IL PENSIERO GIOBERTIANO E I SUOI OPPOSITORI
da http://cronologia.leonardo.it/storia/a1846b.htm
Fra i tanti arrestati, il 20 maggio 1833- dopo la scoperta a
Torino della cospirazione mazziniana - c'era anche l'abate
VINCENZO GIOBERTI, cappellano di corte di Carlo Alberto. La sua
imputazione era quella di essere l'autore (anche se figurava sotto
lo pseudonimo "Demofilo") di una lettera pubblicata nel sesto
fascicolo della "Giovine Italia", col titolo "Della repubblica e
del cristianesimo". Essendo un ecclesiastico e per la dimostrata
estraneità all'associazione mazziniana, Gioberti non fu
processato, ma i sospetti sul suo conto rimasero, e quindi lo s'
"invitò" a lasciare sia la corte sia lo stesso Piemonte.
Vincenzo Gioberti era nato a Torino nel 1801. Dottore in teologia
nel 1823, nel 1825 nominato sacerdote.
Anche se collaborò con la rivista "Giovine Italia", non vi
era iscritto; la sua affiliazione ad una società segreta
era del 1830, ma era nelle file di quella d'orientamento
liberal-moderato dei "Cavalieri della Libertà".
All'inizio del 1833 era stato appena nominato cappellano di corte.
L'esilio lo trascorse dapprima a Parigi, poi dal 1834 a Bruxelles,
dedicandosi all'insegnamento e agli studi filosofici e politici.
Negli uni e negli altri -era del resto un sacerdote- esaltava
nella Chiesa la fonte dei valori morali e sociali essenziali al
progresso dell'umanità. Questo significa che si pronunciava
contro l'iniziativa rivoluzionaria popolare sostenuta da MAZZINI;
prendeva le distanze dal suo giovanile orientamento repubblicano,
elaborava riflessioni sulla situazione italiana, e compilava
scritti ferraginosi, ricchi d'efficaci slanci oratori, tuttavia
accolti con atteggiamenti di riserva da parte dei liberali-
moderati, e dagli altri più accesi con molti rimproveri, e
i maggiori erano quelli che Gioberti non condannava mai il (ormai
palese) malgoverno dello Stato della Chiesa; non trattava lo
spinoso problema austriaco; e non era credibile quando voleva
attribuire il ruolo propulsore ("essenziali al progresso
dell'umanità") ad un papa (c'era allora l'ottantenne
Gregorio XVI !!) e soprattutto ai vescovi e cardinali tutti
prigionieri di un'ottica estremamente conservatrice, reazionaria,
e tutti filo-austriaci, con gli Asburgo che in quanto ad
assolutismo avevano rimpiazzato i defunti Capeti.
Lasciamo queste note, e inoltriamoci negli stessi scritti del
Gioberti:
(che riportiamo fedelmente e letteralmente nella sua originale
sintassi)
"Voi credete - Scriveva il Gioberti nel settembre del 1834 al
Mazzini (mese con l'invito ad abbandonare il Piemonte) - che uno o
più tentativi parziali di una rivoluzione italiana possano
rivolgere le sorti della penisola con le sole forze degli
Italiani, senz'altro concorso, voi a quest'effetto fate grande
affidamento nei fuorusciti; e quindi giudicate che ci dobbiamo
appigliare a questo partito, ogni qualvolta ne venga il destro,
senz'altra considerazione sulle cose d'Europa.
Io al contrario sono dell'opinione che le invasioni armate dei
fuorusciti, salvo casi rarissimi e non applicabili all'odierna
Italia, non possono aver buon successo, e che non riuscendo, i
loro effetti siano ad ogni modo calamitosi .... Voi dite inoltre,
se vi ho bene inteso, che le mosse, ancorché sventurate,
sono utili per istruire il popolo, il quale, non potendosi ormai
con le parole e con i libri, si deve addottrinarlo con le azioni.
