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Letterato (Napoli 1782 - ivi 1847); acuto studioso della lingua
italiana, tenne a Napoli (dal 1825) una scuola nella quale educava i
giovani, in senso puristico, allo studio severo dei classici antichi
e dei trecentisti e anche, senza apertamente proporselo, a
sentimenti patriottici. Da essa uscirono, tra gli altri, L.
Settembrini e F. De Sanctis.
Oltre a numerose edizioni di testi classici e volgari, lasciò
notevoli lavori di lingua e letteratura (Regole elementari della
lingua italiana, 1833; Della maniera di studiare la lingua e
l'eloquenza italiana, 1837).
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La scuola di Basilio Puoti (1782-1847), esponente del classicismo
ottocentesco, anzi, del purismo, non fu di sola lingua ma di
“libertà, scienza, progresso, emancipazione, lotta contro il
seminario, aspirazioni ancora indistinte a nuove idee, a nuove
civiltà”.
Non a caso tra gli allievi del Marchese troviamo due figure
esemplari del nostro Risorgimento, dai profili biografici
pressoché speculari seppur con esiti politici e letterarii
completamente diversi: Francesco De Sanctis (1817-1883) e Luigi
Settembrini (1813-1876).
I due intellettuali e patrioti napoletani inseriscono nelle loro
memorie il ritratto del Puoti e del suo metodo, all’interno di un
vivace affresco della vita culturale della Napoli borbonica. Queste
pagine, poco conosciute al grande pubblico, insistono e ci invitano
a riflettere sull’importanza della figura del “maestro” che Luigi
Settembrini riteneva essere il vero artefice delle rivoluzioni. Le
rivoluzioni “prima si compiono negli spiriti, poi nelle piazze”.
FRANCESCO DE SANCTIS, L’ultimo dei puristi, in La
giovinezza, a cura di Gennaro Savarese, Torino, Einaudi, 1961,
pp. 221-246
Il saggio apparve per la prima volta nella “Nuova Antologia” (fasc.
novembre 1868); fu quindi raccolto nella seconda edizione dei Saggi
Critici (Napoli, Morano, 1869)
La lettura di due grossi volumi intitolati Lezioni di storia di
Ferdinando Ranalli, ha risvegliato in me, e per la forma dello
scrivere e per le dottrine, l’immagine de’ miei primi anni e delle
mie prime impressioni letterarie. Quelli erano già per me
tempi da’ quali mi sentivo distante come ci fossero corsi di mezzo
due secoli; ed ecco questo libro qui, stampato ora, che mi riconduce
innanzi quei tempi vivi e presenti e mi dice: “Ricordati! Come
allora così ora e così sempre si ha a scrivere e
pensare”.
(…) E indietro indietro ecco mi trovo in sullo scorcio del terzo
decennio di questo secolo, quando gli uomini del ’21 erano
già la generazione che passa, e sorgevamo noi altri
giovanotti dai quindici ai vent’anni, la nuova generazione; i
predestinati del ’48 e del ’60. Migliaia di giovani dalle provincie
piombavano a Napoli, ed eran chiamati dal popolo gli “studenti” ed
anche i “calabresi”. Venivano dai seminarii, portandosi appresso
come trofei i libri imparati, il padre Soave, l’abate Troyse, il
Portoreale, l’Eineccio, la geometria di Euclide, la Storia greca e
romana di Goldsmith, Tasso e Metastasio; venivano in Napoli per
compiere gli studi, come dicevano, e imparare la professione. Napoli
era la città del sole, il Faro che doveva guidarli alla
gloria, il progresso. Ed il progresso era allora incarnato in un
uomo, il marchese Puoti.
Di scuole pubbliche ci era appena il nome, l’Università era
deserta; insegnava lettere italiane un tal canonico Bianchi, il
quale pagava egli due o tre suoi studenti; di lettere latine era
maestro Lucignano, e di diritto di natura un abate Cutillo;
Manfrè rappresentava la medicina, e Pugnetti la
giurisprudenza; Galluppi e Nicolini non erano ancora venuti su. I
tempi sospettosi: impossibile ogni libertà di pensiero;
inceppato ogni movimento letterario e scientifico; il progresso
erasi andato a rifuggire sotto quest’umile insegna: “Scuola di
lingua italiana del marchese Puoti”.
