — analizza il tipo di eresia del Pulci e le vicende dell'abiura che ne dovette fare più tardi; ne mostra «in modo assai convincente» l'origine (averroismo e sètte mistiche giudaiche) e mostra che nel Pulci non si tratta solo di distacco dai sentimenti religiosi ortodossi, ma di una sua nuova fede (intessuta di magia e di spiritismo), che più tardi si risolve in una larga comprensione e tolleranza di tutte le fedi.

E' da vedere se lo spiritismo e la magia non sono necessariamente la forma che doveva prendere il naturalismo e il materialismo di quell'epoca, cioè la reazione al trascendente cattolico o la prima forma di immanenza primitiva e rozza.

Nel volume che il Janner recensisce, pare che tre studi specialmente interessino, in quanto illustrano la nuova interpretazione: «11 Cristianesimo e l'antichità nella concezione del primo Rinascimento italiano», «Studi sul pensiero del Rinascimento» e «Problemi umani e artistici del Rinascimento italiano».

Secondo il Walser, l'affermazione del Burckhardt che il Rinascimento sia stato paganeggiante, critico, anticuriale e irreligioso non è esatta. Gli umanisti della prima generazione come Petrarca, Boccaccio, il Salutati, di fronte alla Chiesa non si staccano dall'atteggiamento degli studiosi medioevali. Gli umanisti del '400, Poggio, il Valla, il Beccadelli, sono più critici e indipendenti, ma di fronte alla verità rivelata tacciono anch'essi e accettano. In questa affermazione il Walser è d'accordo col Toffanin, che, nel suo libro Che cosa fu l'Umanesimo?, afferma che l'Umanesimo, col suo culto della latinità e della romanità, fu assai più ortodosso che non la letteratura dotta in volgare del '200 e '300 (affermazione che può essere accettata, se si distingue nel moto del Rinascimento il distacco avvenuto con l'Umanesimo dalla vita nazionale che andò formandosi dopo il Mille, se si considera l'Umanesimo come un processo progressivo per le classi colte «cosmopolitiche» ma regressivo dal punto di vista della storia italiana).

Il Rinascimento può essere considerato come l'espressione culturale di un processo storico nel quale si costituisce in Italia una nuova classe intellettuale di portata europea, classe che si divise in due rami: uno esercitò in Italia una funzione cosmopolitica, collegata al papato e di carattere reazionario, l'altro si formò all'estero, coi fuorusciti politici e religiosi ed esercitò una funzione cosmopolitica progressiva nei diversi paesi in cui si stabili, o partecipò all'organizzazione degli Stati moderni come elemento tecnico nella milizia, nella politica, nell'ingegneria, ecc.

Può esser vero che l'Umanesimo nacque in Italia come studio della romanità e non del mondo classico in generale (Atene e Roma); ma occorre allora distinguere. L'Umanesimo fu «politico etico», non artistico, tu la ricerca delle basi di uno «Stato italiano» che sarebbe dovuto nascere insieme e parallelamente alla Francia, alla Spagna, all'Inghilterra: in questo senso l'Umanesimo e il Rinascimento hanno come esponente più espressivo il Machiavelli. Fu «ciceroniano», come sostiene il Toffanin, cioè ricercò le sue basi nel periodo che precedette l'Impero, la cosmopolis imperiale (e in tal senso Cicerone può essere un buon punto di riferimento per il suo opporsi a Catilina prima, a Cesare poi, cioè all'emergere delle nuove forze anti-italiche, di classe cosmopolita).

Il Rinascimento spontaneo italiano, che si inizia dopo il Mille e fiorisce artisticamente in Toscana, fu soffocato dall'Umanesimo e dal Rinascimento in senso culturale, dalla rinascita del latino come lingua degli intellettuali contro il volgare, ecc. Che questo Rina scimento spontaneo (dal '200 specialmente) possa solo essere paragonato alla fioritura della letteratura greca, è innegabile, mentre il «politicismo» del '400-500 è il Rinascimento che può essere riferito al Romanesimo.

Atene e Roma hanno la loro continuazione nella Chiesa ortodossa e cattolica: anche qui è da sostenere che Roma fu continuata dalla Francia più che dall'Italia e Atene-Bisanzio dalla Russia zarista: civiltà occidentale e orientale, e ciò fino alla Rivoluzione francese e forse alla guerra del 1914.

Nel saggio del Rostagni si trovano molte osservazioni particolari acute, ma la prospettiva è sbagliata. Il Rostagni intanto confonde la cultura libresca con quella spontanea.

Che la svalutazione dei Romani sia dovuta al Romanticismo specialmente tedesco (nel campo artistico) può essere vero: che abbia avuto motivi pratici immediati, ecc., può anche essere vero. Ma il Rostagni avrebbe dovuto ricercare se tuttavia non ci fosse in questo unilateralismo una verità sia pure unilaterale. Verità di cultura, non estetica, perché l’«autonomia» estetica è degli artisti singoli, tra l'altro, e non dei raggruppamenti culturali; e sia pure «autonomia di cultura» che certo dovette esistere, come appunto dimostra il fatto della scissione culturale tra Oriente e Occidente, tra Chiesa cattolica e Ortodossismo bizantino, ecc. Ma allora occorrevano non motivazioni superficiali, ma più approfondite ricerche non solo in letteratura ma nella cultura generale.

E' molto importante il libro di Giuseppe Toffanin Che cosa fu l'Umanesimo?4 Il Risorgimento dell'antichità classica nella coscienza degli Italiani fra i tempi di Dante e la Riforma Il Toffanin coglie fino ad un certo punto il carattere reazionario e medioevale dell'Umanesimo: «Quel particolare stato d'animo e di cultura a cui in Italia, fra il Tre e il Cinquecento, si dà nome di Umanesimo, fu una riscossa e rappresentò, per almeno due secoli, una barriera contro certa inquietudine eterodossa e romantica che era in germe prima nell'età comunale e prese poi il sopravvento nelle riforme. Esso fu spontanea conciliazione di discordanti elementi ideali, e accettazione di limiti, antifilosofìca per eccellenza: ma codesta anti- filosoficità, una volta pensata e accettata, è anch'essa una filosofia»5. Mi pare appunto che la quistione di ciò che fu l'Umanesimo non può essere risolta che in un quadro più comprensivo della storia degli intellettuali italiani e della loro funzione in Europa.

Il Toffanin ha scritto anche un libro sulla Fine dell'Umanesimo e il volume sul Cinquecento nella collezione Vallardi.

Molto interessante e comprensivo nella sua brevità l'articolo di Vittorio Rossi II Rinascimento, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1929. Per il Rossi, giustamente, il rifiorire degli studi intorno alle letterature classiche fu un fatto di formazione secondaria, un indizio, un sintomo e non il più appariscente della profonda essenza dell'età cui spetta il nome di Rinascimento. «Il fatto centrale e fondamentale, quello onde ogni altro germoglia, fu la nascita e la maturazione d'un nuovo mondo spirituale, che dall'energica e coerente virtù creativa sprigionatasi dopo il Mille in ogni campo dell'umana attività, fu portato allora sulla scena della storia non pure italiana, ma europea».

Dopo il Mille s'inizia la reazione contro il regime feudale, «che improntava di sé tutta la vita» (con l'aristocrazia fondiaria e il chiericato): nei due o tre secoli seguenti si trasforma profondamente l'assetto economico, politico e culturale della società: si rinvigorisce l'agricoltura, si ravvivano, estendono ed organizzano le industrie e i commerci; sorge la borghesia, nuova classe dirigente [questo punto è da precisare e il Rossi non lo precisa] fervida di passione politica [dove? in tutta Europa, o solamente in Italia e nelle Fiandre?] e stretta in corporazioni finanziarie potenti, si costituisce con crescente spirito di autonomia lo Stato comunale.

