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Umanista (Terranuova, oggi Terranuova Bracciolini, 1380 - Firenze
1459).
Nel 1403 ebbe a Roma l'ufficio di scrittore apostolico, nel 1414
seguì la Curia al concilio di Costanza, ma, più che
seguirne le dispute teologiche, preferì esplorare i monasteri
svizzeri e, poi, alcuni di Francia e di Germania; scoprì
così un esemplare integro dell'Institutio oratoria di
Quintiliano, parte degli Argonautica di Valerio Flacco, il De re
rustica di Columella, le Selve di Stazio, l'Astronomicon di Manilio,
le Puniche di Silio Italico, la Storia di Ammiano Marcellino, il De
rerum natura di Lucrezio, otto orazioni ciceroniane, e altre opere
minori. Dal 1418 passò 4 tristi anni in Inghilterra, e nel
1423 tornò a Roma con l'ufficio di segretario apostolico, che
nel 1453 cambiò con quello di cancelliere della Repubblica
fiorentina.
Il B. non fu un pensatore, ma espose agilmente dottrine ben
assimilate; fu, più d'ogni altro umanista del primo
Quattrocento, un vero artista per vivacità di sentimento,
fantasia arguta, espressione pronta e pittoresca; usò una
prosa latina viva e senza pedanteria.
Non scrisse un verso, lasciò molte opere in prosa,
filosofiche, storiche, polemiche, invettive, orazioni. Importanti
sulle altre i vivacissimi Dialoghi; i 4 libri De varietate fortunae
(1431-48); il satirico e spesso spregiudicato Liber facetiarum
(1438-52); l'Historia florentina (dal 1350 al 1445); e soprattutto
un ricchissimo epistolario.
*
di Emilio Bigi
Nacque a Terranuova nel Valdarno Superiore (oggi Terranuova
Bracciolini) l'11 febbr. 1380 da Guccio, speziale, e da Iacoba
Frutti, figlia di un notaio. Ricevuti i primi insegnamenti ad
Arezzo, dove la sua famiglia si era trasferita, passò verso
la fine del secolo a Firenze per compiervi gli studi del notariato,
provvedendo al proprio sostentamento mediante lavori di copista. La
sua abilità in questi lavori gli offrì l'occasione di
farsi, notare e apprezzare da Coluccio Salutati già vecchio,
e da Leonardo Bruni, di qualche anno più anziano di lui e col
quale era forse entrato in relazione fin dal suo soggiorno in
Arezzo.
Proprio per esortazione del Bruni, Poggio decise, nel 1403, di
recarsi a Roma in cerca di fortuna. All'inizio dovette accontentarsi
di un posto di segretario presso il cardinale Landolfo Maramaldo,
vescovo di Bari; ma alcuni mesi dopo, aiutato da una calda
raccomandazione del Salutati, riuscì a entrare, con l'ufficio
di scrittore apostolico, nella Curia papale.
Durante il tempestoso decennio che mise capo al concilio di
Costanza, il B. seguì nei loro spostamenti prima i papi
legittimi Bonifacio IX, Innocenzo VII e Gregoriò XII, e poi i
papi pisani Alessandro V e Giovanni XXIII, che lo promosse
segretario apostolico.
Deposto Giovanni XXIII a Costanza il 29 maggio 1415 e disciolta la
Curia, Poggio preferì restare nella città tedesca in
attesa delle ulteriori decisioni del concilio, dedicandosi, durante
tale attesa, alla ricerca di manoscritti di opere classiche. A
questa attività di ricercatore egli non era del tutto nuovo:
già nel 1407aveva compiuto indagini, non sappiamo
precisamente con quali risultati, nelle biblioteche di Montecassino
e di Napoli; e nella primavera del 1415, forse approfittando di una
missione affidatagli da Giovanni XXIII, aveva potuto scoprire in un
codice cluniacense le orazioni ciceroniane Pro Murena e Pro Sexto
Roscio.
