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di Bruno Bongiovanni
sommario: 1. Prologo in Russia. 2. Populismo russo e socialismo. 3.
Farmers americani e populismo individualistico. 4. Peripezie europee
di un concetto. 5. Dal populismo urbano al populismo senza popolo. □
Bibliografia.
1. Prologo in Russia
Il termine 'populismo' corrisponde alla parola russa narodničestvo,
la quale, a sua volta, deriva da narod, ovverossia 'popolo'. La
parola russa cominciò a essere utilizzata intorno al 1870, e
ancor più intorno al 1875. Nello stesso periodo si diffuse in
Russia anche il termine narodnik, ovverossia 'populista'. Negli anni
settanta dell'Ottocento, d'altra parte, il movimento cui faceva
riferimento la nuova parola, sino ad allora un insieme senza nome di
vigorose personalità, di agguerrite teorie politico-sociali e
di realtà oggettive dotate di un peculiare profilo
strutturale, assunse con forza una visibilità e una
vitalità che lo rendevano in qualche modo al suo interno
omogeneo, distinguendolo con nettezza dal restante movimento
socialista europeo. Prima di quella particolare congiuntura si era
parlato, a proposito dei personaggi che saranno poi
storiograficamente ricompresi appunto nel narodničestvo, di
democratici, di radicali, di socialisti, di comunisti, e addirittura
di 'nichilisti' (o 'nihilisti'): un termine, quest'ultimo, che ebbe
una gran fortuna internazionale, e non solo politica, ma ancor
più psicologico-culturale, e talvolta fuorviante rispetto al
significato originario, dopo la pubblicazione, nel 1862, del romanzo
di Turgenev Padri e figli.
Gli anni settanta, quelli che dettero un nome al fenomeno, si
aprirono del resto proprio con la morte di Herzen, l'uomo che,
nell'esilio, aveva rappresentato il movimento democratico e
socialista russo; proseguirono poi con il compimento, in ambito
processuale, del torbido affare Nečaev, con la sconfessione di
quest'ultimo e con il conseguente isterilirsi della tentazione
meramente settario-cospirativa; con il grande movimento dell''andata
al popolo' e con la propaganda degli studenti nelle campagne
(1874-1877), fenomeni che contribuirono di fatto a diffondere in
modo capillare la parola e a trasformarla in un concetto politico e
in un appello all'azione pratica. Si arrivò poi, proprio
nell'anno della morte di Bakunin (1876), alla formazione della prima
organizzazione rivoluzionaria panrussa, la Zemlja i volja; in
seguito, nel 1879, avvennero la scissione che la lacerò e la
nascita della Narodnaja volja, la cui febbrile deriva terroristica
culminò nel 1881 con l'uccisione di Alessandro II, lo zar
'liberatore'. Questo avvenimento, a causa della repressione che ne
seguì, provocò una crisi profonda nel movimento
rivoluzionario russo, concludendone di fatto un'intera stagione.
Franco Venturi, storico insuperato delle idee, dei programmi e
dell'intera parabola storica dei populisti russi, ha giustamente
retrodatato la vicenda storica del populismo al 1848. Nella sua
persuasiva e ormai unanimemente accettata periodizzazione del
fenomeno l'intero scenario evocato dal termine narodničestvo si
estende elasticamente nel tempo in due direzioni, vale a dire
all'indietro appunto verso il 1848, e in avanti verso i nuovi
sviluppi del movimento socialista russo, un movimento segnato
profondamente, e per sempre, anche nella fase bolscevica, nonostante
le roventi polemiche e le aspre ripulse, dall'esperienza
populistica. La fortuna del termine in questione, a partire dal
terreno strettamente semantico-lessicale, è stata infatti
tenuta in vita e ulteriormente dilatata, dopo l'eclisse dei primi
anni ottanta, proprio dalla critica di quei socialisti russi,
talvolta riparati in Occidente, che facevano riferimento ai
programmi politici della socialdemocrazia europea e che si trovavano
tuttavia costretti a confrontarsi, e a venire inevitabilmente a
patti, con i problemi ineludibili, e di fatto insormontabili, posti
dalle tutt'altro che esaurite ragioni sociali e strutturali che
avevano disegnato l'originale fisionomia del movimento populista
russo. Tali ragioni, malgrado l'ormai iniziata industrializzazione
in aree limitate dell'immenso Impero, avevano pur sempre a che fare
con l'estesissima arretratezza precapitalistica, complicata e non
sanata dall'emancipazione dei servi del 1861, con la persistente
centralità assoluta del mondo rurale, e con la forma
"semi-asiatica e semi-feudale", secondo la definizione di Marx, del
sistema zarista di potere e di controllo sociale.
È comunque con il fallimento in Occidente delle rivoluzioni
democratiche del 1848-1849 che si può far datare l'inizio di
un approccio 'populistico' allo sviluppo delle idee rivoluzionarie
in Russia, un approccio che sempre, sul terreno culturale come su
quello politico, è stato innescato da una risposta alle sfide
vincenti (lo sviluppo), o anche alle sfide abortite (l'avvento della
democrazia), delle aree geoeconomiche considerate storicamente
più evolute. Dopo aver letto i risultati, pur animati da
forte spirito conservatore, del viaggio-inchiesta in Russia del
barone prussiano Haxthausen, e dopo aver ritenuto praticamente
esaurita, nel 1849-1850, la spinta propulsiva della dinamica
democratica e socialista in Occidente, fu Herzen che cominciò
a individuare nel patrimonio comunitario dei contadini russi, vale a
dire nella comune rurale spontaneamente e non artificialmente
collettivistica (l'obščina), il punto di partenza della
rigenerazione sociale - e morale - in Russia. Nell'Impero zarista la
strada verso la redenzione doveva così restare, rispetto
all'Europa occidentale, rigorosamente autonoma e rispettosa della
propria specificità. Poteva anzi essere la Russia, e non
viceversa, a indicare al mondo sviluppato, pur superiore quanto a
risorse materiali, la via della soluzione democratica e popolare
della questione sociale: ex Oriente lux.
Ed ecco profilarsi i fondamenti essenziali dell'identità del
movimento socialista-populista russo, un'identità in gran
parte costruita nell'ambito del confronto-contrasto con la
realtà economico-industriale europea e con il panorama
sociale proletarizzato che ne era scaturito. La presunta
arretratezza non era realmente tale: per i populisti rivoluzionari,
che si trovavano per questo aspetto in sintonia con l'orgoglio
'grande-slavo' o addirittura panslavista dei pur reazionari
'slavofili', si trattava di una differenza strutturale e di una via
peculiare che poteva e doveva, tra l'altro, consentire di evitare le
forche caudine e le peripezie sociali dello sviluppo capitalistico,
quello sviluppo che per i socialisti occidentali si poneva invece
come una tappa intermedia ineludibile, nonché produttrice di
enorme ricchezza collettiva e anche di irrinunciabili spazi di
libertà. Il territorio da cui far partire la battaglia per
un'emancipazione futura, che equivaleva di fatto alla restaurazione
della pienezza del comunismo rurale, non era la città, ma la
campagna, non l'industria anonima e spersonalizzante, ma il mondo
patriarcale e fortemente coeso della produzione rurale associata.
