Tito Maccio Plauto

 

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di Giorgio Pasquali

PLAUTO (Plautus). - Il maggiore dei commediografi latini. Della vita di P., se non teniamo conto, com'è doveroso, di vicende evidentemente leggendarie, sappiamo ben poco. Tutte le notizie tramandate risalgono a Varrone, il quale aveva studiato gli atti delle rappresentazioni (e tutto quello che da esse riportava sarà probabilmente vero); ma anche ricavava particolari biografici dalle commedie stesse, riferendo all'autore vicende che colà sono narrate dai personaggi, secondo una ricetta della biografia alessandrina che non inganna ormai più nessuno studioso ragionevole: evidentemente notizie di tal fatta non hanno alcun valore, perché, mentre si presentano quale tradizione, sono in realtà combinazione arbitraria e fantastica. Che P. abbia prima fatto danari con la sua professione di attore, li abbia poi perduti in speculazioni commerciali transmarine e si sia dovuto guadagnare la vita girando la mola, che abbia, mentre girava la mola, composto tre commedie, il Saturio, l'Addictus e un'altra (tutte e tre perdute), è un tessuto d'invenzioni: Varrone ha riferito a P. quel che in quelle tre commedie era detto di qualche personaggio!

Sicuro è che P. nacque a Sarsina (o Sassina), una cittadina umbra non lontana dal confine gallico: a Sarsina si parlava certamente ancora umbro, se pure si sarà inteso bene il latino (ché non è lontana la colonia latina di Rimini, fondata tra la guerra tarantina e la prima punica); e non è escluso che quell'umbro fosse mescolato di elementi gallici. Il maggiore commediografo latino imparò probabilmente il latino, non l'ebbe quale lingua materna o fu almeno bilingue. Né questo è caso, ché si ripete per Livio Andronico e per Nevio, per Ennio e per Pacuvio, per Cecilio e per Terenzio. Sappiamo inoltre da fonte documentaria (didascalie conservate) che lo Stichus fu rappresentato nel 200, lo Pseudolus nel 191; da allusioni ad avvenimenti contemporanei induciamo che il Miles Gloriosus cade poco innanzi al 204, la Cistellaria poco innanzi al 201. Già meno sicura è la data della morte: che Varrone la registrasse sotto il 184, significa in primo luogo soltanto che il nome del poeta scompariva da quell'anno in poi dai protocolli delle rappresentazioni.

Anche l'onomastica non è pienamente sicura. Un tempo si soleva chiamare il poeta M. Accius; il più venerabile tra i codici di Plauto, il palinsesto ambrosiano (v. sotto), rivelò una forma più genuina, T. Maccius (la forma M. Accius deriva da un Maccius non inteso). Ma è questa poi davvero la forma assolutamente genuina? Plauto chiama sé stesso nei prologhi talvolta Plautus, spesso (in genitivo) Macci Titi; una volta (Asin., 11) Maccus. Si chiamava T. Maccius Plautus o T. Maccus Plautus? E portò egli il triplice nome già in Sarsina dove l'onomastica, come mostrano le epigrafi, era etruscoide, dove quindi erano in uso, prima che a Roma, i tre nomi e dove il gentilizio spesso non aveva la desinenza romana in -ius? È poco probabile, perché sarebbe un bel caso che un Sarsinate, il quale portava un nome che contrassegnava anche una figura scenica, Maccus (a un dipresso Pulcinella), diventasse poi in Roma proprio attore. O piuttosto un Tito umbro (gl'Italici, più antichi avevano un nome solo, il cosiddetto prenome, e il patronimico) chiamato già in patria Plautus, cioè probabilmente "piede piatto", si sarà a Roma, dal mestiere che esercitava, fatto chiamare Maccius, e quel passo dell'Asinaria conterrà un'allusione al nome e nello stesso tempo al mestiere dal quale il nome deriva?

Non molto più si può dire sulla vita di P. e sulla sua cronologia. Da un passo delle Bacchides nelle quali cita l'Epidicus (v. 214): "io amo l'Epidico quanto me stesso, ma nessun'altra commedia vedo tanto di mala voglia quanto questa, quando la rappresenta Pellione", ricaviamo che P., almeno da un certo punto in poi, non fu l'impresario di sé stesso, che l'attore Pellione aveva acquistato questa commedia, come secondo le testimonianze delle didascalie aveva acquistato lo Stichus. Ricaviamo ancora che parecchio tempo dev'essere passato fra Stichvs (anno 200) ed Epidicus dall'un canto e le Bacchides dall'altro. Il confronto tra due narrazioni di sogni, nel Mercator e nel Rudens, mostra che il Rudens è più antico. Di recente, dal confronto tra due monologhi, si è voluto ricavare che i Captivi sono posteriori alla Mostellaria. Ma termini assoluti non si trovano.

Certo, importa più vedere come in anni pieni di guerre, negli anni della conquista della Gallia cisalpina e della Spagna e delle terribili lotte contro Filippo di Macedonia e Antioco, un umbro di bassa condizione imparò tanto di greco da sentire direttamente la commedia nuova e tanto di latino da riprodurla in questa lingua, adattandola al gusto del pubblico romano, senza scrupoli di filologo, ma con intuizione profonda di artista e di uomo di teatro.

Secondo una testimonianza di Gellio, la quale deriva da Varrone, a P. erano attribuite circa centotrenta commedie. Ma già Accìo (v.; nato il 170 a. C.) tentava nei suoi Didascalica, a. quel che pare fondandosi principalmente su criterî stilistici, di distinguere, nel gran numero delle fabulae tramandate, quelle che presentavano garanzia di autenticità, e non si peritava di rigettare anche commedie che portavano il nome dell'autore nel prologo, considerandole, almeno in parte, quali rifacimenti di commedie precedenti. Varrone prosegue a distanza di quasi due secoli l'opera di Accio, e, servendosi di schemi alessandrini, divide le commedie in "autentiche" (genuinae), quelle la cui autenticità nessun critico aveva messo in dubbio, false (spuriae) e controverse (ambiguae). Questa divisione ebbe influsso decisivo sulla conservazione di P.: quantunque Varrone non abbia, a quel che pare, dato un testo di P., a noi è giunta una raccolta che conteneva originariamente tutt'e ventuna le genuinae di Varrone e solo queste: e cioè Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Bacchides, Captivi, Casina, Cistellaria, Curcitlio, Epidicus, Menaechmi, Mercator, Miles gloriosus, Mostellaria, Persa, Poenulus, Pseudolus, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus, Vidularia.

Per vero, di una, la Vidularia, leggiamo in questa raccolta solo il titolo, e, per i casi della tradizione, è andata perduta l'ultima parte dell'Aulularia e la prima delle Bacchides e la parte centrale della Cistellaria; anche altrove il testo è lacunoso.