Ma ben più fruttuose furono le ricerche appositamente
effettuate, durante il 1416 e il 1417, nelle biblioteche, ancora in
gran parte inesplorate, dei conventi e delle cattedrali della
Svizzera, della Germania e della Francia. Dal monastero di San
Gallo, dove si recò con Cencio de' Rustici e Bartolomeo
Aragazzi da Montepulciano nel giugno e nei primi di luglio del 1416,
trasse alla luce un manoscritto contenente il testo completo delle
Institutiones oratoriae di Quintiliano, fino ad allora conosciute
solo in esemplari gravemente lacunosi; i primi tre libri e mezzo
degli Argonautica di Valerio Flacco; il commento di Asconio Pediano
a cinque orazioni di Cicerone e un altro anonimo a quattro Verrine;e
ancora nuovi manoscritti di opere già note, quali il De ira
Dei e il De opificio hominis di Lattanzio, e il De Architectura di
Vitruvio.
Un secondo viaggio nel gennaio 1417, sempre con Bartolomeo da
Montepulciano e ancora a San Gallo e ad altri monasteri vicini,
fruttò la scoperta di nuovi codici dell'Epitoma rei militaris
di Vegezio e di molti altri manoscritti. In una terza indagine, che
il B. compì da solo in Germania e in particolare a Fulda
nella primavera dello stesso anno, la fortuna e più il suo
fiuto acutissimo lo condussero a disseppellire il poema lucreziano,
gli Astronomica di Manilio, i Punica di Silio Italico, le storie di
Ammiano Marcellino, vari scritti di Tertulliano, e alcune opere
grammaticali. In un quarto viaggio, infine, compiuto nell'estate
attraverso la Francia e la Germania, scoprì a Langres
l'orazione Pro Caecina, e nella biblioteca del duomo di Colonia -
ritrovamento di cui particolarmente si compiaceva - altre sette
orazioni ciceroniane (Pro Roscio comoedo, tre De lege agraria,
Contra Rullum, Pro Rabirio, In Pisonem, Pro Rabirio Postumo). Sempre
a questa ultima gita pare che vadano assegnate le scoperte delle
Silvae di Stazio, della Vita Aristotelis, di un secondo esemplare
completo di Quintiliano, e di un nuovo codice del De re rustica di
Columella.
Nel complesso una serie di ritrovamenti per numero e per importanza
veramente eccezionali, e paragonabili solo a quelli che, intorno
agli stessi anni, veniva effettuando, nel campo della letteratura
greca, Giovanni Aurispa. Né va dimenticato che di parecchi
dei manoscritti scoperti egli trasse copie personalmente con la sua
scrittura nitida e precisa, copie che in più di un caso,
smarritosi in seguito il codice da lui trovato, rimangono l'unico
testo pervenutoci dell'opera antica.
Questa attività di scopritore, di cui egli dava in volta in
volta notizia agli amici italiani, al Niccoli, al Bruni, al
Traversari, a Guarino, a Francesco Barbaro, contribuì a
rendere il suo nome assai famoso; ma tale fama non fu sufficiente a
farlo riammettere nella Curia del nuovo papa Martino V (eletto a
Costanza l'11 nov. 1417) con la stessa carica di segretario cui lo
aveva promosso Giovanni XXIII. Per il momento si accontentò
del posto di scrittore apostolico: dopo un anno, però,
svanita ogni speranza di migliore sistemazione, accettò
l'invito del cardinale Enrico Beaufort, vescovo di Winchester, che
lo condusse con sé in Inghilterra.
Qui rimase dal 1418 all'inizio del 1423, ma non furono anni sereni:
il clima, il paese, l'indole dei "Britanni", "quorum deus venter
est", le cattive notizie da casa, e soprattutto la solitudine, la
mancanza della società di amici e letterati in cui era
abituato a vivere, lo condussero a uno stato di inquietudine e di
malinconia, che gli faceva preferire la lettura dei Padri della
Chiesa ai già prediletti studi di umanità: "Libr
sacri, quos legi et quotidie lego", così scriveva al Niccoli
(Epistolae, ed. Tonelli, I, p. 63), "refrixerunt studium pristinum
humanitatis, cui deditus fui, ut nosti, a pueritia. Nam horum
studiorum principia inania sunt, partim falsa, omnia ad vanitatem.