Non vi nego affatto questo genere d'utilità, e di
più vi confesso che, secondo la mia opinione, anzi
dirò, la mia religione, ogni qual volta un disegno è
effettuato, cioè divenuto un fatto, io riconosco in esso un
beneficio della Provvidenza, che sa per vie incomprensibili dalla
mente umana condurre a bene eziandio le calamità. E fra i
vantaggi osservabili da noi, derivanti da simili imprese, ha luogo
quello che voi accennate, come pure quel rigido grido di giustizia
e di vendetta che si leva dal sangue innocente contro di quelli
che lo versarono. Nientemeno, siccome noi nel governarci dobbiamo
pesare i beni con i mali, e l'utile con il danno, nel caso di cui
discorriamo credo questo di gran lunga maggiore.
I tentativi falliti di rivoluzione indeboliscono ancor più
le vie e spaventano i fiacchi ed i buoni, scemano il numero dei
forti, avvalorano i malvagi, scoraggiano l'universale e porgono ai
principi e ai governi occasione giustificata non solo
d'incrudelire ma di restringere e annullare al possibile quei
mezzi d'istruzione che in una civiltà rozza e debole come
la nostra sono pure di tanto rilievo".
Questa lettera ci mostra alcuni punti soltanto il dissenso tra il
pensiero politico del Mazzini e quello del Gioberti; ma ve ne sono
altri e più importanti. Il Mazzini è unitario e
rivoluzionario, il Gioberti federalista e riformista; Mazzini
è repubblicano, Gioberti sogna a capo della federazione il
Pontefice; il primo rimane prigioniero del suo sogno utopistico,
il secondo si tiene piuttosto a contatto con la realtà.
Quale era il suo pensiero politico VINCENZO GIOBERTI lo
indicò nel suo famoso libro intitolato "Il Primato morale e
civile degli Italiani", pubblicato nel 1843, che è
glorificazione appassionata del genio della stirpe italica,
dimostrazione della superiorità italiana nella storia della
civiltà, incitamento formidabile agli Italiani oppressi ad
operare con virilità per riacquistare la libertà e
la grandezza e, infine, indica un vasto programma politico di una
larga corrente di riformisti che saranno in breve tempo i seguaci
del cosiddetto "neoguelfismo".
La tesi giobertiana è questa: l'Italia, che nel medioevo
aveva moralmente e civilmente dominato il mondo grazie alla Chiesa
Cattolica e con il Papato, doveva tornare maestra di
civiltà stringendosi intorno alla Santa Sede in una
federazione nazionale di Stati presieduta dal Pontefice.
Non rivolta di popoli contro i principi, ma l'accordo tra i
principi e i popoli, non lotta tra Nazione e Papato, ma concordia,
armonizzazione, tra quella e questo, non utopie unitarie e
repubblicane, non congiure e sommosse, ma lega nazionale, e savie
riforme liberali. Era una prospettiva (anche quest'utopistica) che
offriva una riconciliazione nazionale da opporre alle aspirazioni
rivoluzionarie dei democratici.
Concludendo l'opera sua, il Gioberti contempla, quasi rapito in
estasi, l'immagine dell'Italia quale l'ha costruita con il
desiderio e con l'amore di figlio:
(riportiamo qui fedelmente il passo in questione)
"E qual più bello spettacolo può affacciarsi alla
mente di un Italiano, che la sua patria una, forte, potente,
devota a Dio, concorde e tranquilla in se medesima, rispettata e
ammirata dai popoli? Quale avvenire si può immaginare
più beato? Quale felicità più desiderabile?
Se per creare questa famosa Italia fosse d'uopo esautorarne i suoi
presenti e legittimi possessori, o ricorrere al triste partito
delle rivoluzioni, o al tristissimo e vergognosissimo espediente
dei soccorsi stranieri, la bontà dell'effetto non potrebbe
giustificare l'iniquità dei mezzi, e la considerazione di
questi basterebbe a contaminare ed avvelenare il conseguimento del
fine. Ma nessuna di queste idee torbide, nessuna di queste
speranze colpevoli rattrista il mio dolce sogno. Io m'immagino la
mia bella patria: una di lingua, di lettere, di religione, di
genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di
accordo pubblico e privato fra vari stati ed abitanti, che la
compongono. Me la immagino poderosa ed unanime per un'alleanza
stabile e perpetua dei suoi cari principi, la quale accrescendo le
forze di ciascuno di essi con il concorso di quelle di tutti,
farà dei loro eserciti una sola milizia italiana,
assicurerà le soglie della penisola contro gli impeti
stranieri, e mediante un naviglio comune, ci renderà
formidabili anche sulle acque e partecipi con gli altri popoli
nocchieri al dominio dell'oceano.