Il soggetto rivoluzionario per eccellenza era di conseguenza
costituito dai contadini, che si identificavano in toto appunto con
il popolo e con la virtuosa morale comunitaria che lo
contraddistingueva, e non dagli operai, consustanziali - tanto da
esserne il prodotto più clamorosamente visibile - con il
processo capitalistico-borghese, un processo che corrompeva i
costumi imborghesendoli con miraggi mercantili, divideva la
comunità, degradava il tessuto sociale, creava individui e
individualismi, allontanava dalle radici profonde, e naturali, della
vita collettiva. Il socialismo, o il comunismo, non erano l'esito
più o meno inevitabile, il rovesciamento-inveramento, da
attuarsi con le riforme o con la rivoluzione, della dinamica
capitalistica giunta alla sua feconda maturità, ma esistevano
da tempo nell'organizzazione sociale e nel grembo antico delle
istituzioni comunitarie russe, tanto da esserne diventati una sorta
di codice genetico. Il che fare non consisteva, infine,
nell'assecondare lo sviluppo storico, presunto alleato
nell'Occidente della causa dell'emancipazione operaia, in attesa
della conquista della democrazia da parte dell'immensa maggioranza
proletarizzata (e quindi potenzialmente e a posteriori socialista),
ma nel liberare l'immensa maggioranza contadina, già
socialista a priori, dalle sovrastrutture parassitarie, in primo
luogo dallo zarismo autocratico-liberticida e dall'aristocrazia
fondiaria, con il risultato di lasciar spontaneamente scorrere in
superficie il libero fiume incorrotto di un universo contadino e
popolare messo finalmente nelle condizioni di obbedire, invece che a
padroni esogeni e dispotici, alla propria natura.
Se lo sviluppo industriale era dunque in Occidente l'alleato
dell'emancipazione operaia e della marcia verso il socialismo,
nell'Europa orientale, per i populisti, esso era considerato la
possibile causa di un deragliamento strutturale che, con esiti
irreversibilmente antisocialistici, avrebbe potuto anche inquinare e
nel tempo demolire il comunismo contadino autoctono. A questo
proposito, anche se in chiave decisamente critica, e non certo
apologetica, Jules Michelet - in un passo pubblicato nel 1854
all'interno delle Légendes démocratiques du Nord, ma
scritto nel 1851, immediatamente dopo la lettura di Herzen -
confermava che l'essenza della vita russa, in virtù della
distribuzione della terra da parte della comunità rurale, era
"il comunismo", un comunismo sorvegliato e promosso
dall'autorità del signore feudale: la forza della Russia, per
Michelet, analoga per certi versi a quella degli Stati Uniti,
consisteva in una "specie di legge agraria", ossia nella
"distribuzione della terra a tutti i sopravvenienti". Il confronto
con gli Stati Uniti, del resto, non era certo una novità, e
lo stesso concetto di populismo uscirà ulteriormente
approfondito e reso più complesso, alla fine del XIX secolo,
dall'esperienza americana. Non solo Tocqueville, infatti, nella
celebre chiusa della prima parte de La démocratie en
Amérique, aveva profetizzato (in America nella
libertà, in Russia nella schiavitù) un vitale destino
di contiguità tra le due nazioni 'popolari' per eccellenza,
ma lo stesso 'slavofilo' Kireevskij, amico di Herzen, nel 1830,
cinque anni prima di Tocqueville, aveva identificato nei Russi e
negli Americani, in quanto popoli giovani e non logorati, i soli due
soggetti dello scenario internazionale salvatisi dal generale
rilassamento dei costumi subìto dall'umanità
civilizzata.
2. Populismo russo e socialismo
L'esaltazione del popolo, racchiuso in una sorta di fissismo sociale
che predisponeva forme di resistenza contro l'invadenza
traumatizzante della storia, nonché erede e depositario della
forma organica e armonica per eccellenza della convivenza,
richiedeva tuttavia la predicazione, o anche l'agitazione
rivoluzionaria introdotta dall'esterno, da parte di un ceto sociale
largamente presente in Russia, non di rado privo di un'occupazione
stabile, spesso frustrato (soprattutto dopo la Rivoluzione francese)
e psicologicamente attratto-respinto dall'Occidente, vale a dire
l'intelligencija, parola nata significativamente negli anni
sessanta, con qualche anticipo sul termine narodničestvo. Il popolo
contadino, infatti, in ragione dell'oppressione che subiva e delle
condizioni miserevoli in cui, anche sul piano spirituale, si
trovava, era comunista e non sapeva di essere tale. Non aveva
cioè conoscenza dell'enorme potenziale di liberazione
imprigionato nell'obščina, e cioè in quelle istituzioni che
pure costituivano la forma della sua vita sociale quotidiana.
Occorreva accostarlo, trovare un linguaggio comune, risvegliarlo,
indirizzarne nella giusta direzione le pulsioni di rivolta,
scuoterlo con azioni esemplari, non esclusa, nei momenti di
particolare disperazione, l'arma estrema del terrorismo. Occorreva
insomma convincerlo che il comunismo era lì, non restava che
afferrarlo. Narodnik, populista, non era del resto l'uomo del
popolo, vale a dire il contadino russo, la cui autoevidenza
'popolare' non aveva infatti bisogno di ulteriori specificazioni, ma
il militante proveniente dalle file dell'intelligencija che incitava
il popolo a diventare consapevolmente ciò che esso già
era. Emergeva qui una costante di ciò che sarà, in
contesti certo diversi, il pur variegato concetto di populismo, un
costrutto concettuale che aveva e ha tuttora a che fare non tanto
con le presunte caratteristiche specifiche del popolo, quanto con la
relazione che si viene a creare tra tali caratteristiche (esposte
come fatti e come valori) e i soggetti esterni, o anche interni (ma
autonomizzatisi), i quali, con motivazioni diverse, intendevano e
intendono valorizzarle, portarle alla luce, rappresentarle,
organizzarle, mobilitarle. Il protobolscevismo leninista, all'inizio
del XX secolo, senza volgere formalmente le spalle allo schieramento
socialdemocratico internazionale, seppe, universalizzandola, e
riferendola al proletariato, dare sostanza teorico-politica proprio
a questa relazione.
D'altra parte, un'aporia di partenza, probabilmente ineliminabile,
risiede nel concetto stesso di 'popolo', nell'accezione in cui
questo termine viene comunemente inteso e usato. I Romani,
com'è noto, avevano escogitato la formula Senatus Populusque
Romanus, a testimonianza del fatto che il popolo era una delle due
componenti, quella plebea, della Respublica romanorum. Tale
componente era naturalmente di gran lunga la più numerosa e
il principato, dopo il crepuscolo della repubblica, fu anche la
risposta cesaristica alle lacerazioni generate dall'antagonismo tra
le due componenti. Nel mondo moderno e contemporaneo, tuttavia, il
'popolo' sin nelle stesse costituzioni - frutto, queste ultime,
dell'istituzionalizzarsi della sfida lanciata dal liberalismo e
dalla democrazia - diventerà la totalità della
popolazione, resa compatta in taluni casi dal concetto forte di
'nazione', e il luogo sociale-universale da cui, legittimando il
potere, verranno fatte scaturire la sovranità e la
rappresentanza. Esso non smarriva però, neppure sotto il
profilo semantico-lessicale - soprattutto in talune circostanze, e
in taluni contesti storici - la sua originaria parzialità, la
sua dimensione assiologica, il suo passato e il suo presente di
generica subalternità, e infine la sua aprioristica e
compatta organicità, contrapposta alla complessità
policlassistica delle società moderne e nel contempo alle
formazioni oligarchiche germinate dal potere politico-amministrativo
e dal denaro.