Sacri vero eloquii principium est veritas, qua amissa, nihil rectum
tenere, nihil operari possumus".
Non c'è ragione di sottovalutare questa crisi, che vale anzi
a mostrare quanto nell'animo del B., come del resto in quello degli
altri umanisti contemporanei, fosse radicata e pronta a riaffiorare,
sotto l'impulso di particolari circostanze, la componente religiosa.
Sta il fatto, però, che, una volta lasciata l'Inghilterra e
riottenuto da Martino V il posto di segretario apostolico, Poggio
ritornò a essere, come prima, uno dei più brillanti
funzionari della Curia, spettatore attento e curioso e talora
partecipe attivo delle agitate vicende politiche ed ecclesiastiche
del suo tempo; e soprattutto riprese a dedicarsi con rinnovato
impegno a quegli studi di umanità che gli erano sembrati
falsi e vani.
Proprio durante il viaggio di ritorno in Italia scoprì il
frammento principale di Petronio; e più tardi, nel luglio
1429, si mosse da Roma per trarre alla luce dalla biblioteca di
Montecassino il trattato De aquaeductibus di Frontino e i Matheseos
libri di Firmico Materno. Ma piuttosto che attraverso indagini
personali, egli svolgeva, in modo non meno intenso e fruttuoso, la
sua attività di ricercatore nel suo stesso ufficio romano,
dove, valendosi senza scrupolo della sua posizione, raccoglieva e
talora carpiva codici o almeno utili notizie da quanti per qualsiasi
ragione passavano per la Curia. Né meno attivamente si
dedicava a ricerche archeologiche, collezionando, statue, gemme e
monete antiche e copiando iscrizioni, che poi trascriveva in una
"silloge", il cui autografo ci è pervenuto.
Gli anni passati in Curia sotto Martino V sono forse tra i
più tranquilli e sereni della vita di Poggio. Più
movimentato, ma non meno positivo, il periodo corrispondente al
pontificato di Eugenio IV (1431-1447), che egli seguì nei
suoi spostamenti da Roma a Firenze a Bologna a Ferrara, e poi ancora
a Firenze, a Siena e infine di nuovo a Roma. Questi spostamenti,
infatti, gli consentirono non solo di riallacciare, durante i
soggiorni a Firenze, le sue relazioni sia con i suoi vecchi amici
letterati sia con i Medici e in particolare con Cosimo e il fratello
di lui Lorenzo; ma anche di concedersi lunghi periodi di riposo, nei
quali compì o iniziò alcune delle sue opere più
importanti. Cadono altresì in questo periodo il suo
matrimonio, avvenuto nel 1436, con la fiorentina diciottenne Vaggia
de' Buondelmonti, da cui ebbe sei figli e con la quale visse in
perfetto accordo fino alla morte; e l'acquisto, nel 1438, di una
casa di campagna, la "Valdarnina", situata presso il paese nativo, e
che egli venne sistemando come un ideale rifugio umanistico,
portandovi i suoi libri e le sue statue antiche.
Nel 1447 l'elezione a pontefice, col nome di Niccolò V, del
suo amico Niccolò Parentucelli, sembrò aprirgli nuove
e più brillanti prospettive. Né gli mancò
invero il favore del nuovo papa: ma sia la situazione sempre
inquieta di Roma e della Curia, sia l'amarezza per le violente
polemiche che ebbe a sostenere con il Valla, il Trapezunzio e con
altri, sia infine il desiderio di provvedere con più agio
alla sistemazione dei figli, lo indussero, nel 1453, a lasciare Roma
per Firenze, accettando di assumere quella carica di cancelliere che
prima di lui avevano tenuto il Salutati, il Bruni e il Marsuppini.