Anche questo punto è da precisare: bisogna fissare che significato ha avuto lo «Stato» nello Stato comunale: un significato «corporativo» limitato, per cui non si è potuto sviluppare oltre il feudalismo medio, cioè quello successo al feudalismo assoluto — senza terzo stato, per così dire, — esistito fino al Mille e a cui successe la monarchia assoluta nel secolo XV, fino alla Rivoluzione francese. Un passaggio organico dal Comune a un regime non più feudale si ebbe nei Paesi Bassi, e solo nei Paesi Bassi. In Italia i Comuni non seppero uscire dalla fase corporativa, l'anarchia feudale ebbe il sopravvento in forma appropriata alla nuova situazione e ci fu poi la dominazione straniera6. Movimenti di riforma della Chiesa, sorgono nuovi ordini religiosi che vogliono ripristinare la vita apostolica. Questi movimenti sono sintomi positivi o negativi del nuovo mondo che si sviluppa? Certamente, essi si presentano come reazione alla nuova società economica, sebbene la domanda di riformare la Chiesa sia progressiva: però è vero che essi indicano un maggior interesse del popolo verso le quistioni culturali e un maggior interesse verso il popolo da parte di grandi personalità religiose, cioè di intellettuali più in vista dell'epoca: ma anche essi, in Italia almeno, sono o soffocati o addomesticati dalla Chiesa, mentre in altre parti d'Europa si mantengono come fermento per sboccare nella Riforma7.

«Nelle scuole filosofiche e teologiche di Francia s'accendono fieri dibattiti, che fan segno del rinato spirito religioso e insieme delle cresciute esigenze della ragione». Queste dispute non sono dovute alle dottrine averroiste che cercano di conquistare il mondo europeo, cioè alla pressione della cultura araba? «Scoppia la lotta per le investiture, che suscitata dal ridesto senso della romanità imperiale [cosa vuol dire? dal ridesto senso dello Stato che vuole assorbire in sé tutte le attività dei cittadini, come nell'Impero Romano?] e dalla coscienza di presenti interessi spirituali, politici, economici, commuove tutto il mondo dei principi secolari ed ecclesiastici e la massa anonima dei monaci, dei borghesi, dei contadini, degli artigiani >». Eresie [ma soffocate col ferro e col fuoco].

«La Cavalleria, mentre sancisce e consacra nell'individuo il possesso di virtù morali, alimenta un amore di cultura umana e pratica certa raffinatezza di costumi». Ma la cavalleria in che senso si può legare al Rinascimento dopo il Mille? Il Rossi non distingue i movimenti contraddittori, perché non tiene conto delle diverse forme di feudalismo e di autonomia locale entro la cornice del feudalismo. D'altronde non si può non parlare della cavalleria come elemento del Rinascimento vero e proprio del 1500, sebbene l'Orlando Furioso ne sia già un rimpianto in cui il sentimento di simpatia si mescola a quello caricaturale ed ironico, e il Cortegiano ne sia la fase sufficientemente filistea, scolastica, pedantesca.

Le Crociate, le guerre dei re cristiani contro i Mori in Ispagna, dei Capetingi contro l'Inghilterra, dei Comuni italiani contro gli imperatori svevi, in cui matura e spunta il sentimento delle unità nazionali: esagerazione. E strana, in un erudito come il Rossi, questa proposizione: «Nello sforzo con cui quegli uomini rigenerano se stessi e costruiscono le condizioni di una nuova vita, essi sentono ribulicare i fermenti profondi della loro storia, e nel mondo romano, così ricco di esperienze di libera e piena spiritualità umana, trovano anime congeniali», che mi pare tutta una filza di affermazioni vaghe e vuote di senso: 1) perché c'è sempre stata una continuità tra il mondo romano e il periodo dopo il Mille (medio-latino); 2) perché «le anime congeniali» è una metafora senza senso, e in ogni caso il fenomeno avvenne nel '400-'500 e non in questa prima fase; 3) perché di romano non ci fu nulla nel Rinascimento italiano, altro che la vernice letteraria, perché mancò proprio ciò che è specifico della civiltà romana: l'unità statale, e quindi territoriale.

La cultura latina, fiorente nelle scuole di Francia del xn secolo — con magnifico rigoglio di studi grammaticali e rettorici, di composizioni poetiche e di prose regolate e solenni, a cui in Italia corrisponde una più tarda e modesta produzione dei poeti ed eruditi veneti e dei dettatori — è una fase del medio-latino, è un prodotto schiettamente feudale nel senso primitivo di prima del Mille. Cosi si dica degli studi giuridici, rinati per il bisogno di dare assetto legale ai nuovi e complessi rapporti politici e sociali, che si volgono è vero al diritto romano, ma rapidamente degenerano nella casistica più minuziosa, appunto perché il diritto romano «puro» non può dare assetto ai nuovi complessi rapporti: in realtà, attraverso la casistica dei glossatori e dei post-glossatori si formano delle giurisprudenze locali, in cui ha ragione il più forte (o il nobile o il borghese) e che sono l’«unico diritto» esistente: i principi del diritto romano vengono dimenticati o posposti alla glossa interpretativa che a sua volta è stata interpretata, con un prodotto ultimo in cui di romano non c'era nulla, altro che il principio puro e semplice di proprietà.

La Scolastica, «che viene nuovamente pensando e sistemando entro alle forme della filosofia antica» [rientrata, si noti, nel circolo della civiltà europea, non per il «ribulicare» dei fermenti profondi della storia, ma perché introdottavi dagli Arabi e dagli Ebrei], le verità intuite dal Cristianesimo.

Il Rossi ha molta ragione di affermare che tutte queste manifestazioni dal iooo al 1300 non sono frutto di artificiosa volontà imitatrice, ma spontanea manifestazione di una energia creativa, che scaturisce dal profondo e mette quegli uomini in grado di sentire e di rivivere l'antichità. Quest'ultima proposizione è però erronea, perché quegli uomini, in realtà, si mettono in grado di sentire e vivere intensamente il presente, mentre successivamente si forma uno strato di intellettuali che sente e rivive l'antichità e che si allontana sempre più dalla vita popolare, perché la borghesia (in Italia) decade e si degrada fino a tutto il '700.

E' ancora strano che il Rossi non s'accorga delle contraddizioni in cui cade affermando: «Tuttavia, se per Rinascimento senza complementi s'ha ad intendere, come a me non par dubbio, tutto il multiforme prorompere dell'attività umana nei secoli dall'xi al xvi, indizio fra tutti cospicuo del Rinascimento, vuol esser considerato, non il rifiorire della cultura latina, ma il sorgere delle letterature in lingua volgare, da cui acquista rilievo uno dei più notevoli prodotti di quella energia, io scindersi dell'unità medioevale in differenziate entità nazionali». Il Rossi ha una concezione realistica e storicistica del Rina scimento, ma non sa abbandonare completamente la vecchia concezione retorica e letteraria: ecco l'origine delle sue contraddizioni e della sua acribia; il sorgere del volgare segna un distacco dall'antichità, ed è da spiegare come a questo fenomeno si accompagni una rinascita del latino letterario. Giustamente dice il Rossi che «l'uso che un popolo faccia d'una piuttosto che di un'altra lingua per disinteressati fini intellettuali, non è capriccio di individui o di collettività, ma è spontaneità di una peculiare vita interiore, balzante nell'unica forma che le sia propria», cioè che ogni lingua è una concezione del mondo integrale, e non solo un vestito che taccia indifferentemente da forma ogni contenuto. Ma allora? Non significa ciò che erano in lotta due concezioni del mondo: una borghese-popolare, che si esprimeva nel volgare, e una aristocratico-feudale, che si esprimeva in latino e si richiamava all'antichità romana e che questa lotta caratterizza il Rinascimento e non già la serena creazione di una cultura trionfante? Il Rossi non sa spiegarsi il fatto che il richiamo all'antico è un puro elemento strumentale-politico e non può creare una cultura di per sé e che perciò il Rinascimento doveva per forza risolversi nella Controriforma, cioè nella sconfitta della borghesia nata coi Comuni e nel trionfo della romanità, ma come potere del Papa sulle coscienze e come tentativo di ritorno al Sacro Romano Impero: una farsa dopo la tragedia.