L'ambiguità derivava dal fatto che il 'popolo' era, insieme,
la collettività dei cittadini (un concetto giuridico-politico
che privilegia l'inclusione di tutti i soggetti della 'nazione') e
la collettività dei produttori (un concetto sociopolitico, si
pensi al Terzo stato di Sieyès, che può fondarsi
sull'esclusione degli 'oziosi', ma anche, talora, dei cosiddetti
parassiti, dei politicanti, degli intellettuali, dei 'borghesi',
soprattutto di quelli che vivono della mediazione, come, in un noto
stereotipo, gli ebrei, ecc.). Non sempre, ovviamente, le due
collettività poterono identificarsi. Il 'popolo' fu
così, di volta in volta, o contemporaneamente, il 'tutto' e
la 'parte', tanto che chi non veniva identificato con il popolo -
concetto dotatosi nel romanticismo e in genere nel XIX secolo di una
dimensione religiosa o addirittura mistica - poteva essere ritenuto
estraneo, straniero, alieno e anche nemico. Il populista,
così, poté essere talora colui che, in nome dei valori
originari e preesistenti del popolo, enfatizzava prima la percezione
che il popolo aveva di se stesso come 'parte' larghissimamente
maggioritaria e purtuttavia insidiata nelle sue prerogative e
addirittura nella sua identità, valorizzava poi la protesta
collegata a tale percezione e spingeva infine la 'parte' ad
autoconsiderarsi come 'tutto' e a sentirsi integrata con le proprie
istituzioni originarie, con i programmi diffusi dal populista
stesso, o anche, in talune esperienze novecentesche, con lo Stato e
con le élites al potere, soprattutto con quelle recenti di
origine 'plebea'.Tutto ciò, pur partendo dall'esperienza
russa, ha tuttavia a che fare con la deriva che ebbe il concetto di
populismo in generale, identificabile, in quanto tale, non con una
dottrina sistematizzata una volta per tutte, ma piuttosto con un
atteggiamento politico, e mentale, cangiante nel tempo e nelle
diverse realtà territoriali.
Che cosa fu invece il populismo russo realmente esistito? Che cosa
rappresentò nella storia della Russia? Numerose e autorevoli
sono state le risposte fornite dalla storiografia a queste domande.
Per Venturi e per Berlin esso fu sostanzialmente un'occasione
mancata, e anche autoritariamente soffocata (dallo zarismo e dal
bolscevismo), tanto da rappresentare la possibilità non
realizzatasi di uno sviluppo democratico e liberale del movimento
socialista russo, parte integrante, pur nella sua
specificità, del movimento socialista europeo del XIX secolo.
Per Gerschenkron, invece, che fece della sua conclamata differenza
una sorta di modello esemplare, il populismo russo fu un
fondamentale e 'rivelatore' capitolo della storia delle ideologie in
una situazione di arretratezza. Per altri ancora, come Strada (v.,
1971), esso fu il movimento che conferì una "logica", cui si
affiancò la "storicità" marxiana, al successivo
movimento rivoluzionario russo, e in particolare al bolscevismo di
Lenin. La questione della continuità (oggettiva) o della
discontinuità (soggettiva e oggettiva) tra populismo e
bolscevismo è d'altra parte, da tutti i punti di vista,
assolutamente ineludibile.
Diverse furono, del resto, le anime del populismo russo:
aristocraticamente liberale e democratica quella di Herzen;
anarco-ribellistica e antitedesca quella di Bakunin;
democratico-utopistica e letterariamente 'realistica' quella di
Belinskij; legata a intellettuali di rango sociale declassato e
portatori di radicalità crescente quella di Černyševskij e di
Dobroljubov (i cosiddetti 'nichilisti'); neogiacobina quella di
Tkačëv; internazionalistica quella di Lavrov; e così
via, sino al tenebroso Nečaev, agli intransigenti, ai terroristi, ma
anche, dopo la crisi del 1881, sino ai populisti liberali o 'legali'
(Daniel'son e Michailovskij) da una parte e, dall'altra, al
raggruppamento Čërnyi peredel, sorto nel 1879. Quest'ultimo,
favorevole all'azione politica, costituirà il punto di
partenza che anni dopo consentirà a una componente del
movimento populistico, grazie al ruolo inizialmente giocato da
Plechanov, di confluire nel POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico
Russo), formatosi nel 1894 e, a partire dal 1903, pienamente
'occidentalista', vale a dire non coinvolto nel particolarismo
populistico-slavofilo, solo, e non sempre, con la frazione
menscevica. Tutte le sfaccettature, e le propensioni, del pensiero
democratico e socialista occidentale sono state comunque recepite
dal populismo russo, il quale ha mantenuto la propria fisionomia e
la propria fedeltà al comunitarismo rurale autoctono, ma ha
mutato le strategie e le forme organizzative, sospinto certamente
dall'evoluzione storico-sociale della Russia e tuttavia anche grazie
alle suggestioni assorbite dalla cultura filosofica, politica e
letteraria occidentale. Il populismo non poté dunque
emanciparsi dall'Occidente.
Il socialismo 'occidentalizzato' russo, quello che si autodefiniva
socialdemocratico, non poté, a sua volta, emanciparsi dal
populismo. Lo stesso Lenin, del resto, pur individuando nel
populismo l'ideologia del "piccolo produttore" utopista e
reazionario, intriso di "romanticismo economico", e pur riconoscendo
come ormai irreversibili gli sviluppi dei rapporti capitalistici di
produzione in Russia, ebbe a considerare la socialdemocrazia russa
come la sola erede legittima del populismo rivoluzionario e dei
combattenti della Narodnaja volja.
Il bolscevismo al potere, invece, soprattutto alla fine degli anni
venti, dopo la proclamazione della teoria del socialismo in un paese
solo, farà di tutto, cancellando d'autorità ogni
dibattito storiografico, per rimuovere persino la memoria di tale
eredità, divenuta ora doppiamente imbarazzante con la
collettivizzazione delle campagne e con la terribile
repressione-deportazione dei contadini, annientati nella loro
residua autonomia e nella loro capacità di resistenza. Il
kolkhoz e il PCUS, intrecciati nelle campagne in una sintesi
politico-sociale da cui scaturiva un socialismo che poteva apparire
una sorta di populismo totalitario di Stato, avrebbero potuto
infatti essere interpretati come due entità perversamente
complementari, atte a riprodurre in modo allargato e onnipervasivo
il sodalizio dispotico-orientale - da Marx in molte occasioni
denunciato - che, sino al 1861 e anche oltre, aveva fatto della
comune rurale e dello zarismo autocratico due facce di una medesima
medaglia.
3. Farmers americani e populismo individualistico
Intanto nel 1891, a Cincinnati, negli Stati Uniti, era stato fondato
il People's Party, noto poi come 'partito populista'. Si trattava di
un partito che per un certo periodo ebbe dimensioni ragguardevoli e
che sorse come reazione dei piccoli contadini (farmers), e in genere
dei piccoli e piccolissimi proprietari, contro lo strapotere,
denunciato come giugulatorio, del sistema bancario e della grande
finanza plutocratica. Già nei primi anni del Novecento,
tuttavia, il People's Party vide contrarsi drasticamente la propria
capacità di penetrazione e i propri consensi. Nel 1912 il
partito non esisteva più. A partire dal 1893, comunque, dopo
che nel 1892 era stato steso a St. Louis il preambolo alla
piattaforma del partito, aveva cominciato a diffondersi sui
giornali, ma anche nell'ambito della pubblicistica politica, il
sostantivo populism: che sarà poi esteso, anche
retroattivamente, allo stesso populismo russo. Il People's Party fu
peraltro, nei primi anni novanta, il punto terminale, concretizzato
in un'organizzazione politica, di una assai vasta protesta agraria,
originata negli ultimi tre decenni del secolo dalla crisi sociale e
morale succeduta nel Sud alla guerra civile, ma anche - e forse
soprattutto - dagli effetti della 'grande depressione', che tra il
1870 e il 1897 era stata accompagnata, negli stessi Stati Uniti, da
un calo quasi continuo dei prezzi agricoli. Si può anzi dire
che quando il partito nacque le ragioni che avevano surriscaldato
l'agitazione agraria stavano per assopirsi, attenuando di
conseguenza, negli anni a venire, l'intensità dell'agitazione
stessa.