Le faoulae di Plauto appartengono tutte alla palliata (v. commedia), cioè derivano da esemplari greci: l'azione ha luogo in Grecia o nel mondo greco (per lo più ad Atene; per l'Amphitruo a Tebe per i Captivi in Etolia, per il Curculio a Epidauro, per i Menaechmi a Epidamno, per il Poenulus a Calidone, per il Rudens a Cirene); greci sono i personaggi; greci, in massima, i costumi e le istituzioni giuridiche e sociali presupposte. Le commedie che P. ridusse per il teatro romano appartengono tutte alla "commedia nuova"; non fa eccezione, come pure si è creduto per parecchio tempo, il Persa. Una posizione speciale ha soltanto il modello dell'Amphitruo: mentre tutte le altre commedie sono esclusivamente umane, e dei (o piuttosto, per lo più, personaggi allegoríci) non hanno parte se non quali recitatori del prologo, l'Amphitruo è parodia mitologica. La parodia mitologica è considerata in genere quale caratteristica della "commedia media". Ma essa è insieme anche più antica e più recente: noi possediamo da anni un lungo tratto di un sommario del Dionysalexandros di Cratino (v.), e i personaggi dell'Amphitruo sono, nonostante i nomi divini e la potenza di operare prodigi, personaggi della "commedia nuova", il padrone, la matrona, particolarmente il servo. Non c'è alcuna ragione di ritenere che anche la fonte dell'Amphitruo non appartenga alla "nuova".

Il nome dell'autore dei modelli è talvolta tramandato e determinato con certezza: l'originale dell'Asinaria è di un ignoto poeta Damofilo. Di Filemone sono gli originali del Trinummus, del Mercator, della Mostellaria; di Difilo quelli della Casina e del Rudens; di Menandro quelli dello Stichus, delle Bacchides, del Poenulus, dell'Aulularia, della Cistellaria; per questa l'identificazione è stata di recente confermata dalla lettera, scoperta a Bamberga, di un chierico dell'età degli Ottoni, il quale attinge titoli di commedie da un Festo più completo di quello giunto a noi.

In certo senso, si può dire che P. traduce le sue commedie da esemplari greci, così come buona parte della drammatica latina arcaica da Livio Andronico in poi consiste di versioni. Già questo non sarebbe poco: i poeti romani del periodo arcaico hanno inventato la versione artistica, hanno imparato e insegnato a riprodurre un'opera d'arte letteraria in una lingua diversa da quella nella quale era stata concepita, e, possiamo dire, a creare nella lingua nuova opere d'arte materialmente corrispondenti a quelle concepite in greco. La civiltà greca non conosce se non versioni a fine pratico (tali sono, p. es., quelle dall'assiro di testi astrologici; tali in certo senso anche i Settanta) o scientifico (come le versioni di documenti e opere documentarie egiziane e assire). A tale opera i poeti romani erano predisposti da condizioni personali, perché tutti, da Livio Andronico sino a Terenzio, erano sin dall'infanzia bilingui o trilingui. E quei poeti, inventando la traduzione artistica, davano a Roma un istrumento prezioso per la sua missione di diffonditrice della cultura greca, occidentale, tra le genti.

Ma P. ha fatto di più. Lo stile delle sue traduzioni è eminentemente personale, tant'è vero che esso, nonostante la varietà dei modelli, è uno. E non ha nulla di esotico: i grecismi che vi s'incontrano sono evidentemente non peculiari di P., ma attinti alla lingua latina del tempo. Gli originali, se possiamo giudicare anche gli altri poeti della "nuova" alla stregua di Menandro di cui possediamo ormai moltissimo, erano scritti in linguaggio della conversazione, alieno da ogni retorica: Menandro, quando diventa retorico, è parodico. I trimetri di Menandro sono dimessi: l'enjambement è quasi ininterrotto: il poeta desidera che i suoi personaggi diano quasi l'impressione di parlare in prosa. L'enfasi in Menandro, quando c'è, è qúasi sempre parodia (fa eccezione qualche scena molto mossa, in momenti culminanti dell'azione). Si è spesso parlato di verismo e di naturalismo, sebbene non del tutto con ragione. I versi recitativi di P. s'imprimono subito all'orecchio e alla memoria, tanto sono sonori. Mentre Menandro evita le figure, P. ne ha ad ogni verso, di parole e di suono, "dicola", "tricola", allitterazione e così via. Ma questa, se si voglia, retorica egli non ha appresa da maestri greci che, secondo ogni probabilità, a Roma a quel tempo non c'erano. La prosa sacrale romana, la poesia popolare romana anteriori a Livio Andronico erano appunto carattaizzate da quelle figure. P. traduce la commedia ellenistica in uno-stile che mentre è originale e suo, continua la tradizione dello stile nazionale romano. In Menandro dicono frizzi soltanto personaggi secondarî, di condizione per lo più servile o a ogni modo umile; in P. lo scoppiettio dei giuochi di spirito è continuo, anche se alcuni si direbbero meglio freddure. Anche i lazzi appartengono allo stile nazionale: Palum acetum. Menandro è poeta, nelle sue cose migliori e più caratteristiche, serio, verrebbe voglia di dire malinconico; P. è con Aristofane il comico più allegro di tutte le letterature antiche e moderne.

È caratteristica essenziale della "commedia nuova" greca (rispetto all'arte, p. es., di Aristofane) che la parte lirica è in essa ridotta a ben poca cosa, a nulla. Alla vita di ogni giorno il canto corale è estraneo, né la gente riversa la piena dei suoi sentimenti in cantate liriche. Inoltre, la commedia di Menandro vuol essere una: non che manchino oscillazioni di tono; vi sono e virtuosissime, ma esse sono comprese nei limiti di una gamma poco estesa. Buona parte di ogni commedia di P. (tranne una, quella che delle poche databili è la più antica, il Miles) è costituita di cantica. Dond'egli abbia ricavato i metri di questi cantica, è dubbio: se da lirica ellenistica o non piuttosto, attraverso la tragedia romana, dalla tragedia greca (v. metrica). Ma v'è anche rispetto alla tragedia greca una differenza essenziale: anche nella tragedia greca vi sono come in Plauto parti liriche non solo monologiche, ma dialogiche, "commi", dialoghi tra uno o più attori e il coro; ma queste scene non fanno mai o quasi mai progredir l'azione. In P. buona parte dell'azione si svolge nei cantica. Quest'è qualcosa di nuovo. P., si è detto non senza ragione, è l'inventore dell'opera buffa. S'intende che sia così: P. fu uno spirito musicale, un genio musicale, e come tale lo ammirò il suo popolo: un epigramma composto subito dopo la sua morte (Varrone e, sull'autorità di Varrone, Gellio lo attribuiscono al poeta medesimo) afferma che per essa gl'innumerevoli ritmi tutti insieme si misero a piangere: et numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt. Orazio non sente più quei versi; ma non possiamo accettare il suo giudizio, perch'egli non si rendeva conto che il testo di P. che aveva dinnanzi agli occhi era modernizzato, non sapeva dei mutamenti fonetici e prosodici che nel periodo tra P. e Cicerone aveva subito la lingua latina. È strano che critici italiani, pur sapendo, com'è naturale, di tali mutazioni trovino i versi di P. "dimessi". Dimessi sono i ritmi di Menandro, non quelli di P.

Abbiamo detto che la lingua di P. è una: questo non significa ch'egli non faccia differenza tra le parti recitative (diverbia) e le cantate (cantica), anzi tra l'uno e l'altro verso recitativo. Essa è una e insieme varia, com'è sempre nei grandi artisti.