Ma non importa che il progresso pigli questa o quella forma, anche
la più umile e la più innocua: ci è sempre
sotto esso e tutto esso. La nuova generazione per poter sviluppare
le sue forze ha bisogno di trovare innanzi a sé un passato da
combattere, un avvenire da conquistare. Allora il passato si
chiamava il seminario, l’istruzione provinciale; il progresso si
chiamava il purismo, la scuola di Basilio Puoti. Questo santo nome,
che i napoletani ricorderanno sempre con riverenza, era la bandiera
intorno a cui si raccoglieva la gioventù, e questo nome
significava libertà, scienza, progresso, emancipazione, lotta
contro il seminario, aspirazioni ancora indistinte a nuove idee, a
nuove civiltà. Il purismo fu il primo atto di questo gran
dramma compiuto al ’60: il primo segno di vita che dava di sé
la nuova generazione volgendo le spalle al seminario.
È superfluo notare che di tutte queste grandi conseguenze e
di questi grandi profondi significati non ne sapeva nulla né
il marchese Puoti, né la gioventù, né la
polizia. Vi era lì tutta una rivoluzione ignorata e dagli
attori e dagli spettatori e dalle vittime. E rivoluzioni siffatte
sono le meno reprimibili e le più efficaci.
Il marchese Puoti, di famiglia patrizia e agiata, aveva ceduto la
rappresentanza e l’indirizzo della casa a Giammaria, secondogenito,
dotto e onesto magistrato, il vero marchese e il vero capo della
famiglia. Il nostro Basilio, rimasto marchese onorario, davasi con
molto ardore agli studi. Conosceva il latino, e meglio il greco, ed
aveva finito per fare materia prediletta de’ suoi studi le lettere
italiane, pigliando posto accanto al Cesari, al Montone, al
Giordani, al Perticari, al Fornaciari, al Paravia, e a tutti i
benemeriti cittadini che si affaticavano a restituire la lingua
nella sua purità e a ristorare gli studi delle cose nostre.
Al che il Puoti prese la via più diritta e più sicura,
aprendo scuola gratuita e raccogliendo intorno a sé i
più eletti ingegni del Napoletano.
(…) Il Puoti tenea scuola in una vasta sala del suo palazzo, dove
convenivano meglio che duecento giovani, la più parte
studenti che venivano freschi freschi dai seminari. Allora non ci
erano regolamenti d’istruzione pubblica e non programmi, esami per
cerimonia: d’italiano punto; né la laurea era necessaria a
professare. La divisa del governo in fatto d’istruzione era questa:
“non incaricarsene”.
(…) Professore del Collegio Militare, un giorno mi sfogavo col
cappellano, e gli mostravo cosa ci era da fare per raddrizzare gli
studi. Colui sentì: poi tutt’a un tratto mi prese per mano e
mi disse: “Senti un consiglio d’amico, non te ne incaricare: il Re
dice: -Più asini sono loro e più dotto sono io-”. Due
anni dopo lo spiritoso cappellano fu nominato vescovo.
Con questo sistema si riuscì ad imbarbarire le classi
inferiori; ma, quanto alla borghesia, l’effetto sortì
contrario alle speranze. Riunendosi da quindici a ventimila studenti
in Napoli, capitale alla francese, dov’erano condensate tutte le
forze intellettuali del paese, meno il governo “se ne incaricava”, e
più queste forze operavano e producevano. Essendo la laurea
non necessaria e non difficile ad ottenere, e gli esami punto
severi, in tanto concorso e gara di gioventù si
sviluppò il desiderio “disinteressato” della coltura ,
l’amore della scienza per la scienza. Le scuole private, quando son
considerate come succursali o appendici delle pubbliche, o come oggi
si dice, pareggiate, ed hanno per fine le ripetizioni o la
preparazione agli esami, si guastano e si corrompono. A quel tempo
le scuole private erano padrone del campo, rifuggitosi là
tutto ciò che c’era di vivo e di nuovo nella coltura
nazionale; i giovani accorrevano dove il livello degli studi era
più alto e i principii più larghi, e chiamavano
pedanti o empirici quelli che esponevano la scienza caso per caso,
con troppi minuti particolari (…). Questo amore disinteressato della
cultura è il maggior titolo di gloria per una generazione, e
il segno più chiaro di ristorazione filosofica e letteraria:
in Napoli la cultura divenne perfino arma politica, strumento di
opposizione; vietato parlar di libertà, si parlava di
civiltà e di progresso. La gioventù usciva dalle
scuole con la coscienza della sua superiorità sopra quelli
che erano ne’ pubblici uffizi, i più ignorantissimi, e si
sentiva separata da un governo “incivile” e “oscurantista”, frasi
del tempo. Il Puoti parlava con poca stima del nobile e del prete,
come di gente ignorante e oziosa; il peccato non era il nascer
patrizio o il divenir prete; era l’ignoranza: mai forse non era
salito sì alto il rispetto verso l’ingegno e la stima del
sapere.