In Francia, la letteratura di lingua d'oc e di lingua d'oïl sboccia tra la fine del primo e il principio del secondo secolo dopo il Mille, quando il paese è tutto in fermento per i grandi fatti politici, economici, religiosi, culturali accennati prima. «E se in Italia l'avvento del volgare all'onore della letteratura ritarda d'oltre un secolo, gli è che fra noi il grande moto, che instaura sulle rovine dell'universalismo medioevale una nuova civiltà nazionale, è, per la varietà della storia molte volte secolare delle nostre città, più vario e dovunque autoctono e spontaneo, e manca la forza disciplinatrice di una monarchia e di potenti signori; onde più lenta e faticosa riesce la formazione unitaria appunto di quel nuovo mondo spirituale, di cui la nuova letteratura in volgare è l'aspetto più appariscente». Altro gruppo di contraddizioni: in realtà il moto innovatore dopo il Mille fu più violento in Italia che in Francia e la classe portatrice della bandiera di quel moto si sviluppò economicamente prima e più potentemente che in Francia e riusci a rovesciare il dominio dei suoi nemici, ciò che in Francia non avvenne. La storia si svolse diversamente in Francia che in Italia; questo è il truismo del Rossi, che non sa indicare le differenze reali dello sviluppo e le pone in una maggiore o minore spontaneità e autoctonia, molto difficili e impossibili da provare. Intanto anche in Francia il movimento non fu unitario, perché tra Nord e Sud c'è stata una bella differenza, che si esprime letterariamente in una grande letteratura epica nel Nord e nell'assenza di epica nel Sud.

L'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo (verso F841), cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo si esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce «giurando in volgare», cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto «demagogico» dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de putte»). Altro che spontaneità e autoctonia! L'involucro monarchico, vero continuatore dell'unità statale romana, permise alla borghesia francese di svilupparsi piti che la completa autonomia economica raggiunta dalla borghesia italiana, che però fu incapace di uscire dal terreno grettamente corporativo e di crearsi una propria civiltà statale integrale8.

Il Rossi nota che alla letteratura volgare si accompagnano, «coeve e significative della medesima attività interiore del popolo nostro, le forme comunali del così detto preumanesimo del Dugento e del Trecento» e che alla letteratura volgare e a questo preumanesimo consegue «l'umanesimo filologico dell'ultimo Trecento e del Quattrocento», concludendo: «Tre fatti che ad una considerazione puramente estrinseca (!) di contemporanei e di posteri, poterono parere l'un l'altro antitetici, mentre segnano nell'ordine culturale tappe dello sviluppo dello spirito italiano, progressive e in tutto analoghe a quelle che nell'ordine politico sono il Comune, cui corrisponde la letteratura volgare con certe forme del preumanesimo e la signoria, il cui correlativo letterario è l'umanesimo filologico». Cosi tutto è a posto, sotto la vernice generica dello «spirito italiano». Con Bonifacio VIII, l'ultimo dei grandi pontefici medioevali, e con Arrigo VII erano finite le lotte epiche fra le due più alte potestà della terra. Decadenza dell'influsso politico della Chiesa: «servitù» avignonese e scisma. L'Impero, come autorità politica universale, muore (tentativi sterili di Ludovico il Bavaro e di Carlo IV). «La vita era nella giovane e industre borghesia dei Comuni, che veniva rassodando il suo potere contro i nemici esterni e contro i popolani minuti e che mentre seguitava il suo cammino nella storia, stava per generare o già aveva venerato le signorie nazionali». Che signorie nazionali? L'origine delle signorie è ben diversa in Italia dagli altri paesi: in Italia nasce dall'impossibilità della borghesia di mantenere il regime corporativo, cioè di governare con la pura violenza il popolo minuto. In Francia invece l'origine dell'assolutismo è nelle lotte tra borghesia e classi feudali, in cui però la borghesia è unita al popolo minuto e ai contadini (entro certi limiti, s'intende). E si può parlare in Italia di «signorie nazionali»? Cosa voleva dire «nazione» in quel tempo?

Continua il Rossi: «Dinanzi a questi grandi fatti, l'idea, che pareva incarnarsi nella perpetuità universale dell'Impero, della Chiesa e del diritto romano, e che è ancora di Dante, di una continuazione universale, nella vita del Medioevo, della universale vita romana, cedeva a [Videa che una grande rivoluzione s'era compiuta negli ultimi secoli e che una nuova èra della storia era cominciata. Nasceva il senso di un abisso che separasse ormai la nuova civiltà dall'antica; onde l'eredità di Roma non era più sentita come una forza immanente nella vita quotidiana; ma gli Italiani cominciavano a volgere lo sguardo all'antichità come ad un proprio passato, ammirevole di forza, di freschezza, di bellezza, cui dovessero tornare col pensiero per via di meditazione e di studio e per un fine di educazione umana, simili a figlioli che dopo un lungo abbandono tornassero ai padri, non a vecchi che ripensassero o rimpiangessero l'età giovanile». E questo è un vero romanzo storico: dove si può trovare 1 '«idea che una grande rivoluzione s'era compiuta», ecc.? Il Rossi dilata a fatto storico degli aneddoti di carattere libresco e il senso del disprezzo dell'umanista per il latino medioevale e l'alterigia del signore raffinato per la «barbarie» medioevale; ha ragione Antonio Labriola, nel suo brano Da un secolo all'altro, che solo con la Rivoluzione francese si sente il distacco dal passato, da tutto il passato e questo sentimento ha la sua espressione ultima nel tentativo di rinnovare il computo degli anni col calendario repubblicano. Se ciò che pretende il Rossi si fosse manifestato davvero, non sarebbe avvenuto così facilmente il passaggio dal Rinascimento alla Controriforma. Il Rossi non sa liberarsi dalla concezione retorica del Rinascimento e perciò non sa valutare il fatto che esistevano due correnti: una progressiva e una regressiva, e che quest'ultima trionfò in ultima analisi, dopo che il fenomeno generale raggiunse il suo massimo splendore nel '500 (non come fatto nazionale e politico, però, come fatto culturale prevalentemente se non esclusivamente), come fenomeno di una aristocrazia staccata dal popolo-nazione, mentre nel popolo si preparava la reazione a questo splendido parassitismo nella Riforma protestante, nel savonarolismo coi suoi «bruciamenti delle vanità», nel banditismo popolare come quello di re Marcone in Calabria e in altri movimenti che sarebbe interessante registrare e analizzare almeno come sintomi indiretti: lo stesso pensiero politico del Machiavelli è una reazione al Rinascimento, è il richiamo alla necessità politica e nazionale di riavvicinarsi al popolo come hanno fatto le monarchie assolute di Francia e di Spagna, come è un sintomo la popolarità del Valentino in Romagna, in quanto deprime i signorotti e i condottieri, ecc.