Di P. abbiamo sin qui valutato l'arte stilistica e metrica; l'abbiamo, cioè, considerato essenzialmente quale traduttore. Ma è evidente che una traduzione che trasforma così l'originale, che di un'elocuzione unita, normale, conversativa fa un fuoco d'artificio di frizzi, è insieme riduzione. P. deve aver capito e sentito gli originali greci in tutte le loro sfumature; ma egli non fu un filologo alessandrino in terra latina (come fu solo mezzo secolo dopo un altro poeta scenico, L. Accio), e non si propose intenti filologici. Non volle rendere lo stile degli originali, ma volle imprimere un sigillo romano e proprio sulla materia da essi trattata: volle, uomo musicale, infondervi lo spirito della lirica musicale; volle, uomo di teatro, piacere al pubblico. Il pubblico romano era ancora al tempo di Terenzio umile e popolare; è possibile che nell'età di P. (diversamente che in quella di Terenzio) anche le classi più alte della popolazione partecipassero dei gusti del popolo. A un tal pubblico l'arte raffinata ma un po' stanca di Menandro non poteva piacere: un tal pubblico non poteva, p. es., sorridere, come il Menandro degli Epitrepontes, di schiavi che hanno fiutato un po' la cultura e si dànno l'aria di persone colte: i Romani di P. non avevano probabilmente ancora un termine che corrispondesse a Παιδεία. Erano gente di gusto non raffinato, ma sano, e avevano bisogno, per divertirsi, di stimoli forti. P. condisce la "commedia nuova" di una buona dose di pepe di Caienna.

Non intendiamo, con questa espressione, oscenità; le quali anche nei modelli non mancavano del tutto (non mancavano, p. es., nell'originale difileo della Casina), e in P. stesso sono rade e per lo più quasi ingenue; ma appunto frizzi, lazzi, massime ridicole e simili.

P. non si fa scrupolo, dunque, di sostituire e di aggiungere pur di far ridere; queste parti "plautine in Plauto", cioè non desunte da modelli, sono quasi sempre scurrili ma per lo più spiritose. Le aggiunte sono spesso talmente inorganiche che un lettore attento riesce a delimitarle, notando come azione e dialogo corrano lo stesso e meglio, tolti certi versi o gruppi di versi. Altre aggiunte e sostituzioni si tradiscono per le allusioni a istituzioni romane o a costumi romani. Altre rientrano in categorie determinate: spesso una scena comincia con una comparazione: il personaggio dichiara di superare (o che altri supera) una personalità storica o mitologica o anche un altro oggetto per un qualche rispetto. Talvolta la comparazione diviene addirittura identificazione: "il mio padre è una mosca: non gli si può tener nascosto nulla". O l'identificazione si presenta quale trasformazione: "farò di te un pallone per esercizî di pugilatore e, appesoti in alto, ti assalterò a pugni" oppure (parla uno che vuole uccidersi) "farò della spada una coltre e mi ci butterò sopra". L'avvicinamento è sempre tra cose disparate, sicché verrebbe voglia di confrontare le celebri domande che sono o erano ìn voga qualche anno fa: "Che c'è di simile tra.....?". E notevole quanto spesso in tali aggiunte figuri mitologia per lo più triviale; quanto spesso in esse ricorrano grecismi. Evidentemente il pubblico romano anche più modesto doveva avere conoscenza di leggende greche non foss'altro da oggetti dell'arte figurata; e proprio le classi inferiori, delle quali liberti che avranno saputo il greco fin da quando erano schiavi, anzi forse fin dalla nascita, erano un elemento numericamente importante, avranno parlato un latino più variegato di grecismi che le classi alte, che i proprietarî terrieri: questi saranno stati puristi, perché avevano più tradizione.

Ma le riduzioni di P. penetrano ancor più profondamente, non si limitano ad aggiunte o a mutamenti formali. Da quando noi possediamo moltissimo di Menandro, sappiamo che questi si preoccupa pochissimo dell'invenzione, evidentemente schematica e tradizionale. Anzi egli negli Epitrepontes, celiando su sé stesso, confessa per bocca di un suo personaggio caro e un po' buffo, di avere attinto alla tragedia moltissimi dei caratteri, moltissimi dei problemi etici. Gli Epitrepontes trattano appunto il problema se la donna che rompe, per lo più senza volerlo, l'obbligo della castità sia lei degna di dispregio e non l'uomo che le ha fatto violenza. Drammi di tal genere, P. non ne ha tradotti: il suo pubblico da una parte s'interessava per avventure fantastiche in terre lontane (Rudens) o per riconoscimenti che gli Ateniesi avevano considerato solo un mezzo comodo per sciogliere il nodo, dall'altra si compiaceva di beffe ben riuscite. Si può giurare che al poeta il senso per i problemi della vita, per la problematicità della vita stessa mancava altrettanto quanto al suo pubblico: P. non è pensatore né per forza propria né per virtù d'influssi filosofici. P. ha scelto dalla produzione ricchissima della "nuova" quelle commedie il cui argomento, il cui intreccio egli sapeva che sarebbe piaciuto al pubblico romano con cui il poeta era unito da vera congenialità: di Menandro, p. es., l'Aulularia, dove il tipo dell'avaro anche senza i ritocchi di P., è irresistibilmente ridicolo. Ma neppure queste commedie egli ha potuto o voluto lasciare quali erano.

Menandro, lo abbiamo detto, impiega molta cura nel delineare i caratteri: egli ha sì qualche macchietta ben riuscita di popolano o di schiavo, ma ha nel resto solo caratteri individuali, non tipi, non maschere. Di P. (come di Aristofane) si potrebbe dir l'opposto: egli ha soltanto tipi. In questa distinzione così netta s'incarna una concezione totalmente diversa della vita, non solo una diversità di temperamento umano e artistico: da una parte italicità, romanità genuina, che s'affaccia fresca alla cultura, dall'altra civiltà attica, vecchia, ripiegata su sé stessa, dubitosa. Gli altri poeti della "nuova" è certo che somigliavano più a Menandro che a P., se pure erano personalità meno spiccate, più ligie alla tradizione comica. Chi vuol caratterizzare personaggi, non vi può in una commedia riuscire se non per mezzo di un dialogo lento e persino strascicato. Un tale dialogo sarebbe riuscito intollerabile ai Romani del tempo di P. Questi ha evidentemente abbreviato, tagliato senza scrupoli. Una sola volta egli si è sbagliato nello scegliere: ha tradotto una commedia appunto di Menandro, lo Stichus, nella quale due figure squisitamente menandree, due sorelle sposate a due fratelli, che vogliono rimanere fedeli ai loro mariti, assenti, scomparsi, mentre il padre le vorrebbe risposare con uomini ricchi, esigevano (e avevano avuto in Menandro) un trattamento molto delicato. In P. esse fanno un effetto molto convenzionale. Ma i tagli non servono soltanto a "sveltire" il dialogo: la Casina, come attesta sia l'epilogo stesso sia il prologo (che, se nella forma presente deriva da una rappresentazione postuma, risale nella parte essenziale al poeta stesso), è stata privata di un personaggio e, in conseguenza di questo, troncata di tutta l'ultima parte: "egli, non lo aspettate, oggi in questa commedia non ritornerà in città: P. non lo ha voluto, ha spezzato un ponte ch'era sulla sua strada"; "spettatori, vi diremo quello che avverrà dietro le scene: Casina qui presente sarà riconosciuta figlia qui del vicino e si sposerà con Eutinico, figliuolo del nostro padrone". P. ha svolto qui tanto ampiamente la parte lirica che questa volta non gli è rimasto spazio per condurre a fine l'azione e l'ha troncata.

Non si potrebbe confessare con più disinvoltura quell'arbitrarietà che è propria del vero uomo di teatro (che la parte lirica, eccezionalmente lasciva, sia qui libera invenzione di P. o derivi dalla farsa romana di origine campana, l'Atellana, non è né dimostrato né credibile).

