Indice
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
[Testamento politico]
CAPITOLO PRIMO
I. Ragionamento sul progresso. - II. Riscontro con la storia. - III.
Tendenza della società moderna. - IV. Religione.
I. La parola progresso suona nella bocca degli uomini d'ogni
condizione, d'ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da
nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza che,
applicati all'industria, al commercio, al vivere in generale,
trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti innegabili: noi
vediamo, ove erano gruppi di capanne, sorgere superbe città; campi
aspri e selvaggi squarciati dall'aratro, e resi fecondi; selve,
monti, mari, superati; rozzi velli trasformati in finissime stoffe;
le intemperie vinte con l'arte; le tenebre cacciate da fulgidissima
luce; il navigar contro i venti; il percorrere con portentosa
celerità sterminate distanze; finanche il fulmine reso rapido
messaggiero dell'uomo; l'immensità dei cieli, le viscere della terra
esplorate; gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali, tutti
studiati, classificati, misurati… Se questo è il progresso, niuno
può negarlo o non comprenderlo.
Ma cotesto accrescimento continuo del prodotto e dell'umano sapere,
spande egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell'uomo il
sentimento del proprio diritto, della dignità? Garantisce la
libertà, garentisce il popolo dall'usurpazione di pochi, rende forse
impossibile, sotto ogni forma, la schiavitú, ed assicura
l'indipendenza dell'uomo dall'uomo, o almeno ne libra su giusta
lance le correlazioni? Ognuno che vuol manifestare francamente la
propria opinione, ognuno che studia la storia, che osserva il
presente, risponderà: no, l'apogeo della civiltà romana, il secolo
d'Augusto fu il perigeo della libertà; i rozzi italiani dell'XI
secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo
secolo di Lorenzo De' Medici; i Francesi dello splendido secolo di
Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi,
adunque, il continuato miglioramento dell'umane condizioni?
Quale sarebbe il tipo ideale d'una società perfetta? Quella in cui
ognuno fosse nel pieno godimento de' proprî diritti, che potesse
raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie
facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità, o
d'umiliarsi innanzi al suo simile o di sopraffarlo: quella società,
insomma, in cui la libertà non turbasse l'eguaglianza; quella in cui
in ogni uomo il sentimento fosse d'accordo con la ragione, e che
niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o
soffocare gli impulsi di quello. In tal caso l'uomo manifesterebbe
la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma
chi trovasi piú lontano da questo ideale, il mercante e il
dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, e lo stesso
italiano del XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone
del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli
del vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del
genere umano.
Libera la mente da idee preconcette o da sistemi, faremo ricerca di
questa legge del progresso e del modo come essa opera.
Tutti i filosofi del mondo, da Platone ad Hegel, si accordano nel
riconoscere l'esistenza di una legge che chiamano idea, sostanza,
logica ecc., che regoli le condizioni e le relazioni degli uomini.
Stabilito un tal principio, svolgono i loro ragionamenti, ma le
conseguenze non sono d'accordo come il principio d'onde prendono le
mosse, imperò quel primo concetto, tutto astratto, è creato dal
pensiero indipendentemente da' fatti: ma una tale astrazione non
dura che un istante, la realtà riprende il suo imperio, e la ragione
non può che serpeggiare attraverso i fatti, e quindi le conclusioni
a cui ognuno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei
popoli fra i quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano l'uomo
alla grandezza dello Stato, perché tali erano le greche
costituzioni. Locke riconosce la sovranità della nazione sul
monarca, perché scriveva all'epoca de' rivolgimenti
dell'Inghilterra, e per esso la nazione è quale era l'inglese, col
parlamento, coi grandi, coi pubblici funzionarî. I filosofi
francesi, per contro, che scrivevano sotto l'impulso del bisogno di
abbattere ogni privilegio, riconoscono il diritto, la sovranità del
popolo nel puro senso democratico. Kant, comecché razionalista, ma
era un Inglese [sic] che scriveva nel '97; quindi afferma che il
popolo francese non aveva il diritto di giudicare e condannare il
suo re. Dopo la rivoluzione del '93 le condizioni del popolo son
cangiate, e con esse cangiano le idee surte dai nuovi mali: è la
miseria crescente che chiama a sé l'animo dei pensatori, quindi essi
non sacrificano piú l'individuo allo Stato, ma al diritto d'ognuno
vogliono che s'adatti la costituzione di questo, e mirano all'umana
prosperità, di quindi l'idea del convitto umano, del socialismo,
travisato nell'applicazione alla ricerca dei godimenti materiali.
Nella guisa stessa, per la stessa ragione, nel XVI secolo la vita
politica essendo muta in Italia, la filosofia è costretta a
rimanersi nell'astrazione, e si manifesta nel razionalismo di Bruno,
che Vico e Campanella avvicinano alla realtà, perché cominciasi a
sentire il bisogno d'un'esistenza politica, e quando questo bisogno
manifestasi nell'azione, la realtà è raggiunta da Mario Pagano,
svolta da Filangieri, da Romagnosi, in tutti i rami della vita d'un
popolo. Oggi finalmente nella dotta e pacifica Germania, in cui
l'azione ha pochissimo imperio sul pensiero, rivive con forme anche
piú astratte il razionalismo di Bruno; e mentre cercasi finanche
negare la realtà, procedesi cosí servilmente sotto l'imperio di
essa, che deducesi dai ragionamenti come il costituzionalismo sia
l'ideale dello Stato perfetto. Dunque, dal principio del mondo, il
pensiero umano non ha potuto mai procedere nelle sue ricerche
indipendente dalla realtà, a pena discende all'applicazione delle
idee, esse si adattano ai fatti, e non mai i fatti procedono da
esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto sia assurdo il
concetto che le rivoluzioni, i mutamenti negli ordini sociali si
facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; essi sono
conseguenza delle condizioni e relazioni degli uomini; e cominciano
a manifestarsi con l'idea quando già sono latenti nella società;
dalla manifestazione procedesi all'attuazione, e spesso questa
avviene senza di quella; nella guisa stessa che nell'uomo si
manifesta un bisogno, poi un'idea, poi l'azione, e spesso l'azione
segue immediatamente il bisogno senza manifestarsi o maturarsi nel
pensiero. Quindi la filosofia è quella che esamina, compara, ragiona
sulle condizioni, sui rapporti sociali, onde discernere ciò che si
nasconde sotto l'apparente calma, trae in luce, presenta in concetti
chiari e distinti quello che vagamente, ed universalmente è sentito.
La società ammira le astrazioni del pensiero, come i giuochi dei
saltatori di corda, ma non apprende nulla da quelle che possa
migliorare le sue condizioni; come niuno impara meglio a camminare
osservando le sorprendenti prove d'equilibrio di questi, le une e
gli altri non sono che passatempi. La filosofia veramente razionale,
ovvero la scienza che merita il nome di filosofia, è quella
cominciata in Italia con Bernardino Telesio, e seguita da tutti i
sommi Italiani sino al Romagnosi, che gli diede il piú vasto
sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le
nostre ricerche.
Io mi scorgo parte dell'universo, penso, ma penso ciò che è, il
reale; non si produce nella mia immaginazione nulla che non esista,
o che non risulti da ciò che esiste. Ho un'idea chiara e distinta,
senza conoscerne l'essenza, della materia, del moto, delle sue
proprietà; lo spirito è una negazione, ciò che non è materia,
un'incomprensibilità; una cosa che non potendo essere avvertita dai
sensi, non può essere neppure immaginata: spirito è una parola che
non ha significato.
Nel mondo osservo un incessante avvicendarsi di produzione e
distruzione, due cose opposte; ma se meglio rifletto, ogni
contraddizione sparisce, produzione e distruzione non sono che
l'effetto di una medesima causa, la causa, la legge della vita;
produzione come distruzione vuol dire moto, ovvero vita.