"Io mi rappresento la festa e la meraviglia del mare, quando una
flotta italiana solcherà di nuovo le onde mediterranee, e i
mobili campi del pelago usurpati da tanti secoli, ritorneranno
sotto l'imperio di quella forte e generosa schiatta che ne tolse o
loro diede il suo nome. Veggo (vedo - Ndr.) in questa futura
Italia risorgente fissi gli occhi di Europa e del mondo; Veggo le
altre nazioni prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da
essa per un moto spontaneo i principii del vero, la forma del
bello, l'esempio e la norma del bene operare e dal sentire
altamente. Veggo i rettori de' suoi vari stati e tutti gli ordini
dei cittadini, animati da un solo spirito, concorrere
fraternamente per diversi modi alla felicità della patria,
e gareggiare fra loro per accrescerla, per renderla stabile e
perpetua. Veggo i nobili ed i ricchi dignitosamente affabili,
cortesi, manierosi, moderati, pii, caritatevoli non apprezzare i
privilegi del loro grado, se non in quanto agevolano l'acquisto di
quelli dell'ingegno e dell'animo, porgendo loro più ampi e
frequenti occasioni che esercitare ogni virtù privata e
civile, di beneficare i minori, di attendere al culto e al
patrocinio efficace delle buone arti, del sapere e delle lettere.
Veggo i chierici secolari gareggiare con i laici di amore, per
nobili studi, eziandio i profani, e di zelo per il pubblico bene:
consigliare, favorire, promuovere i progressi ragionevoli e
fondati, con quella riserva e moderazione che si addice alla
santità del loro ministero; abbellire con la decorosa
piacevolezza dei modi la severità dei costumi illibati;
fuggire persino l'ombra dell'intolleranza, dell'avarizia, della
simulazione, delle cupidigie mondane, delle brighe scolaresche, di
tutto ciò che sa di gretto, di angusto, di vile, di
meschino; rivolgersi per gli ospizi di carità e di
beneficenza, per gli alberghi della dottrina, frequentare gli
ospedali, le carceri, i tuguri dei poveri, non meno che le scuole,
i musei, le biblioteche, le radunate dei sapienti, e coltivare,
insomma con pari ardore ed assennatezza tutto ciò che
ammaestra, nobilita, adorna, consola e migliora in qualche modo
l'umana vita... Veggo i giovani .... solleciti di rinnovare in se
stessi i costumi degli antichi avi piuttosto che quelli dei propri
padri; attendere indefessamente agli studi, fuggire l'ozio, la
dissolutezza, i vani spettacoli, i donneschi trastulli, ....
indurire, esercitare e non accarezzare il corpo, per renderlo
ubbidiente all'animo, forte agli assalti, tollerante alle
privazioni, e indomito ai travagli; ....Veggo gli scrittori consci
del grave e sublime ministero loro commesso dal cielo, non far
delle lettere strumento di lucro, di ambizione, di potenza a
proprio vantaggio, ma di virtù, di cultura, di religione a
pro dell'universale; ....Veggo i principi essere gli amici, i
benefattori, i padri dei loro popoli .... E per effettuare tutti
questi beni nel presente e assicurarli all'avvenire, io veggo i
rettori d' Italia porre mano a quelle riforme civili, che sono
consentite dalla prudenza e da ragion di stato, e conformi ai voti
discreti della parte più sana della nazione…. Veggo
protette, onorate, prosperanti l'agricoltura, le industrie, le
imprese commerciali, le arti meccaniche, le arti nobili, le
lettere, le scienze…. Veggo l'educazione e l'istruzione pubblica
in fiore, e la libertà individuale di ogni cittadino
così inviolabile e sicura sotto l'egida del principato,
come sarebbe nelle migliori repubbliche….Veggo infine la religione
posta in cima di ogni cosa umana; e i principi, i popoli gareggiar
fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice,
riconoscendolo non solo come successore di Pietro, vicario di
Cristo e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere
della confederazione italiana, arbitro fraterno e pacificatore di
Europa, istitutore e incivilitore del mondo, padre spirituale del
genere umano, erede e ampliatore naturale e pacifico della
grandezza latina.