Tagli, dunque, in un caso speciale ma non isolato: anche l'Epidicus è troncato in fine: evidentemente, il pubblico romano, quando vedeva dove l'azione andava a parare, diveniva impaziente. Nell'Epidicus il taglio serve anche a eliminare il matrimonio tra due fratelli consanguinei, lecito agli Ateniesi, per i Romani incestuoso.

I tagli sono per lo più compensati da aggiunte. La maggior parte di esse serve, come abbiamo veduto, al fine comico; altre al fine lirico musicale: sono, si direbbe, librettistiche. Tutto un gruppo è indirizzato a dare spicco alla parte del servo. Un servo che organizza tiri birboni ed è orgoglioso della sua maestria e potenza e ne mena vanto, e, alla fine, scoperto, è piuttosto premiato che punito (l'Epidicus finisce: "questi è colui che si è conquistata la libertà con la sua malizia") era estraneo ai Romani, popolo in questo tempo ancora di severa disciplina familiare e sociale; ma, appunto perché estraneo, riusciva loro interessante e divertente. E proprio nelle parti di servi gli accenni a istituzioni, particolarmente militari, romane tradiscono l'aggiunta sistematica: molto spesso lo schiavo furbo confronta sé stesso con un generale vittorioso cui è stato o sarà decretato il trionfo: proprio in queste parti abbondano solenni formule sacrali romane. Qui, e spesso anche altrove, P. ha aggiunto di suo o allargato monologhi dell'originale. Le aggiunte di P. non investono, di solito, la struttura della commedia; ma vi sono eccezioni: non forse la Casina, ma, com'è stato dimostrato di recente, il Rudens: l'originale di Difilo è stato qui trattato da P. e, con molta maggior libertà ch'egli non soglia, rifatto; e parimenti lo Pseudolus: qui le aggiunte drammatiche servono appunto a dare più spicco alla parte del servo furbo.

Il pubblico romano doveva essere, lo abbiamo veduto, assetato di azione quanto di musica. La "nuova" offriva molta caratteristica, molta raffinatezza psicologica, anzi psicologistica, non molta azione, o azione che si svolge un po' a rilento. Dall'un canto, P. taglia spesso personaggi ed episodî: il che solo a prima giunta può sembrare contraddire a quel che osserviamo: tali tagli rendono l'azione più rapida, più spedita; mirano cioè a quel fine d'intensificazione che domina il procedimento del poeta rispetto agli originali. Dall'altro, egli osa talvolta inserire in una commedia scene tratte da un altro originale o anche combinare l'azione di due originali. I nemici di Terenzio, rinfacciandogli questa stessa operazione, usano per essa l'espressione oltraggiosa contaminare, qualcosa come "confondere": quest'espressione è rimasta senza più intenzione ingiuriosa nell'uso filologico anche odierno, perché non ve n'è altra tramandata dall'antichità. Terenzio e i suoi nemici sanno che avevano contaminato Nevio, Ennio, Plauto: la contaminatio non è dunque un'invenzione di Plauto, ma è antica, si può dire, quanto la commedia latina, perché risponde a un bisogno che tanto era più forte nel pubblico romano quanto più si risale nel tempo.

Le testimonianze terenziane sono a noi preziose, ma è certo che, mentre il lettore comune non scorge le suture, la filologia classica avrebbe scoperto certe contaminazioni plautine anche senza bisogno di documenti. In una delle più celebri delle sue commedie, il Miles gloriosus, P. adopra quasi in pari misura un 'Αλαζών (Vantatore) e una commedia in cui la trovata principale era un'apertura celata che congiungeva due case, sicché una donna potesse figurare alla svelta presente o assente nell'una e nell'altra: nel Miles è inserita anche, ed è caso unico, una scena da un terzo originale. Così pure due originali paiono sfruttati con pari o quasi pari larghezza nel Poenulus (uno dei due è il Καρχηδόνιος, "Cartaginese", menandreo). Questi due sono gli esempî insieme più sicuri e più chiari, e il loro studio, mentre rende possibile una ricostruzione, se non completa, molto estesa degli originali, lumeggia anche bene l'arte drammatica di Plauto, la quale affronta problemi difficili e li risolve, se non totalmente, almeno abilmente. In limiti più ristretti, la contaminazione si tiene nelle Bacchides: dei tre inganni del servo Crisalo (Chrysalus), due derivano dall'originale menandreo che si chiamava appunto Δὶς (Bis decipiens) "il due volte ingannatore" e non "il tre volte ingannatore"; il terzo inganno deriva da un altro originale. Dubbia è la contaminazione per lo Pseudolus; da negare, sebbene sia stata affermata, per lo Stichus e l'Amphitru.

Evidenti e confessate aggiunte dell'impresario nei prologhi dell'Amphitruo, del Mercator, del Poenulus mostrano che le commedie di Plauto furono rappresentate di nuovo dopo la sua morte; il prologo della Casina, sebbene strutti il prologo autentico, è nel complesso la réclame o, per parlare in modo più antico, la conciliatio benivolentiae di un impresario per una rappresentazione tenuta verso il 160. In questo tempo, evidentemente, lo stato romano, rappresentato nei giuochi scenici dagli edili, accettò dai Greci del periodo ellenistico l'uso di unire con rappresentazioni di commedie nuove quelle di una commedia antica (παλαιά). Che qualche decennio dopo queste rappresentazioni M. Accio dovesse faticare per distinguere le commedie autentiche di P. dalle infinite che gli erano attribuite, mostra quanto valesse quel nome.

Quel che Accio tentò, riuscì a Varrone (v. sopra), gli riuscì forse oltre i suoi desiderî. È possibile che a noi, per colpa dell'indice varroniano, siano andate perdute commedie di Plauto autentiche, solo perché contestate da qualche critico. Ancora Cicerone ammira P.; Orazio, lo abbiamo veduto, lo aborre. Per lui, esteta raffinato, gli scherzi plautini sono troppo rozzi: per la metrica egli, che compone esclusivamente strofe semplicissime, schematiche, non ha simpatia, non ha forse neppure comprensione: la tradizione della polimetria e insieme dello stile musicale era a Roma durata ancor meno che in Grecia (v. metrica); essa era già morta al tempo di Terenzio, che poetò soltanto in metri recitativi. E i metri recitativi di P. dovevano a Orazio riuscire incomprensibili. Ma Orazio non dovette essere il solo del suo gusto: nell'età augustea rappresentazioni di drammi arcaici, specialmente così abbondanti di musica, è probabile che non si dessero; e P. scompare anche dalle mani dei lettori. Nelle quali ritorna nell'età dell'arcaismo antoniniano di Frontone e di Gellio: a questa risalgono gli argomenti premessi alle commedie. Un nuovo rifiorire d'interesse per P. si nota nella letteratura galloromana del sec. V. Poi P. scompare, per ricomparire nel Rinascimento; dapprima le commedie, che sono le prime otto nell'ordine (alfabetico, se pure non senza qualche spostamento) dell'edizione che ce le ha conservate; poi e altre dodici dal 1429 in poi. Plauto durante il Rinascimento domina di nuovo il teatro fino, si può dire, alla rivoluzione francese; lo domina negli originali e più ancora in imitazioni. Imitazione di P. è, si può dire, tutta la commedia italiana del Cinquecento; Molière s'ispira a P. nell'Avare e nell'Amphitryon. Nel sec. XIX egli non sembra esercitare grande influsso sulla cultura: meno comprensione che ogni altro hanno per lui i classicisti italiani della seconda metà del secolo, grettamente ciceroniani e intesi tutti a riprodurre, non a intendere, gli scrittori latini. Dispiace che in Italia sia troppo poco studiato lo scrittore latino più ricco di aceto italico.