Secondo il Rossi «la coscienza della separazione ideale prodottasi nei secoli fra l'antichità e l'epoca nuova» è già virtualmente nello spirito di Dante, ma appare attuale e s'impersona, nell'ordine politico, in Cola di Rienzo, che «erede del pensiero di Dante, vuole rivendicare la romanità e quindi l'italianità [perché "quindi"?, Cola di Rienzo pensava proprio solo al popolo di Roma, materialmente inteso] dell'Impero e col vincolo sacro della romanità stringere in unità di nazione tutte le genti italiane; quanto alla cultura letteraria, nel Petrarca, che saluta Cola " nostro Camillo, nostro Bruto, nostro Romolo " e con istudio paziente rievoca l'antico, mentre con anima di poeta lo risente e rivive». Continua il romanzo storico: quale fu il risultato degli sforzi di Cola di Rienzo? nulla di assoluto; e come si può far la storia con le velleità, sterili e i pii desideri? E i Camilli, i Bruti, i Romoli, messi insieme dal Petrarca, non sentono la pura retorica?

Il Rossi non riesce a porre il distacco tra medio-latino e latino umanistico o filologico come egli lo chiama; non vuol capire che si tratta in realtà di due lingue, perché esprimono due concezioni del mondo, in certo senso antitetiche, sia pure limitate alla categoria degli intellettuali e ancora non vuole capire che il preumanesimo (Petrarca) è ancora diverso dall'umanesimo, perché la «quantità è diventata qualità». Il Petrarca si può dire è tipico di questo passaggio: egli è un poeta della borghesia come scrittore in volgare, ma è già un intellettuale della reazione antiborghese (signorie, papato) come scrittore in latino, come «oratore», come personaggio politico. Ciò spiega anche il fenomeno cinquecentesco del «petrarchismo» e la sua insincerità: è un fenomeno puramente cartaceo, perché i sentimenti da cui era nata la poesia del dolce stil novo e del Petrarca stesso non dominano più la vita pubblica, come non domina più la borghesia comunale, ricacciata nei suoi fondachi e nelle sue manifatture in decadenza. Politicamente domina una aristocrazia in gran parte di parvenus, raccolta nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura: essa produce la cultura del '500 e aiuta le parti, ma politicamente è limitata e finisce sotto il dominio straniero.

Cosi il Rossi non può vedere le origini di classe del passaggio dalla Sicilia a Bologna e alla Toscana della prima poesia in volgare. Egli pone accanto il «preumanesimo (nel suo senso) imperiale ed ecclesiastico di Pier delle Vigne e di maestro Berardo da Napoli, così cordialmente odiato dal Petrarca», e che ha «ancora radice nel sentimento della continuità universale della vita antica» (cioè è ancora medio-latino, come il «preumanesimo» comunale dei filologi e poeti veronesi e padovani e dei grammatici e retori bolognesi) con la scuola poetica siciliana e dice che l'uno e l'altro fenomeno sarebbero stati sterili perché ambedue legati «ad un mondo politico e intellettuale ormai tramontato» ; la scuola siciliana non fu sterile, perché Bologna e la Toscana ne animarono «il vuoto tecnicismo del nuovo spirito culturale democratico». Ma è giusto questo nesso interpretativo? In Sicilia la borghesia mercantile si sviluppò sotto l'involucro monarchico e con Federico II si trovò coinvolta nella quistione del Sacro Romano Impero della Nazione germanica: Federico era un monarca assoluto in Sicilia e nel Mezzogiorno, ma era anche l'Imperatore medioevale. La borghesia siciliana, come quella francese, si sviluppò più rapidamente, dal punto di vista culturale, che la toscana; lo stesso Federico e i suoi figli poetarono in volgare e da questo punto di vista, essi parteciparono della nuova spinta di attività umane posteriori al Mille; ma non solo da questo punto di vista: in realtà la borghesia toscana e quella bolognese erano più arretrate ideologicamente che Federico II, l'imperatore medioevale. Paradossi della storia. Ma non bisogna falsificare la storia, come fa il Rossi, capovolgendo i termini per amore di tesi generale. Federico II falli, ma si trattò di ben altro tentativo che quello di Cola di Rienzo e di ben altro uomo. Bologna e la Toscana accolsero il «vuoto tecnicismo siculo» con ben altra intelligenza storica del Rossi: capirono che si trattava di «cosa loro», mentre non capirono che era loro anche Enzo, sebbene portasse la bandiera dell'Impero universale e Io fecero morire in carcere.

A differenza del «preumanesimo» imperiale ed ecclesiastico, il Rossi trova che, «nella scabra e talvolta bizzarra latinità del preumanesimo fiorito all'ombra delle signorie comunali, covavano (!) invece la reazione all'universalismo medioevale e aspirazioni indistinte a forme di stile nazionali [cosa significa? che il volgare era travestito di forme latine?]; onde i nuovi studiosi del mondo classico dovevano sentirvi precorrimenti di quell'imperialismo romano che Cola aveva vagheggiato come centro di unificazione nazionale e che essi sentivano e auspicavano come forma di dominio culturale dell'Italia sul mondo. La nazionalizzazione (!) dell'Umanesimo che il secolo xvx vedrà compiersi in tutti i paesi civili d'Europa, nascerà appunto dall'impero universale di una cultura, la nostra, che germoglia si dallo studio dell'antico, ma nel tempo stesso s'afferma e si diffonde anche come letteratura volgare e quindi nazionale italiana». Questa è la concezione retorica in pieno del Rinascimento; che gli umanisti abbiano auspicato il dominio culturale d'Italia sul mondo è tutt'al più l'inizio della «retorica» come forma nazionale. A questo punto si inserisce l'interpretazione della «funzione cosmopolita degli intellettuali italiani», che è ben altra cosa che non «dominio culturale» di carattere nazionale: è invece proprio testimonianza di assenza del carattere nazionale della cultura.

La parola humanista compare solo nella seconda metà del secolo XV e in italiano solo nel terzo decennio del xvi: la parola Umanesimo è ancora più recente. Sulla fine del secolo xiv i primi umanisti chia- - marono i loro studi studia humanitatis, cioè «studi intesi al perfezionamento integrale dello spirito umano, e quindi i soli degni veramente dell'uomo». Per loro la cultura non è soltanto sapere, ma è anche vivere... è dottrina, è moralità, è bellezza specchiate nell'unità della vivente opera letteraria». Il Rossi, preso nelle sue contraddizioni, determinate dalla concezione meccanicamente unitaria della storia del Rinascimento ricorre a delle immagini per spiegare come il latino umanistico sia andato deperendo, finché il volgare celebrò i suoi trionfi in ogni dominio della letteratura «e l'umanesimo italiano ebbe finalmente la lingua che sola era sua, mentre il latino scendeva nel suo sepolcro». Non completamente però, perché nella Chiesa e nelle scienze dominò fino al '700, a dimostrare quale sia stata la corrente sociale che ne aveva sostenuto sempre la permanenza: il latino dal campo laicale fu espulso solo dalla borghesia moderna, lasciandone il rimpianto nei diversi forcaioli.

«Umanesimo non è latinismo; è affermazione di umanità piena e l'umanità degli umanisti italiani era, nella sua storicità, italiana; talché esprimersi non poteva se non nel volgare che anche gli umanisti parlavano nella pratica della vita e che, malgrado ogni proposito classicheggiante, forzava baldanzosamente i cancelli del loro latino.