"E quindi mi rappresento assembrata ai suoi piedi e benedetta
dalla sua destra moderatrice la dieta d'Italia e del mondo e
m'immagino rediviva in questo doppio e magnifico concilio, assiso
sulle rovine dell'antica Roma, quella curia veneranda, che grava
le sorti delle nazioni, e in cui il discepolo di Demostene
ravvisava non una congrega di uomini, ma un consesso di immortali.
Così mi par di vedere il bene pubblico finalmente d'accordo
con il privato, e la felicità d' Italia composta con quella
degli altri popoli, sotto il patrocinio di un supremo ed unico
conciliatore; e quindi spento con questa beata concordia ogni seme
di guerre, di sommosse, di rivoluzioni. Laonde io mi rincuoro
pensando che la nostra povera patria, devastata tante volte dai
barbari e lacerata dai suoi propri figliuoli, sarà libera
da questi due flagelli, e poserà, prosperando, in dignitosa
pace.
"Non vi sarà più pericolo che un ipocrita od
insolente straniero la vinca con insidiose armi, la seduca,
l'aggiri con bugiarde promesse e con perfide inclinazioni, per
disertarla colle sue forze medesime e metterla al giogo; tanto che
ella non vedrà più le sue terre rosseggiare di
cittadino sangue, né i suoi impavidi e generosi figli
strozzati dai capestri, bersagliati con le palle, trucidati dalle
mannaie, e esulanti miseramente in estranee contrade. Ché
se pur toccherà qualche volta ai nostri nipoti di piangere,
le loro lagrime non saranno inutili, e saranno alleviate dalla
carità patria e dalla speranza; perché essi sapranno
di dover combattere solamente con i barbari, e a ricevere,
occorrendo, la morte dalla spada nemica, non da un ferro
parricida. Questa certezza renderà dolci le più
amare separazioni, quando al grido di guerra correranno i prodi
sul campo; e spargerà di soave conforto gli amplessi dei
vecchi padri e delle madri, e i baci delle tenere spose e l'ultimo
addio dei fratelli. E i morenti potranno beare il supremo loro
sguardo nel cielo sereno della patria, o quando ciò sia
negato, consolarsi almeno pensando che le stanche loro ossa
avranno il compianto dei cittadini, dei congiunti, degli amici, e
non giaceranno dimenticate né illacrimate in terra
straniera".
Sebbene il Gioberti non precisasse "come" si sarebbe dovuta
effettuare la federazione e lasciasse insolute (perché non
lo discusse) parecchie importantissime questioni del problema
nazionale, pure il suo programma gli guadagnò un gran
numero di consensi, specie tra i moltissimi che stavano lontani
dalle violenze, tra quelli che giudicavano pericolose le
rivoluzioni, tra quelli che non avevano più fiducia nelle
sommosse e tra tutti coloro che, pur amando la patria e
desiderando la sua resurrezione, temevano uno sconvolgimento
politico e un'offesa alla loro fede cattolica. Accolsero inoltre
il programma giobertiano (che non chiedeva grandi sacrifici a
nessuno), tutti gli amanti delle facili conquiste: il granduca
LEOPOLDO II, CARLO ALBERTO che assegnò al Gioberti una
pensione annua, parecchi porporati, quali il GIZZI, il CIACCHI, il
TARDINI, l' OPIZZONI, l' AMAT e il MASTAI-FERRETTI (futuro Pio IX,
nel '46), e infine il basso clero, che trascinò le plebi
rurali, devote alla Chiesa e alle dinastie "regnanti con il
"diritto divino"".
