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La Repubblica (in greco Πολιτεία, Politéia) è un'opera
di filosofia e teoria politica scritta approssimativamente tra il
390 e il 360 a.C. dal filosofo greco Platone, la quale ha avuto
enorme influenza nel pensiero occidentale.
Tutto ruota intorno al tema della giustizia, sebbene il testo
contenga anche una moltitudine di altre teorie platoniche, come il
mito della caverna, la dottrina delle idee, la concezione della
filosofia come dialettica, una versione della teoria dell'anima
differente rispetto a quella già trattata nel Fedone e il
progetto di una città ideale, governata in base a principi
filosofici. Quest'ultima è l'esempio più celebre di
quelle teorie politiche che col passare dei secoli prenderanno il
nome di utopie. Scritta in forma dialogica, La Repubblica riguarda
ciò che viene detto φιλοσοφία περὶ τὰ ἀνθρώπινα ("filosofia
delle cose umane"), e coinvolge argomenti e discipline come
l'ontologia, la gnoseologia, la filosofia politica, il
collettivismo, il sessismo, l'economia, l'etica medica e l'etica in
generale.
La Repubblica si presenta come un'opera organica, enciclopedica e
circolare, concernente, più in generale, il rapporto tra
universale e particolare. L'opera è strutturata in dieci
libri e ha per protagonista Socrate, ma un Socrate che, come molti
studiosi hanno ben visto, è decisamente diverso da quello
degli altri dialoghi, e che in più punti va modificandosi, a
poco a poco, in un processo di katábasis, indicato nella
frase iniziale del dialogo: «Ieri scesi al Pireo...».
Questo processo di purificazione porta Socrate ad abbracciare a poco
a poco delle tesi che non sono sue, bensì appaiono di natura
piuttosto platonica, e legate soprattutto al momento storico che
Platone viveva dopo la guerra del Peloponneso: la presa della
città ad opera di Crizia, il quale instaurò il governo
dei Trenta Tiranni, e la condanna a morte del maestro Socrate.
Vediamo quindi il vecchio filosofo esporre teorie che vanno dalla
parità dei sessi, alla condivisione delle proprietà
private, alla scomparsa della famiglia, e all'obbligo, per coloro
che fossero destinati a essere i phylakes ("guardiani") a non avere
nessun guadagno dal loro lavoro ed essere mantenuti a spese dei
cittadini.
Il titolo originale dell'opera è la parola greca πολιτεία. La
Repubblica, che è la traduzione tradizionale del titolo,
è un po' fuorviante, derivata dal latino, e in particolare da
Cicerone. Una traduzione più precisa potrebbe essere La
Costituzione.
Indice
1 I temi della Repubblica
1.1 Libro I: sulla
giustizia
1.1.1 Trasimaco: la giustizia è l'utile del più forte
1.1.2 La confutazione socratica di Trasimaco
1.2 La fondazione dello
Stato ideale
1.2.1 Lo sviluppo della polis
1.2.2 L’educazione dei cittadini
1.2.3 L’organizzazione interna della Kallipolis
1.3 L'armonia delle parti
1.4 La metafora della
linea e il mito della caverna
1.5 Il primato del Bene
1.6 La famiglia e lo
Stato
1.7 L'arte come
imitazione dell'imitazione
1.8 Il mito di Er
I temi della Repubblica
La Repubblica risale al periodo cosiddetto della maturità di
Platone, e l'interpretazione tradizionale la considera come un nuovo
tentativo di dare una risposta soddisfacente alle obiezioni avanzate
in precedenza da Callicle nel Gorgia, secondo cui la virtù e
le leggi della polis sono un trucco escogitato da una massa di
deboli per irretire la brama di potere degli individui migliori,
pochi di numero ma portati per natura a governare. A questo
proposito, si noti la vicinanza tra le tesi di Callicle e quelle di
Trasimaco nel Libro I.
Il dialogo si svolge tra Socrate e vari suoi amici, tra cui alcuni
familiari di Platone (anche se l'autore non figurerà mai nel
dialogo, compariranno Glaucone e Adimanto, suoi fratelli maggiori).