Le aree geografiche in cui si insediò il partito populista,
che ha rappresentato nella storia americana il tentativo forse
più serio di spezzare il tradizionale duopolio del sistema
politico statunitense, furono peraltro quasi esclusivamente quelle
più colpite dalla crisi, e cioè il Sud, ovverossia gli
ex Stati confederati, e il Middlewest. I militanti del nuovo partito
- una meteora politica che intercettò umori e malumori
destinati a sopravvivere a lungo nella società americana, ben
oltre la sua scomparsa, e in realtà mai tramontati - si
proponevano di combattere il monopolio delle compagnie ferroviarie,
la grande proprietà anonima della terra, le tariffe
protezionistiche, il monometallismo aureo che rendeva scarso il
denaro liquido e potentissimi i possessori del medesimo, insomma il
grande capitale industriale e finanziario che aveva il suo centro
nell'Est, in particolare a Wall Street, e i tentacoli dappertutto.
Non solo il big business e il money power, che dividevano la nazione
in poveri laboriosi e in milionari corruttori e parassiti, venivano
tuttavia avvertiti come nemici, ma era considerato tale anche il
nascente melting pot. Avversari dichiarati, e odiatissimi, erano
infatti - e ancor più per la base che per i dirigenti - gli
ebrei, gli immigrati più recenti, gli stranieri, e
naturalmente i neri. Con non pochi sospetti venivano inoltre
considerate le tortuose persone istruite, cui veniva contrapposta la
semplice e rettilinea etica dell''uomo comune', del piccolo
produttore onesto, dell'individuo cioè che, solidarmente con
i propri simili, percepiva la propria piccola proprietà
rurale - una microcomunità di lavoro e di destino - come
autonomia di vita, come fatto insormontabile, come valore
irrinunciabile, persino come missione religiosa. La ricchezza, si
sosteneva, doveva appartenere a chi la produceva; per ostacolare
questo elementare principio erano sorti ovunque intrighi e
giganteschi complotti. In particolare, negli stessi documenti
programmatici del People's Party, veniva denunciata "una vasta
cospirazione contro l'umanità, organizzata su due continenti
e ormai dilagante nel mondo intero".
Il termine populism, tuttavia, pur sollecitato dalla comparsa della
nuova realtà politica, non servì solo per descrivere
oggettivamente la fisionomia del nuovo partito. Esso si
autonomizzò progressivamente dal contesto specifico, come
forse era inevitabile, e cominciò ad assumere, nella lingua
inglese, sfumature negative. Tali sfumature erano destinate, negli
anni successivi, a persistere, e anzi ad ampliarsi, tranne qualche
vistosa eccezione, in tutte le lingue occidentali. Già nella
seconda metà degli anni novanta alla parola in questione
venivano infatti associati significati che tendevano a connotare il
populismo come un fenomeno accostabile al paternalismo e alla
demagogia. E se in russo il termine narodničestvo, criticato o meno
che fosse il movimento, veniva sempre collegato a una forma di
socialismo (magari 'romantico', o 'utopistico', o, per usare un
termine della storiografia sovietica, 'democratico-rivoluzionario'),
ora il termine populism - sebbene il movimento americano venisse
sottoposto dopo il 1945 a un lungo dibattito storiografico sulle sue
componenti 'di sinistra' e 'di destra' - si discostava nettamente
dal socialismo e in una qualche misura si bipartiva in due
realtà senza dubbio contigue, ma differenziate per referente
e per significato.
Per un verso, infatti, sul versante oggettivo, dal punto di vista
della sociologia della modernizzazione (si pensi a Barrington Moore
o anche agli studi di Gino Germani sull'America Latina), esso stava
a significare una sorta di sindrome che si impadroniva della
'piccola gente' - strutturalmente difforme nei vari paesi - in una
situazione di disagio economico accentuato o nel corso della
difficile transizione da un'economia prevalentemente
agrario-contadina, largamente fondata sull'autoconsumo, a
un'economia permeata nelle stesse campagne da un'industrializzazione
e da una finanziarizzazione crescenti. Il populismo, in altre
parole, rappresentava una forma di resistenza e una risposta
autoreferenziale, ma di massa, alle difficoltà e ai traumi,
anche psicologici, di un dirompente mutamento sociale. Questa
sindrome poteva accomunare due situazioni pur diversissime come
quella della Russia precapitalistica, dove la resistenza si
concentrava sulla sostanza naturaliter socialista della comune
agraria, e quella degli Stati Uniti capitalistici, dove la
resistenza, attingendo al patrimonio agrario jeffersoniano e
all'individualismo della frontiera, si concentrava, cercando invano
di sottrarsi ai 'politicanti' di Washington, sulla piccola
proprietà dei farmers e dei coloni.
Il populismo, insomma, sarebbe una sorta di attaccamento nei
confronti di ciò che, causando grandi disagi, sta per
tramontare, un attaccamento che non sembrerebbe tuttavia avere una
funzione disperatamente e inutilmente conservatrice, ma parrebbe
poter essere utilizzato - difficile dire con quale tasso di
redditività - come ammortizzatore e come anticorpo in grado
di attutire gli inevitabili contraccolpi generati dai passaggi
più rudi della trasformazione in atto.Per un altro verso, sul
versante soggettivo, dal punto di vista della sociologia della
conoscenza (Wissensoziologie, termine introdotto nel 1909), il
populismo rientra a pieno titolo nella storia delle ideologie.
A partire dall'esperienza americana - la quale però 'rivela'
nell'identità del lessico aspetti presenti nell'esperienza
russa - il concetto si carica di significati particolari che mirano
a individuare nell'atteggiamento populistico, come si è
visto, il paternalismo (moderatore) o la demagogia (estremizzatrice)
di chi, per fini propri, di ordine politico o sociale, utilizza,
organizza o mobilita la sindrome ravvisata sul versante oggettivo.
Successivamente, nella critica che, con intenti antitetici, ne fanno
sia i liberali che i socialisti, il populismo diventa anche, e forse
prevalentemente, sulla scorta delle suggestioni letterarie (si
pensi, per restare in Russia, all''umilismo' e al 'dolorismo' di
Dostoevskij o al misticismo panico di Tolstoj), sinonimo di vago
umanitarismo e di atteggiamento sentimentale e velleitario davanti
ai problemi sociali, ritenuti solubili grazie all'amore per il
popolo. Vi sarebbero dunque, per riassumere sinteticamente i
significati 'negativi' che la parola tende a incorporare, un
populista demagogico, che approfitta di una particolare situazione e
che in sostanza inganna a proprio vantaggio il popolo realmente
esistente, e un populista sentimentale che, pur in buona fede,
idealizza il popolo e non riesce quindi in modo concreto, e
soprattutto in modo radicalmente risolutivo, a lenirne i disagi.
4. Peripezie europee di un concetto
Nel frattempo, stimolata dalla precedente comparsa della parola
inglese, nel primo decennio nel Novecento compariva in francese la
parola populiste, e non solo come corrispettivo del termine di
origine americana, ma anche, e soprattutto, al fine di tradurre il
russo narodnik, ovverossia, come recitava il Larousse mensuel
illustré del 1907, il "membro di un partito che in Russia
sostiene tesi di tipo socialista": un partito che era evidentemente
quello socialista rivoluzionario, largamente maggioritario, appunto
in Russia, rispetto alla socialdemocrazia, e incontestabilmente
collegato con la stagione eroica del populismo. Nel 1912, ne La
Russie moderne di Alexinsky, un testo divulgativo destinato a un
buon successo, compariva finalmente in francese il sostantivo
populisme. Il libro veniva tradotto l'anno successivo in inglese,
ottenendo sempre un buon successo, e il populisme francese si
saldò allora con il populism angloamericano.