Potevano essi, astraendosi dalla vita, sognare il loro sogno e, fermi nell'idea che letteratura degna di questo nome non potesse darsi se non in latino, ripudiare la nuova lingua; altra era la realtà storica, della quale essi stessi e quel loro spirito sognante erano figli e nella quale vivevano la loro vita, di uomini nati quasi un millenio e mezzo dopo il grande oratore romano». Che significa tutto ciò? Perché questa distinzione tra latino-sogno e volgare-realtà storica? E perché il latino non era una realtà storica? Il Rossi non sa spiegare questo bilinguismo degli intellettuali, cioè non vuol ammettere che il volgare, per gli umanisti, era come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale e che pertanto gli umanisti erano i continuatori dell'universalismo medioevale — in altre forme, si capisce — e non un elemento nazionale; erano una «casta cosmopolita», per i quali l'Italia rappresenta forse ciò che la regione nella cornice nazionale moderna, ma nulla di più e di meglio: essi erano apolitici e anazionali.

«C'era nel classicismo umanistico, non più un fine di moralità religiosa, bensì un fine di educazione integrale dell'anima umana; c'era soprattutto la riabilitazione dello spirito umano, come creatore della vita e della storia», ecc., ecc. Giustissimo: questo l'aspetto più interessante dell'Umanesimo. Ma è esso in contraddizione con ciò che ho detto prima sullo spirito anazionale e quindi regressivo — per l'Italia — dell'Umanesimo stesso? Non mi pare. L'Umanesimo infatti non sviluppò in Italia questo suo contenuto più originale e pieno d'avvenire. Esso ebbe il carattere di una restaurazione, ma, come ogni restaurazione, assimilò e svolse, meglio della classe rivoluzionaria che aveva soffocato politicamente, i principi ideologici della classe vinta, che non aveva saputo uscire dai limiti corporativi e crearsi tutte le superstrutture di una società integrale. Solo che questa elaborazione fu «campata in aria», rimase patrimonio di una casta intellettuale, non ebbe contatto col popolo-nazione. E, quando in Italia il movimento reazionario, di cui l'Umanesimo era stato una premessa necessaria, si sviluppò nella Controriforma, la nuova ideologia fu soffocata anch'essa e gli umanisti (salvo poche eccezioni) dinanzi ai roghi abiurarono10.

Il contenuto ideologico del Rinascimento si svolse fuori d'Italia, in Germania e in Francia, in forme politiche e .filosofiche: ma lo

Stato moderno e la filosofia moderna furono in Italia importati perché i nostri intellettuali erano anazionali e cosmopoliti come nel Medioevo, in forme diverse, ma negli stessi rapporti generali. Nell'articolo del Rossi vi sono altri elementi interessanti, ma essi sono di carattere particolare

Note

1 In ogni caso occorre distinguere le facezie contro il clero che sono tradizionali fin dal '300, dalle opinioni più o meno ortodosse sulla concezione religiosa della vita.

2 Cfr. il libro di Domenico Guerri sulle correnti popolari nel Rinascimento. ID. Guerri, La corrente popolare nel Rinascimento. Berte, burle e baie nella Firenze del Brunellesco e del Burchiello, Sansoni, Firenze, 1931. - N. d. /?.].

3 Cfr. la recensione («Nuova Antologia» del agosto 1933) di Arminio Janner del libro: Ernst Walser, Gesammelte Studien zur Geistesgeschichte der Renaissance (ed. Benno Schwabe, Basilea, 1932).

4 Firenze, Sansoni (Biblioteca storica del Rinascimento)

5 Cfr. l'articolo di Vittorio Rossi Il Rinascimento («Nuova Antologia» del 16 novembre 1929), che in parte accetta la tesi del Toffanin, ma per combatterla meglio.

6 per tutto lo sviluppo della società europea, cui accenna il Rossi, dopo il Mille, occorre tenere conto del libro di Henri Pirenne sull'origine delle città.

7parlando delle tendenze culturali dopo il Mille, non bisognerebbe dimenticare l'apporto arabo attraverso la Spagna — cfr. gli articoli di Ezio Levi nel «Marzocco» e nel «Leonardo» — e, con gli Arabi, gli Ebrei spagnuoli.

8 E' da vedere come i Comuni italiani, rivendicando i diritti feudali del Conte sul territorio circostante del comitato, ed essendoseli incorporati, divennero un elemento feudale, col potere esercitato da un comitato corporativo invece che dal Conte.

9 Cfr. il cap. su "Erasmo" pubblicato dalla Nuova Italia del libro di De Ruggiero, Rinascimento, riforma e controriforma (Bari, 1930, 2 voll.)

10 Bisognerà studiare il libro del Rossi sul Quattrocento (coli. Vallardi), il libro del Toffanin, Che cosa fu l'Umanesimo? (ediz. Sansoni), il libro del de Ruggiero su citato, oltre le opere classiche sul Rinascimento pubblicate da scrittori stranieri (Burckhardt, Voigt, Symonds, ecc.).

Origini della letteratura e della poesia volgare.

Vedere gli studi di Ezio Levi su Uguccione da Lodi e i primordi della poesia italiana e altri studi posteriori (1921) su gli antichi poeti lombardi, con l'edi zione delle rime, commento e piccole biografie. Il Levi sostiene che si tratta di un «fenomeno letterario», «accompagnato da un movimento di pensiero» e rappresentante «il primo affermarsi della nuova coscienza italiana, in contrapposizione all'età medioevale, pigra e sonnolenta»1.

La tesi del Levi è interessante e deve essere approfondita. Naturalmente come tesi di storia della cultura e non di storia dell'arte. Il Battaglia scrive che «il Levi scambia questa modesta produzione rimata, che serba i caratteri e gli atteggiamenti di evidente natura popolare, per un fenomeno letterario», ed è possibile che il Levi, come spesso avviene in tali casi, esageri l'importanza artistica di questi scrittori; ma che significa ciò? E che significa la «natura popolare» contrapposta alla «letteraria»? Quando una nuova civiltà sorge, non è naturale che essa assuma forme «popolari» e primitive, che siano uomini «modesti» ad esserne i portatori? E ciò non è tanto più naturale in tempi quando la cultura e la letteratura erano monopolio di caste chiuse? Ma poi, al tempo di Uguccione da Lodi, ecc., anche nel ceto colto, esistevano grandi artisti e letterati? Il problema posto dal Levi è interessante perché le sue ricerche tendono a dimostrare che i primi elementi del Rinascimento non furono di origine aulica e scolastica, ma popolare, e furono espressione di un movimento generale culturale religioso (patarino) di ribellione agli istituti medioevali, Chiesa e Impero. La statura poetica di questi scrittori lombardi non sarà stata molto alta, la loro importanza storico- culturale non è perciò diminuita.

Altro pregiudizio sia del Battaglia che del Levi è che nel Duecento debba cercarsi e trovarsi l'origine di una «nuova civiltà italiana»; una ricerca di tal genere è puramente retorica e segue interessi pratici moderni. La nuova civiltà non è «nazionale», ma di classe, e assumerà forma «comunale» e locale non unitaria, non solo «politicamente», ma neanche «culturalmente». Nasce «dialettale» pertanto e dovrà aspettare la maggior fioritura del '300 toscano per unificarsi, fino a un certo punto, linguisticamente. L'unità culturale non era un dato esistente precedentemente, tutt'altro! esisteva una «universalità europeo-cattolico-culturale» e la nuova civiltà reagisce a questo universalismo, di cui l'Italia era la base, con i dialetti locali e col portare in primo piano gli interessi pratici dei gruppi borghesi municipali. Ci troviamo quindi in un periodo di disfacimento e disgregazione del mondo culturale esistente, in quanto le forze nuove non si inseriscono in questo mondo, ma vi reagiscono contro sia pure inconsapevolmente e rappresentano elementi embrionali di una nuova cultura2.

