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Nella terminologia marxista, la differenza tra il valore del
prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento
della forza-lavoro, differenza di cui in un regime capitalistico
si approprierebbero gli imprenditori-capitalisti.
1. La teoria del plusvalore
La teoria del p., detta anche dello sfruttamento del lavoratore,
può essere storicamente ricondotta a spunti dottrinali
contenuti in opere degli economisti classici e soprattutto a un
suggerimento, forse involontario, di D. Ricardo. Quest’ultimo,
riducendo il valore di scambio dei beni al quantitativo di lavoro
necessario a produrli (dato il basso livello della tecnica di
allora) e precedendo K. Marx nell’applicare la legge dello scambio
anche al mercato del lavoro, mise infatti in evidenza come la
quantità di lavoro contenuta nel prodotto (valore del
prodotto) superasse quella che serviva a ricostituire la
forza-lavoro consumata (valore del lavoro, ossia salario). Il p.
quindi già in Ricardo trae origine dal lavoro non
remunerato.
Marx ha elaborato ed esposto con più precisione il
concetto, sempre inquadrandolo in una situazione di concorrenza
perfetta e in un punto di equilibrio perfetto, lo ha distinto dal
profitto e, attraverso l’analisi del capitale, è arrivato a
ricollegarlo soltanto al capitale variabile (la forza lavoro),
contrapposto al capitale costante cioè gli impianti: il o
grado di sfruttamento è pertanto definito come il rapporto
tra il p. e il capitale variabile. Diverso è comunque il
motivo per il quale i lavoratori sono ‘condannati’ a ricevere solo
un salario di sussistenza; in Ricardo ciò è dovuto
alla legge ferrea maltusiana (➔ occupazione) mentre in Marx
all’esercito industriale di riserva, a quella massa di disoccupati
che competono con gli occupati in termini di salario, spingendolo
al ribasso. L’esercito industriale di riserva è funzionale
quindi al capitalista ed è ciò che gli consente di
estrarre il massimo pluslavoro originando il p. di cui si
appropria; secondo Marx il sistema capitalistico ha sempre la
necessità che esista disoccupazione nell’economia.
In Marx la dottrina del p. costituisce il criterio fondamentale
dell’analisi della nascente società capitalistica; e da
essa trae origine la spiegazione economica del comunismo, in
quanto da un lato costituirebbe la ragione dell’accumulazione
capitalistica nelle mani di pochi e dall’altro quella del
progressivo immiserimento del proletariato, presupposto per la
formazione di una coscienza di classe diretta alla
«espropriazione degli espropriatori».
2. Gli sviluppi
In campo liberale, alla dottrina marxista del p. si è
opposta la considerazione che un equilibrio perfetto di
concorrenza non è concepibile in una situazione in cui
tutti i capitalisti-imprenditori fanno guadagni di sfruttamento:
giacché ognuno di essi tenterebbe di allargare la sua
produzione e l’effetto di questa tendenza generale sarebbe quello
di aumentare via via il saggio dei salari e annullare
progressivamente i guadagni suddetti. È vero d’altra parte
che Marx, più che all’analisi di un processo economico
stazionario in un punto di equilibrio perfetto, mirava a quella di
una struttura economica in continua variazione e che il p.
potrebbe quindi tendere a scomparire e a ricrearsi. Ma, secondo i
non marxisti, anche così la teoria del p. non risolverebbe
i problemi sorti dal contrasto tra la teoria del valore-lavoro,
oggi superata, e la realtà economica.
Di fatto una società in cui tutti coloro che sono in grado
di farlo lavorassero e in cui si producessero soltanto i beni
strettamente necessari per consentire l’esistenza e la
riproduzione della forza-lavoro, una società cioè in
cui non si potesse neppure parlare di p., sarebbe condannata alla
stazionarietà, dato che per avviare un processo di sviluppo
è necessario, se non sufficiente, che la produzione superi
i bisogni essenziali di chi produce. L’esistenza di questo
sovrappiù è quindi concepibile, in senso dinamico,
come incremento rispetto a un periodo precedente del reddito
totale di una società, che può essere per intero
reinvestito nella produzione senza ridurne i consumi.
Naturalmente al concetto di sovrappiù si può
giungere soltanto considerando la produzione, come hanno fatto i
fisiocrati e gli economisti classici, compreso Marx, un processo
circolare in cui gli stessi beni compaiono come prodotti e come
fattori produttivi, mentre il pensiero economico successivo ha
rifiutato radicalmente il concetto di sovrappiù, e quindi
di p., in quanto si è fondato a differenza della tradizione
classica su una concezione del processo economico che comporta
l’individuazione di un contributo produttivo o specifico dietro
ogni forma di reddito.
Per opera di P. Sraffa si è tornati a uno schema di
processo economico in cui il valore della produzione può
superare quello dei costi e dar luogo quindi a un
sovrappiù. Una volta ammessa però l’esistenza di un
sovrappiù e spiegatane la formazione bisogna affrontare il
problema di chi se ne appropria e dell’uso che ne fa; se infatti
venisse consumato improduttivamente, la società non
potrebbe svilupparsi (in linguaggio marxiano si avrebbe la
«riproduzione semplice»), mentre, se impiegato
produttivamente, darebbe luogo a una «riproduzione
allargata» o «accumulazione». Lo sviluppo
dipende quindi dall’impiego del sovrappiù e presuppone la
distinzione tra consumi necessari e non necessari alla
prosecuzione e all’ampliamento del processo produttivo.
Vi è tuttavia nell’analisi marxiana del sovrappiù un
germe di autodistruzione; infatti con il procedere
dell’accumulazione il sistema economico investe maggiormente negli
impianti, cioè nel capitale fisso (anche grazie al
progresso tecnologico); essendo il p. originato dal pluslavoro, il
saggio del profitto, definito come rapporto tra p. e somma del
capitale fisso e variabile, decresce all’aumentare del capitale
fisso. All’aumentare quindi della componente degli investimenti
sul totale del capitale di impresa, il saggio del profitto
diminuisce e porterà all’implosione del sistema
capitalistico.