L'uomo lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorî; eroe e
codardo, benefattore e crudele, avaro e generoso… ma ogni
contraddizione sparisce quando riconosco queste diverse azioni
effetto di una sola e medesima causa, di una sola e medesima legge,
la ricerca dell'utile che, secondo l'indole degl'individui ed i
rapporti che costituiscono la società in cui vive, cangia i modi ed
il nome; chi lo cerca nella gloria, chi nell'ignominia; alcuni nel
sacrifizio, altri nei beni materiali… È questo un fatto che niuno
piú revoca in forse; esso è riconosciuto da tutta la scuola del
sensismo francese ed inglese; da' nostri grandi Italiani, Pagano,
Filangieri, Beccaria, Romagnosi, e sottinteso da Vico, da
Campanella, da Telesio; da tutti gli economisti moderni, da tutti i
socialisti; dai razionalisti della Germania: Di buon grado, dice
Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma, ahi lasso!, lo fo per
inclinazione; onde spesso mi contrista il pensiero di non esser
virtuoso. Fichte dice: ama te stesso sopra ogni cosa, ed il tuo
prossimo per amor di te stesso. Negano questa verità i poveri devoti
di un Dio personale; e gli ecclettici, ovvero quelli che cercano
conciliare i principî della scienza e lo stato presente della
società, e cosí si fanno gli apologisti del sacrificio quelli che ne
rifuggono con orrore!! A Giordano Bruno sarebbe stato piú doloroso
rinnegare la sua dottrina che sentirsi ardere le carni; si gettò nel
rogo per fuggire il dolore di rinunziare alle proprie idee. I due
ultimi versi del suo sonetto il dicono chiaramente…
Fendi secur le nubi e muor contento,
Se il ciel sí illustre morte ti destina!
Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la piú assurda è
quella di supporre l'esistenza d'un Dio, e l'uomo creato a sua
immagine; ovvero non essendoci dato immaginare questo Dio l'uomo
l'ha creato ad immagine propria, e ne ha fatto il creatore del
mondo, e cosí una particella diventata creatrice del tutto.
Ma quale utile può ottenersi dalla ricerca del creatore del mondo?
Nessuno. Il mondo esiste e ciò è un fatto; in esso dapertutto io
trovo moto, dapertutto la medesima causa della vita che appare in
mille guise: è latente nei minerali, vegeta nelle piante, guizza nei
pesci, rugge nel leone, ragiona nell'uomo; la diversità de' modi co'
quali manifesta la sua potenza, dipende dalla piú o meno perfezione
del corpo da essa animato. Corpo ed anima sono entrambi immortali,
non havvi nell'universo mondo un granello di sabbia che si
distrugga: il corpo ridotto polvere rientra in seno alla gran madre;
l'anima o il fluido animatore sorte dalla sua prigione che davagli
forma, abbandona il corpo che si distrugge e piú non si presta al
moto, e confondesi con la gran massa di esso che vaga negli spazî;
la morte non è che la distruzione delle forme d'un'individualità. Da
questo moto incessante risultano i rapporti dell'uomo col mondo
esteriore, degli uomini tra loro, la società, e però non fa d'uopo
ricercare la causa del moto, perché a nulla gioverebbe tale ricerca,
ma la legge del moto. Tutti i filosofi del mondo convengono
nell'immutabilità di questa legge, quelli soli che riconoscono
l'esistenza di un Dio la negano.
Il concetto d'un Dio onnipotente è figlio dello scetticismo in cui
cadde il mondo romano nella sua decadenza. La virtú, il giusto, il
diritto sono incompatibili con l'esistenza di questo Dio che può
tutto cangiare secondo il suo capriccio, che piegasi alle discordi
preghiere dei mortali; nulla vi resta d'immutabile, tutto cangia
secondo la sua volontà. L'unità dell'universo sparisce, non è una
sola la causa del moto, e quindi una sola la legge di esso, ma tante
cause diverse per quanti sono gli enti; l'anima dell'uomo è diversa
da quella del bruto, questa da quella del vegetabile, anzi ogni uomo
ha un'anima diversa. Ammessa tale ipotesi, la virtú non ha
significato, la ricerca di una legge unica del moto è impossibile,
impossibile il progresso; per un solo atto della volontà di questo
Dio noi potremmo indietreggiare di secoli. L'unica regola, l'unica
legge è la rivelazione che ci vien fatta da alcuni uomini in nome di
questo Dio, questi uomini sono gli arbitri dell'umanità. La storia
non ha piú nesso, ma sono tanti fatti, manifestazione della libera,
e però mutabile volontà di questo Dio. Ma quest'ipotesi scoraggiante
e incomprensibile, questo Dio assurdo, imagine della dissoluzione
sociale, sparisce, appena dalla corruzione comincia a manifestarsi
novella vita.
Stabilito che una sola debba essere l'ignota causa del moto, ci
faremo a rintracciarne la legge; non già astraendo il nostro
pensiero, e ricavando le conseguenze secondo i dettati della
dialettica, ma seguendo da vicino i fatti, studiandoli
accuratamente, e conoscere cosí la legge con cui essi gli uni dagli
altri procedono; non già cercando quale dovrebbe essere questa
legge, ma quale è; non l'ideale, ma il reale. Nell'universo
scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli astri,
il succedersi delle stagioni, il prodursi delle piante, tutto è
l'effetto di una medesima forza attiva, la quale sospinge gli uomini
al moto, e crea le loro diverse condizioni e relazioni, le diverse
costituzioni della società; e però essendo la storia un effetto di
questa forza, essa deve procedere secondo una regola, secondo una
legge immutabile e necessaria.
La noia che esagera il fastidio del presente, la speranza che
abbellisce oltre misura l'avvenire, ed in altri termini la necessità
di soddisfare ai proprî bisogni, sospingono l'uomo al moto; dolore e
piacere suoi angeli tutelari lo costringono a fermare la sua
attenzione sugli oggetti circostanti. Ed in tal guisa da ogni
sensazione, da ogni esperienza vien creata un'idea; se nulla v'è
nell'esperienza, nulla v'è nella mente, ovvero come dissero i
peripatetici, nihil est in intellectu quod prius non fuerit in
sensu.
Le continuate sensazioni dirozzano le fibre, che per soverchia
rigidezza, come quelle del selvaggio, mancano d'irritabilità, e
danno tuono a quelle de' fanciulli per flaccidezza tarde. Appena la
fibra acquista un certo grado d'irritabilità, l'uomo immagina, né ha
piú bisogno della presenza dell'oggetto per descriverlo e vederlo in
sua mente. Segue in ultimo la ragione, facoltà di discernere, la
quale classifica, compara, cerca la correlazione delle acquistate
idee, e rischiara il tomulto degl'istinti. Quindi tre età nell'uomo:
de' sensi, dell'immaginazione, della ragione; nella prima le fibre
son molli, nella seconda cominciano a tendersi; nella terza hanno il
giusto grado d'irritabilità; con la vecchiezza diventano flaccide,
l'uomo peggiora, e diventa di nuovo fanciullo.
Le facoltà dell'uomo sono inferiori ai bisogni, di quinci la
perpetua operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea
l'uomo subisce una modificazione, e con questa sorge un nuovo
bisogno, e cosí la vita è un avvicendarsi continuo di bisogni, di
idee, di nuovi bisogni…
L'uomo, se non è costretto da forze esteriori ad operare
diversamente, segue per sua natura questa serie di movimenti, e
trasforma tutti gli oggetti circostanti. L'indefinita modificabilità
del mondo esteriore, che reagendo sull'uomo lo modifica
indefinitamente, costituisce un'indefinita modificabilità di
rapporti fra uomo ed uomo, fra esso e gli oggetti che lo circondano.
Questi rapporti, ovvero l'azione degli uomini gli uni verso gli
altri, e sul mondo esteriore, costituiscono le umane società, che
per tal ragione sono indefinitamente modificabili. Dunque il
continuo mutarsi di questi rapporti, ovvero delle costituzioni
sociali è una legge assolutamente necessaria, legge che risulta
dalla natura umana, quindi fa d'uopo o migliorare o peggiorare
continuamente, o pure oscillare fra certi limiti.