La stessa parola veniva dunque ormai usata per significare cose
certamente assai diverse, ma tra loro accorpabili, come si è
visto, in ragione di qualche affinità. Ed è proprio su
queste affinità che ha lavorato negli anni il lessico
politico, con il risultato di estrarre-elaborare un concetto dotato
di un incerto e mobile statuto semantico, ma anche di un'ampia e
multidirezionale utilizzabilità pratica. Si pensi, d'altra
parte, che il libro di Alexinsky conobbe in Francia una nuova
edizione aggiornata nel 1917, dopo la Rivoluzione di febbraio,
quando l'interesse per le cose di Russia, e per quelle
rivoluzionarie in particolare, era comprensibilmente cresciuto, e
destinato a crescere a dismisura in seguito all'Ottobre bolscevico.
In tedesco la parola utilizzata, e proveniente dall'esterno, fu
Populismus. Parola tipicamente tedesca - e in qualche modo
inquietante, visto l'uso che ne venne fatto da parte dell'estrema
destra tra Repubblica di Weimar e Terzo Reich - fu però
völkisch. Questo termine ebbe gran fortuna soprattutto negli
anni venti, in particolare nell'ambito della cosiddetta "rivoluzione
conservatrice", acquistando un significato plurimo dove l'elemento
nazionale, quello popolare e quello razziale si compenetrano con
forza, alludendo a una complessa fisionomia nordico-germanica che
tende a racchiudere in sé razza, popolo, stirpe, lingua e
natura. Il termine völkisch, nei contesti a valenza
filosofico-politica, in genere non viene tradotto perché,
dato il suo carattere insieme composito ed evocativo, è
considerato intraducibile. Volgerlo in 'populista' sarebbe certo
unilaterale e fuorviante, ma qualche elemento di affinità,
anche in questo caso, potrebbe essere rintracciato.
I cosiddetti Völkischen, comunque, per il fatto di richiamarsi
direttamente a ciò che è originario, sono stati
considerati da Armin Mohler il primo dei cinque raggruppamenti
essenziali che concorrono a formare la nebulosa della "rivoluzione
conservatrice". Gli altri sono i Jungkonservativen, i
Nationalrevolutionäre, i Bündischen e la Landvolkbewegung.
L'elemento 'popolare' o 'populista' compreso nel völkisch
precede comunque, in quanto natura e spirito, la realtà
meramente artificiale dello Stato, e resta ontologicamente ed
eticamente al di sopra di essa: rappresenta infatti il patrimonio
primigenio, e non scalfibile, dello 'stare assieme' proprio dei
Tedeschi.
In Italia il termine populismo, a quanto sembra, penetrò dopo
la prima guerra mondiale e in modo particolare all'inizio degli anni
venti. Il 3 dicembre 1921, con in calce la firma Baretti Giuseppe
(in realtà Piero Gobetti), comparve su "L'Ordine Nuovo" un
articolo sul tema in questione. Avrebbe fatto da tramite, seguendo
alcuni dizionari, la lingua inglese, dove il termine, adottato tra
l'altro per fornire di significato un fenomeno autoctono e non
straniero, si era effettivamente sedimentato da un maggior numero di
anni; ma è possibile che anche il francese sia stato
determinante: si pensi, a questo proposito, a quanta letteratura
russa, prima dell'attività delle edizioni torinesi Slavia,
curate, tra gli altri, da Alfredo Polledro e da Leone Ginzburg,
fosse arrivata in Italia, sino appunto agli anni venti, tradotta dal
francese.
È un fatto, però, che Piero Gobetti, eccellente
conoscitore e traduttore della lingua russa, nel Paradosso dello
spirito russo, uscito postumo nel 1926 (ma scritto nel 1925 e
comprendente anche articoli del quinquennio precedente), scrivesse,
a proposito ovviamente del movimento russo, 'popolismo' invece che
'populismo'. La grafia non ancora consolidata, e così
evidentemente e volutamente 'italiana' del termine (senza
cioè anglicismi, o francesismi, o anche latinismi), conferma
che il termine stesso era di conio abbastanza recente e di non
frequentatissimo utilizzo. Per Gobetti i populisti realmente
esistiti, la polemica contro i quali si affiancava a quella contro
l'intelligencija, erano stati sognatori e agitatori illusi e
sentimentali. Ma la sua argomentazione, invero originale e anche
francamente paradossale, non si fermava qui. Le idee populistiche,
infatti, soprattutto sul terreno economico, intrise com'erano di
"grossolano progettismo" e di declamazione rousseauiane, affondavano
le loro radici in un mondo rurale arcaico.
Di questo mondo i populisti, i veri egualitari, i veri
collettivisti-comunisti della storia russa, avevano voluto
preservare i caratteri fondamentali. Per questo si erano proposti
come portatori di un'ideologia sentimentale, primitiva, teocratica e
reazionaria quanto e più di quella slavocentrica e
imperial-zarista. Il bolscevismo, invece, nelle peculiari e non
esportabili condizioni russe, era un movimento 'realisticamente'
liberalrivoluzionario e intimamente, in virtù del primato
accordato all'azione, anticollettivista e anticomunista. Era
insomma, in antitesi con il nullismo socialistico dei populisti, e
soprattutto grazie ai soviet, l'espressione della modernità
dispiegata e della formazione, in terra d'Asia, contro ogni
comunitarismo livellatore e oscurantistico, del libero individuo
autoconsapevole. Il bolscevismo, in rebus ipsis, volente o no, si
sarebbe piegato alla propria stessa energia e avrebbe favorito in
Russia l'inevitabile sviluppo del capitalismo, formazione sociale
che, tra libertà politica e liberismo economico,
rappresentava per Gobetti il capolinea della storia economica del
mondo moderno e contemporaneo. Il populismo, invece, complice di
fatto dello zarismo 'asiatico', aveva fornito sino all'irrompere del
bolscevismo, insieme alle altre forze del passato, un contributo
decisivo all'azzeramento della possibilità stessa di una
rivoluzione liberale in Russia.
Sul terreno letterario, tuttavia, il termine ebbe, quantomeno in
Francia, qualche risonanza positiva. Nel 1929 venne infatti steso,
da André Thérive e Léon Lemonnier, il Manifeste
du roman populiste, che intendeva aprire la letteratura, e la
forma-romanzo in modo particolare, all'universo popolare, alle
condizioni di vita e di lavoro del popolo delle città e dei
paesi, ai sentimenti degli operai, degli artigiani e dei piccoli
commercianti, abbandonando nel contempo da una parte lo sterile
cerebralismo delle iperintellettualistiche avanguardie letterarie e
dall'altra l'esasperato psicologismo del romanzo 'borghese'. C'era
chi, come per esempio Henry Poulaille, o anche il pacifista
anarchico Marcel Martinet, avrebbe preferito l'aggettivo
'proletario' piuttosto che 'populista', ma il Manifeste, e ancor
più la letteratura che a esso in qualche modo si
ispirò, erano assai lontani, con la loro attenzione per il
mondo degli umili e con il loro realismo 'magico' impregnato di
forte e insieme malinconico lirismo, dalla poetica
staliniano-zdanovistica che sarà poi nota, nell'URSS e fuori,
come 'realismo socialista'. Il romanzo 'populista' più
famoso, e destinato a maggior successo, fu Hôtel du Nord
(1929) di Eugène Dabit, la cui versione cinematografica, ad
opera nel 1938 di Marcel Carné, contribuì in modo
decisivo ad ampliarne la fama.