Il dialogo si apre con il racconto di Socrate il quale, mentre torna
in compagnia di Glaucone dalle celebrazioni per la dea Bendis, si
imbatte lungo la strada in Polemarco, Adimanto e nei loro amici, i
quali invitano i due a recarsi a casa di Cefalo e Polemarco per
partecipare ai festeggiamenti previsti per la serata. È
quindi in casa di Cefalo e Polemarco che ha luogo la lunga
discussione narrata nella Repubblica, in cui Socrate dialoga
dapprima con Cefalo e Polemarco (i padroni di casa), poi deve
vedersela con Trasimaco, e infine, dal Libro II al X, discute con
Glaucone e Adimanto.
Dal punto di vista del contenuto, nel dialogo si possono individuare
due blocchi connessi tra di loro: i Libri I-V e i Libri VIII-IX sono
di carattere etico-politico e trattano il tema della giustizia,
mentre il blocco che va dalla seconda metà del Libro V ai
Libri VI-VII tratta di argomenti più squisitamente
filosofici. Il Libro X, infine, che riprende i temi dell’educazione
e dell’arte, e narra il celebre mito di Er, sembrerebbe avere una
funzione di appendice.
Libro I: sulla giustizia
Dopo una breve discussione sul rapporto tra giustizia e vecchiaia,
l'attenzione dei partecipanti si sposta sulla giustizia in
sé: ci si domanda se questa sia più o meno conveniente
rispetto all'ingiustizia. La prima definizione di giustizia,
proposta da Polemarco, è attribuita a Simonide: "Rendere a
ciascuno il dovuto (τὰ ὀφειλόμενα)". Equiparando questa definizione
alla seguente: "Giusto è beneficare gli amici e danneggiare i
nemici.", Socrate inizia la confutazione di tale opinione facendo
notare che, se si accetta ciò, ne deriva che la giustizia
può essere utile in tempo di guerra, ma non in tempo di pace,
poiché essa sarebbe "inutile per l'uso di ciascuna cosa, e
utile invece quando non se ne fa uso": a essa sarebbe infatti
preferibile, volta per volta, l'arte "specifica" per la situazione.
La confutazione prosegue su altre linee: l'uomo giusto, essendo il
miglior custode di denaro, sarà anche il miglior ladro
(secondo il principio, esagerato per l'occasione, per cui "chi
è molto abile nell'attaccare lo è anche nel
difendersi"); e ancora (questa è la linea di attacco
più forte), danneggiare qualcuno non può condurre che
a un suo peggioramento, nel campo relativamente cui egli è
danneggiato: ma la giustizia non può rendere più
ingiusti, così come la musica non può rendere
musicalmente ignoranti. La definizione di cui sopra è
pertanto confutata.
Trasimaco: la giustizia è l'utile del più forte
A questo punto interviene con veemenza Trasimaco, che propone una
nuova definizione: "La giustizia è l'utile del più
forte", ossia, come specificato poco dopo, l'"utile del potere
costituito (τὸ τῆς καθεστηκυίας ἀρχῆς συμφέρον)". Trasimaco, in
realtà, propone un concetto di giustizia di tipo prettamente
politico, essenzialmente avulso dalla sfera morale. Il primo attacco
da parte di Socrate consiste nel seguente sillogismo:
1 bisogna ammettere (come per altro fa Trasimaco)
che i governanti possano, nel legiferare, ingannarsi e promulgare
leggi contro il proprio interesse (Premessa 1);
2 ma si è assodato che è giusto
obbedire sempre ai governanti (Premessa 2);
3 ergo, è giusto nuocere ai governanti,
ossia andare contro il loro interesse (Conclusione).
Questo frettoloso argomento rileva la non-equivalenza dei due
enunciati: "giusto è fare l'utile del più forte" e
"giusto è obbedire sempre al più forte", in quanto il
più forte potrebbe dare ordini contrari al proprio interesse.
Trasimaco, però, si affretta a specificare che egli, quando
parla di "governante", intende una persona che, nella misura in cui
detiene il potere, non sbaglia mai a legiferare: se sbagliasse, non
lo farebbe in quanto governante, ma in quanto uomo.