Inoltre, le fibre vengono modificate secondo il numero delle
sensazioni, queste crescono a misura della trasformazione degli
oggetti esterni, dunque, in una società in cui la natura è
selvaggia, e non ancora ha subito gli effetti dell'umana operosità,
le sensazioni debbono essere pochissime, le fibre degli uomini
rozze. A misura che le sensazioni crescono, per la trasformazione
che il mondo esterno subisce per mano dell'uomo, le fibre
gradatamente si dirozzano; quindi le tre età che si riscontrano
nell'uomo, esistono egualmente nelle società: de' sensi, il puro
stato selvaggio; dell'immaginazione, l'epoca delle favole e degli
eroi; della ragione, l'epoca delle forti passioni, delle grandi
virtú, perché la fibra ha raggiunto tutto quel grado d'irritabilità
di cui è capace. Dunque per la natura umana, il moto, il cangiamento
delle condizioni e relazioni degli uomini è immancabile; e per la
stessa natura nelle società debbono, sempre migliorando, succedersi
tre età diverse, dunque progresso. Ma le modificazioni ed i
rapporti, effetti dell'umana operosità, essendo indefiniti,
indefinite sono eziandio il numero delle sensazioni che ne
risultano; e siccome le soverchie e continue sensazioni logorano ed
ammolliscono le fibre, e gli uomini s'avviliscono, ne risulta che le
società debbono eziandio soggiacere allo stato di vecchiezza, e
morire di sfacelo: il progresso indefinito è impossibile.
Ora ci faremo a particolareggiare le nostre ricerche. Generalmente,
ogni modificazione che l'uomo opera sugli oggetti circostanti è un
prodotto, le modificazioni sono indefinite: dunque, i prodotti
debbono indefinitamente crescere.
Discorremmo nel primo Saggio come si formarono le prime famiglie, e
quindi i vichi, i paghi, le città, quindi l'uomo tende
all'associazione, o perché il debole donasi al forte per esser
protetto; o perché questi lo fa suo schiavo; o perché varî deboli si
collegano contro il forte, insomma questa tendenza continua risulta
dall'istinto della propria conservazione, dalla ricerca della
prosperità, dalla brama della vendetta, non già dall'amore reciproco
degli uomini. Come gli uomini, le famiglie, i vichi, i paghi per
vantaggiare se stessi si uniscono e formano le città, del pari
vediamo le varie città formare le nazioni, e queste sotto l'imperio
dei stessi moventi formare gl'imperi, quindi possiamo inferire che
l'umanità ha una tendenza verso l'unità mondiale.
Né questa è la sola ragione, ma havvene un'altra non meno
importante. La Natura, quasi per confermare questa legge, ad ogni
regione ha dato prodotti diversi, mentre il desiderio ed il bisogno
di giovarsene è lo stesso in tutti gli uomini della terra, i quali
ricorrono alla forza, alla frode, al commercio, per fornirsi di ciò
che difettano. Quindi è indubitato che un giorno, se il globo non
sarà un solo ed unico Stato, certamente la prosperità, la civiltà
sarà uniformemente sparsa sulla sua superficie. E come ne' vichi,
ne' paghi, nelle città, nelle nazioni, dai varî costumi e gerghi
nacque una pubblica opinione ed una lingua comune, nella guisa
stessa, un giorno vi sarà un'opinione ed una lingua mondiale.
Proseguiamo lo studio della natura umana. L'istinto avverte
l'esistenza de' fatti senza svolgerne le conseguenze; la ragione le
svolge, le studia, e le compara. Gli impulsi che riceviamo
dall'istinto sono l'effetto dell'immediato piacere che può
procurarci un'azione, ma se a questa prima sensazione piacevole ne
succedono, come conseguenza, altre dolorosissime, noi nol sappiamo,
solamente la ragione può avvertircene, la quale opera quando una
sensazione dolorosa fissa su di un oggetto la nostra attenzione.
Dunque l'uomo deve necessariamente errare; la sua ragione non evita
l'errore, ma lo corregge quando i tristi effetti delle sue
conseguenze lo costringono a ragionare. L'errore non è conforme alle
leggi di Natura, altrimenti non sarebbe errore; i suoi tristi
effetti sono la voce di queste leggi che ci richiamò sotto il loro
assoluto imperio; dunque l'istinto ci allontana dalle leggi di
Natura, la ragione ci rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le
leggi di Natura è il bene, è l'azione che risulta dall'ultime
conseguenze de' loro effetti; l'istinto, invece, non mira che al
bene immediato, la ragione c'insegna di sacrificare questo
all'avvenire. L'istinto restringe il nostro sguardo in angusta
valle, mentre per discernere le leggi di Natura è d'uopo ascendere
una sublime vetta, ed in un fissar d'occhio tutto antivedere
nell'avvenire. Fra i suggerimenti dell'istinto e le leggi di Natura,
havvi il medesimo rapporto che passa fra una lettera dell'alfabeto e
la scienza. Dopo l'esposto, la legge del moto, della vita, è
evidente: il moto è una serie non interrotta di azioni, queste sono
effetti erronei dell'istinto, che piú tardi la ragione corregge,
quello deviando, questa avvicinandosi alle leggi di Natura; inoltre
le condizioni e le relazioni degli uomini, la costituzione sociale
insomma, è l'effetto dell'azione degli uomini, gli uni verso gli
altri; dunque le costituzioni delle società sono effetto dell'errore
dell'istinto, che la ragione corregge avvicinandole sempre alle
leggi magistrali della Natura. Svolgeremo piú diffusamente cotesta
idea.
Seguendo l'istinto, l'uomo che trovasi sotto una sensazione
dolorosa, cerca tutto ciò che allevia il dolore, che distrugge la
causa del male, né riflette se il rimedio dall'istinto suggerito,
svolgendo in seguito le sue occulte proprietà, possa cagionare un
male maggiore del presente; ricalcitra con esso, e ciò basta. Con
questa legge, che risulta dall'indole sua, l'uomo costituisce la
società e muta la costituzione di essa.
Intanto ad ogni nuova costituzione accettata dagl'istintivi desiderî
del popolo, esiste sempre un utile immediato, causa di coteste
aspirazioni, e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale
utile, la società prospera. L'ulcera che dovrà roderla è nascosta, è
a pena un germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la
ragione, non ancora costretta dal dolore a studiare i mali, segue
ciecamente l'istinto, ed essendo costretta a serpeggiare nei suoi
angusti giri, e comparando e studiando i rapporti delle cose, in
quelle condizioni che l'errore dominante la sociale costituzione le
ha stabilite, risultanto i pregiudizî e le opinioni che un giorno
dovranno tiranneggiare questa società, e pur nondimeno in
quest'epoca, la ragione, siccome segue l'istinto, è d'accordo col
sentimento, gli uomini sentono e ragionano, non già giustamente, ma
liberamente, la società è giovane, i costumi son puri: il diritto,
il giusto, le azioni virtuose son quelle conforme al patto sociale.
Ma le serie de' rapporti sociali che si svolgono partendo da una
base erronea diventano sempre piú contrarî alle leggi di Natura,
quindi cominciano a manifestarsi gl'inconvenienti, poi i mali, i
quali rapidamente crescono ed ingigantiscono; ecco il periodo delle
rivoluzioni, o delle dissoluzioni delle società.
In tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali
che tormentano il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze
opposte ai pregiudizî ed alle opinioni dominanti, contraddittorie
con le opere, coi costumi, quindi una lotta de' motivi esterni con
l'interno convincimento. La virtú, essendo la vittoria di questo su
di quelli, ovvero quel sentimento superiore alla stessa fama che
appellasi coscienza, per cui disse il Campanella Onor non ha chi
d'altri il va cercando, non è piú quella che opera secondo il patto,
ma in contraddizione col patto. Il diritto, il giusto, non piú
quello riconosciuto dal patto, ma quello che risulta dai nuovi
rapporti delle cose scoverti dalla ragione. Se il patto, per cagione
dei dolori che tormentano le moltitudini, non è riformato o
cangiato, la società è condannata a perire. Allora scorgesi la virtú
difettiva, quindi i motivi esterni prevalendo, la ragione è
costretta a tacere. Ognuno, impotente a combattere i proprî mali,
s'isola, non è piú commosso dai mali altrui, e la ragione stessa
impone per propria conservazione silenzio al sentimento, l'uomo è
depravato, è perfido ed infelice.