E fu proprio il cinema francese della seconda metà degli anni
trenta, con le sceneggiature di Prévert, a incarnare al
meglio l'indirizzo artistico che non aveva temuto di autoproclamarsi
'populistico'. Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, in una
nota del 1931, intervenne su questi movimenti letterari francesi
"verso il popolo", definendoli tendenze appunto populiste, oltre che
idealizzanti, e interpretandoli ruvidamente come "ripresa del
pensiero borghese che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi
popolari e che, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una
parte dell'ideologia proletaria". Quest'interpretazione esprimeva
bene, a sua volta, l'ostilità della teoria comunista -
mirante a difendere il primato della 'classe' - nei confronti del
concetto stesso di populismo, interclassista e sentimentalmente
idealistico, cui veniva contrapposta, per citare ancora Gramsci, "la
potenza politica e sociale del proletariato e della sua ideologia"
(Quaderno 6, § 168). In modo più descrittivo, e assai
meno ideologico, Gramsci, su questo tema, e partendo sempre
dall'ambito letterario, intervenne ancora nel 1934, ricordando che
Francesco De Sanctis nell'ultima fase della sua vita rivolse la sua
attenzione al romanzo 'naturalista' o 'verista'. Questo romanzo
(Gramsci pensava probabilmente a Zola) era stato l'espressione
intellettuale del più generale movimento di chi si proponeva
di "andare al popolo", e cioè del populismo professato da
alcuni gruppi intellettuali nell'ultimo scorcio del secolo,
allorquando la democrazia quarantottesca era tramontata e le
città avevano accolto, per lo sviluppo della grande
industria, grandi masse destinate a infoltire i ranghi della classe
operaia (Quaderno 23, § 1).
Il populismo, in questo caso, sarebbe l'atteggiamento,
oggettivistico e sociologizzante (e quindi non sentimentale),
assunto dalla "classe dei colti", nell'età del positivismo
maturo, davanti al fenomeno dell'irruzione delle masse popolari - e
della classe operaia in particolare - sulla scena della città
moderna.Quanto al regime fascista italiano, pur ponendo esso al
centro delle proprie sistematizzazioni teorico-politiche la nozione
e la realtà del 'popolo', vale a dire del protagonista della
mobilitazione totalitaria, ovviamente non si definì mai
'populista'. Saranno la storiografia e la pubblicistica politica
della seconda metà del secolo a definire in qualche occasione
'populistici' alcuni aspetti dei fascismi - non solo di quello
italiano - e taluni corposi aspetti della destra 'rivoluzionaria'
novecentesca, così diversa da quella 'controrivoluzionaria'
del primo Ottocento e da quella 'conservatrice' del secondo
Ottocento. L'aura negativa addensatasi sulla parola, soprattutto per
quel che riguarda il lessico politico, ne sconsiglierà d'ora
in poi l'utilizzo autodefinitorio.
Il popolo, per i fascisti italiani, costituiva comunque, dovendo
sintetizzare le diverse e anche difformi prese di posizione,
un'unità genetica che consentiva a ogni appartenente di
uscire dalla sua singolarità per ritrovarsi in una
realtà che lo includeva: ciò si verificava tuttavia
solo in presenza di una forte e carismatica spinta politica atta a
indirizzare e a far sviluppare la volontà del popolo di
esistere come tale. Emergeva così, in una esperienza storica
che era diventata un regime politico, un carattere che poi la
scienza politica contemporanea e la stessa storiografia ravviseranno
come tipico dei populismi del XX secolo, presenti in America Latina
e in varie aree con problemi di sviluppo: il plebiscitarismo
permanente e il rapporto diretto tra le masse e il capo, rapporto
che impone la mediazione politica molecolare, la pressione
ideologica e la pratica clientelare da parte del partito politico al
potere e dei suoi apparati. Il concetto di fascismo, peraltro a sua
volta assai variegato e polimorfo, e il concetto di populismo,
fornito, come si è visto, di più radici storiche e di
più diramazioni, in nessun modo s'identificano. Possono
però, rispettando l'irriducibile autonomia semantica di
ciascuno, e senza eccedere nelle comparazioni, illuminarsi
reciprocamente.
5. Dal populismo urbano al populismo senza popolo
La scienza politica e le analisi storiografiche, come si è
già avuto modo di anticipare, hanno ritenuto di definire
populistici, pur con le opportune distinzioni, un buon numero di
regimi politici presentatisi nel panorama storico dell'America
Latina del XX secolo. Dopo i populismi-movimenti si avevano dunque i
populismi-regimi, anche se, in genere, gli studiosi che effettuavano
una tale tipologia unificante avvertivano che tali esperienze ben
poco avevano da spartire con il populismo russo e con quello
nordamericano, se non il fatto, certo centrale, di sorgere e di
strutturarsi in aree di arretratezza relativa (rispetto all'estero
in Russia e in America Latina, rispetto a zone più 'moderne'
del paese negli Stati Uniti) e all'interno di una difficile
transizione economico-sociale.
I populismi più noti furono il varghismo brasiliano
(1930-1945, da Getulio Vargas), che riuscì, tra colpi di
Stato e virate autoritarie, con l'ideologia dell'Estado novo e con
una struttura sindacale di tipo corporativo, a stringere in un
blocco sociale la borghesia industriale, le classi medie e settori
del proletariato di fabbrica urbano; il peronismo giustizialista
argentino (1945-1955, da Juan Domingo Peron), il più vicino,
per certi aspetti ideologici, al fascismo, ma in grado di
promuovere, in una congiuntura favorevole per le esportazioni (gli
anni immediatamente successivi alla guerra), una politica sociale
che gli garantì il sostegno dei descamisados e di un forte
movimento nazionalsindacale; l'aprismo, dall'APRA (Alianza Popular
Revolucionaria Americana, partito fondato in Perù nel 1924 da
Victor Raúl Haya de la Torre), mai andato in realtà al
potere, indigenista e vero prototipo ideologico del populismo
latinoamericano; il Movimiento Nacionalista Revolucionario, fondato
nel 1941 in Bolivia da Victor Paz Estenssoro, più volte al
potere e promotore di un processo (1952-1956) che portò alla
nazionalizzazione delle miniere e a un tentativo di riforma agraria.
E così via. Con la possibilità di includere
l'esperienza protopopulistica di Yrigoyen in Argentina (1916-1922 e
1928-1930), alcuni governi colombiani, naturalmente la parabola
progressista-conservatrice del Partito rivoluzionario
istituzionalizzato del Messico, persino, dilatando lo spettro
ideologico, il castrismo cubano, inizialmente populistico, e poi
diversificatosi a causa in un primo tempo dello scontro frontale -
quindi senza processi osmotici - della guerriglia con la classe
dirigente locale, e poi a causa della chiusura degli Stati Uniti,
che costrinse il nuovo governo di Cuba a chiedere udienza e sostegno
a Mosca.
Alcune caratteristiche comuni hanno contraddistinto tutte queste
realtà, tanto che il populismo latinoamericano ha designato,
di volta in volta, nelle indagini e nelle tassonomie che ne sono
state fatte, un universo ideologico, un movimento, un insieme di
partiti, un insieme di regimi politici. Il 'populismo', in altre
parole, è stato un passepartout concettuale applicabile, con
efficacia esplicativa, a fasi particolari delle realtà
latinoamericane. Le caratteristiche in questione hanno avuto
comunque e innanzitutto a che fare, come è già stato
messo in luce, con la transizione dall'economia agricola
all'economia industriale, il che, tra l'altro, è stato
sostenuto, da studiosi come Gellner e Hobsbawm, anche al fine di
situare l'eziologia storica degli stessi concetti di 'nazione' e di
'nazionalismo'. Il populismo, del resto, fu sempre anche
nazionalistico (in una realtà postcoloniale e ispanolusitana
dove le 'nazioni' hanno ovviamente, sullo stesso piano territoriale,
un tasso di artificialità elevatissimo), talvolta volto a
esaltare la tradizione antichissima di un popolo (non escluse le
origini inca o azteche), talvolta, almeno ideologicamente,
antistatunitense, antimperialista e antiplutocratico.