Il nuovo attacco di Socrate verte sul fatto che ogni arte opera
l'interesse di ciò per cui essa esiste (per esempio, l'ippica
fa l'interesse dei cavalli, la medicina fa l'interesse del
corpo...), e che è a essa subordinato (questa asserzione
però non viene giustificata); da ciò, Socrate deriva
che ogni arte fa l'interesse del "più debole", non del
più forte, come sostiene Trasimaco.
Ma Trasimaco non si dà per vinto: per prima cosa, egli
sostiene, chi giova ai propri sottoposti lo fa solo per tornaconto
personale. In secondo luogo (e questa è la tesi più
forte e interessante) la giustizia non è affatto più
forte dell'ingiustizia, bensì il contrario. La prima,
infatti, è l'utile del più forte, e pertanto non
fornisce alcun vantaggio ai deboli; la seconda, invece, consente di
avere la meglio in ogni accordo privato e pubblico, di guadagnare
denaro e reputazione e persino di instaurarsi al potere con un colpo
di stato: il tiranno, cultore della "somma ingiustizia", è
appunto sommamente felice e ricco, così come l'ingiustizia, e
non la giustizia, è utile e vantaggiosa di per sé
stessa.
La confutazione socratica di Trasimaco
Alla prima asserzione Socrate replica che chiunque tragga vantaggio
dalla propria arte (ad esempio un medico) non lo fa tramite quella
stessa arte (la medicina), ma tramite la capacità di farsi
pagare per essa (ossia associando a essa l'"arte del salario",
μισθωτικὴ τέχνη),tant'è che un professionista, fa notare
Socrate, sarebbe utile anche se non si facesse pagare. Non per
nulla, continua il filosofo, i cittadini giusti salgono al potere a
malincuore perché costretti, e non spontaneamente, come
invece farebbero se fosse un compito gradito.
Per quanto riguarda il secondo punto, Socrate comincia chiedendo a
Trasimaco di esprimere più chiaramente la propria tesi; al
che egli arriva a definire "virtù" e "accortezza (εὐβουλία)"
l'ingiustizia, e "ingenuità (εὐήθεια)" la giustizia. Egli
anzi identifica le persone ingiuste con quelle accorte e
intelligenti, e i giusti con gli stupidi e gli ingenui. Socrate e
Trasimaco si accordano inoltre che chi è giusto tenta di
prevalere sugli ingiusti, ma non sui giusti, mentre chi è
ingiusto vuole prevalere su tutti. A questo punto, Socrate ricorre a
esempi di persone sapienti (il musicista, il medico) dimostrando che
chi è saggio non tenta di avere la meglio sui saggi, ma solo
sugli stolti, mentre gli ignoranti desiderano prevaricare tanto i
saggi quanto gli altri ignoranti. Da questa similitudine, egli
induce che chi è giusto è anche saggio, mentre chi
è ingiusto è stolto (le due coppie di classi, infatti,
presentano le medesime caratteristiche). La confutazione è a
questo punto fatta. Socrate, tuttavia, continua la discussione
aggiungendo per prima cosa che, essendo ignoranza, l'ingiustizia non
può essere più forte della giustizia (che è
sapienza); e che, evidentemente, l'ingiustizia genera odio e
discordia, e quindi debolezza, nei rapporti e nelle associazioni tra
uomini, e persino in seno a un singolo individuo o a una singola
città. Non solo: gli dèi sono giusti, e pertanto amici
di chi è giusto. Da ultimo, Socrate dimostra che ogni cosa
svolga una funzione lo fa per una propria virtù:
poiché dunque la vita è funzione dell'anima, e la
virtù dell'anima è proprio la giustizia, quest'ultima
è l'unica garante di una vita felice, e perciò va
coltivata e considerata utile e vantaggiosa.
Alla fine del libro, Socrate riconosce tuttavia che il suo discorso
non ha fruttato il risultato sperato: non è ancora stato
chiarito, infatti, che cosa sia esattamente la giustizia (se ne
è semplicemente riconosciuta l'utilità, e si è
ammesso che essa deve essere una qualche virtù). Si ha dunque
una aporia, cioè un dialogo che non porta da nessuna parte,
inconcludente.