Storia del testo e degli studî plautini. - Fonte ultima del testo di P. sono per noi non gli originali ma copioni: l'edizione a cui i nostri manoscritti in ultima analisi risalgono, contiene non solo, come abbiamo detto, prologhi modificati o scritti per rappresentazioni postume, ma anche doppie redazioni di versi singoli o d'intere scene. Essa è evidentemente stata condotta sui copioni con metodo alessandrino (v. edizione), cioè non eliminando i doppioni, ma allineandoli gli uni agli altri. La filologia romana si forma per opera di greci liberti di nobili famiglie, trasportando a Plauto i metodi inventati dagli Alessandrini per Omero e per il dramma attico. Quest'edizione dev'essere molto antica, perché non si può credere che copioni si conservassero a lungo anche dopo che le commedie non si rappresentavano più. Eppure la lingua di P. vi doveva già apparire falsata. Caratteristico è che le condizioni linguistiche sono diverse da commedia a commedia: vale a dire che modernizzazioni devono essere avvenute ancor prima che le commedie fossero raccolte in un'edizione. È probabile che i maggiori mutamenti siano avvenuti già tra P. e Accio, quando il testo non era ancora difeso dalle cure dei grammatici.

P. è a noi arrivato in un gruppo di manoscritti carolingi (sec. X-XII), la cosiddetta famiglia palatina, derivata per trascrizione meccanica da un capostipite medievale, e in un palinsesto ancora appartenente all'antichità (sec. IV?), l'Ambrosiano, spesso illeggibile e inutile. Tra questi manoscritti e l'edizione principe s'interpongono infiniti anelli. I due manoscritti presentano differenze notevolissime, non meccaniche, ma si accordano poi in corruttele anche meccaniche. Esse derivano da un'edizione commerciale della tarda antichità, sfigurata già da errori. Che questa derivi a sua volta da un'edizione dell'illustre filologo della fine del sec. I dell'era volgare, Valerio Probo, è per lo meno verosimile. Ma ognuno dei nostri due esemplari, come l'esemplare adoprato dal grammatico Nonio (v.) hanno lezioni peculiari, che devono avere preso da altre fonti. Ciascuno di questi tre codici rappresenta una mistura dell'edizione di Probo con lezioni, genuine o spurie, conservate quale dall'uno, quale dall'altro dei numerosi esemplari di Plauto che circolavano nell'età imperiale. Tali lezioni estravaganti (in parte, come si è detto, genuine) possiamo dimostrare che sussistevano non solo nell'età di Frontone e di Nonio ma in quella del grammatico Prisciano (sec. VI). Altre si sono al contrario perdute assai presto: uno dei più splendidi versi di Plauto si ricostruisce casualmente da una citazione di Varrone.

La filologia del sec. XIX (antesignano F. Ritschl) ha trovato m0d0 di ricostruire metodicamente il testo di P. ben oltre le testimonianze della tradizione diretta e indiretta. Questo lavoro si fonda per buona parte sulla osservazione dell'ordine delle parole, che in P. non è mai arbitrario. La fonetica e la morfologia sono state restituite sul fondamento delle epigrafi arcaiche. Nell'ultimo venticinquennio del secolo la considerazione sempre più accurata delle particolarità metriche e prosodiche, specialmente dei versi recitativi, ha fatto grandi progressi: benemeriti sono stati particolarmente A. Luchs, F. Skutsch, F. Marx e, sovra ogni altro, F. Leo, nella cui edizione si rispecchia l'attività filologica di molti decennî. Il lavoro è proseguito, oltre il Leo, per opera dei suoi scolari, particolarmente H. Jacobsohn, G. Jachmann, E. Fraenkel, e di scolari di scolari, H. Drexler, A. Thierfelder, O. Skutsch. La metrica conferma spesso l'emendazione suggerita dalla grammatica storica, e nel tempo stesso le segna limiti precisi; suggerisce anche essa stessa emendazioni. Ma il Leo ha insegnato anche a ricostruire con sicurezza gli originali attici delle riduzioni plautine, e ha così spianato la via a valutare l'arte di P. Questa è stata intesa, più profondamente che da ogni altro, da E. Fraenkel, il quale ha chiarito e al tempo stesso delimitato magistralmente quanto in essa sia di originale. Ha intrapreso ora a caratterizzare, con sicurezza di gusto, gli originali attici G. Jachmann. Lo studio di P. è altrettanto importante per intendere lo spirito dei Romani del principio del sec. II in tutta la sua gioconda freschezza, come per capire il mondo attico dell'età ellenistica nella sua umanità stanca ma raffinata.

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Tito Maccio Plauto (in latino: Titus Maccius Plautus o Titus Maccus Plautus; Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C. – 184 a.C.) è stato un commediografo romano.

Plauto fu uno dei più prolifici e importanti autori dell'antichità latina.

Egli fu esponente del genere teatrale della Palliata, ideato dall'innovatore della letteratura latina Livio Andronico. Il termine plautino, che deriva appunto da Plauto, si riferisce sia alle sue opere sia ad opere simili o influenzate da quelle di Plauto.

Dibattito sul nome e brevi cenni biografici

Il nome del poeta è fra i dati incerti. Gli antichi lo citano comunemente come Plautus, la forma romanizzata di un cognome umbro Plotus. Nelle edizioni moderne fino all’Ottocento figura il nome completo Marcus Accius Plautus. Questa forma è di per sé sospetta alla luce di considerazioni storiche: i tria nomina si usano per chi è dotato di cittadinanza romana, e non sappiamo se Plauto l’abbia mai avuta. Un antichissimo codice di Plauto, il Palinsesto Ambrosiano, rinvenuto ai primi dell’800 dal cardinale Angelo Mai, portò migliore luce sulla questione. Il nome completo del poeta tramandato nel Palinsesto si presenta nella più attendibile versione Titus Maccius Plautus; da Maccius, per errore di divisione delle lettere, era uscito fuori il tradizionale M. Accius (che sembrava credibile per influsso di L. Accius, il nome del celebre tragediografo). D’altra parte, il nome Maccius si presta a interessanti deduzioni. Non si tratta certo di un vero nome gentilizio e del resto non c’è ragione che Plauto ne portasse uno; si tratta invece di una derivazione da Maccus, il nome di un personaggio tipico della farsa popolare italica, l’atellana. Questa originale derivazione deve avere un legame con la personalità e l’attività di Plauto. È dunque verosimile e attraente ipotesi che il poeta teatrale umbro Titus Plotus si fosse dotato a Roma di un nome di battaglia, che alludeva chiaramente al mondo della scena comica, e quindi conservasse nei “tre nomi” canonici la traccia libera e irregolare del suo mestiere di "commediante". Varie fonti antiche chiariscono che Plauto era nativo di Sàrsina, cittadina appenninica dell'Umbria (oggi in Romagna): il dato è confermato da un bisticcio allusivo in Mostellaria 769-70. Plauto, come del resto quasi tutti i letterati latini di età repubblicana su cui abbiamo notizia, non era dunque di origine romana: non apparteneva però, diversamente da Livio Andronico e Ennio, a un'area culturale italica già pienamente grecizzata. Si noti anche che Plauto era con certezza un cittadino libero, non uno schiavo o un liberto: la notizia che svolgesse lavori servili presso un mulino è un'invenzione biografica, basata su un'assimilazione tra Plauto e i servi bricconi delle sue commedie, che spesso vengono minacciati di questa destinazione. La data di morte, il 184 a.C., è sicura; la data di nascita si ricava indirettamente da una notizia di Cicerone (Cato maior 14,50), secondo cui Plauto scrisse da senex la sua commedia Pseudolus. Lo Pseudolus risulta rappresentato nel 191, e la senectus per i Romani cominciava a 60 anni. Probabile quindi una nascita fra il 255 e il 250 a.C. Le notizie che fissano la fioritura letteraria del poeta intorno al 200 quadrano bene con queste indicazioni. dobbiamo immaginarci un'attività letteraria compresa fra il periodo della seconda guerra punica (218-201) e gli ultimi anni di vita del poeta: la Casina allude chiaramente alla repressione dei Baccanali del 186.