Si confondono due momenti della storia: 1) la rottura con la civiltà medioevale, il cui documento più importante fu l'apparizione dei volgari; 2) l'elaborazione di un «volgare illustre», cioè il fatto che si raggiunse una certa centralizzazione fra i gruppi intellettuali cioè, meglio, tra i letterati di professione. In realtà, i due momenti, pur essendo collegati, non si saldarono completamente.

I volgari incominciano ad apparire per ragioni religiose (giuramenti militari, testimonianze di carattere giuridico per fissare diritti di proprietà, prestate da contadini che non conoscevano il latino), frammentariamente, casualmente. Che in volgare si scrivano opere letterarie, qualunque sia il loro valore, è ancora un fatto nuovo, è il fatto realmente importante. Che tra i volgari locali, uno, quello toscano, raggiunga una egemonia, è un altro fatto ancora, che però occorre limitare: esso non è accompagnato da una egemonia politico- sociale, e perciò rimane confinato a un puro fatto letterario. Che il volgare scritto appaia in Lombardia come prima manifestazione di una certa portata, è fatto da mettere in grande rilievo; che sia legato al patarìnismo è fatto anch'esso molto importante.

In realtà, la borghesia nascente impone i propri dialetti, ma non riesce a creare una lingua nazionale: se questa nasce, è confinata ai letterati e questi vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono «letterati borghesi», ma aulici. E non avviene questo assorbimento senza contrasto. L'Umanesimo dimostra che il «latino» è molto torte. Un compromesso culturale, non una rivoluzione.

Note

1 Cfr. S. Battaglia, Gli studi sul nostro Duecento letterario, "Leonardo" del febbraio 1927

2 Lo studio delle eresie medievali diventa necessario (Tocco, Volpe, ecc.). Lo studio del Battaglia, Gli studi del nostro Duecento letterario, "leonardo", gennaio-febbraio-marzo, 1927, è utile per i richiami bibliografici, ecc.

La corrente popolare nel Rinascimento1.

Un modo di porre la quistione falsa è quello di Giulio Augusto Levi che, nella recensione del libro di Luigi Tonnelle e Luigi Bordet: San Filippo Neri e la società del suo tempo (1515-1595)2 nella «Nuova Italia» del gennaio 1932, scrive: «Volgarmente si pensa che l'Umanesimo sia nato e cresciuto sempre nelle stanze dei dotti: ma il Guerri ha ricordato la viva parte che vi prese la piazza; io per la mia parte avevo già rilevato lo spirito popolare di quel movimento nella mia Breve storia dell'estetica e del gusto (21 ed. 1925, pp. 17-18). Anche, e molto più, la Controriforma cattolica si pensa che sia stata opera di prelati e di principi, imposta con rigore di leggi e di tribunali; grande, ma uggiosa (così sembra ai più), è rispettata e non amata. Ma, se quel rinnovamento religioso fosse stato operato solo per via di costrizione, come sarebbe nata proprio in quel tempo, in terra cattolica, anzi in Italia, la grande musica sacra? Col terrore delle pene si piegano le volontà, ma non si fanno nascere opere d'arte. Chi vuol vedere quanta freschezza, vivacità, purezza, sublimità d'ispirazione, quanto amore di popolo ci fu in quel movimento, legga la storia di questo santo, ecc., ecc.». Il bello è che fa il raffronto tra sant'Ignazio e Filippo così: «L'uno pensava alla conquista cristiana del mondo intero, l'altro non mirava più lontano del cerchio dove poteva stendersi l'azione sua personale, e a malincuore permise il sorgere di una filiale a Napoli». E encora: «L'opera dei Gesuiti ebbe effetti più vasti e più duraturi: quella di Filippo, affidata alle ispirazioni del cuore, dipendeva troppo dalla sua persona: ciò che l'ispirazione fa non può essere né continuato né ripetuto-, non si può se non rifare con una ispirazione nuova, la quale è sempre diversa». Appare dunque che Filippo non fa parte della Controriforma, ma è fiorito nonostante la Controriforma, se pure non dovrà dirsi contro di essa.

Note

1 Sarà da vedere il libro, molto lodato e apprezzato, di Domenico Guerri, la corrente popolare nel Rinascimento.

2 Traduzione di Tito Casini, prefazione di Giovanni papini, Ediz. Cardinal Ferrari.

Il Cinquecento.

Bisognerà leggere il volume di Fortunato Rizzi, L'anima del Cinquecento e la lirica volgare, che, dalle recensioni lette, mi pare più importante come documento della cultura del tempo che per il suo valore intrinseco9.

Sul libro del Rizzi occorrerà rileggere l'articolo di Alfredo Galletti La lirica volgare del Cinquecento e l'anima del Rinascimento, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 192910.

Nella critica della poesia cinquecentesca italiana prevale questa opinione: che essa sia per quattro quinti artificiosa, convenzionale, priva di intima sincerità. «Ora — osserva il Rizzi con molto buon senso è sentenza comune che nella poesia lirica si trovi l'espressione più schietta e viva del sentimento di un uomo, di un popolo, di un periodo storico. E egli possibile che ci sia stato un secolo — il Cinquecento appunto — " il quale abbia avuto la disgrazia di nascere senza una propria fisionomia spirituale ", o che di tale fisionomia si sia compiaciuto (? !) a riversare un'immagine falsa proprio nella poesia lirica? Il più intellettualmente vivace, il più spiritualmente intrepido, il più cinico dei secoli, dicono i suoi tanti avversari (!!), avrebbe ipocritamente dissimulato il suo vero animo nella studiata armonia dei sonetti e delle canzoni petrarcheggi an ti; oppure si sarebbe divertito a mistificare i posteri, fingendo nei versi un platonico sospiroso idealismo, che poi le novelle, le commedie, le satire, tante altre testimonianze letterarie di quell'età, smentiscono apertamente?» Tutto il problema è falsato e pieno, nella sua impostazione, di conflitti e contraddizioni intime.

E perché il Cinquecento non potrebbe essere pieno di contraddizioni? Non è anzi esso proprio il secolo in cui si aggroppano le maggiori contraddizioni della vita italiana, la cui non soluzione ha determinato tutta la storia nazionale fino alla fine del '700? Non c'è contraddizione fra l'uomo dell'Alberti e quello di Baldassar Castiglione, tra l'uomo dabbene e il «cortegiano» ? Tra il cinismo e il paganesimo dei grandi intellettuali e la loro strenua lotta contro la Riforma e in difesa del Cattolicesimo? Tra il modo di concepire la donna in generale (che poi era la dama alla Castiglione) e il modo di trattar la donna in particolare, cioè la donna del popolo? Le regole della cortesia cavalleresca erano forse applicate alle donne del popolo? La donna in generale era ormai un fetìccio, una creazione artificiosa, e artificiosa fu la poesia lirica, amorosa, petrarcheggiarne almeno per i quattro quinti. Ciò non vuol dire che il '500 non abbia avuto un'espressione lirica, cioè artìstica: l'ha avuta ma non nella poesia lirica propriamente detta.

Il Rizzi pone la quistìone delle contraddizioni del '500 nella seconda parte del suo libro, ma non capisce che dall'urto di queste contraddizioni avrebbe potuto nascere la poesia lirica sincera: ciò non fu ed è questa una mera constatazione storica. La Controriforma non poteva essere e non fu un superamento di questa crisi, ne fu un soffocamento autoritario e meccanico. Non erano più cristiani, non potevano essere non-cristiani: dianzi alla morte tremavano e anche dinanzi alla vecchiaia. Si posero dei problemi più grandi di loro e si avvilirono: d'altronde erano staccati dal popolo.