In questi diversi stati e condizioni la società per mezzo dei
scrittori manifesta le sue idee. Nell'epoca di prosperità
l'erudizione ordinariamente sovrabbonda, gli scrittori sono puri, le
loro opere, le loro dottrine sono d'accordo col patto sociale.
Cominciano i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso
manifestasi con rimpiangere il passato, con maledire i depravati
costumi. La Divina Commedia fu il canto solenne con cui l'Italia
manifestò i proprî dolori, e rimpianse l'antica purezza de' costumi.
I mali crescono, la depravazione generale produce la sfiducia, lo
scetticismo; allora vediamo sorgere sovente gli apologisti del
sentimento, i nemici del calcolo e della ragione, scrittori
generosi, ma non profondi, i quali credono cagione dell'isolamento,
dell'egoismo, non già i mali da cui l'uomo è tormentato, ma la
facoltà che li fa discernere; eglino vorrebbero porvi rimedio
suscitando in altri quei generosi sentimenti dai quali si sentono
animati. Melchiorre Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal genere,
la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che
tutti sentono.
Contemporanei di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzî
di speranza e di vita, uomini di squisita fibra, che sottopongono a
severo esame i mali che opprimono la società, mostrano a nudo le sue
piaghe, ne ricercano la cagione, propongono i rimedî, e compongono
la filosofia dell'epoca. Se i dolori non sono abbastanza sentiti, o
l'indole nazionale è tarda ed incapace di forti passioni, costoro
rimangono nell'astratto, e se discendono ad applicare le loro
dottrine, si allontanano ben poco dallo stato esistente, adattano ad
esso i loro ragionamenti. Se i mali son gravi, le passioni violente,
il ragionamento dei riformatori distrugge quanto esiste; i scrittori
alemanni ed i francesi del presente secolo hanno questi due distinti
caratteri. I riformatori debbono vincere l'aspra lotta del proprio
convincimento, contro tutti i motivi esterni, i pregiudizî, la
pubblica opinione, spesso la persecuzione, l'esilio, il carnefice,
il rogo. Sono gli eroi dell'epoca.
D'altra parte, in molti, l'utile privato trovasi strettamente legato
alle leggi, alle opinioni, ai pregiudizî combattuti, e questi se ne
fanno i difensori; ecco i conservatori, gli apologisti del presente,
in cui essi trovano il bene, o almeno il germe d'ogni futuro bene.
In questi cotali, scrittori depravati, i motivi esterni hanno sempre
il trionfo sull'interno convincimento, la virtú è difettiva; son
turba vile e spregevole in perpetuo, se lo sprezzo potesse aspirare
ad immortalità. L'opportunità è la legge suprema, il principio che
li regola. Lodatori infaticabili formano il corteggio della
tirannide, finché questa, divenuta forte da non aver piú bisogno
delle loro lodi, impone silenzio all'importuno garrito.
La lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre,
perfeziona le dottrine di quelli che, originate da' mali della
società, acquistano maggior lume secondo che maggiori sono gli
ostacoli che trovano al loro sviluppo; per tal ragione, i
conservatori, parte cancrenosa della società, loro malgrado
contribuiscono al perfezionamento delle nuove idee. Cosí il pensiero
nasce dai fatti, fra il volgo, da' dolori; procede a traverso di
essi, ma segue poi fuor del volgo i suoi voli, le sue astrazioni,
mentre questo, senza ragionare, senza mai addottrinarsi, dai soli
fatti vien balzato da un'idea in un'altra.
Intanto, le moltitudini, sotto la pressura de' crescenti mali,
cominciano a manifestare un'irrequietezza, un odio al presente, un
desiderio di migliorare, vago, confuso, non espresso in verun
concetto. Ma questo desiderio, questo concetto non tarda a
formolarsi nella mente di pochi in un'idea che diventa legame di
sette, scopo di congiure, fede di martiri, e cosí essa manifestasi
in una serie di fatti, di sensazioni, che la rendono comune,
spontanea, concreta, immediata, sentimento insomma; allora la
rivoluzione delle idee è compita, quel concetto di pochi getta un
seme nell'universale coscienza, che frutterà, fecondato dai fatti.
Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei filosofi, ma essa
è quel primo suggerimento dell'istinto, movente, e punto di partenza
dei ragionamenti di quelli, e però nasconde nuovi errori, nuovi
mali, dai pensatori manifestati, comparati, contrappesati, ma sempre
inutilmente pel volgo, che non cercherà il rimedio di mali non
ancora esperimentati; e come quelli procedono seguendo i voli del
loro pensiero sino alle ultime conseguenze; le moltitudini,
lentamente, operano, ed attraverso fatti, delusioni, errori,
procedono verso la meta da quelli rapidamente raggiunta.
Sbattuto dalla tempesta sento il bisogno di un ricovero. Penso di
piantare degli alberi, e già li veggo nella mia immaginazione in
grandi rami diffusi. Li esamino minutamente, e mi convinco che non
sarò da essi abbastanza garentito, anzi mi attirerò i fulmini
addosso. Come fare adunque? Quando saranno grandi, penserò meco
stesso, li abbatterò; dei loro fusti costrurrò un ricovero piú utile
degli alberi. Esamino questo nuovo trovato del pensiero, e, non
scorgendolo abbastanza perfetto, procedo, perfeziono il ricovero, e
giungo, sempre migliorando, ad un edifizio, e conchiudo che
l'edilizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma, a quanti
travagli, a quante fatiche, a quante delusioni non dovrò sottostare
se voglio trarre in atto il mio pensiero, e piantare gli alberi,
attendere che crescano, abbatterli ed adattarli all'ideato edificio?
I riformatori son quelli che ragionando stabiliscono la necessità
dell'edifizio; il popolo comincia per attuare il pensiero con
piantare l'albero, e non l'abbatte, se prima non ha esperimentato
che esso non è sicuro, all'ombra delle sue foglie, come aveva
sperato; e cosí procede, perfezionando il proprio ricovero, sempre
dopo aver esperimentati que' mali che la ragione avea già preveduti.
Nel pensiero di Campanella, di Pagano, di Filangieri, di Romagnosi,
noi scorgiamo, o espressa, o sottintesa, o come conseguenza di que'
principî, la rivoluzione sociale, quindi il pensiero italiano
raggiunse ben presto le sue ultime conseguenze. Ma come procede il
popolo verso questa meta? Ora, oppresso da esorbitanti gravezze,
sollevasi nella gigantesca Napoli, terribile come la Natura in
corruccio, e condotto da un pescatore sbaratta il mal governo che
l'opprime; ora si raccoglie in Lucca intorno ad un nero e stracciato
vessillo, e minaccia i ricchi; ora assale al segnale di Balilla, e
caccia lo straniero dalle mura di Genova; ora favorisce il Francese
per odio contro il Tedesco; poi favorisce questo per odio contro di
quello; finalmente, dopo tanti esperimenti e tante delusioni,
comincia a riconoscere la necessità di conquistarsi una patria, e
l'idea d'indipendenza italiana la personifica in un papa, poi in un
re, ed ora attende i nuovi fatti che verranno a trarlo
dall'incertezza in cui gli ultimi disastri l'hanno gettato. In tal
guisa, a traverso d'esperimenti, raggiungerà la meta e, distruggendo
l'edificio incantato dei pregiudizî e delle opinioni, adatterà la
sua costituzione alle leggi magistrali della Natura che già da lungo
tempo servon di norma ai nostri pensatori. Quindi è assurdo che il
progresso dell'idea faccia progredire i fatti, è assurdo pretendere
di giudicare dall'idee espresse dai scrittori il progresso di cui un
popolo in una rivoluzione è capace; per giudicare bisogna studiare
la sua storia, e dallo studio delle peripezie a cui è soggiaciuto,
potrà conoscersi ciò che esiste nella coscienza nazionale, ovvero
quell'universal sentimento che si manifesta nel moto, lo regge, ne
prescrive i limiti: se un tal sentimento non sarà un'idea chiara e
distinta, ma prenderà norma dai mali esistenti che a pena cercherà
di lenire senza distruggerli, il moto sarà sviato, represso,
infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza, che un
ammaestramento universale, che allargherà, per l'avvenire, i limiti
di quel concetto esperimentato troppo angusto. In tal guisa si
succedono le rivoluzioni, errori fatali dell'istinto nazionale, che
la ragione corregge ed indirizza verso le leggi di Natura.