Il mutamento non si rivelò tuttavia così vantaggioso
come egli aveva creduto. Gli umanisti fiorentini della sua
generazione erano morti da tempo; né la sua fama bastava a
tutelarlo dalle critiche e dalle malignità dei suoi
irritabili concittadini; critiche e malignità che ferivano
profondamente il suo carattere, rimasto, anche in vecchiaia, vivo e
risentito. Perciò, malgrado le affettuose insistenze di
Cosimo, che lo stimava e gli voleva bene, decise, verso il 1458, di
ritirarsi a vita privata, lasciando la sua carica a Benedetto
Accolti.
Si spense il 30 ott. 1459, e fu sepolto, accanto agli amici Bruni e
Marsuppini, nella chiesa di S. Croce in Firenze.
Risulta chiaro, anche da queste brevi indicazioni biografiche, come
nel B., non meno che nei grandi umanisti suoi contemporanei e amici,
dal Salutati al Bruni, dall'Aurispa a Guarino, sia intenso il gusto
della vita pratica; ma non meno chiaro appare come in lui tale
gusto, più volentieri che nel campo propriamente civile o
educativo o magari economico, tenda a esplicarsi attraverso una
varia ed estrosa attività di curioso e attento viaggiatore e
ricercatore, di accanito polemista, di brillante conversatore: una
attività che in nessun altro luogo poteva meglio essere
esercitata che in quella Curia romana, dove non a caso egli rimase
mezzo secolo, e che rimpiangeva quando era impegnato nelle
più importanti ma più onerose mansioni di cancelliere
fiorentino. Questo particolare aspetto della personalità del
B. va tenuto presente per intendere e valutare la sua opera
letteraria.
Anche alla base di tale opera c'è la convinzione, comune a
tutti i grandi umanisti della prima metà del Quattrocento,
che la cultura, e in particolare la cultura letteraria, debba essere
perseguita non come fine a se stessa, ma quale elemento integrante
di una operosa vita civile e sociale. "Licet... etiam sine litteris
civem esse praeclarum", egli afferma, per esempio, nell'orazione
scritta in morte del Bruni (cfr. L. Bruni Epistolarum libri VIII,
ed. Mehus, Firenze 1741, p. CXXV) "et eum rem publicam tum consilio
atque opere iuvare. Nam, et apud priscos illos et apud posteriores
fuere permulti absque ulla doctrina excellenti virtute praediti, qui
res et bello et pace praeclaras magna cum laude gessere... Verum
litterae, si accedant, minime sunt repudiandae, sed appetendae
potius, si desint, quoniam afferunt summum ornamentum earum
cultoribus et ad res agendas doctiores ac perfectiores solent
reddere. Illi vero, quibus Musae sunt cordi quique bonarum artium,
studiis deduntur, ... in primis autem virtutem colant et habeant
vitae ducem, sine qua et litterae contemnendae sunt et doctrina
omnis videtur esse repudianda. Nam quibus pluris est scientia quam
virtutis indagatio, ii viri evadunt callidi et perniciosi et tum
reipublicae tum ceteris inutiles". Questo senso del valore formativo
della cultura e delle lettere si configura non di rado, anche negli
scritti del B., esplicitamente come meditazione o ammonizione o
satira.