Il Libro I può essere in effetti considerato un'unità
relativamente autonoma, e recenti studi stilometrici fanno ritenere
probabile che sia stato scritto precedentemente e separatamente
rispetto agli altri nove, forse un dialogo a sé stante
successivamente inglobato come proemio alla Repubblica. A questo
riguardo, però, gli studiosi sono divisi: Dümmler ha
ipotizzato che il Libro I sia stato inizialmente diffuso come
dialogo autonomo, forse con il titolo di Trasimaco, sebbene non si
possa escludere che Platone, nello scrivere questo libro, avesse
già in mente un'opera più ampia, alla cui stesura ha
atteso per decine di anni. Decisamente contrario all'autonomia del
Libro I è Charles Kahn, che in più opere ha
sottolineato lo stretto legame che unisce le diverse parti della
Repubblica.
La fondazione dello Stato ideale
Si entra così nel vivo del dialogo. Glaucone, nell'incipit
del Libro II, divide i beni in tre parti: desiderabili per
sé, desiderabili per sé e per i vantaggi che portano,
desiderabili solo per i vantaggi che portano. Socrate inserisce la
giustizia nel secondo gruppo poiché, a suo dire, non porta
bene soltanto agli altri ma anche a sé stessi.
Successivamente, viene chiesto a Socrate di cercare di definire la
giustizia in sé, cioè l'idea (εἶδος) di giustizia,
evitando i soliti argomenti di elogio e cercando inoltre di
dimostrare che essa è sempre più vantaggiosa
dell’ingiustizia (fugando quindi le tesi sostenute da Trasimaco).
Tuttavia, Socrate si trova in difficoltà, perché non
riesce a circoscrivere la giustizia nell'individuo: si appresta
allora a ricercarla all'interno dello Stato, ritenendo di poter
assistere, parallelamente alla nascita di uno Stato, anche alla
nascita della giustizia, in una versione "ingrandita" (stante
l'analogia tra giustizia nello Stato e giustizia nell'individuo) che
permetterà di giungere più facilmente alla risposta.
Lo sviluppo della polis
Socrate inizia a delineare la nascita di una polis: inizialmente si
tratterà di un piccolo villaggio abitato da contadini e
artigiani, riunitisi per sostenersi l’un l’altro, i quali vivono dei
frutti del lavoro, vestono semplicemente e consumano pasti frugali;
in seguito però, su richiesta di Glaucone, la piccola polis
si allarga, introducendovi ricchezze, lussi e nuove figure di
lavoratori, come mercanti e artigiani di beni di lusso, cuochi,
allevatori e soldati. Socrate mostra come, nell’evoluzione che porta
dalla prima polis alla seconda, ci sia una progressiva degenerazione
fisica e morale. A questo punto, si affaccia l’idea di uno Stato
ideale e perfetto.
Nello Stato ideale proposto da Socrate si impone al cittadino di
fare il solo mestiere che gli è stato attribuito direttamente
dallo Stato. La divisione del lavoro è infatti alla base
della creazione di una comunità di cittadini, i quali non
sono in grado di sopperire da sé ad ogni esigenza, ma sono
costretti a collaborare e dividersi i compiti: per questo motivo,
ognuno dovrà specializzarsi in una techne ed eseguire solo
quella. Inoltre, Socrate tiene a precisare che oltre agli artigiani
specializzati dovranno esservi anche soldati addestrati
esclusivamente all’arte della guerra, la quale è una techne
al pari delle altre. Egli divide quindi i cittadini in tre
classi-funzione: gli artigiani, classe più bassa con
l'obiettivo di lavorare e procurare i beni materiali, i guardiani
(φύλακες, phýlakes), che invece dovranno proteggere lo Stato,
ed infine i governanti o filosofi (ἄρχωντες, árchontes), gli
unici in grado di poter governare lo Stato con morigerata saggezza.
Queste classi-funzione sono dinamiche, e non attribuite alla
nascita: durante l'educazione selettiva viene determinato che cosa
l'individuo sia più adatto a fare poiché, come Socrate
spiega nel mito delle stirpi, ognuno possiede un'indole che
indirizza l'individuo ad uno solo dei tre percorsi.