Fin qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato, che le
Nazioni percorrendo una sanguinosa via procedono sempre innanzi, ma
bisogna considerare altri elementi, altre cagioni che operano
sull'indole umana e sulla coscienza dei popoli.
Se l'eccesso delle sensazioni, se le troppe delusioni logorano le
fibre e gettano la sfiducia nell'animo; se le soverchie ricchezze di
alcuni, e la miseria spaventevole dei molti, troncano ogni nerbo
alle moltitudini, e succede una solitudine di pensieri e d'interessi
che distrugge affatto la coscienza nazionale: allora le rivoluzioni
sono impossibili. Allora manca quel sentimento universale d'onde i
pensatori traggono le prime idee; mancano ai popoli le speranze; ai
cospiratori i concetti; mancano le passioni che sospingono quelli a
scrivere, questi ad agitarsi ed operare. Cessa il moto, e con esso
la vita, il difetto di ardenti passioni non è che preludio di morte.
Una Nazione giunta in tale stato è condannata a perire per
vecchiezza, essa sarà preda dei piú forti vicini.
Dal nostro ragionamento possiamo conchiudere che ogni Nazione tende
con le sue rivoluzioni verso le leggi di Natura, ma nel suo aspro
cammino può incontrare ostacoli tali che ne logorano le forze e la
distruggono. Quindi il corso e ricorso delle Nazioni non è legge
fatale ed inevitabile, ma nemmeno contraria all'indole dell'uomo e
delle società. Né perché per lo passato ebbe luogo, dovrà
necessariamente ripetersi al presente, può non avvenire, o almeno
seguire un'orbita piú eccentrica di quelle già percorse. Intanto le
ricchezze sociali, dimostrammo che sono in continuo aumento; le
scienze che scrutano i secreti della Natura e si giovano delle sue
forze, volgendole all'accrescimento dell'industria, in continuo
progresso; ed i popoli del mondo tendono sempre verso l'unità;
quindi le diverse Nazioni corrono tutte verso questa meta comune,
uniforme prosperità mondiale, ma nel loro cammino ognuna sottogiace
alle proprie peripezie, alcune migliorano nelle loro istituzioni,
altre decadono, certe si dissolvono, altre ingrandiscono; sono come
tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma non vi giungono
senza che ognuna non corresse fortuna a sua volta.
II. Fin qui non abbiamo fatto altro che seguire la dialettica e
rimanere nell'astrazione, ora l'accurato esame de' fatti, ovvero
della storia d'Italia che nel primo saggio abbiamo adombrata,
servirà di riscontro al nostro ragionamento.
Distrutto l'impero etrusco dal diluvio d'Ogige e dalla crisi di
fuoco di cui parlammo, fra i monti dell'Italia e della Grecia, per
quell'incontestabile legge di Natura per cui l'uomo tende
all'associazione come il grave al suo centro, cominciarono a
raccogliersi in varî gruppi i dispersi selvaggi. Le leggi da cui
vennero retti questi primi gruppi, il dispotismo di uno su molti, ci
dimostra chiaramente il primo suggerimento dell'istinto. I deboli,
onde esser garentiti dalla prepotenza de' forti, cercarono la
protezione di altro forte al quale si diedero volontariamente
schiavi. Forse fuvvi chi suggerí la lega di tutti i deboli contro i
pochi forti, forse fuvvi chi fece riflettere che si sfuggiva un male
e se ne creavano degli altri con la volontaria schiavitú. Ma queste
ragioni, queste dottrine dell'epoca, questi voli del pensiero,
riuscivano infruttuosi; l'istinto diceva ad ognuno: donati ad un
forte e questi ti proteggerà, e cosí ognuno, a schivare la
probabilità d'un servaggio, rendevasi volontariamente servo.
Cosí si formarono i vichi e i paghi: i deboli si sentivano lieti del
ritrovato di aver chiesto la protezione del forte, contenti
lavoravano, ed il forte, loro protettore, godeva del frutto dei loro
lavori; la ragione era d'accordo col sentimento, queste prime
società prosperarono.
La guerra fra i vichi e paghi fece che varî di questi borghi
collegandosi formarono la città. I varî capi, re scettrati e sommi
sacerdoti [e il séguito] dei loro dipendenti, si raccolsero in
congresso nella città onde accordarsi riguardo il modo come condurre
la guerra, solo pubblico interesse allora esistente.
Intanto dal contatto dei vichi e paghi risultò un culto comune, una
pubblica opinione, ed un paragone fra il modo di esercitate
l'imperio de' diversi capi; quindi ne' piú oppressi surse desiderio
di migliorare; ecco i primi sintomi di una rivoluzione. Certamente
soffrí pene acerbissime quel primo schiavo che si lagnò della
propria condizione facendone paragone coi piú fortunati. Questi fu
un riformatore, un virtuoso, le sue ragioni furono soffocate con la
violenza, e la virtú ignota a quella società si mostrò per la prima
volta. Virtuosi furono quei primi plebei che, sfidando il corruccio
dei loro padroni, proposero sottoporre alla concione dei forti le
private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l'approvò,
facendo prevalere il suo convincimento, motivo interno, alla
seduzione, ai vantaggi che traeva dal domestico imperio, motivo
esterno. Fu questa una prima rivoluzione, un progresso, divennero
piú equi i rapporti fra i padroni ed i clienti, ma crebbe oltre ogni
misura la potestà della concione, sovrano e giudice nel tempo
stesso. Il suggerimento dell'istinto, di surrogare all'arbitrio de'
varî capi il volere del congresso che essi medesimi componevano, si
avvicinò assai piú alle leggi di Natura che la volontaria schiavitú,
ma diede corso a nuova tirannide.
Al crescere delle città, le popolazioni e le ricchezze, al
moltiplicarsi dei rapporti fra gli individui, la potestà
dell'oligarchia dei forti cresceva, pesava sempre piú sulla plebe,
le cui fibre, d'altra parte, venivano dirozzate dal crescente numero
delle sensazioni. Cominciarono a sentirsi i dolori, che trassero a
sé l'animo dei piú astuti, e la ragione dichiarò ben presto
un'ingiustizia che i soli nobili fussero sovrani. Ecco la lotta
della ragione coi pregiudizî e le opinioni di quelle società. Da
questa lotta cominciò a sorgere naturalmente l'idea della colleganza
della plebe contro i nobili, idea dalla quale l'istinto aveva
deviato, prima col volontario servaggio, poi col concedere ogni
potestà alla concione de' forti, ed a cui la ragione rimenava la
società. Questa prima colleganza ha in sé tutto l'avvenire della
democrazia, e comincia la lotta del popolo contro le caste ed i
privilegî, ed entra nella sfera delle rivoluzioni dei popoli civili.
Quale sarebbe stato il suggerimento della ragione, per risolvere
questa prima contesa fra nobili e plebei? Manomettere i nobili, e
farsi la plebe arbitra della cosa pubblica. Ma, conseguita la
vittoria, come reggersi da sé? faceva d'uopo rifletterci, pensarci,
ed il volgo non riflette né pensa. L'istinto suggerí di non
distruggere i nobili, ma limitare la loro potestà, sottoporla a
delle regole, e queste regole furono le consuetudini, rudimenti dei
codici di tutti i popoli; prima vittoria della plebe sui nobili;
prima idea del giusto e dell'ingiusto. Dunque sulle consuetudini
primitive si basarono i codici, e queste consuetudini erano
risultate dal volontario servaggio, dagli erronei suggerimenti
dell'istinto, quindi il lungo lavoro, le tante esperienze ancora in
corso, onde giungere da principî cosí ingiusti al semplicissimo
codice della Natura, l'uguaglianza.