Ci dobbiamo ripetere, ma questo era il concetto del Gioberti
ancora nel 1848:
"….il diritto del Principe è divino ("Unto dal Signore"),
poiché risale a quella sovranità primitiva onde
venne organato ed istituito il popolo di cui regge le sorti...La
sovranità si riceve, ma non si fa e non si piglia...Ella
importa la sudditanza, come un necessario correlativo; e il dire
che il sovrano possa essere creato dai suoi soggetti, e trarne i
diritti che lo privilegiano, include contraddizione. Insomma, il
sovrano è autonomo rispetto ai sudditi, e se ricevesse da
loro l'autorità sua, non sarebbe veramente sovrano,
perché i suoi titoli ripugnerebbero alla sua origine... I
sudditi dipendono dal sovrano, e non viceversa...L'obbligazione
verso il sovrano dee dunque essere assoluta, altrimenti la
sovranità è nulla..."La potestà è
ordinata, e da Dio procede", come allude l'Apostolo (Paul. ad
rom., XII,1,2). Sapete donde nasce il più grave pericolo?
Dal predominio della plebe, la quale promette una seconda barbarie
più profonda di quella dei Vandali e degli Unni e un
dispotismo più duro del napoleonico. Guai alla
civiltà nostra se la moltitudine prevalesse negli Stati". -
(Vincenzo Gioberti, Storia della filosofia, cap. Della politica,
vol III, Tipografia Elvetica, Capolago 1849 - Prima edizione, che
chi scrive, possiede).
Gli oppositori al "Primato" naturalmente non mancarono. Da un lato
i governi del LombardoVeneto (austriaco), dello Stato Pontificio e
delle Due Sicilie proibirono il "Primato", dall'altro attaccarono
il Gioberti i mazziniani e gli anticlericali, mentre G. B.
NICCOLINI, a difendere il pensiero neoghibellino, pubblicava
l'"Arnaldo da Brescia" e il GIUSTI satireggiava acutamente il
neoguelfismo con "Il Papato di Prete Pero" e il "Ponziamo il poi".
Ma quelli che si scagliarono più aspramente contro il
Gioberti furono i Gesuiti, i quali coi loro attacchi provocarono
una fiera risposta del filosofo torinese, che nel 1845
pubblicò i "Prolegomeni al Primato":
"Giunta è l'ora - diceva - in cui l'Italia non vuol
più essere lo zimbello e lo scherno d'Europa, non vuol
più cedere in potenza ed in fiore a nessuno degli Stati che
la circondano".
Quindi con calda eloquenza si scagliava contro l'Austria e il re
delle Due Sicilie, il cui dispotismo era inconciliabile con la
libertà e la civiltà, e a quest'ultimo rimproverava
il martirio dei fratelli Bandiera; assaliva vigorosamente i
Gesuiti, favorevoli al dispotismo più per desiderio di
potere temporale che non di dominio spirituale, e i più
responsabili (come consiglieri) del malgoverno dei principi e del
Papa; augurava la fratellanza del chiericato con il laicato civile
ed auspicava la grandezza e la libertà della patria che non
potevano mancare se concordemente volute da tutti gli Italiani.
Grandissimo fu il successo dei "Prolegomeni" che attirarono
sull'autore le ire violentissime dei Gesuiti. In difesa di costoro
sorsero padre FRANCESCO PELLICO, fratello di Silvio, padre ROMANO,
padre LUIGI TAPARELLI, fratello di Massimo d'Azeglio, e il padre
CARLO CURCI.
Dopo gli attacchi il Gioberti si mise a scrivere il "Gesuita
moderno", dove con impeto e calore, ma con prolissità e
un'asprezza eccessiva, censura la dottrina e la pratica dei
Gesuiti e i loro sistemi educativi che avevano favorito il
distacco dell'azione dal pensiero.