(…) Questa fu la prima battaglia della nuova generazione contro il
passato, in nome del progresso, della civiltà, della coltura,
e la battaglia fu vinta senza cospirazioni e senza violenze, per la
sola forza della pubblica opinione.
Di questa prima campagna il protagonista fu Basilio Puoti, tanto
più potente quanto meno consapevole. La sua passione per le
lettere e per l’insegnamento era tale che riempiva tutta la vita e
non gli lasciava luogo ad altro. Il marchese del Carretto soleva
ridere di questo pedante del marchese Puoti. Un altro marchese,
ministro dell’interno, Santangelo, si degnava esprimergli la sua
benevolenza, e il principe di Satriano, Filangieri, compiacevasi di
proteggerlo. La sua famiglia era nota per antica devozione al trono.
(…) D’altra parte lo si sapeva tutto immerso negli studi della
lingua, ed estraneo affatto alle cose politiche. La sua scuola era
dunque considerata passatempo innocentissimo, e lo si lasciava fare
e dire, senza ombra di sospetto. Né troppo ci era da mettersi
in guardia verso di un uomo, a dipingere il quale basterà
dire questo solo, che le due più grandi ambizioni della sua
vita erano divenire accademico della Crusca e maestro del Principe
ereditario. Nel primo intento riuscì, e n’ebbe tale
compiacenza, che in fronte a’ suoi libri fece aggiungere al
proverbiale e simpatico “Basilio Puoti” l’epiteto di “accademico
della crusca”: e fu in quel tempo che coprì i suoi capelli
bianchi sotto una elegante parrucca, non senza un certo
rincrescimento di noi altri, che amavamo tanto quel nostro Basilio e
quella veneranda testa bianca. Nell’altro intento fallì e
n’ebbe tale pena al cuore, che fu non ultima cagione di quella
malattia che indi a poco lo condusse alla tomba.
(…) Il Puoti non era dunque uomo politico, non cospiratore, era un
puro e semplice uomo di lettere, un “pennarulo”, come lo chiamava
Ferdinando; ma quello che seppe fare questo “pennarulo” si
vedrà dagli effetti che il suo insegnamento produceva sulla
gioventù.
Addurrò il mio esempio; e da me si può argomentare
degli altri.
Avevo sedici o diciassette anni. Cresciuto in Napoli sotto la guida
di Carlo De Sanctis, a cui ero nipote, riputatissimo maestro di
lettere latine a quel tempo, compiuti gli studi filosofici sotto il
Fazzini, mi trovavo al primo anno degli studi legali. Avevo letto
moltissimi libri e di ogni materia: scrivevo versi e prose,
improvvisavo anche, e tutti mi lodavano, e il maestro mi chiamava
“penna d’oro”, ed io superbia che mai la maggiore: mi tenevo il
più istrutto uomo di Napoli. (…) Mi avvenne che un giorno
Francesco Costabile mi propose di menarmi alla scuola del marchese
Puoti. “A che fare” diss’io. E lui: “Ad impararvi l’italiano”. Mi
pareva un’offesa. Ma molti miei amici ci andavano, e tutti me ne
cantavano le meraviglie, e ci andai pur io.