Note

1 Sarà da vedere il libro, molto lodato e apprezzato, di Domenico Guerri, La corrente popolare nel Rinascimento.

2 Traduzione di Tito Casini, prefazione di Giovanni Papini, Ediz. Cardinal Ferrari.

3 Sul Rizzi ho scritto in altro quaderno una noterella considerandolo come «italiano meschino» a proposito di una sua recensione del libro di un nazionalista francese sul Romanticismo, recensione che dimostrava la sua assoluta inettitudine a orientarsi fra le idee generali e i fatti di cultura. [Cfr. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, pp. 53-54. - N. d. R. ].

4 Anche sul Galletti occorrerà allargare le proprie informazioni: il Galletti dopo la guerra — per la quale ha lottato strenuamente col Salvemini e col Bis- solati, date le sue origini riformistiche, aggiungendo un particolare spirito antigermanico — nel primo, ma specialmente nel secondo dopoguerra, è caduto in uno stato d'animo di esasperazione culturale, di piagnonismo intellettuale, proprio di chi ha avuto «gli ideali infranti»; i suoi scritti sono riboccanti di recriminazioni, di digrignar di denti in sordina, di allusioni critiche sterili nella loro disperazione comica.

L'uomo del '400 e del '500.

Leon Battista Alberti, Baldassare Castiglione, Machiavelli mi sembrano i tre scrittori più importanti per studiare la vita del Rinascimento nel suo aspetto «uomo» e nelle sue contraddizioni morali e civili. L'Alberti rappresenta il borghese (vedere anche il Pandoltini), Castiglione il nobile cortigiano (vedere anche il Della Casa), Machiavelli rappresenta e cerca di rendere organiche le tendenze politiche dei borghesi (repubbliche) e dei principi, in quanto vogliano, gli uni e gli altri fondare Stati o ampliarne la potenza territoriale e militare.

Secondo Vittorio Cian1, Francesco Sansovino, contemporaneo, là dove informa che Carlo V era assai parco lettore, soggiunge: «Si dilettava di leggere tre libri solamente, li quali esso aveva fatti tradurre in lingua sua propria: l'uno per l'instituzione della vita civile, e questo fu il Cortegìano del conte Baldesar da Castiglione, l'altro per le cose di Stato, e questo fu il Principe co' Discorsi del Machiavelli; et il terzo per l'ordine della milizia, e questo fu la Historia con tutte le altre cose di Polibio». Scrive il Cian: «Non abbastanza è stato avvertito che il Cortegiano, documento storico di primissimo ordine, attesta e illustra luminosamente l'evoluzione della cavalleria medioevale, la quale, attecchita in iscarsa misura, dicono, in Italia, in realtà, differenziatasi, sin dalle origini, da quella d'oltre Alpi, nel clima italiano della Rinascita diventa una nuova cavalleria, assume il carattere di una milizia civile, combattente all'insegna di Marte, ma anche di Apollo, di Venere e di tutte le Muse. Evoluzione, dico, e non affatto degenerazione o decadenza, come parve al De Sanctis».

Ma il Cian si basa solo sul Cortegiano, che è un tentativo di organizzare una aristocrazia intorno al «principe» e di differenziarla dalla morale borghese trionfante: che questa cavalleria fosse superficiale è dimostrato daÌYOrlando Furioso, che precede il Don Chisciotte e lo prepara2.

Note

1 II conte Baldassar Castiglione (1478-1529), «Nuova Antologia», 16 agosto e settembre 1929.

2 In ogni caso l'articolo del Cian è da rivedere: egli è conoscitore filologicamente perfetto del Cortegiano e bisognerà procurarsi la sua edizione del libro (3» ed., editore Sansoni).

La Riforma in Italia.

Scrive A. Oriani (La lotta politica, p. 128, ed. milanese): «La varietà dell'ingegno italiano, che nella scienza poteva andare dal sublime buon senso di Galileo alle abbaglianti e bizzarre intuizioni di Cardano, si colora nullameno alla Riforma, e vi si scorgono tosto Marco Antonio Flaminio, poeta latino, Jacopo Nardi, storico, Renata d'Este, moglie del duca Ercole II; Lelio Socini, ingegno superiore a Lutero e a Calvino, che lo porta ben più alto fondando la setta degli unitari; Bernardo Ochino e Pietro Martire Vermigli, teologo, che passeranno, questi alla Università di Oxford, quegli nel capitolo di Canterbury; Francesco Burlamacchi, che ritenterà l'impossibile impresa di Stefano Porcari e vi perirà martire-eroe; Pietro Carnesecchi e Antonio Paleario, che vi perderanno entrambi nobilmente la vita. Ma questo moto incomunicabile al popolo è piuttosto una crisi del pensiero filosofico e scientifico, naturalmente ritmata sulla grande rivoluzione germanica,- che un processo di purificazione e di elevazione religiosa. Infatti Giordano Bruno e Tommaso Campanella, riassumendolo, per quanto vissuti e morti entro l'orbita di un Ordine monastico, sono due filosofi trascinati dalla speculazione oltre i confini non solo della Riforma ma del Cristianesimo stesso. Quindi, il popolo rimane così insensibile alla loro tragedia che sembra quasi ignorarla».

Ma cosa significa tutto ciò? Forse che anche la Riforma non è una crisi del pensiero filosofico e scientifico, cioè dell'atteggiamento verso il mondo? della concezione del mondo? Bisogna quindi dire che, a differenza degli altri paesi, neanche la religione in Italia era elemento di coesione tra il popolo e gli intellettuali, e perciò appunto la crisi filosofica degli intellettuali non si prolungava nel popolo, perché non aveva origine nel popolo, perché non esisteva un «blocco nazionale-popolare» nel campo religioso. In Italia non esisteva «chiesa nazionale», ma cosmopolitismo religioso, perché gli intellettuali italiani erano collegati a tutta la cristianità immediatamente come dirigenti anazionali. Distacco tra scienza e vita, tra religione e vita popolare, tra filosofia e religione; i drammi individuali di Giordano Bruno, ecc. sono del pensiero europeo e non italiano.

Nicola Cusano.

Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una nota di L. von Bertalanfly su Un cardinale germanico (1Nicolaus Cusanus), curiosa in se stessa e per la noterella che la redazione della «Nuova Antologia» le fa seguire. Il Bertalanfly espone sul Cusano l'opinione tedesco-protestante, sinteticamente, senza apparato critico-bibliografico; la «Nuova Antologia» fa osservare meschinamente che il Bertalanfly, non ha parlato degli «studi numerosi e importanti che anche in Italia furono dedicati al Cusano in questi ultimi decenni» e ne dà una filza fino al Rotta. L'unico cenno di merito è nelle ultime linee: «Il Bertalanfly vede nel Cusano un precursore del pensiero liberale e scientifico moderno, il Rotta invece opina che il vescovo di Bressanone, per quello che è lo spirito, se non la forma della sua speculazione, è tutto nell'orbita del pensiero medioevale. La verità non è mai tutta da una parte». Cosa vuol dire?

E certo che il Cusano è un riformatore del pensiero medioevale e uno degli iniziatori del pensiero moderno; lo prova il fatto stesso che la Chiesa lo dimenticò e il suo pensiero fu studiato dai filosofi laici che vi avevano ritrovato uno dei precursori della filosofia classica moderna.