Nuovi danni, e coi danni i dolori, sospinsero la plebe a nuova
conquista. Si moltiplicarono i rapporti, le faccende, gli utili; la
macchina sociale si complicò, la difficoltà di reggerla crebbe. Alle
qualità naturali dell'uomo, forza ed astuzia in guerra, s'intese
bisogno d'una qualità nuova, saggezza in pace; se questa qualità era
difettiva nei nobili, la società non tardava a sentirne i dolori; ed
ecco che il sostituire ad essi altri governanti piú degni, idea un
tempo suggerita dalla ragione, ora per lo svolgersi dei fatti era
suggerimento dell'istinto, effetto dei mali da cui la società era
gravata, dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi la storia
dei tanti tomulti, dei martirî, delle rivoluzioni con cui la plebe
cercava conquistarsi il diritto di conferire ai suoi eletti i
maestrati della repubblica. Dunque: volontario servaggio, quindi il
volere della concione de' forti sostituito all'arbitrio de' singoli
capi; quindi la potestà di questa concione sottoposta alle
consuetudini, ad una regola; finalmente gli eletti, o i migliori,
sostituiti ai nobili; ecco il progresso delle interne istituzioni
seguito dai varî popoli italiani, progresso che lo troviamo conforme
a quelle leggi di Natura, di cui abbiamo nel precedente paragrafo
ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, ci faremo a
ragionare sulle scambievoli relazioni che si stabilirono, durante
questo tempo, fra i varî popoli d'Italia e l'effetto che esse
produssero sulle interne condizioni di ciascuno di essi.
Quando i selvaggi cominciarono a raccogliersi in vichi e paghi, si
trovarono in contatto in Italia coi civilissimi Etruschi superstiti
del distrutto impero; quindi il desiderio, in quelli, di
procacciarsi le ricchezze che questi possedevano; l'avidità
dell'indole umana faceva tendere quei nascenti popoli a raggiungere
la prosperità dei loro vicini. Di quinci le guerre continue, le
scorrerie che quei semiselvaggi fecero contro i civili Etruschi, dai
quali furono sempre respinti; inoltre le comunicazioni dirotte fra'
monti, epperò sommamente disagevoli, fecero sí che lo scambio dei
prodotti, dell'idee, dei trovati dell'industria, fu lentissimo fra
gli Etruschi ed i popoli montani, e quindi lentissimo fra questi lo
svolgersi della loro prosperità.
Non cosí sulle coste: ivi il mare li abilitò a facilmente comunicare
coi civili orientali, lo scambio divenne facilissimo, ed arti ed
industria rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero in immenso,
ed ove erano agresti tribú si videro sorgere le magno-greche
repubbliche.
Ma, come testè dicemmo, il codice di questi popoli, comeché
civilissimi, era basato sulle consuetudini delle primitive società,
in cui una parte erano servi destinati al lavoro, un'altra padroni i
quali lautamente vivevano delle fatiche di quelli; inoltre
l'indispensabile gerarchia militare, in cui i privilegî di ogni
grado venivano stabiliti dai medesimi capi, introdusse l'ineguale
riparto del bottino; quindi tali consuetudini, quantunque la
condizione dei servi migliorasse, fu la base, furono i principî su
cui venne stabilita la legge di proprietà; e quindi il diritto, non
già quello giustissimo di usare ed abusare del frutto del proprio
lavoro, ma l'altro, sommamente ingiusto, che alcuni potessero
possedere piú del bisognevole, mentre altri mancassero del
necessario. Un tal diritto, fondato su di un principio affatto
oligarchico, venne scosso, temperato ad ogni rivolgimento a cui
quelle società sottostiedero, ma, rimasto fermo nella sostanza,
conservò la sua tendenza all'oligarchia, e le immense ricchezze
ammassate da quei popoli civilissimi furono proprietà di pochi, e
piú non si videro che opulenti e mendichi; mentre fra gli abitanti
dei monti, l'industria in difetto avendo impedito lo sterminato
crescere delle ricchezze, serbossi una quasi uguaglianza.
Esaminiamo queste due società: i Magno-Greci e gli Etruschi, dalla
soverchia opulenza di pochi e dalla miseria di molti depravati,
imperò i sensi di quei popoli erano dall'abuso o dall'inerzia
attutiti; e le fibre per soprabbondanti sensazioni rese flaccide, e
se tese, per debolezza soverchiamente irritabili; e quindi gli
umori, dall'incostante tensione, o troppo impetuosamente sospinti, o
troppo languidamente premuti, di quinci i loro vizî corrispondenti a
questo stato dei loro sensi: sempre balenanti ed incapaci di
durevoli proponimenti; gli affetti o troppo concitati ed al minimo
ostacolo repressi, o soverchiamente rimessi: la costanza, la calma
impossibili; spesso li vediamo arroganti col nemico lontano, e se
vicino codardi; i Tarantini derisero i legati romani,
all'avvicinarsi poi dell'esercito, tremarono e si diedero a Pirro.
Inoltre la miseria degli uni e l'opulenza degli altri faceva abilità
a questi di comprare il voto di quelli, ed ai ricchi non già ai
migliori, veniva conferita la suprema podestà e le cariche della
repubblica, epperò piú innanzi ancora crescettero i mali.
L'oligarchia dei ricchi immersi nella mollezza cercarono sempre di
divezzare il popolo dalle armi, e per loro difesa assoldavano
Campani, Bruzî, Galli, ivi accorsi per amor di guadagno, terrore di
quell'imbelle plebe, ed eziandio de' tiranni che li pagavano.
Se poi ci trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i
monti. non troveremo né soverchia opulenza che attutisce i sensi, né
miseria che logora le fibre, le quali dotate di giusta irritabilità,
premono e sospingono a regolare e costante corso gli umori: di
quinci fermezza ne' propositi, calma nel deliberare, costanza nelle
opere; non insultavano, ma combattevano il nemico; il valore in
onore, e piú del valore la saggezza e la disciplina dei guerrieri;
eravi lusso, ma ne' militari ornamenti. Inoltre l'agricoltura
essendo la gradita occupazione di quei guerrieri, e le terre quasi
ugualmente divise, l'utile privato trovavasi d'accordo con l'utile
pubblico; i voti non venduti, e la suprema potestà, le cariche tutte
della repubblica venivano conferite ai migliori. Ecco dunque,
nell'epoca medesima, nella stessa Italia, due società, l'una, pel
rapido svolgersi della civiltà e l'accrescersi delle ricchezze,
corrotta e decadente; l'altra, ove erasi conservata una giusta
uguaglianza, giovane e fiorente.
Proseguiamo le nostre considerazioni: in una società depravata i
scrittori non possono essere che dotti e correttori di costumi, tali
furono i Pitagorici, i quali non furono, come alcuni opinano,
riformatori, ma propugnatori delle antiche virtú; erano gli
apologisti del governo dei migliori, che aveva già esistito, che
esisteva presso i popoli montani, e che fra i Magno-Greci era
degenerato, perché non contrappesate le fortune nel governo de' piú
ricchi. «Il migliore de' governi, - diceva Clinia, - non deve essere
affidato ad un solo, perché un solo ha delle debolezze; non a tutti,
perché fra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perché
pochi sempre sono gli ottimi». «Se una città libera, - diceva
Aristotile, - non avesse che un solo uomo virtuoso, chi potrebbe
negare che in tale città la dominazione d'un solo sarebbe
necessaria?» E Clinia, Archita, Platone, facendosi, come è naturale
all'uomo, centro di ogni cosa, credettero scoverte del loro ingegno
quelle massime, quei principî che in quella società decadente erano
un pallido riflesso, un debole eco di antichi costumi; e dando il
nome di virtú, non già all'azione che oppone nuovi principî a vecchi
pregiudizî, ma ai principî stessi, si credettero i soli virtuosi, né
dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali
inspirati da Dio; e cosí l'amor proprio trovò in essi ragioni come
accordare impostura e virtú. Quindi diventarono setta, società
secreta; ma le loro dottrine non erano conformi alle istituzioni
sociali, né cercavano riformar queste, ma rendere gli uomini con le
istituzioni stesse migliori, opera vana e stolta; epperò li vediamo
ora onorati e vezzeggiati, ora aspreggiati dai governi, ed in ultimo
distrutti da Dionisio, quando da Sicilia passò a devastare la
Magna-Grecia. Intanto, quei principî, quelle massime dei Pitagorici
erano praticate dai popoli montani. Fra i Sanniti, forte federazione
di tre milioni d'uomini raccolti intorno ad eccelsi monti, fra i
Lucani, fra i Sabini… sembrava strano ed inutile ragionare
lungamente per dimostrare la giustizia di quelle massime: fra essi
tali idee erano sentimento, e simiglianti costumi erano quelli dei
nascenti Romani.