Le commedie plautine

Plauto fu autore di enorme successo, immediato e postumo, e di grande prolificità. Inoltre il mondo della scena, per sua natura, conosce rifacimenti, interpolazioni, opere spurie. Sembra che nel corso del II secolo circolassero qualcosa come centotrenta commedie legate al nome di Plauto: non sappiamo quante fossero autentiche, ma la cosa era oggetto di viva discussione. Nello stesso periodo, verso la metà del II secolo, cominciò un'attività che possiamo definire editoriale, e che ha grande importanza per il destino del testo di Plauto. Di Plauto furono condotte vere "edizioni" ispirate ai criteri della filologia alessandrina. Benefici effetti di questa attività si risentono nei manoscritti pervenuti sino a noi: le commedie furono dotate di didascalie, di sigle dei personaggi; i versi scenici di Plauto furono impaginati da competenti, in modo che ne fosse riconoscibile la natura; e questo in un periodo che ancora aveva dirette e buone informazioni in materia. La fase critica nella trasmissione del corpus dell'opera plautina fu segnata dall'intervento di Varrone, il quale, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell'imponente corpus un certo numero di commedie (ventuno, quelle giunte sino a noi) sulla cui autenticità c'era generale consenso. Queste erano opere da Varrone accettate come totalmente e sicuramente genuine. Molte altre commedie - fra cui alcune che Varrone stesso riteneva plautine, ma che non aggregò al gruppo delle "ventuno" perché il giudizio era più oscillante - continuarono a essere rappresentate e lette in Roma antica. Noi ne abbiamo solo titoli, e brevissimi frammenti, citazioni di tradizione indiretta: questi testi andarono perduti nella tarda antichità, fra il III e il IV secolo d.C., mentre la scelta delle "ventuno" si perpetuava nella tradizione manoscritta, sino ad essere integralmente recuperata nel periodo umanistico. La cronologia delle singole commedie ha qualche punto fermo: lo Stichus fu messo in scena la prima volta nel 200, lo Pseudolus nel 191, e la Casina, come si è detto, presuppone avvenimenti del 186. Per il resto, alcune commedie presentano allusioni storiche che hanno suggerito ipotesi di datazione troppo sottili e controverse.

Uno sguardo cursorio agli intrecci delle venti commedie pervenuteci integre (della Vidularia, messa in ultima posizione da Varrone, fu oggetto di danneggiamenti nel corso della trasmissione manoscritta: ne abbiamo infatti solo frammenti) è senz'altro opportuno, anche se può suggerire una prima impressione assai parziale e anche fuorviante. Per unanime riconoscimento, la grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo l'altra, e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione sa sprigionare. Ma solo una lettura diretta può restituire un'impressione adeguata di tutto ciò: e se l'arte comica di Plauto sfugge per sua natura a formule troppo chiuse, una maggiore sistematicità nasce proprio dalla considerazione degli intrecci, nelle loro più elementari linee costruttive.

    Amphitruo (Anfitrione) - Giove arriva a Tebe per conquistare la bella Alcmena. Il dio impersona Anfitrione, signore della città e marito della dama; aiutato dall'astuto Mercurio, Giove approfitta dell'assenza di Afitrione, che è in guerra, per entrare nel letto della moglie ignara. Mercurio intanto impersona Sosia, il servo di Anfitrione. Ma improvvisamente tornano a casa i due personaggi "doppiati": dopo una brillante serie di equivoci, Anfitrione si placa, onorato di aver avuto per rivale un dio.

La commedia occupa un posto particolare nel teatro di Plauto, perché è l'unica a soggetto mitologico.

    Asinaria (La commedia degli asini) - Macchinazioni di un giovane per riscattare la sua bella, una cortigiana. L'impresa ha successo, grazie all'aiuto di furbi servitori e anche (cosa assai rara in questo tipo di intrecci) grazie alla complicità del padre dell'innamorato. Nasce poi una rivalità amorosa tra padre e figlio che si risolve, secondo logica, con il prevalere finale del giovane.

    Aulularia (La commedia della pentola) - La pentola, che è piena d'oro, è stata nascosta dal vecchio Euclione, che ha un terrore ossessivo di esserne derubato. Tra molte inutili ansie dell'avaro, la pentola finisce davvero per sparire; sarà utilizzata dal giovane amoroso, con l'aiuto dello schiavo, per ottenere le nozze con l'amata, che è la figlia di Euclione.

    Bacchides - Il plurale del titolo disegna due sorelle gemelle, entrambe cortigiane. L'intrigo ha uno sviluppo complesso e un ritmo indiavolato: diciamo solo che la normale situazione di "conquista" della donna viene qui non solo raddoppiata (si hanno naturalmente due giovani innamorati, con duplice problema finanziario, ecc.) ma anche perturbata da equivoci sull'identità delle concupite.

Il modello di questa commedia era il Dis exapatòn (Il doppio inganno) di Menandro: il recente ritrovamento di parte dell'originale greco permette finalmente, almeno in un caso, un confronto diretto fra Plauto e i suoi modelli greci.

    Captivi (I prigionieri; è l'unica commedia senza vicende amorose) - Un vecchio ha perduto due figli: uno gli fu rapito ancora bambino; l'altro, Filopolemo, è stato fatto prigioniero in guerra dagli Elei. Il vecchio si procura due schiavi di guerra Elei, per tentare uno scambio: alla fine non solo ottiene indietro Filopolemo, ma scopre che uno dei prigionieri Elei in sua mano è addirittura l'altro figlio, da tempo perduto.

La commedia si distingue in tutto il panorama plautino per la smorzatura dei toni comici e per gli spunti di umanità malinconica - si noterà subito che qui è assente, eccezionalmente, qualsiasi intrigo a sfondo erotico. Per questo ha goduto di una sua autonoma fortuna, anche periodi di svalutazione della triviale comicità plautina.

    Casina (La ragazza del caso) - Un vecchio e suo figlio desiderano una trovatella che hanno in casa; escogitano perciò due trame parallele: ognuno vuole farla sposare ad un proprio "uomo di paglia". Il vecchio immorale (che naturalmente è sposato) viene raggirato e trova nel suo letto un maschio invece che l'agognata Casina. Casina, si scopre infine, è una fanciulla di libera nascita, e può quindi regolarmente sposare il suo giovane pretendente.

    Cistellaria (La commedia della cesta) - Un giovane vorrebbe sposare una fanciulla di nascita illegittima, mentre il padre gliene destina un'altra, di legittimi natali. Il caso vanifica poi ogni ostacolo, rivelando la vera e regolare identità della fanciulla desiderata, e permettendo giuste nozze.