(…) Già quel palazzo magnatizio, quelle superbe scale, quel
servitore in guanti, quella sala magnifica tappezzata di libri
innalzava l’animo, lo tirava in una regione più elevata. Non
so che signorile spirava colà che cacciava in fuga tutte le
rozze memorie del seminario. Quel dì che ci andai io, eravamo
parecchi a far l’esame di ammissione. Il Puoti volle sapere i nostri
studi, e il dove, e il come, tutto minutamente; ci fe’ tradurre un
brano di Cornelio Nipote. Dal suo modo di scrivere parrebbe uomo
grave e compassato; ma era tutt’altro. Amenissimo, vivacissimo,
pieno di motti e di lazzi alla napoletana, non insegnava, non si
metteva in cattedra, conversava, raccontava spesso, si divertiva e
divertiva: non ci era aria lì né di scuola, né
di maestro: parea piuttosto un convegno di amici, un’accademia
sciolta da regole e da formalità. A’ provinciali avveniva
spesso di chiamarlo maestro, e se ne turbava: voleva esser detto
marchese. Per primo atto correvano a baciargli la mano, ma la
ritirava vivamente e diceva: “Non si bacia la mano che al Papa”.
Non volea si dicesse la scuola, ma lo studio di Basilio Puoti;
né le sue voleva si chiamassero lezioni, ma esercitazioni. In
effetti proprie e vere lezioni non erano, o spiegazioni o teorie, ma
esercitazioni nell’arte dello scrivere, traduzioni, componimenti,
letture mescolate di aneddoti, di riflessioni, di giudizi, d’impeti
di collera, di scuse amabili, sì ch’era un piacere a vederlo
e a sentirlo: tutto ciò che scuola o maestro ha di
convenzionale, era scomparso, fino le proverbiali panche, sostituite
da eleganti sedie. Il marchese non solo sdegnava di essere detto
maestro, ma non ne aveva l’aria e le maniere: pareva piuttosto un
amico, maggiore d’età e di esperienza e di studi, che stava
lì compagno e guida ne’ nostri lavori, e sentiva il parer
nostro e ci diceva il suo, e poneva tutto in discussione, quello che
diceva lui e quello che dicevamo noi. Talora avveniva che il torto
l’aveva lui, e lo riconosceva di buona grazia e diceva: “Ho preso un
granchio a secco”.
(…) Il marchese era a tutti caro e rispettato, perché amava i
suoi giovani, così li chiamava, non studenti, né
discepoli, ed era il loro protettore, il loro padre. Ci erano
attorno a lui un gruppo di veterani, i giovani stati lì da
cinque o sei anni, e che il marchese scherzando chiamava gli Anziani
di Santa Zita. Il loro giudizio era molto autorevole, e quando
parlava l’un di essi si faceva silenzio, l’irrequieto marchese per
il primo, e si stava a bocca aperta. Ci erano anche gli Eletti,
giovani che occupavano un posto distinto, e questo nome si dava per
consenso di tutti a quelli che facevano un lavoro “indovinato”,
componimento o traduzione. Anche il giudizio di questi aveva una
certa autorità, ed i nuovi e inesperti si lasciavano
volentieri guidare da loro. Così nasceva una certa disciplina
naturale, fortificata da una costante cortesia di modi, che rendea
tollerabili anche i più severi giudizi. Il marchese soleva
dire che le lettere servono a raggentilire e nobilitare l’animo; ed
era una grazia, quando si spassava con di bei motti e proverbi alle
spese di qualche povero provinciale capitato lì o non bene in
arnese, o goffo di modi, o presuntuoso parlatore. Si può
pensare quale impressione incancellabile produceva tutto questo su
quei rozzi animi. Era tutta una rivoluzione morale. Dopo pochi mesi
io mi sentiva un altro uomo.
Né questo solo. In quella scuola i principali attori erano i
giovani. Il marchese, come ho detto, non faceva discorsi o lezioni,
non insegnava grammatica o retorica: parlava così alla buona,
e facea notare più per esempli che per teoriche i pregi e i
difetti degli scrittori, aggiungendovi, come l’occasione portava,
avvertenze grammaticali o di lingua o di rettorica.
(…) Vi si andava tre volte alla settimana. Un giorno era consacrato
alla lettura e all’esame dei componimenti, favole, lettere,
dialoghi, sogni, dissertazioni, dicerie, racconti storici, novelle,
di rado qualche poesia. Dopo la lettura, il marchese domandava a due
o tre il loro parere, i quali ragionavano prima del concetto, poi
dello stile e della lingua. La discussione era chiusa da uno degli
Eletti o degli Anziani, che ne discorreva ampiamente; il Marchese
riassumeva le diverse opinioni e dava un giudizio terminativo.