Dunque i fatti sono in perfetto accordo col nostro ragionamento; le
istituzioni di ciascun popolo progrediscono esattamente secondo
quelle leggi fatali che sono effetto dell'indole umana: e se nelle
società havvi sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e decadono.
Nei primi secoli di Roma, si riscontrano in Italia tre diverse
gradazioni, tre diverse età della vita dei popoli: al settentrione i
Galli, sono in uno stato di completa barbarie, i piú forti fra di
loro son duci in guerra ed arbitri degli altrui destini in pace; fra
gli Appennini, giovani e fiorenti società, governate dagli eletti
del popolo; sulle coste, popoli peggiorati e decadenti. I primi,
secondo queste leggi, avrebbero dovuto raggiungere lo stato dei
secondi; questi o passare ad una ignota ma migliore condizione o
decadere; gli ultimi erano condannati a perire. E cosí avvenne, i
loro destini si compirono, e si compirono nel tempo medesimo che,
per le stesse leggi regolatrici dell'universo, cotesti popoli
soggiacevano a nuove trasformazioni.
Da isolati selvaggi per propria conservazione e per avidità etano
giunti a costituirsi in forti federazioni ed opulente repubbliche;
la civiltà, la prosperità, non era in Italia ugualmente sparsa, ne
difettavano i Galli, ne sovrabbondavano i Magno-Greci. Guerrieri i
Galli e gli abitanti dei monti, e le comunicazioni difficili, quindi
impossibile che avessero atteso dal lavoro pacifico e lento del
commercio quest'opera unificatrice. L'autonomia di quei Stati troppo
recisamente costituita per sacrificarla all'unità, e sorgente di odî
vicendevoli; niun nemico comune ed universalmente temuto che
l'avesse indotti per propria conservazione a confederarsi, quindi
essi erano dal fato condannati a sottostare ad una forza prepotente
che ne avesse formata una sola Nazione. Intanto, ad ognuna di quelle
Nazioni sarebbe stato difficile compiere tale impresa, e perché
avevano incontro avversarî di pari forza, e perché eravi in Italia
stabilito un diritto pubblico che garentiva la loro indipendenza. I
Romani, in forza di questo diritto pubblico, perché nascenti, ne
vennero esclusi e sprezzati; essi per propria conservazione
dovettero vincer tutti; prima dovettero esser guerrieri per
procacciarsi il bisognevole, poi lo furono per difendersi da tante
aggressioni, finché vinti i piú forti avversarî, i Sanniti,
divennero quella forza prepotente che unificò l'Italia.
Unificata l'Italia, essa trovossi in quello stato fiorente, in
quella purezza di costumi in cui erano i Romani, i Sanniti, i Sabini
e… che formavano la parte preponderante; il patriziato romano, i
migliori d'Italia fu la sovrana concione che governò tutta la
penisola. In tal guisa, Galli, Sanniti, Magno-Greci corsero verso la
stessa meta che raggiunsero: ma, nel compiersi cotesta legge, le
istituzioni, i costumi delle società fiorenti prevalsero, i Galli
ancora barberi furono inciviliti per forza; i Magno-Greci e gli
Etruschi perirono per vecchiezza nella lotta. Roma fu il centro ove
concorsero le varie istituzioni e i costumi di tanti popoli
italiani, Roma fu il centro d'onde queste istituzioni si sparsero
ugualmente su tutta l'Italia.
Gl'Italiani, retti dal saggio e guerriero patriziato romano, si
trovarono in contatto della vecchia civiltà d'Oriente e della
barbarie d'Occidente, conquistarono gli uni e gli altri e sparsero
la civiltà de' primi egualmente sul loro vasto impero. Ma le tante
ricchezze acquistate colla guerra cominciarono a far sorgere
l'opulenza e la miseria; il governo passò nelle mani dei piú ricchi;
gli ordini sociali avevano compito il loro corso, i mali crescevano,
quindi o dovevano con una rivoluzione rigenerarsi o peggiorare e
dissolversi come era avvenuto ai Magno-Greci.
Le fibre non erano inflaccidite, le passioni ancora esistevano,
quella società presentò sintomi di rigenerazione, i Gracchi, i
Saturnini, i Drusi furono i riformatori dell'epoca, essi miravano a
limitare i diritti di proprietà: ma i loro ragionamenti, i loro
sforzi non furono compresi dal popolo italiano, questo seguiva i
suggerimenti del proprio istinto e credeva cagione dei mali il
potere usurpato dai Romani, tutti vollero esser Romani, lo furono.
Ma i mali in luogo di diminuire crebbero, le loro forze, le loro
fibre si logorarono nella lotta e quella società, con rapido corso,
incominciò a decadere. Noi vediamo la stessa cagione, opulenza e
miseria, produrre i medesimi effetti, i medesimi vizî, dai versi di
Lucano espressi con impareggiabile maestà ed evidenza.
In poter vasto il campicel si estese
Ed estraneo arator fe' lunghi i solchi
Dove brevi li fea l'irto Camillo,
E affondavan le marre i Curi antichi.
Alla ragione
Fu misura la forza, e parto iniquo
Della forza, le leggi, i plebisciti:
Allor fur compri i fasci, e mercatante
De' suoi favori il popolo divenne
Allor l'usura, lupa che fa d'oro
Ricolta ad ogni luna; allor la fede
Violata, e la guerra utile ai nudi.
Tutti i maestrati della repubblica si ridussero nelle mani dei pochi
ricchi, e con essi il governo, il tesoro, la guerra. le provincie e
i trofei, le glorie: le guerriere prede, fra capitani si dividevano,
erano i soldati plebe misera e vendereccia, e se le possessioni de'
padri o figli di qualche soldato confinavano con qualche potente, ne
rimanevano spogliati. Cosí spalancossi fra i patrizî e la plebe,
quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine di codardi
e mendichi, la stessa voragine da cui furono inghiottiti i
Magno-Greci; e ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli
antichi popoli, l'oligarchia de' ricchi fu a sua volta oppressa dal
militare dispotismo.
La storia d'Italia diventa ora la cronaca sanguinosa de' suoi
tiranni, e Roma nella decadenza non cessò di essere grande: gli
eroici e puri costumi che Tito Livio pennelleggia, e la corruzione
ed i misfatti scolpiti da Tacito rappresentano degnamente il sorgere
ed il tramonto di un gran popolo. Lo stato di Sibari, di Cuma, di
Cotrone, di Siracusa… è riprodotto su vastissime dimensioni. Sino a
Nerone la cronaca è italiana, poi perde questo carattere di
nazionalità, diventa universale. Alle frontiere si creano
gl'imperatori che si disputano il trono, il Senato, estraneo alle
lotte, applaudisce al vincitore. Questo impero cadente e ricco,
trovasi a contatto di Goti, Longobardi, Franchi, barberi affatto.