Ma l'aspetto davvero caratteristico del Poggio scrittore va indicato
piuttosto nella sua singolare capacità di osservare con
spregiudicata attenzione e cordiale partecipazione la varia scena
del mondo terreno e specialmente del mondo degli uomini nelle loro
molteplici manifestazioni; e in una disposizione, altrettanto
singolare, a comunicare ai lettori tutto il tesoro di fresche e
personali impressioni e opinioni in tale modo raccolte. A questo
stesso atteggiamento non è certo estraneo un contenuto
morale, una fiducia viva nel contributo che quella osservazione e
comunicazione possono offrire alla formazione dell'uomo integrale;
ma è anche vero che tale atteggiamento, per la sua intima
natura, tende a tradursi in disinteressata rappresentazione
artistica, in un'arte cordialmente realistica, che assume volentieri
la forma del colloquio, della descrizione, della narrazione, del
bozzetto, dell'aneddoto, del "motto" calzante e arguto. Adeguato
strumento stilistico di questa disposizione morale ed artistica
è la prosa latina del B.: una prosa in cui molti lettori, dal
Valla in poi, ora con severità ora con indulgenza,
rintracciarono "errori" di lingua e di grammatica, ma che nella
libera imitazione del modello ciceroniano, nella ricca
varietà di lessico e di costrutti, nella aderenza, specie
sintattica, al volgare contemporaneo, si rivela felicemente idonea a
esprimere la dignità etica e insieme l'agile concretezza di
quel fervido spirito di osservazione e comunicazione che è al
centro della personalità dello scrittore.
Gli scritti più utili a determinare così i legami come
i caratteri specifici del B. rispetto alla cultura contemporanea
sono forse i dialoghi. Tipici di questa cultura sono i temi in essi
trattati: il problema del retto uso del denaro nel De avaritia
(1428-29); quello dei vantaggi e degli svantaggi del matrimonio
nell'An seni sit uxor ducenda (1436); il confronto fra la vita
splendida ma inquieta dei potenti e quella misurata e serena dei
letterati nel De infelicitate principum (1440); la definizione del
concetto di nobiltà nel De nobilitate (1440); la satira degli
ipocriti, specialmente ecclesiastici, nel Contra hypocritas,
(1447-48); la discussione intorno alla fortuna e al suo potere sugli
uomini nel De varietate fortunae (1448) e nel De miseria humanae
condicionis (1455); il paragone fra la giurisprudenza e la medicina,
e la questione della lingua parlata nella Roma antica e dei suoi
rapporti con il latino letterario nella Historia tripertita
disceptativa convivalis (1450).
Alla cultura contemporanea Poggio si riallaccia anche per il metodo
della trattazione, piuttosto retorico che rigorosamente filosofico,
e altresì, non raramente, per singole argomentazioni e
conclusioni. Ciò che invece distingue questi dialoghi e
assicura a essi un posto importante nella storia del pensiero
umanistico è l'acuto interesse con cui vengono individuati e
riconosciuti, sia pure in modo non sistematico, certi aspetti della
concreta realtà politica, sociale ed economica.
Particolarmente notevoli, in tale senso, la giustificazione, nel De
avaritia, della brama del denaro, in quanto elemento insopprimibile
per la formazione e il mantenimento delle città e degli
Stati; la caratterizzazione, nel De nobilitate, del diverso
contenuto che il concetto di nobiltà assume nelle singole
nazioni e città in rapporto, di volta in volta, con la loro
diversa situazione psicologica e storica, e ancora, nello stesso
dialogo, l'insistenza sulla necessità che la virtù,
che costituisce la vera radice della nobiltà, si estrinsechi
nella vita pratica; la realistica rappresentazione dello scontro fra
fortuna e virtù nel De varietate fortunae;l'ammissione, nella
terza conversazione dell'Historia tripertita, della violenza
illegale come momento positivo di rinnovamento e di progresso;
l'analisi sottile e curiosa con la quale nel dialogo Contra
hypocritas, l'autore distingue, mentre ne fa la satira, i molteplici
aspetti sotto i quali quel vizio si presenta. Sono pagine anche
artisticamente pregevoli, soprattutto quando il B. può
abbandonarsi alla sua vena di descrittore e di narratore, come nel
De avaritia e nel Contra hypocritas, e specialmente nel De varietate
fortunae, che si apre con una commossa e attenta contemplazione
delle rovine di Roma, e si configura poi come un tessuto di esempi
tratti soprattutto dalla storia recente e contemporanea e in
particolare dalle agitate vicende del papato di Eugenio IV, fino a
concludersi, nel quarto e ultimo libro, con la colorita narrazione,
raccolta dalla viva voce del protagonista, dei viaggi effettuati in
India dal veneziano Niccolò de' Conti.