L’educazione dei cittadini
Il modello educativo di Platone (paideia) si basa sulla selezione
per tappe: il giovane è sottoposto ad una prima educazione da
parte dello Stato comprendente la ginnastica e l'educazione al
combattimento (ossia l'esercizio del corpo), e la musica, che
rappresenta l'amore per il bello (ossia l'esercizio dello spirito);
se l'educando si dimostra all'altezza, egli viene privilegiato ed
educato alla matematica, col fine di diventare stratega, e
all'astronomia, disciplina solo teorica il cui fine è elevare
l'animo. Infine, tra i migliori vengono scelti coloro che, per
diventare buoni governanti, intraprenderanno lo studio della
filosofia e della dialettica, la massima scienza. A questo
proposito, Socrate tratta anche il tema della conoscenza, spiegando
che ne esistono tre tipologie: l'ignoranza, che è mancanza di
conoscenza, la scienza, che è conoscenza di ciò che
è (τὸ ὄν), e l'opinione, che è conoscenza insieme di
ciò che è e di ciò non è, cioè
del divenire (τὸ γένεσθαι).
L’organizzazione interna della Kallipolis
Oggetto fondamentale degli interrogativi proposti dalla Repubblica
è, dunque, la natura della giustizia; il motore del dialogo
è la domanda: «Che cos’è la giustizia? (Τί ἐστι
ἡ δικαιοσύνη;)». Il punto di partenza e quello d'arrivo sono
dati dalle domande: «Come conciliare il sapere con l'esercizio
della giustizia?», «Come tradurre in ordinamento che
coinvolge tutti i membri della comunità?»,
«Quanto un uomo può razionalmente conoscere?», e
infine: «È possibile trovare con la ragione un
ordinamento che sia razionale, ma di una razionalità che
contempli l'effettiva giustizia?».
Partendo da questi temi Platone, tramite le parole di Socrate,
costruisce uno Stato ideale dove vige una giustizia teoricamente
perfetta, definita Kallipolis. La città deve essere pensata
in rapporto alla tripartizione dell'anima del singolo uomo, e quindi
essere ripartita in tre classi sociali: aurea (governanti-filosofi),
argentea (guerrieri), bronzea (lavoratori).
* Classe dei lavoratori (popolo)
caratteristica: la
temperanza (σωφροσύνη)
parte dell'anima:
"concupiscibile" (ἐπιθυμητική)
* Classe dei guardiani (φύλακες o guerrieri)
caratteristica: il
coraggio (ἀνδρεία)
parte dell'anima:
"irascibile" o "passionale" (θυμοειδής)
* Classe governativa (re-filosofi)
caratteristica: saggezza
(σοφία)
parte dell'anima:
"razionale" (λογιστική)
La classe dei governanti-filosofi deve stare al potere, in quanto
classe di innata sensibilità, di inesauribile
curiosità intellettuale; i filosofi vogliono capire e non
solo constatare, ma anche far funzionare la convivenza. Essi sono
pertanto gli unici che dispongono dei mezzi intellettuali
appropriati per non far sprofondare la città nel caos e nel
conflitto interno ed estero. Scrive a proposito Francesco Adorno:
« Per Platone non si tratta di porre al potere un gruppo, un
partito, un singolo, ma "i filosofi", che rappresentano la
"razionalità", cioè nessuno in modo particolare o
privato, ma tutti, in quanto capacità di essere ciascuno
sé in rapporto all’altro. »
Questa divisione non è però operata dagli stessi
uomini, bensì dalla natura, una forza superiore all'uomo, che
rende lo stesso cittadino tale fin dalla nascita: non esiste un
individuo apolide. Lo Stato ha un'origine naturale: si tratta di una
teoria che si differenzia da quelle moderne, propense a pensare lo
Stato come oggetto di un contratto preciso.
L'armonia delle parti
Dopo aver svolto un confronto tra le varie tipologie di governo e
accertato che quella teorizzata fino ad ora sia la migliore, Socrate
definisce le virtù che lo stato deve possedere: la sapienza,
propria dei governanti, che rende capaci di reggere lo stato; il
coraggio, proprio dei guardiani, utile per salvaguardare i propri
membri dalle cose temibili e dalla natura; la temperanza,
cioè il contenimento dei piaceri e degli appetiti; infine, la
giustizia, definita come ordine e armonia tra le varie parti dello
stato.