Essendo la più parte dei giovani colti e adulti, le
discussioni riuscivano spesso brillanti e animate. Né minor
gara era negli altri due giorni, destinati alla traduzione e alla
lettura dei classici. Si traduceva non più che due periodi di
Cornelio Nipote, né ci era esercizio più acconcio ad
addestrare in tutte le finezze della lingua e nell’organamento del
periodo. Letta la traduzione, scoppiavano da tutte le parti
osservazioni sopra i difetti, quando non era seppellita di un colpo
sotto qualche scherzo del marchese, come: “Basta così:
l’avete fatta tra gli orrori della digestione”.
Di quante se ne leggevano, il marchese sceglieva una che gli
sembrava migliore e sopra quella faceva la correzione, sicchè
ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno scriveva nel suo
quaderno. Il giovane sul cui lavoro era caduta la scelta, se ne
usciva quella sera con la testa più alta. Non è a dire
che diligenza metteva il marchese in queste correzioni: spesso stava
una mezz’ora ad acchiappare una parola o una frase che non voleva
venire, e a tutti a suggerirgli, e lui a dar col pugno sulla tavola
e a gridar: “No!” con una di quelle sue favorite esclamazioni.
Oimè! Talora la frase tanto cercata non veniva, e si veniva
per stanchezza con una rappezzatura, e il marchese levava la spalla
e se ne consolava dicendo: “Non è poi il Vangelo”.
Dopo la traduzione si leggeva qualche brano di autore classico,
trecentista o cinquecentista, e la scelta era fatta con molto gusto.
Il marchese era sincerissimo nelle sue impressioni e le comunicava
irresistibilmente all’uditorio, soprattutto ne’ luoghi affettuosi,
come la morte di sant’Alessio, o il lamento della madre di Santa
Eugenia, o il racconto del carbonaio nel Passavanti, o le
patriottiche querele di Dino Compagni.
(…) Come si vede i giovani erano in continuo lavoro; ma non bastava.
Il marchese richiedeva che essi studiassero a casa ne’ classici; e
si accorgeva subito quando lo studio era poco o mal fatto. Talora,
sentendo un lavoro o una traduzione, interrompeva bruscamente il
giovane e domandava: “Cosa leggete?”. “Il Manzoni”, scappò su
a dire un mal capitato, e il marchese si fe’ rosso di collera non
perché avesse in poco pregio il Manzoni, ma perché
voleva gli studi fatti con ordine e di soli classici. Aveva egli in
casa una compiuta raccolta di libri classici, fatta col peculio de’
giovani. Uno degli Anziani era bibliotecario, il quale dovea dare a
leggere quei libri con un certo ordine prestabilito dal marchese. Si
cominciava con gli scrittori più piani, dove si dovea studiar
non altro che parole e frasi, come il Sigoli, o il Novellino; poi
venivano gli scrittori che avevano stile, e prima bisognava studiar
quelli di stile naturale, come il Villani, il Cavalca, i Fatti di
Enea, i Fioretti di san Francesco, e poi i più artificiali e
arguti e di “stile conciso”, come Dino Compagni, Passivanti, gli
Ammaestramenti degli antichi e il Sallustio di Bartolomeo da San
Concordio: in ultimo veniva il Boccaccio che apriva la porta a’
cinquecentisti. E qui lo stesso ordine: e si leggevano prima gli
scrittori piani, eleganti, forbiti, e poi i serrati e concisi, prima
i liviani e poi i tacitiani, finchè non si giungeva a’ due
sommi e riserbati per le frutta, Guicciardini e Machiavelli. Del
seicento permetteva di soli pochi lo studio, come il Bartoli, il
Segneri, e con le debite cautele. Ciascun giovane aveva i suoi
quaderni, repertorio di tutti i bei modi di dire ed eleganze pescate
in queste letture, e ne’ lavori facea mostra delle sue ricchezze.
Sono convinto che niente giovi più a rilevare gli studi
letterari ed a educare la mente, che questo assiduo lavorare del
giovane, questo leggere, tradurre, comporre, notare, più
utile che non il mandare a memoria grammatiche, rettoriche e arti
dello scrivere. Il marchese solea dire, citando un detto di Socrate,
che il maestro dee essere come la levatrice che aiuti a partorire.