Forse più ancora che nel dialogo il B. si sente tuttavia a
suo agio nell'epistola, genere letterario, si sa, diffusissimo
nell'Umanesimo, ma specialmente congeniale a chi, come lui,
intendesse la letteratura soprattutto come strumento di
comunicazione di personali esperienze di vita: congenialità
di cui doveva rendersi conto l'autore stesso, che provvide
personalmente a riunire e a pubblicare le sue lettere, dopo averle
riviste e corrette, in varie raccolte successive.
Dell'epistola il B. si vale anche per trattare, in modo più
agile e disinvolto, impegnativi argomenti di carattere teorico o
pratico: sia che egli vi accenni temi filosofici, come l'avarizia o
la fortuna, che poi svolgerà più ampiamente nei
dialoghi, sia che vi manifesti il suo atteggiamento intorno a
questioni religiose, come nelle lettere polemiche ad Alberto da
Sarteano e ad altri intorno agli osservanti; o vi esponga le sue
idee su problemi storici allora assai vivi, come in quelle
anticesariane a Guarino; o infine vi chiarisca la propria posizione
politica, come nel famoso elogio, inviato a Filippo Maria Visconti,
della "fiorentina libertas" o nella consolatoria rivolta a Cosimo
quando fu esiliato da Firenze. Ma l'epistola è soprattutto
per il B. il campo ideale per esprimere senza specifiche
preoccupazioni teoriche o pratiche, e quindi con particolare
efficacia artistica, le sue impressioni su fatti concreti della
propria vita o della storia o della cronaca del suo tempo: come
quando egli racconta le avventurose visite nelle biblioteche
svizzere, tedesche e francesi ed elenca entusiasta le avvenute
scoperte; o confida le sue malinconie durante il soggiorno in
Inghilterra, le sue tristi o liete vicende familiari, le sue
speranze di potersi un giorno ritirare in un sereno "otium cum
dignitate"; o descrive con penetrazione e umorismo abitudini e
costumi stranieri, la allegra vita, per esempio, dei bagni di Baden;
o tratteggia con mordace ironia tipi e scene della Curia papale; o
rappresenta, apertamente esprimendo il suo giudizio, il
comportamento di qualche grande personaggio contemporaneo in
drammatiche circostanze, come nella famosa lettera sul processo e il
supplizio di Girolamo da Praga, piena di franca ammirazione per il
"virtuoso" eretico.
Questo gusto del fatto concreto si ritrova, per così dire,
allo stato puro, ma con risultati moralmente e artisticamente meno
notevoli, in quelle Facetiae che il B. venne sparsamente pubblicando
fra il 1438 e il 1452: una serie di aneddoti, storielle, motti
arguti e favolette, ora spiritosi ora soltanto grossolani o
addirittura osceni, spesso relativi a personaggi del suo secolo o
del precedente, ma non raramente costruiti con elementi di fonti
medioevali o classiche od orientali. Non è assente invero,
neppure in questi brevi raccontini, un fondo morale, soprattutto
quella sua volontà di osservazione e comunicazione dei
molteplici aspetti del mondo degli uomini: e vi si avverte anche un
intento letterario, il proposito cioè, dichiarato dall'autore
stesso nella prefazione e in effetto non raramente raggiunto, di
voler mostrare le capacità espressive del latino nella
trattazione di argomenti umili e quotidiani. Vero è tuttavia
che le Facetiae sono prima di tutto, come il B. stesso ammette,
un'opera di piacevole intrattenimento, quasi un'eco scritta delle
barzellette e delle maldicenze che i segretari e gliscrittori
apostolici si raccontavano, quando, nei momenti d'ozio, si
raccoglievano a conversare liberamente in una stanza che essi stessi
chiamavano "bugiale", cioè, come spiega Poggio, "mendaciorum
officinam".