Trovata la giustizia nello stato giusto, viene ricercata nell'uomo
giusto: l'anima è divisa in razionale, irascibile e
concupiscibile e la giustizia esiste solo quando le tre parti sono
in armonia tra di loro. Socrate arriva allora alla conclusione che
il tiranno è l'uomo più infelice, al contrario di
ciò che pensavano inizialmente i suoi amici; infatti, egli
è ingiusto e vive nel terrore, ma soprattutto è solo,
non ha amici ed è circondato da persone corrotte e malvagie.
La metafora della linea e il mito della caverna
I Libri VI e VII della Repubblica affrontano temi di filosofia
teoretica e gnoseologia. Più nello specifico, Platone si
sofferma qui sulla attività della conoscenza, che dalle cose
empiriche e sensibili porta alle idee e in particolare all’idea del
Bene (la quale, come si vedrà a breve, occupa un status
particolare rispetto alle altre). Per spiegare la propria teoria
della conoscenza, Platone ricorre a due immagini tra le più
celebri: la metafora della linea e il mito della caverna.
Nella seconda metà del Libro VI, dopo aver parlato dell’idea
del Bene, Platone per bocca di Socrate espone la metafora della
linea:
« Considera per esempio una linea divisa in due segmenti
disuguali, poi continua a dividerla allo stesso modo distinguendo il
segmento del genere visibile da quello del genere intelligibile.
»
(Repubblica, VI, 509d-510a)
Ognuno dei due segmenti viene cioè diviso a sua volta in due
sezioni, per ottenere in tutto quattro parti disuguali, che
corrispondono ai quattro piani della conoscenza, come raffigurato
nello schema che segue.
conoscenza sensibile o opinione (δόξα)
conoscenza intelligibile o scienza (επιστήμη)
immaginazione (εικασία) credenza
(πίστις)
pensiero discorsivo (διάνοια) intellezione
(νόησις)
Al livello più basso della conoscenza vi è l’opinione
(doxa), la quale si rivolge agli oggetti sensibili, i quali, come
verrà spiegato ancora meglio in seguito con il mito della
caverna, non sono reali ma mere apparenze, ombre. La vera conoscenza
è quella che si rivolge alla realtà in sé, non
alle apparenze, ma agli oggetti reali di cui gli oggetti sensibili
sono solo imitazioni. Solo la conoscenza intelligibile, cioè
concettuale, assicura quindi un sapere vero e universale; l'opinione
invece, fondata sui due stadi inferiori del conoscere, è
portata a confondere la verità con la sua immagine.
Data la complessità del tema, per chiarire ulteriormente il
pensiero platonico riguardo alla conoscenza, all’inizio del Libro
VII viene fatto ricorso ad un mito: all'interno di una caverna
stanno, incatenati sin dalla nascita, alcuni uomini, incapaci di
vederne l'entrata; alle loro spalle arde un fuoco e, tra il fuoco e
l'entrata della caverna, passa una strada con un muretto che funge
da schermo; per la strada passano diversi uomini, portando sulle
spalle vari oggetti il quali proiettano le loro ombre sul fondo
della caverna. Per i prigionieri le ombre che vedono sono la
realtà. Ma se uno di essi fosse liberato e costretto a
voltarsi e ad uscire dalla caverna, inizialmente sarebbe abbagliato
dalla luce e proverebbe dolore; tuttavia, a poco a poco ci si
abituerebbe, potrebbe vedere i riflessi delle acque, poi gli oggetti
reali, gli astri ed infine il sole. Tornando nella caverna dovrebbe
riabituare gli occhi all'oscurità e sarebbe deriso dai
compagni qualora provasse a raccontare ciò che ha visto.