Il miglior maestro è quello che pensi meno a comparir lui, e
lasci fare ai giovani, dissimulando la sua opera e creando in loro
questa illusione che quello che imparano sono loro stessi che
l’hanno trovato. Quello teniamo a mente che abbiamo acquistato col
sudore della fronte: tutto l’altro facilmente entra e facilmente
esce dalla memoria.
(…) Se quello che insegnava il Marchese non era tutt’oro di
coppella, per usare una sua espressione, il modo d’insegnamento, il
“come” era istrumento efficacissimo di educazione e di progresso. Il
giovane si sentiva alzato a’ suoi occhi, piaceva a se stesso,
veggendosi chiamato a leggere, commentare, discutere, giudicare,
lavorare in comune, non discepolo, ma compagno e collaboratore. (…)
Ah! Ci amava tanto quel buon marchese! E noi lo cambiavamo di pari
affetto. L’amore è il primo segreto del buono insegnamento.
Non basta il metodo del Puoti, ci vuole il cuore del Puoti.
(…) Entrati appena in questo Studio, la sorpresa era grande. Si
sentiva per la prima volta parlare del secol d’oro della favella,
dell’aureo trecento e del dotto cinquecento, e ci vedevamo sfilare
innanzi una turba di scrittori, di cui ignoravamo anche i nomi. Ed
io che m’immaginavo d’essere il più istrutto uomo di Napoli!
Mi sentii bestia accanto agli Anziani di Santa Zita. Sentir gettare
a mare il padre Soave con la sua grammatica e le sue novelle, e
Goldsmith con la sua storia greca e romana! Proscritti il Tasso e il
Metastasio! Gli ex-seminaristi si guardavano, e il Marchese sempre
lì a incalzarli nelle loro credenze e nelle loro abitudini,
tutto frizzi ed epigrammi. Nessuno avea scritto mai in latino o in
italiano: appena barbare traduzioni dal latino; ciascuno però
avea fatto qualche sonetto in vita sua; onde l’aborrimento del
Marchese per i sonetti. Di storia greca e romana sapevano appena; di
storia italiana punto; avevano tradotto, senza intenderli e senza
gustarli, Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio, Virgilio, Cicerone,
Livio ed anche Tacito; del Tasso e del Metastasio sapevano a mente
le ottave e le ariette, esercizio di memoria, non di critica; gli
scrittori italiani scarsa notizia e nessuno studio, perché
non era mai loro entrato in capo che libri scritti in italiano e
perciò di comune intelligenza si avessero a studiare. Che un
italiano dovesse apprendere l’italiano, dovea sembrar loro un
paradosso. Immaginatevi la sorpresa. Sentivano che non tutte le
parole italiane sono italiane; che ci sono parole pure e impure,
proprie e improprie, rozze e gentili, aspre e soavi, nobili e
plebee, prosaiche e poetiche, in uso, fuori d’uso, in disuso.
(…) La parola per il marchese era luccicante come l’oro: soleva
dire: “parole di buona o falsa lega”, “parole di finissima lega”,
“oro purissimo”, “oro di coppella”. Così ciascuno si
avvezzò a scrivere col dizionario avanti e col suo quaderno
di frasi, cacciando via le parole sospette di falsa lega,
soprattutto quelle che avevano qualche somiglianza con parole
francesi, per tema di cascare in qualche francesismo. Il marchese
aveva giurato, come Annibale, odio impalcabile a’ francesismi o
gallicismi, ricordo, diceva, di servitù straniera, e “bisogna
ad ogni patto purgar la lingua di queste brutture”, aggiungeva. Il
francesismo non era solo nelle parole, ma ne’ giri, nelle movenze,
ne’ trapassi, nell’uso delle particelle, nella formazione del
periodo; e dove non si ficcava il francesismo?
(…) Secondo il marchese il francese concepisce e pensa in un modo
altro che l’italiano; indi la differenza dello scrivere tra’ due
popoli. Quello che in francese suona sì bene, recato in
italiano l’è una sconciatura, e n’esce uno scrivere
tagliuzzato, a singhiozzi, senz’arte di passaggi e di chiaroscuri.