Importanza dell'azione pratica del Cusano per la storia della Riforma protestante. Al Concilio (di Costanza?) fu contro il Papa per i diritti del Concilio. Si riconciliò col Papa. Al Concilio di Basilea sostenne la riforma della Chiesa. Tentò di conciliare Roma con gli Hussiti, di riunire Oriente e Occidente, e persino pensò di preparare la conversione dei Turchi, rilevando il nucleo comune nel Corano e nell'Evangelo. Docta Ignorantìa e coincidentia oppositorum. Per primo concepì l'idea dell'infinito, precorrendo Giordano Bruno e gli astronomi moderni.

Si può dire che la Riforma luterana scoppiò perché falli l'attività riformatrice del Cusano, cioè perché la Chiesa non seppe riformarsi dall'interno 1.

Note

13 V. Michele Losacco, La dialettica del Cusano, nota di 38 pp. presentata dal socio Luigi Credaro nell'adunanza del 17 giugno di una istituzione che la «Nuova Antologia» dimentica di indicare (forse i Lincei?).

Lorenzo il Magnifico.

Sulla figura e l'importanza di Lorenzo il Magnifico sono da vedere gli studi di Edmondo Rho. Si annunziano studi di R. Palmarocchi, che non pare abbia la capacità di interpretare la funzione del Magnifico1. Dal punto di vista storico- politico il Rho sostiene che il Magnifico fu un mediocre, privo di capacità creativa. Diplomatico, non politico, il Magnifico avrebbe semplicemente seguito il programma di Cosimo. Come politica estera (italiana, riguardante l'intera penisola) Lorenzo avrebbe avuto l'idea geniale di organizzare una lega italica che però non fu attuata, ecc.

La funzione di Lorenzo è importante per ricostruire il nodo storico italiano, che rappresenta il passaggio da un periodo di svi luppo imponente delle forze borghesi alla loro decadenza rapida, ecc. Lo stesso Lorenzo può essere assunto come «modello» della incapacità borghese di quell'epoca a formarsi in classe indipendente e autonoma, per l'incapacità di subordinare gli interessi personali e immediati a programmi di vasta portata. In questo caso, saranno da vedere i rapporti con la Chiesa di Lorenzo e dei Medici che lo precedettero e gli successero.

Chi sostiene che il Savonarola fu «uomo del Medioevo» non tiene sufficiente conto della sua lotta col potere ecclesiastico, lotta che in fondo tendeva a rendere Firenze indipendente dal sistema feudale chiesastico. Per il Savonarola si fa la solita confusione tra l'ideologia che si fonda su miti del passato e la funzione reale che deve prescindere da questi miti, ecc.

Note

1 II Palmarocchi ha raccolto Le più belle pagine di Lorenzo nell'ed. Ojetti e nell'introduzione ha cercato di rappresentare la figura di Lorenzo.

Controriforma.

Nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928 Guido Chialvo pubblica una lstruttione di Emanuele Filiberto a Pierino Belli, suo Cancelliere ed Auditore di guerra, sul «Consiglio di Stato» in data i° dicembre 1559. Ecco l'inizio di questa Istruì tione: «Si come il timor di Dio è principio di sapienza et non c'è maggior morbo né più capital peste nel governo de li Stati, che quando gl'huomini che ne hanno la cura non temono Dio, et attribuiscono a la prudenza loro quello che si deve solo riconoscer dalla Divina Provvidenza et Inspiratione, et che da questa empia heresia, come dal fonte di ogni vitio derivano tutte le malvagità et scelleratezze del mondo, et gli huomini ardiscono violar le divine et humane leggi».

La reazione ecclesiastica.

Le opere complete del Machiavelli furono stampate per l'ultima volta in Italia nel 1554, e nel 1557 il Decameron!? integro; l'editore Giolito dopo il 1560 cessò di stampare anche il Petrarca. Da allora cominciano le edizioni castrate dei poeti, dei novellieri, dei romanzieri. La censura ecclesiastica infastidisce anche i pittori.

Il Pastor, nella Storia dei Papi, scrive: «Può essere che nei paesi cattolici il divieto generale di scritti in difesa del nuovo sistema terrestre (copernicano) ammorzasse la predilezione per l'astronomia; però in Francia i gallicani, riferendosi alla libertà della chiesa francese, non considerarono come obbligatori i decreti dell'Indice e dell'Inquisizione e, se in Italia non sorse un secondo Galilei o un Newton o un Bradley, difficilmente la colpa è da attribuire al decreto contro Copernico». Il Bruers nota però che i rigori dell'Indice suscitarono tra gli scienziati un panico spaventoso e che lo stesso Galilei, nei ventisei anni decorsi dal primo processo alla morte, non potè liberamente approfondire e far studiare ai suoi discepoli la quistione copernicana. Dallo stesso Pastor appare che specialmente in Italia la reazione culturale fu efficiente.

I grandi editori deperiscono in Italia: Venezia resiste di più, ma infine gli autori italiani e le opere italiane del Bruno, del Campanella, del Vanini, del Galilei sono stampate integralmente solo in Germania, in Francia, in Olanda. Con la reazione ecclesiastica che culmina nella condanna di Galileo finisce in Italia il Rinascimento anche fra gli intellettuali.

Rinascimento, Risorgimento, Riscossa, ecc.

Nel linguaggio storico- politico italiano è da notàre tutta una serie di espressioni, legate strettamente al modo tradizionale di concepire la storia della nazione e della cultura italiana, che è difficile e talvolta impossibile di tradurre nelle lingue straniere. Cosi abbiamo il gruppo «Rinascimento, Rinascita (Rinascenza, francesismo)», termini che sono ormai entrati nel circolo della cultura europea e mondiale, perché, se il fenomeno indicato ebbe il massimo splendore in Italia, non fu però ristretto all'Italia.

Nasce nell'800 il termine «risorgimento» in senso più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di «riscossa nazionale» e «riscatto nazionale»: tutti esprimono il concetto del ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di «ripresa» offensiva («riscossa») delle energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia («riscatto»). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di una continuità essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all'unità dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana «nata» o «sorta» con Roma, si pensa che la cultura greco-romana sia «rinata», la nazione sia «risorta», ecc. La parola «riscossa» è del linguaggio militare francese, ma poi è stata legata alla nozione di un organismo vivo che cade in letargia e si riscuote, sebbene non si possa negare che le è rimasto un po' del primitivo senso militare.

A questa serie puramente italiana si possono collegare altre espressioni corrispondenti: per es. il termine, di origine francese e indicante un fatto prevalentemente francese, «Restaurazione».

La coppia «formare e riformare», perché, secondo il significato assunto storicamente dalla parola, una cosa «formata» si può continuamente «riformare» senza che tra la formazione e la riforma sia implicito il concetto di una parentesi catastrofica o letargica, ciò che invece è implicito per «rinascimento» e «restaurazione». Si vede da ciò che i cattolici sostengono che la Chiesa romana è stata più volte riformata dall'interno, mentre nel concetto protestante di «Riforma» è implicita l'idea di rinascita e restaurazione del cristianesimo primitivo, soffocato dal romanesimo. Nella cultura laica si parla perciò di Riforma e Controriforma, mentre i cattolici (e specialmente i gesuiti che sono più accurati e conseguenti anche nella terminologia) non vogliono ammettere che il Concilio di Trento abbia solamente reagito al luteranesimo e a tutto il complesso delle tendenze protestantiche, ma sostengono che si sia trattato di una «Riforma cattolica» autonoma, positiva, che si sarebbe verificata in ogni caso. La ricerca della storia di questi termini ha un significato culturale non trascurabile.

 

 

 

 

 

 

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