Con questo mito Platone spiega la sua dottrina delle idee, secondo
cui la realtà sensibile è paragonabile alle ombre che
i prigionieri vedono sul fondo della caverna, mentre esiste in
qualche luogo fuori dal tempo e dallo spazio il "reale", che altro
non è che "l'idea" (εἶδος). In questo mito, viene inoltre
descritto il processo conoscitivo come un'ascesa abbastanza
difficile e comunque graduale, secondo i gradi descritti nella
metafora della linea: prima l'opinione, identificata nelle ombre
sfocate, poi gli oggetti che fanno parte del mondo sensibile, poi i
riflessi, identificabili con la matematica, fino ad arrivare alla
conoscenza dell'idea del Bene che illumina tutte le altre (nel mito,
è il sole).
Il primato del Bene
Si viene così ad affrontare uno dei passi più
importanti e dibattuti della Repubblica, le pagine dei Libri VI e
VII in cui Platone afferma il primato del Bene rispetto alle altre
idee, paragonandolo al sole:
« Come nella sfera visibile la luce del sole e la vista
correttamente si possono ritenere simili al sole, ma non è
corretto ritenere che esse siano il sole, così in quest’altra
sfera è corretto ritenere che scienza e verità siano
entrambe simili al buono, ma scorretto sarebbe pensare che l’una o
l’altra di esse siano il buono: degna di onori ancor più alti
è la condizione di buono. »
(Repubblica 509a, trad.: M. Vegetti)
Come il sole, quindi, illumina gli oggetti e li rende visibili alla
vista, così dal Bene si irradiano verità (ἀλήθεια) e
scienza (ἐπιστήμη). Il Bene occupa un piano di dignità
superiore rispetto alle idee, le quali traggono da esso un
fondamento in termini assiologici, gnoseologici e ontologici. Il
Bene, origine della epistéme, è esso stesso
conoscibile dopo una lunga ricerca, ma – curiosamente – di esso
Socrate non dà alcuna definizione. Il Bene è quindi
indefinibile (se non appunto attraverso un’immagine, quella del
sole), e la scienza del Bene non è una scienza tra le altre,
ma è la scienza prima necessaria non solo a chi deve
governare uno Stato, ma a chiunque si debba occupare di una scienza
specifica, poiché è la scienza della verità,
che accomuna e fonda tutte le altre scienze.
La questione diventa più complessa quando si tratta di
definire la collocazione del Bene, riguardo alla quale il dibatto
è ancora aperto. Lo storico Giovanni Reale, e in generale la
Scuola di Tubinga-Milano, riconoscono in queste pagine della
Repubblica una serie di allusioni e riferimenti impliciti alle
dottrine orali, che permetterebbe di identificare il Bene con l’Uno.
Il Bene/Uno si contrappone alla molteplicità, ponendosi su un
piano superiore dell’essere in quanto causa e fondamento dell’essere
stesso. Di diverso avviso è però Mario Vegetti, che
nell’edizione da lui curata della Repubblica afferma che il Bene non
può trascendere il piano delle idee, in quanto è esso
stesso un’idea; esso occuperebbe tuttavia all’interno del piano
dell’essere una posizione eccezionale ed eccedente, e la sua
superiorità non sarebbe ontologica, bensì solo
assiologica. È bene tuttavia ricordare ancora una volta che
la questione è oggetto di dibattito.
La famiglia e lo Stato
L'uomo ha molti bisogni e da solo non è sicuramente in grado
di soddisfarli; Platone non pensa dunque all'eremita,
autosufficiente e solitario, ma ad una comunità che rende
possibile la vita del singolo individuo. In questo dialogo, Platone
spiega, inoltre, come la società funzionerebbe meglio se ogni
individuo facesse ciò che meglio sa fare. Così, chi
è adatto a fare il falegname farà il falegname, chi ha
talento nell'architettura farà l'architetto. Perché
ciò avvenga, Platone dice che è necessario estinguere
la ricchezza e la povertà, poiché chi è ricco
non lavora, chi è povero fa ciò che più gli
rende; è inoltre necessario abolire la vita familiare, dato
che solitamente accade che il figlio del calzolaio finisca per fare
il calzolaio, quindi non deve esistere la "tradizione di famiglia".