Conchiudeva doversi scrivere con le parole del trecento e con lo
stile del cinquecento. Non è che egli accettasse tutte le
parole dell’aureo secolo, e che dicesse o scrivesse “carogna” per
cadavere, e “sirocchia” per sorella, come spargevano gli avversari.
Ammetteva supremo giudice l’uso toscano, specialmente de’ contadini,
di favella più schietta, e non lodava lo scrivere troppo
artificiato del Boccaccio e del Guicciardini. Nella lotta che sorse
comprendo che gli avversari usassero l’arma della caricatura ed
esagerassero le sue dottrine. Ma quelle teorie con quelle
spiegazioni e limitazioni ci parevano irreprensibili: e a ogni modo
erano per noi un mondo nuovo così attraente che già
alla porta della professione ripigliavamo gli studi letterarii.
(…) Diceva essere assai meglio capitassero i giovani affatto
ignoranti che guasti e male avvezzi. Perdonava non difficilmente le
sgrammaticature e gli errori di ortografia, ma per gli errori di
lingua e massime per i francesismi era inesorabile. Ma per piacergli
non bastava cansare gli errori: richiedeva l’eleganza. E scrivere
elegante era fuggire i vocaboli e i modi usati comunemente, e
sostituirvene altri peregrini e fuor della lingua parlata come
“andar per la maggiore”, “saper grado e grazia”, “esser di credere”,
“tener fermo” e molti altri. Quando i componimenti ne erano
sopraccarichi, il marchese diceva sorridendo: “Per ora va bene:
veggo che leggete i buoni scrittori”. Con questo indirizzo era
inevitabile che sorgesse un modo di scrivere a tutti comune, certi
collocamenti di parole, certi legami o passaggi, certi ripieni o
trasposizioni o idiotismi, simpatie o antipatie venuteci dalle
predilezioni o da’ furori del marchese, modo di scrivere che
degenerava nella maniera o nel convenzionale. Se non che dopo alcuni
anni i giovani d’ingegno se ne affrancavano, e il marchese andava
“allentando il freno”, come diceva, e tollerava certe licenze.
Soleva dire che co’ giovani si dee esser severi, e fino pedanti; ma
che quando si va innanzi negli studi, si può “secondare il
natural genio”, perché l’eccellente scrittore è
superiore alle regole, e sa quello che fa. Ci raccontava anzi che il
Voltaire a taluno che gli rimproverava una sgrammaticatura avesse
risposto: “Tanto peggio per la grammatica”. Ma conchiudeva: “Queste
libertà sono pe’ Sommi; per voi è meglio stare alla
regola”. Se dunque da quella scuola sono usciti scrittori pedanti,
“peccato è loro e non natural cosa”, e non colpa del marchese
Puoti.
Principal dote dello scrittore dovea essere la chiarezza. Quando in
certi periodi non si raccapezzava, “montava in bestia”, frase sua, e
rinnegava la pazienza e diceva: “ Non si può correggere;
meglio cassare e far da capo”. Attribuiva la poca chiarezza al
cattivo concepire, all’ignoranza della lingua, alla fretta, e se il
giovane non se ne chiamava in colpa, anzi teneva qualche difesa, lo
investiva di così bei modi di rimproverare toscani, che colui
non vedeva, non sentiva e non capiva più nulla e balbettava.
Diceva la chiarezza esser la base dello scrivere, ma sola esser come
l’acqua, senza sapore e senza odore. Voleva l’efficacia: così
chiamava tutte le altre qualità che danno vigore e nerbo e
colore, danno sangue allo stile. Quelli un po’ aridi e fiacchi li
chiamava defrigidis et maleficiatis, e talora diceva: “Manca
l’utero”. L’efficacia era in certe scorciatoie e rapidi trapassi, e
scelta di epiteti o di avverbii e spostamenti di parole che davano
all’aspetto non so che di peregrino e lontano dal volgare. I
più guasti da’ seminarii erano certi “abati”, così
chiamava il marchese i preti, che avevano imparato tutto il De
Colonia, avevano scritto molti panegirici, e si tenevano maestri e
stavano gonfi e pettoruti. Uno di questi tali venne a lui e disse: “
Ho fatto tutt’i miei studi e sono già maestro nel seminario.
Da voi non chiedo altro se non di apprendere un po’ di lingua,
sì che io impari a scrivere, per esempio, come Annibal Caro”.