A differenza che in Russia e negli Stati Uniti, il populismo
latinoamericano è stato però fatto iniziare, in
sintonia con la dinamica strutturale del subcontinente, nel periodo
della prima guerra mondiale, il che lo differenzia nettamente dal
caudillismo ottocentesco, dai diversi bonapartismi 'straccioni' e da
esperienze iperpresidenzialistiche e dittatoriali come
l'oligarchismo latifondistico di Porfirio Diaz in Messico. Fu
infine, sempre in antitesi ai movimenti russo e nordamericano, un
fenomeno essenzialmente urbano, che coinvolse masse di recentissima
immigrazione nelle città. Si trattava di masse ovviamente non
tutelate sino a quel momento da alcun sindacato, prive di
qualsivoglia integrazione sociale e di qualsivoglia protezione
politica, ma certo ormai lontanissime psicologicamente dal mondo
rurale di provenienza e ben disponibili ad ascoltare gli appelli di
chi si proponeva di mobilitarle ricorrendo a un messaggio ideologico
schiettamente populistico (non nel senso 'storico', ma nel senso del
bricolage proposto dalla scienza politica), centrato cioè
sull'apologia dei valori che il popolo credeva propri e sul rapporto
il più possibile diretto, non mediato cioè da
strutture istituzionali intermedie, tra le masse e il leader. La
conclamata e sempre osannata supremazia della volontà
popolare, sintesi del raggrumarsi policlassistico di segmenti
diversi di una realtà prevalentemente urbana, e la
fascinazione plebiscitaristica diventarono così il cuore, e
il nerbo, dello sfondo ideologico e politico del populismo
latinoamericano.
Anche in altre aree del pianeta, contrassegnate dai problemi di un
difficile decollo economico e da un panorama sociale traumatizzato,
sono state ravvisate da una parte una sindrome, e dall'altra una
mobilitazione ideologica che potrebbero essere etichettate come
populistiche. Si pensi all'Indonesia di Sukarno, all'Egitto di
Nasser e a diversi aspetti ideologici, complicati dalle
contrapposizioni della guerra fredda, del cosiddetto 'non
allineamento' e anche del 'terzomondismo'. La determinante, e per
certi versi quasi esclusiva, presenza dei contadini in tanti
processi di decolonizzazione e anche in grandi rivoluzioni che pure
si sono proclamate 'socialiste', come la cinese e la vietnamita, ha
potuto inoltre far pensare a una deriva populistica di enorme
portata lungo tutto il XX secolo. Il mancato realizzarsi della
previsione formulata dal movimento socialista ottocentesco, vale a
dire la non avvenuta trasformazione socialistica nelle aree 'forti'
dell'industrialismo capitalistico, ha spostato l'attenzione sulle
rivoluzioni autoproclamatesi socialiste del XX secolo, verificatesi
tutte, Russia compresa, nelle aree dell'arretratezza, del
sottosviluppo, della ridottissima presenza operaia, della prevalente
e schiacciante presenza contadina. Si è potuto così
pensare anche a una grandiosa rivincita-resurrezione del populismo,
rurale e nel contempo autonomo promotore autoritario di sviluppo
extrarurale, nei confronti del socialismo 'occidentalistico' del XIX
secolo, urbano e realizzabile solo al termine dello sviluppo
promosso dall'antagonista capitalistico.
Nello stesso sionismo politico, d'altra parte, e ancor più
nella forma-kibbutz, affine per certi versi all'obščina, è
stata intravista, in questo caso con molte buone ragioni
filologiche, l'eredità specifica del populismo russo. Si
pensi infatti, oltre al messianismo e all'attesa di redenzione
politica e sociale, alla provenienza geografica di tanta diaspora
ebraica. Tuttavia il dilatarsi del concetto ha rischiato, come
sempre, di attenuarne, o vanificarne, la carica esplicativa, di
renderlo cioè generico. Nella stessa America Latina, del
resto, la spinta definita populistica è sembrata essersi
esaurita: prima, tra gli anni sessanta e settanta, a causa di svolte
autoritario-reazionarie promosse da organismi oligarchici e
dittature militari in sintonia con interessi stranieri e
nordamericani, pronti a irrigidire la presa sul subcontinente in
parallelo con il contemporaneo ripiegamento nel Sudest asiatico e
nel mondo arabo; poi, negli anni ottanta, a causa di una riproposta
certo importante - anche se non sempre limpida, considerato lo
scenario sociale attraversato da macroscopiche diseguaglianze -
della democrazia rappresentativa e del riformismo.
Non vi è stato cioè più spazio, se non in forme
parziali, per la 'terza via' populistica, vale a dire per l'osmosi
plebiscitaristico-demagogica tra autoritarismo e riformismo. Vi era
spazio solo per l'uno o per l'altro.Ha comunque avuto
sostanzialmente ragione Gerschenkron, che ha legato il populismo
all'arretratezza, ma non a quella assoluta e immobile del mondo
primitivo, bensì a quella relativa e mobile del mondo
moderno. Sono infatti state la presa di coscienza dell'arretratezza
nel momento della transizione economica, l'insoddisfazione
psicosociale che ne è derivata, e la risposta politica che ha
prodotto, che hanno rappresentato il comune denominatore di tutti i
fenomeni storici che sono stati inglobati, in un modo o nell'altro,
nel gran contenitore del populismo.Il termine 'populismo' si era
tuttavia ormai autonomizzato dal contesto 'tecnico' degli imperativi
della modernizzazione nei paesi arretrati. Destrutturato rispetto ai
significati di partenza, e quindi ormai polivalente, si trovava a
essere introdotto, con intento sempre polemico, all'interno dei
dibattiti culturali e politici.
Nel 1965, ad esempio, per restare al caso italiano, veniva
pubblicato l'assai diffuso e discusso Scrittori e popolo di Alberto
Asor Rosa, propugnatore del cosiddetto 'punto di vista operaio'. Si
trattava di una storia della letteratura, in cui però
l'intero gramscismo italiano veniva messo in discussione. Nel
Gramsci dei Quaderni, infatti, veniva individuato un epigono di
Gioberti, cui in effetti si deve una prima riflessione sui concetti
di 'egemonia' e di 'nazionalpopolare'. Una tale eredità non
lo poneva evidentemente al riparo, come accadeva a molti
intellettuali e scrittori italiani progressisti, dal populismo
paternalistico e dalla smania di 'andare al popolo', annegando
nell'indistinzione interclassista di quest'ultimo l'irriducibile
autonomia della classe operaia, vera matrice dell'innescarsi dei
conflitti radicali tipici del mondo industriale.
Meglio, molto meglio, secondo Asor Rosa, il lucido e aspro
disincanto degli scrittori a tutto tondo borghesi, che, senza
lasciarsi afferrare e distrarre da miti arcaici d'origine contadina
o dalla filologia pauperistico-cattolicheggiante del
sottoproletariato, aprivano spiragli in direzione di un futuro che
la classe operaia, finalmente priva di saccenti maestri e di grilli
parlanti immersi nei buoni sentimenti del passato,
s'incaricherà di conquistare. Il libro di Asor Rosa si
inseriva del resto precocemente, sul terreno storico-letterario, in
un clima e in una crisi che nel 1970 Nicola Matteucci,
contrapponendo il confuso presente all'operoso scenario del 1945
ancora illuminato dalla presenza della cultura liberale, ebbe a
definire "insorgenza populistica". La scena era dominata da un
cattolicesimo che aveva smarrito appunto gli anticorpi liberali e da
un operaismo a parole rivoluzionario e in realtà
pansindacalistico. Si stava scontando duramente il fallimento
dell'età delle riforme e del centrosinistra.