    Curculio (Gorgoglione, propriamente verme roditore del grano) - Curculio è parassita di un giovane innamorato di una cortigiana; per aiutarlo inscena un raggiro a spese sia del lenone che detiene la ragazza, sia di un soldato sbruffone, chiamato Terapontigono, che ha già messo in atto l'acquisto della medesima. Alla fine si scopre che la cortigiana è, in realtà, di nascita libera, e può quindi sposare il giovanotto. Il lenone ci rimette i soldi; Terapontingono, invece, non ha lagnanze: la ragazza, si è scoperto, è addirittura sua sorella.

    Epidicus (Epidico) - Una classica "commedia del servo", a ritmo incalzante. L'insaziabile serie di macchinazioni attuata dal servo Epidico è messa in moto da un giovane padrone assai inquieto: egli si innamora successivamente di due differenti ragazze, quindi con duplice richiesta di denaro, duplice "stangata" al vecchio padre, e comprensibile difficoltà. Quando Epidico sta ormai soffocando nelle sue reti, un riconoscimento salva la situazione: una delle due ragazze amate altri non è che la sorella dell'innamorato. Rimane disponibile l'altra, e finalmente si salda una stabile coppia di innamorati.

    Menaechmi (I Menecmi) - Il fortunato prototipo di tutte le "commedie degli equivoci". Menecmo ha un fratello, Menecmo, in tutto identico a lui. I due non si conoscono perché separati fin dalla nascita; quando sono ormai adulti, l'uno giunge nella città dell'altro e, ignaro dell'equivoca somiglianza, scatena una terrificante confusione. La commedia è tutta nel viluppo degli scambi di persona, fino alla reciproca simultanea agnizione finale.

    Mercator (Il mercante) - Su uno schema assai affine alla Casina, vediamo affrontarsi in rivalità amorosa un giovane (il mercante del titolo) e il suo anziano padre. Dopo una serie di mosse e contromosse, il giovane sconfiggerà le mire del vecchio, che ha fra l'altro una moglie battagliera, e si terrà la cortigiana che ama.

    Miles gloriosus (Il soldato spaccone) - La commedia, considerata uno dei capolavori di Plauto, mette in scena un servo arguto, Palestrione, e un comicissimo soldato fanfarone, Pirgopolinice. Lo schema di fondo è quello abituale - un giovane si affida al servo per sottrarre a qualcuno la disponibilità della ragazza amata - ma l'esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni.

    Mostellaria (La commedia del fantasma) - C'è un fantasma nella casa del vecchio Teopropide? Lo fa credere il diabolico servo Tranione, per coprire in qualche modo gli amorazzi del giovane padrone. L'inganno è divertente ma non può reggere a lungo: grazie all'intercessione di un amico, la vicenda si chiude su un perdono generale al giovane debosciato e al servo.

    Persa (Il persiano) - Ancora una beffa ai danni di un lenone, solo che questa volta l'innamorato è lui stesso un servo: non manca però un altro servo con funzione di aiutante. L'inganno, che ha successo, prevede una buffa mascherata, in cui il servo-coadiuvante impersona un improbabile Persiano.

    Poenulus (Il Cartaginese) - Qui il personaggio del titolo è sul serio uno straniero, un Cartaginese: l'azione, come al solito, è in Grecia. Assistiamo alle complicate vicende di una famiglia di origine cartaginese, con riconoscimento finale e riunione degli innamorati (i quali risultano essere fra loro cugini): il tutto a spese di un lenone.

    Pseudolus (Pseudolo) - Insieme al Miles, è tra i culmini del teatro plautino. Lo schiavo del titolo è veramente una miniera di inganni, il campione dei servi furbi di Plauto. Pseudolo riesce a spennare il suo avversario Ballione - un lenone di eccezionale efficacia scenica - portandogli via la ragazza amata dal padroncino e anche dei soldi in più: la beffa è così ben riuscita che Ballione, senza sapere di aver già perso la donna, si gioca una bella somma che Pseudolo non potrà mai riuscire nel suo intento!

    Rudens (La gomena) - Una rudens è un gòmena, attrezzo che è naturale trovare in una commedia ambientata sulla spiaggia. In un curioso prologo, la stella Arturo preannuncia il naufragio di un cattivo soggetto, il lenone Labrace. Labrace porta con sé indebitamente una fanciulla di liberi natali. Il Caso vuole che la tempesta scarichi i naufraghi su una spiaggia in cui si trovano il padre della fanciulla rapita e il suo innamorato. Tutto si accomoda con danno del malvagio, e una cassetta (ripescata grazie alla gòmena del titolo) risulta decisiva nel riconoscimento finale.

    Stichus (Stico) - Questa trama ha uno sviluppo insolitamente modesto, e debole tensione. Un uomo ha due figlie, sposate con due giovani da tempo in viaggio per affari: vorrebbe spingerle al divorzio, ma l'arrivo dei mariti risolve la questione, tra prolungati festeggiamenti.

    Trinummus (Le tre monete) - Un giovane scialacquatore, che in assenza del padre s'è quasi rovinato, viene salvato, tramite un benevolo raggiro, da un vecchio amico di suo padre. L'intreccio e la tonalità sono molto più edificanti del solito, con punte che, per una volta, fanno pensare all'umanità terenziana.

    Truculentus (Lo zoticone) - Una volta tanto, abbiamo qui una cortigiana che non è elemento passivo e posta in palio nell'azione: Fronesio è una creatrice d'inganni, che sfrutta e raggira i suoi tre amanti. Lo spostamento dei ruoli tradizionali fa sì che la protagonista sia tratteggiata in modo più fosco che la media dei "cattivi" plautini: quasi che ci sia della malizia in più, a fare i cattivi "fuori ruolo". È certamente un esperimento isolato, che tenta di allargare il già lungo repertorio di successi: non a caso viene datata al periodo più tardo.

    Vidularia (La commedia del baule) - I pochi frammenti della commedia (poco più di 100 versi) parlano di un baule (in latino vidulus) che contiene oggetti atti a far riconoscere (agnitio) il giovane Nicodemo. Non mancano punti di contatto con la trama della Rudens.

Tutte queste commedie sono state oggetto di studio e catalogate in sette gruppi:

    dei Simillimi (o dei Sosia): riguarda lo scambio di persona, dello specchio e del doppio;
    dell'Agnizione: alla fine di questo tipo di commedie avviene un riconoscimento improvviso ed imprevedibile dell'identità di un personaggio;
    della beffa: in questo tipo sono organizzati scherzi e beffe, bonari o meno;
    del romanzesco: dove compaiono i temi dell' avventura e del viaggio;
    della caricatura (o dei Caratteri): contenenti una rappresentazione iperbolica, esagerata di un personaggio;
    composita: che racchiude al suo interno uno o più elementi delle sopraccitate tipologie;
    del servus callidus: il servo, intelligente e scaltro, aiuta il padrone ad ottenere un oggetto desiderato o una donna (spesso e volentieri raggirando il vecchio padre o il lenone).

Lo schema delle commedie

Prima delle commedie vere e proprie, nella trascrizione manoscritta c'è quasi sempre un argumentum, cioè una sintesi della vicenda. In alcuni casi sono presenti addirittura due argumenta, e in questo caso uno dei due è acrostico (le lettere iniziali dei singoli versi formano il titolo della commedia stessa).

All'inizio delle commedie vi è un prologo, in cui un personaggio della vicenda, o una divinità, o un'entità astratta personificata presentano l'argomento che si sta per rappresentare.