Anche le invettive del B. conservano il segno della loro origine
pratica nella malignità e nella ferocia delle accuse, spesso
false, nella volgarità degli insulti, nella plebea virulenza
del linguaggio.
Bisogna però riconoscere che anche in questo genere il B. si
distingue tra gli umanisti contemporanei per un estro fantastico e
una felicità stilistica che trovano riscontro forse soltanto
in qualche pagina polemica (di carattere comunque alquanto diverso,
più raffinatamente letterario) del Poliziano. Queste
qualità, meglio che nelle quattro invettive contro il
Filelfo, o in quelle composte rispettivamente contro Tommaso Morroni
da Rieti, contro l'antipapa Felice V e contro i magistrati
fiorentini (In fidei violatores), che gli avevano tolto il
privilegio, a lungo goduto, dell'esenzione dalle tasse, hanno modo
di manifestarsi nelle cinque scagliate contro il Valla; il quale
nella prima è rappresentato come eroe di un burlesco trionfo,
nella seconda e nella terza quale protagonista di una truculenta
avventura infernale, e nella quarta è sottoposto a una feroce
canzonatura, modellata sulla Apokolokyntosis senechiana.
Questo maggiore impegno artistico si spiega anche tenendo presente
la natura della polemica cui esse si riferiscono: una polemica, in
cui Poggio sentiva di rappresentare e difendere non soltanto la sua
persona, quanto tutta una cultura letteraria, quella del primo
umanesimo, contro gli assalti baldanzosi della nuova,
storico-filologica, iniziata appunto dal Valla e destinata a
prevalere nella seconda metà del secolo. Alla volontà
di rendere omaggio a quella cultura rispondono più
esplicitamente le orazioni funebri che il B. scrisse per alcuni
illustri personaggi del suo tempo, e in particolare quelle dedicate
ai due più cari suoi amici e corrispondenti, Niccolò
Niccoli e Leonardo Bruni. Ai gusti e ai metodi del Bruni e in genere
del primo umanesimo si riallacciano meno originalmente altre opere
che il B. compose pure negli ultimi anni della sua vita: le
traduzioni in latino della Ciropedia (1443-47), dei primi cinque
libri di Diodoro (1449), e dell'Asino e delle Vere storie di Luciano
(1455), traduzioni condotte assai liberamente e non senza
fraintendimenti, e in cui la personalità del B. si riconosce
soprattutto nella scelta dei testi, tutti di carattere storico o
narrativo; e le Historiae Florentini populi, che la morte
impedì all'autore di rivedere, e che si distinguono
dall'opera analoga del Bruni quasi soltanto per le più
esplicite ambizioni letterarie.
La maggior parte dei dialoghi e delle orazioni funebri, le
più importanti invettive, parecchie epistole e le Facetiae
sono raccolte nelle seguenti edizioni complessive: Poggii Florentini
Opera, Argentinae 1511 e 1513, a cura di T. Aucuparius, e Basileae
1538. Dei dialoghi ricordiamo le seguenti edizioni particolari:
Historiae de varietate fortunae, a cura e con note di D. Giorgi,
Parigi 1723 (comprende anche 57epistole inedite), rist. anast.,
Bologna 1969; An seni sit uxor ducenda, Liverpool 1805, e Firenze
1823; Contro l'ipocrisia, testo latino e traduzione a cura di G.
Vallese, Napoli 1946; la seconda Convivalis disceptatio della
Historia tripertita e una Oratio in laudem legum, nel vol. La
disputa delle arti nel Quattrocento, a cura di E. Garin, Firenze
1948, pp. 11-33; il De avaritia (e tre epistole), nel vol. Prosatori
latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp.