Il marchese raccontava spesso quest’aneddoto. E raccomandò
l’abate a certi Anziani, i quali al primo lavoro ch’ei lesse gli
fecero tale pettinatura, che l’amico si rannicchiò e non si
fece più vivo. Il marchese aborriva il rettorico, il
declamatorio, il gonfio, il convulso, i concetti e le antitesi:
tendeva più verso l’Arcadia che verso il Seicento.
(…) Tale era il marchese ritratto così alla buona e alla
naturale, come m’è venuto in memoria. Aveva mente chiara e
giusta, ma anche a lui “mancava l’utero”. Aveva però qualche
cosa di più possente: aveva cuore. Spese tutta la vita per il
bene della gioventù, e in questo pose tutto se stesso, quanto
era in lui d’intelligenza e di passione e di ambizione. Ottenne
così maggiori effetti per il progresso degli studi, che non
molti altri di più ingegno.
Il difetto capitale di questa scuola non è difficile a
intendere, specialmente oggi. Vi si dava troppa importanza alla
parola come parola e alle parte meccanica dello scrivere come la
formazione del periodo. Né questo studio potea riuscire a
bene, segregato dal presente e dal vivo, e fondato sugli scrittori e
di parecchi secoli indietro, come si fa di una lingua morta.
Perciò criterii dello scrivere falsi e arbitrarii e mutabili,
spesso mera antipatia o simpatia. (…) Lo scrivere non era più
una produzione, ma una imitazione secondo certi preconcetti o
archetipi. E mi persuado come a quella ottima forma di scrivere
prestabilita giungessero anche i più mediocri, sol che
usassero diligenza, e come il marchese, a cui mancava il fiuto
dell’ingegno, li tenesse in quel pregio che i suoi più
valenti discepoli, come un abate Meledandri, un Pessolani, vivuti
senza infamia e senza lode.
Il marchese stesso confessava che una certa esagerazione era nella
sua scuola, e la scusava, come il frutto del grande amor suo a’
buoni studi, e diceva: “Chi ama esagera”. Stimava con ragione che
una ferrea discipilina fosse necessaria a svezzare la
gioventù dalle male abitudini contratte nelle scuole, che si
richiedevano rimedi così violenti com’era il male, che chiodo
ci vuole per trarre dall’asse il chiodo, e ch’egli facea come il
chirurgo che par crudele ed è pietoso. Il fatto è che
la sua scuola operò una compiuta trasformazione nella cultura
nazionale. Si cominciò a studiare un po’ meglio il latino ed
il greco; venne in voga lo studio delle cose italiane anche ne’
seminarii, si diffusero nelle più remote provincia gli
scrittori classici, sorsero qua e là scuole simili a quella
del Puoti, e in poco spazio non ci fu scienziato di qualche valore
che non cercasse di scrivere pulitamente. (…) La missione del
marchese era finita, lo scopo ottenuto, e quando io, suo discepolo,
uscii a dire in pubblica accademia che il purismo non avea
più ragione d’essere, perché aveva già vinto, e
che la questione non era più di lingua, ma di stile, il
brav’uomo se ne compiacque ed accettò la teoria per buona. Ma
quando fui a tirarne le conseguenze, si ribellò, o piuttosto
chiamò me un ribelle. Non di meno gli ebbi sempre tale
riverenza e devozione che gli screzii letterarii non furono
sufficienti a farmi cader dal suo animo, e presso a morte,
veggendomi accanto al suo letto, disse: “Tu sai ch’io ti ho sempre
amato”.
La ribellione non era altro che il naturale progresso della coltura
e del sapere che sopravvanza il maestro e gli arma contro i
discepoli. Grandi e libere scuole sono quelle nel cui seno germoglia
la ribellione, cioè a dire il progresso, come grandi e libere
società sono quelle in cui niente stagni e tutto si mova
naturalmente. Il marchese, non che a dispiacersi, doveva applaudirsi
di questo fatto, che la ribellione non venne dal di fuori, ma dalla
sua scuola, dal suo metodo, da lui stesso che ci aveva educati e
posti in noi germi preziosi che dovevano fruttificare. Ma gli uomini
sono così fatti. E fu suo dolore quello che era sua gloria.