Oltre all'educazione dei giovani, Platone spiega che i governanti
devono vivere in perfetta comunione dei beni: non devono avere
proprietà privata, né figli. Questi ultimi, una volta
strappati alle proprie famiglie, verranno educati dallo stato fin
dalla nascita. Quanto alle mogli, tutte le donne saranno in comune e
premieranno i più forti così da avere stirpi sempre
migliori; in questo modo i governanti saranno interessati solamente
al bene dello stato.
Particolarmente interessante è la posizione della donna nello
stato ideale: questa viene considerata quasi al pari dell'uomo;
anche se fisicamente più debole, anch'essa può
prendere parte ai combattimenti.
L'arte come imitazione dell'imitazione
Infine, Platone fa chiarire al suo maestro il ruolo dell'arte:
Socrate ne esprime un giudizio negativo in quanto, dal punto di
vista metafisico, è l'imitazione del mondo sensibile, che
già di per sé è l'imitazione del mondo delle
idee e, sul piano gnoseologico, rispecchia il mondo dell'opinione;
dunque il filosofo non può far altro che denigrarla.
Platone non condanna solamente le forme artistiche figurative, ma si
dichiara apertamente contrario anche alle rappresentazioni teatrali;
in particolar modo al genere della tragedia. Il filosofo ellenico
sosteneva infatti che la crescente carica emotiva di tali recite
potesse avere un'influenza negativa e azione corruttrice sulle anime
dei cittadini.
Tali argomenti verranno ripresi nel testo del 1963 Arte e Anarchia
da Edgar Wind: storico dell'arte interdisciplinare tedesco
specializzato nell'iconologia del Rinascimento.
Il mito di Er
Alla fine dell'opera si trova il mito di Er. Attraverso esso,
Platone intende argomentare intorno al concetto di anima e a quello
di metempsicosi, oltre a provare l'inesistenza di un destino
prestabilito: ognuno sarebbe artefice della propria vita,
poiché sceglie lui che vita vivere.
Er era un guerriero morto in battaglia, il cui cadavere venne
recuperato dopo dieci giorni ancora incorrotto; poco prima del rogo
funebre, il cadavere si risvegliò e prese a narrare cosa
aveva visto. Uscita dal corpo, l'anima era arrivata nel mondo delle
idee, in un luogo dove vi erano quattro voragini, due in cielo e due
in terra; in mezzo sedevano dei giudici che, giudicata ogni anima,
indirizzavano i giusti per la voragine destra del cielo e gli
ingiusti per quella sinistra della terra; dalle altre voragini
affluivano altre anime, sporche e lacere da sottoterra, linde e
pulite dal cielo. Le anime si scambiavano notizie sui fatti del
mondo, mentre Er veniva informato che, dopo la morte, si trascorreva
un periodo pari a dieci volte la propria vita a scontare il decuplo
delle pene commesse o a gioire per il decuplo del bene fatto.
Le anime che dovevano reincarnarsi venivano condotte in un altro
luogo dove avrebbero dovuto scegliere il modello della vita
desiderata, tra i tanti che giacevano per terra. I paradigmi erano
di vite umane ed animali, e ciascuno sceglieva secondo le
inclinazioni della vita precedente; l'ordine di scelta era deciso a
sorte. Successivamente, le anime confermavano la loro scelta e la
trama del destino era filata. Parlando di questa scelta, Socrate
precisa che solo la filosofia permette di scegliere una vita giusta
e felice.
Le anime erano quindi condotte sulle rive del fiume lete. Chi beveva
dimenticava completamente la vita precedente, mentre i filosofi,
guidati dalla ragione, non bevevano: in tal modo, mantenevano il
ricordo, solo un po' attenuato, del mondo delle idee, da rievocare
poi durante la nuova vita grazie agli studi.
Con questo mito Platone riassume completamente il suo pensiero: il
mondo sensibile è solo un riflesso del mondo delle idee che
solo il filosofo con lo studio e la cogitazione può arrivare
a contemplare; l'idea massima è l'idea del bene in sé
che illumina tutte le altre cose; l'uomo è formato da due
entità distinte: il corpo, mortale, e l'anima, immortale, che
reincarnandosi produce, nel filosofo, un ricordo del mondo delle
idee. La conoscenza è, quindi, ricordo, reminiscenza del
tempo passato a contemplare le idee.