Quanto al 'populismo', si avvertiva che esso non andava inteso nel
senso storico (ad esempio: il populismo russo), ma nel senso
più strettamente sociologico, col fine di cogliere l'apparire
di un'atmosfera attraversata da idee semplici e da passioni
elementari, da un diffuso antintellettualismo e dalla rivolta contro
lo specialista, l'esperto, lo studioso, in nome appunto di
sentimenti primitivistici, paragonabili, sul piano formale, a quelli
dell'interventismo del 1915 - sorto operando una sorta di aggressiva
tabula rasa dei valori dell'Italia liberale - e a quelli del
fascismo di sinistra, apologeta delle 'nazioni proletarie' in odio
alle 'demoplutocrazie'.La caduta dei comunismi, scompaginando oltre
tutto l'ordine arcigno della guerra fredda, avrebbe poi mutato le
cose e generato nell'Est europeo, e in particolare nella Russia di
El´cin, flussi di partecipazione politica e di arroccamento
sociale che sarebbero stati definiti 'nazionalpopulistici'. Il
populismo, da questo punto di vista, tornava allora al suo punto di
partenza e alla sua patria di elezione. A cavallo inoltre tra il
crepuscolo degli anni ottanta e il primo quinquennio degli anni
novanta, in concomitanza, in Italia, con la crisi politica e morale
del sistema dei partiti che ha posto in difficoltà non solo i
partiti stessi, ma anche le forme esistenti della rappresentanza, il
termine 'populismo', con significati spesso diversi e modificato in
permanenza dal vortice della comunicazione mediatica (che ha
devastato, tra l'altro, la parola 'giustizialismo', trascinandola
incongruamente dall'ambito dell'ideologia peronista a quello
dell'azione giudiziaria), è tornato prepotentemente alla
ribalta. Il tracollo disordinato dei canali intermedi di connessione
tra il cittadino e il governo, appunto i partiti, su cui per un
certo periodo è caduta una sorta di damnatio memoriae, ha
favorito, secondo alcuni, lo sviluppo di una deriva plebiscitaria,
animata da un'aggressiva videopolitica che è sembrata
incarnare una vistosa dimensione populistica.
La platea cui si sarebbe rivolta la nuova democrazia plebiscitaria,
diretta e referendaria - surrogato della democrazia rappresentativa
in crisi - sarebbe però stata un 'popolo' assai diverso da
quello del passato: un 'popolo' non contadino, ovviamente, e
neppure, altrettanto ovviamente, operaio di recente formazione, ma
il popolo virtuale dei sondaggi e degli ascolti televisivi,
costituito in gran parte dal crescente settore del piccolo lavoro
autonomo (talvolta ultraliberista), dalle sacche ancora persistenti
di lavoro salariato (talvolta neostataliste) e dall'area in aumento
della disoccupazione, dell'occupazione precaria e della
sottoccupazione. Il 'populismo' sarebbe però diventato in
realtà, e non solo in Italia, per usare un orrendo
neologismo, 'gentismo', e cioè trionfo dell'indistinto,
dell'omogeneo sempre mutevole, del 'senza radici'. Si sarebbe
infatti affermato, secondo i sociologi, che già da tempo
ragionano di "folla solitaria", il regno della moltitudine, frutto
della globalizzazione (o mondializzazione) che fa implodere le
masse, affossa le appartenenze, deterritorializza, produce
sradicamento e spaesamento. L'ultimo arrivato tra i populismi -
forma di resistenza ancora una volta contro l'ennesima transizione,
vale a dire contro il cosmopolitismo just in time di un'economia che
realizza finalmente la sua antica vocazione internazionalistica -
sarebbe così un populismo senza popolo. Un populismo forse
perfetto.Wikipedia
La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione
ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e
letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica.
In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a
idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi.
Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo"
ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di
significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire
"populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e
aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il
popolo"; così come è evidente che la parola viene
usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si
può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai
politici quasi come un sinonimo di "demagogia".
Origini del termine
Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento
populista è stato infatti un movimento politico e
intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo,
caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che
gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe.
Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al
People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di
portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le
quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi
concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso
caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue
esigenze.
Il populismo per la scienza politica
Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni
del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di
populismo, a seconda del suo approccio e interessi di
ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and
National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul
populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu.
Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il
termine in maniera contradditoria e confusa, alcuni per fare
riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un
politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi
considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che
non sanno come classificare.
Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni
del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel
loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western
European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno
definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al
‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono
delle ‘elite’ e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i
valori, i beni, l’identità e la possibilità di
esprimersi del ‘popolo sovrano».
Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello
nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature,
sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le
masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di
alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo
è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una
comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande
varietà di regimi difficili da classificare in maniera
più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche
elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed
anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole
potere personale e carismatico del leader. Questa concezione
nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda
metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari
regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón,
Egitto e India, che non potevano essere definiti democrazie liberali
né socialismi reali.
Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al
termine una definizione precisa) è quella che lo rende un
“contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra
come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che
abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la
retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie
politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del
popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse
indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza.
Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi
della fiducia nella "classe politica".
*
www.pbmstoria.it
Populismo
Orientamento politico e culturale tendente a una visione
sentimentale e idealizzata delle masse popolari. Prende nome
dall'omonimo movimento rivoluzionario sviluppatosi in Russia verso
la metà dell'Ottocento. Il dibattito storiografico su tale
tema fu iniziato in pratica dagli stessi populisti russi. I loro
scritti, spesso pubblicati anche all'estero (già nel 1882, a
opera di S.M. Kravcinskij, apparve la prima storia generale del
populismo in italiano), diedero inizio a una riflessione sulle
caratteristiche e sulle vicende del movimento che si è
protratta senza soluzioni di continuità. I forti
condizionamenti esercitati dal potere politico dopo la rivoluzione
d'ottobre hanno però fatto sì che le prime opere di
solido impianto critico e interpretativo siano uscite in Urss solo
dopo il processo di destalinizzazione (B.P. Koz’min, S.M. Levin,
S.S. Volk, M.G. Sedov, V.A. Tvardovskaja ecc.). Non stupisce quindi
che prima di allora la più vasta e documentata ricerca sul
populismo russo, rimasta ancor oggi insuperata, sia stata quella di
F. Venturi, che ebbe il pregio, fra l'al tro, di sottolineare non
solo i legami esistenti fra bolscevismo e populismo (poi sviluppati
da A. Walicki), ma anche quelli altrettanto profondi che
quest'ultimo ebbe con i movimenti democratici e socialisti europei.
Tuttavia anche alcune opere di studiosi stranieri, come quella pur
seria e fondata su un'imponente documentazione dello storico
statunitense A.B. Ulam, non sono sempre risultate immuni da intenti
polemici contingenti. Nel corso del XX secolo l'ideologia populista
è diventata fonte d'ispirazione e quadro di riferimento
teorico di partiti e movimenti affermatisi negli Usa, in America
latina e in altri paesi del Terzo mondo. Secondo P. Wills elementi
populisti si troverebbero in Gandhi, nel Sinn Fein, nel partito
rivoluzionario istituzionale messicano, nel poujadismo, nel
socialismo africano di J.K. Nyerere e in taluni movimenti canadesi.
Per R. Lowenthal rientrerebbero in questo schema anche il
nazionalismo indonesiano e quello egiziano di Nasser. A essi si
dovrebbero aggiungere, secondo T. Di Tella, il castrismo e il
peronismo. Fenomeno politico dai contorni indefiniti, il populismo
si è dunque attagliato a dottrine e a formule dai contenuti
spesso assai divergenti, e ha influenzato nel medesimo periodo anche
alcune correnti culturali e letterarie. Per l'Italia ha ricostruito
questa ulteriore espressione del populismo lo storico della
letteratura A. Asor Rosa.