Nella commedia plautina è possibile distinguere, secondo una suddivisione già antica, i diverbia e i cantica, vale a dire le parti dialogate, con più attori che interloquiscono fra di loro, e le parti cantate, per lo più monologhi, ma a volte anche dialoghi tra due o addirittura tre personaggi.

Nelle commedie di Plauto ricorre spesso lo schema dell'intrigo amoroso, con un giovane (adulescens) che si innamora di una ragazza. Il suo sogno d'amore incontra sempre dei problemi a tramutarsi in realtà a seconda della donna di cui si innamora: se è una cortigiana deve trovare i soldi per sposarla, se invece è onesta l'ostacolo è di tipo familiare.

Ad aiutarlo a superare le varie difficoltà è il servus callidus (servo scaltro) o il parassita (squattrinato che lo aiuta in cambio di cibo) che con vari inganni e trabocchetti riesce a superare le varie difficoltà ed a far sposare i due. Le beffe organizzate dal servo sono alcuni degli elementi più significativi della comicità plautina. Il servus è una delle figure più largamente utilizzate da Plauto nelle sue commedie, esso ha doti che lo fanno diventare eroe e beniamino dell'autore oltre che degli spettatori; esistono varie tipologie di servus:

    il servus currens: l'attore che interpreta questo tipo di servo entra in scena di corsa e mantiene un atteggiamento trafelato finché rimane sul palcoscenico. Plauto lo utilizza come parodia del messaggero, infatti porta sempre qualche lettera o informazione che è di vitale importanza per l'avanzamento della commedia;
    il servus callidus: è un tipo di servo la cui qualità più spiccata è appunto la calliditas (astuzia); ordisce inganni benevoli/malevoli sia a favore che contro il protagonista (nello Pseudolus, ad esempio, il servo ha un ruolo centrale: è colui che organizza la truffa);
    il servus imperator: appare nella commedia Persa; è una tipologia di servo che sfoggia una parlantina che utilizza parole che derivano dal gergo militare, e un'incredibile superbia. Parla di ciò che fa come se si rivolgesse a una truppa in partenza per una guerra.

Inoltre il servo è centrale nel metateatro plautino. È infatti il personaggio che assume la veste del doppio del poeta in quanto creatore di inganni. Paradgmatico in tal senso Pseudolus.

Un altro elemento strutturale di grande importanza nelle commedie di Plauto è il riconoscimento finale (agnitio), grazie al quale vicende ingarbugliate trovano la loro fortunosa soluzione e ragazze che compaiono in scena come cortigiane o schiave recuperano la loro libertà e trovano l'amore.

La Vis Comica

La grande comicità generata dalle commedie di Plauto è prodotta da diversi fattori: un’oculata scelta del lessico, un sapiente utilizzo di espressioni e figure tratte dal quotidiano e una fantasiosa ricerca di situazioni che possano generare l’effetto comico. È grazie all’unione di queste trovate che si ha lo straordinario effetto dell’elemento comico che traspare da ogni gesto e da ogni parola dei personaggi. Questa uniforme presenza di comicità risulta più evidente in corrispondenza di situazioni ad alto contenuto comico. Infatti Plauto si serve di alcuni espedienti per ottenere maggior comicità, solitamente equivoci e scambi di persona.

Plauto fa uso anche di espressioni buffe e goliardiche che i vari personaggi molto di frequente pronunciano; oppure usa riferimenti a temi consueti, luoghi comuni, anche tratti dalla vita quotidiana, come il pettegolezzo delle donne.

Inoltre Plauto fa largo uso dell'elemento corporeo (vedi corpo grottesco). Ad esempio questo dialogo della Aulularia in cui interagiscono i servi-cuochi Congrio e Antrace, e Strobilo che li coordina:

    Secondo Atto, Scena 4. (Un'ora dopo)

    Strobilo: (arrivando dal mercato con due cuochi, due flautiste e varie provviste)
    «Il padrone ha fatto la spesa in piazza, e ha ingaggiato i cuochi e queste flautiste.
    Mi ha anche ordinato di dividere tutte le sue cose, qui, in due parti.»

    Antrace: «Per Giove, di me - te lo dico chiaro e tondo - non farai due parti.
    Se invece vuoi che me ne vada tutto intero da qualche parte, lo farò senza meno.

    Congrio: (rivolto ad Antrace) «Quant'è carina e riservata questa prostituta pubblica.
    Se qualcuno volesse, non ti spiacerebbe, neh, di farti aprire in due dal di dietro.» (vv. 280-6)

I modelli greci

Le commedie di Plauto sono delle rielaborazioni in latino di commedie greche. Tuttavia, questi testi plautini non seguono molto l'originale perché Plauto da una parte adotta il procedimento della contaminatio, per il quale mescola insieme due o più canovacci greci, dall'altra aggiunge alle matrici elleniche cospicui tratti riconducibili a forme teatrali italiche come il mimo e l'atellana. Plauto tuttavia continua a mantenere nella sua commedia elementi ellenici quali i luoghi e i nomi dei personaggi (le commedie della recensione varroniana sono tutte palliatae, cioè di ambientazione greca). Si può affermare che Plauto prende molto dai modelli greci ma grazie ai cambiamenti e alle aggiunte il suo lavoro non risulta né una traduzione né un'imitazione pedissequa. A questo contribuisce anche l'adozione di una lingua latina molto vivace e pittoresca, in cui fanno spesso bella mostra di sé numerosissimi neologismi. La cosa che distingue l'imitatore dal grande scrittore è la capacità di quest'ultimo di farci dimenticare, tramite le sue aggiunte e le sue rielaborazioni, il testo di partenza. Sul tema della contaminatio c'è un'altra importante nota, il fatto che nei prologhi del Trinummus (verso 19) e dell'Asinaria (verso 11) Plauto definisce la propria traduzione con l'espressione latina "vortit barbare" (traduzione in italiano: vortit barbare = tradotto in latino). Plauto utilizza il verbo latino vortere per indicare una trasformazione, un cambiamento di aspetto; si perviene necessariamente alla conclusione che Plauto non mirasse solamente a una traduzione linguistica ma anche letteraria. Il fatto poi che utilizzi l'avverbio barbare deriva dal fatto che essendo le sue fonti di ispirazione di origine greca, in latino erano rese con un notevole perdita di significato oltre che di artisticità, e dato che per i Greci tutto ciò che era straniero era chiamato barbarus, Plauto afferma che la propria traduzione è barbara.

Influenze e rielaborazioni

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Le opere di Plauto hanno ispirato molti drammaturghi come William Shakespeare, Molière, e Gotthold Ephraim Lessing.

Molte delle sue commedie sono state riproposte fino ai giorni nostri, talvolta rielaborate in chiave moderna. È il caso della commedia I Menecmi riadattata da Tato Russo a fine anni 80 in chiave partenopea; lo spettacolo ha avuto un grande successo, con più di 600 repliche nell'arco di 15 anni [1].

Altre sue opere, il Miles gloriosus e lo Pseudolus sono alla base del musical A Funny Thing Happened on the Way to the Forum (Una cosa buffa accaduta sulla strada che porta al Foro, in italiano "Dolci vizi al foro") del 1962, in seguito portata sullo schermo cinematografico da Richard Lester. Lo stesso tipo di personaggio (lo schiavo furbo) appare in Up Pompeii.

Nel 1963 Pier Paolo Pasolini ha pubblicato presso l'editore Garzanti Il vantone, la sua traduzione in doppi settenari a rima baciata del Miles gloriosus; la lingua di Plauto è traslata in una lingua 'da avanspettacolo', con una leggera patina romanesca.