218-301.L'unica edizione complessiva delle Epistolae è quella
in tre volumi, a cura di T. Tonelli, Florentiae 1832-1861. Altre
epistole nel vol. del Walser, cit. più oltre, pp. 428-556,
dove sono stampate anche alcune orazioni e invettive prima di allora
inedite. Delle molte edizioni delle Facetiae va ricordata quella
stampata a Londra 1798, con un'appendice che raccoglie le
imitazioni, latine e francesi; e delle traduzioni le italiane, con
introduzioni e note, di G. Lazzeri, Milano 1924, e di F.
Cazzamini-Mussi, Roma s.a. (ma 1928), e la tedesca, pure con
introduzione e note, di A. Semerau, Leipzig 1905.Le Historiae
Florentini populi si leggono in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script.,
XX, Mediolani 1731, pp. 194-454;di esse esiste una traduzione
italiana del figlio del B., Iacopo, pubblicata a Venezia 1476, e
più volte ristampata. È in corso a Torino, Bottega
d'Erasmo, una ristampa di tutte le opere del B., curata da R.
Fubini: sono usciti finora i seguenti tomi: I, 1964 (Scripta
ineditione Basilensi anno MDXXXVIII collata; con una importante
premessa del curatore); II, 1966 (Opera miscellanea edita et
inedita;contieneanche vari opuscoli finora inediti); III,
1964(Epistolae, ed. Tonelli).
Grandissima è l'importanza del B. nella storia della
scrittura latina, in quanto al suo nome è legata la nascita
della scrittura detta "umanistica". Egli cominciò
giovanissimo a copiare manoscritti per conto di Coluccio Salutati,
il quale, indiretto discepolo del Petrarca anche in campo grafico,
aveva decisamente avviato un processo irreversibile di abbandono
delle forme gotiche e di ritorno all'imitazione della scrittura
carolina. Il più antico manoscritto di mano del B. giunto
sino a noi è il Laur. Strozz. 96, contenente il trattato De
verecundia del Salutati, e scritto a Firenze fra il 1402e il
novembre del 1403; esso, basato sull'imitazione diretta, e ancora
stentata, di una tarda minuscola carolina del secolo XI, può
essere considerato il primo manoscritto in umanistica finora noto.
Del B., che continuò per parecchi decenni un'intensa
attività di amanuense, prima per conto di altri, poi per
sé, rimangono complessivamente diciotto codici autografi (ma
il Dunston ha recentemente contestato l'autografia del Livio Vat.
lat. 1843, 1849, 1852, nonché del Laur. 49.24), che possono
essere distribuiti in tre diversi periodi cronologici. Il primo e
iniziale costituisce quello della imitazione fotografica e ancora
impacciata dei modelli antichi; il secondo, degli anni 1409-1414,
è caratterizzato dall'uso di una umanistica compatta, alta e
stretta, influenzata da esempi di pregotica del sec. XII. Il terzo e
ultimo periodo noto rappresenta quello della definitiva
canonizzazione di uno stile grafico, che, distaccandosi
progressivamente dall'imitazione dei modelli, acquista una propria
individualità e una grazia spiccata nell'armonia delle
proporzioni, nell'accentuato rotondeggiamento, nel disegno sinuoso
delle aste. Il B. fu un rinnovatore anche per quello che riguarda le
maiuscole.
Grande studioso di lapidi antiche, egli creò un nuovo
alfabeto maiuscolo completamente diverso da quello della tradizione
gotica, ancora adoperato dal Petrarca e dal Salutati. Le sue
maiuscole, che ebbero larghissima fortuna, sono esemplate sul
modello di quelle lapidarie romane e delle capitali epigrafiche di
età romanica, ma sempre con liberi adattamenti di carattere
soprattutto ornamentale. Il tipo di scrittura libraria creato dal
B., che da vecchio ebbe al suo servizio diversi, anonimi copisti da
lui istruiti all'uso della "umanistica", influenzò almeno due
generazioni di scribi di scuola fiorentina e, per imitazione diretta
o indiretta, incontrò larghissima diffusione in diversi
centri dell'Italia centrale e meridionale.