Essi agognano d'impossessarsi di tante ricchezze, ma dubitano pel
terrore che loro inspira il nome romano. Intanto, per effetto della
corruzione, le feraci terre si spopolano e si cangiano in deserti,
gli uomini, avviliti dalla miseria ed oppressi dalla tirannide,
cercano rifugio fra le caverne e le selve. I superstiti a questo
cataclismo politico non differiscono gran fatto dai superstiti alle
grandi crisi della Natura, essi fuggono spaventati la violenza dei
potenti, come questi lo scroscio della folgore ed il muggito della
tempesta. Finalmente, i barberi scacciano la paura, e si rimescolano
con le reliquie dell'Impero; i destini si compiono, i Romani
periscono per vecchiezza, e la civiltà che arrestavasi al Reno ed al
Danubio spandesi sino all'Oder.
Siamo ora alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto
l'impero di quelle medesime leggi di cui discorremmo. All'imbelle
patriziato romano si surrogò la robusta e guerriera aristocrazia de'
barberi, quest'aristocrazia componeva la concione sovrana da cui
veniva eletto il re loro duce in guerra. I patrizî romani con
l'usura e la frode vicendevolmente si distruggevano; i nobili
barberi, lo facevano con la forza, ed i piccioli proprietarî erano
da questi baroni talmente oppressi che rinunziando ad un'effimera
libertà si dichiaravano volontariamente vassalli del potente vicino
onde esserne protetti, nella guisa stessa che nella primitiva
barbarie quelli che manco potevano si donavano schiavi ai piú forti.
La società nuova che erasi sostituita all'antica, con nomi e costumi
diversi conservò la medesima tendenza ad un'oligarchia di
proprietarî che andavasi sempre restringendo ed allargava quella
fatale voragine che separavala dalla plebe. Intanto, in questa
barbarie ricorsa era rimasto superstite il Comune romano; esso fu
punto di rannodamento alla maggior parte degli oppressi; questi
Comuni sottostiedero all'assoluto imperio dei baroni, ma essi furono
tanti centri di vita: il misero popolo dopo sei secoli cominciò a
sentire i proprî mali, venne scosso dalla lotta impegnata fra
l'aristocrazia e teocrazia, la rivoluzione cominciò. E questa
rivoluzione, che logorò le forze de' Romani e fece inabissare tutto
l'Impero in quella voragine spalancata fra ricchi e poveri, trionfò
durante la barbarie ricorsa, imperocché le sue mire furono piú
recise; allora gl'Italiani volevano conservare l'Impero, chiedevano
solo di esser Romani, vano rimedio ai loro mali; ora che in diritto
ed in fatto altro non esisteva che l'arbitrio dei baroni, il
suggerimento dell'istinto fu di distrugger questi, non eravi nulla
da conservare; i ricchi baroni vennero assaliti, le loro terre
conquise, diroccate le loro castella, ed essi furono costretti a
chiedere rifugio ai trionfanti Comuni: l'Italia risorgeva.
I Comuni italiani, per loro interne istituzioni, sono al medesimo
punto in cui erano giunti i Sanniti, i Magno-Greci, e quindi
l'intera Italia sotto i Romani, il governo de' migliori, gli eletti
del popolo. Quelli pel crescere delle ricchezze peggiorarono e
perirono, questi corsero con piú rapidità le vicende medesime. Nelle
antiche città italiane formate dalla riunione di rozzi selvaggi, ed
in cui l'agricoltura era in onore, i migliori erano considerati i
piú laboriosi, i meno ignoranti; per contro nelle città italiane
surte dalla barbarie ricorsa, dal lezzo della romana depravazione,
co' sforzi dell'industria e del commercio, i simulatori ed i scaltri
erano quelli nelle cui mani veniva affidata la suprema potestà;
nelle primitive popolazioni, agricole tutte, l'utile privato
accordavasi con l'utile pubblico, in queste in cui tutto era
industria e commercio quello era in opposizione con questo, e vinto
il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al medesimo
scopo, l'amor di patria cessò di fatto, e fuvvi solitudine di
pensieri e d'interessi. Le ricchezze degli antichi popoli italiani,
che abitavano i monti, non poterono crescere che lentamente e per
mezzo delle conquiste; i Comuni risorti invece, non avendo rivali
nel resto d'Europa, allora barbera, le ricchezze, come presso i
Magno-Greci, crebbero rapidamente; al XIII secolo le grandi fortune
erano ammassate, la plebe compra, le città si dividono in opulenti e
mendichi; al XV secolo è riprodotto il medesimo fatto osservato
presso i Magno-Greci ed i Romani, alla cima della società
un'opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre
restringevasi, alla base plebe vilissima; dall'oligarchia si viene
al dispotismo militare dei tirannelli, i sintomi delle rivoluzioni
si manifestano, i tomulti si succedono, ma tutti mancano di un
concetto dirigente. In quelle società parteggiate dall'oro,
l'istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad
un'altra, le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra
ricchi e poveri inghiottí libertà indipendenza arti industria
commercio, tutto insomma.
Mentre l'Italia, per le mal distribuite ricchezze, perdeva ogni
nerbo ed imputridiva nei vizî, la sua opulenza, la sua civiltà,
soverchiamente superiore a quella delle Nazioni che l'accerchiavano,
dando effetto a quella fatale legge per cui la prosperità tende
continuamente a spandersi su tutti i popoli, produsse l'irruzione in
Italia di quelle Nazioni. L'Italia de' Romani era stata mirata dai
barberi come lo schiavo il padrone; ora i semi-barbari d'oltremonti
la guatatono come il discepolo il maestro, come il mendico guarda
l'opulento; la preda era facile e ricca, all'ammirazione prevalse il
desiderio di rapina, i nostri tardi discepoli gettandosi sul nostro
corpo infralito da vecchiezza lo sbranarono. L'Italia venne
disseccata dalla vitalità che assorbivano i conquistatori, noi
ricevemmo da essi una dose di barberismo, vanità ed ozio. In tale
epoca la degradazione compresse in noi ogni elatere dell'animo, lo
splendido medioevo moriva, e per indolenza si amò da noi la stessa
tirannide, si abborrí la libertà per amor dell'inerzia: ubbedienza a
chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fu la formola che
raccolse in sé ogni precetto politico, fondata sull'avversione della
lotta e nel costante desiderio del riposo.
Dall'Italia gittiamo un rapido sguardo al resto d'Europa che sorge
anch'essa dalla barbarie ricorsa. Dapertutto vediamo la concione dei
baroni sovrana, il popolo servo, il re magistrato. Il risorgimento
dei Comuni riformò in Italia questa società, ma presso gli
oltremontani l'elemento barbero prevaleva al romano, le città
mancavano di quella vita che si svolse in Italia, e tale rivoluzione
avrebbe dovuto compiersi su vastissimi imperi, e però le cose
procedettero diversamente. Nelle città, il re eletto dai forti, poco
differisce da essi, né può per l'immediato contatto esercitare un
grande ascendente e quando il popolo sente il bisogno di distruggere
l'oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce l'istinto è
quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo, quindi la
democrazia trionfa; per contro in un vasto impero in cui il re, solo
in una capitale, si estolle agli occhi del volgo al disopra dei
feudatarî, i popoli per francarsi dalla prepotenza di questi
divennero collegati del re, e poi si trasformarono da vassalli in
sudditi della corona, e la regia potestà trionfò, e con essa venne
stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che l'opinione
universale, che la rivoluzione tendeva, come era naturale, al
governo de' migliori, imperò i re per non concedere al popolo quel
diritto di elezione che avevano i baroni, si fecero dichiarare i
migliori da Dio, onde cosí la loro potestà piú non dipendesse dalla
volontà dei governati.
Possiamo finalmente conchiudere che quelle leggi fatali che reggono
i destini delle Nazioni, si verificano ne' fatti con l'esattezza
medesima che risultano dalla logica, e l'esperienza e la ragione si
trovano in perfetto accordo. Ragionando della natura umana e del suo
modo di agire sul mondo esteriore, dimostrammo, nel paragrafo
precedente, come essa con un'incessante trasformazione accresce
sempre le ricchezze sociali; le quali poi per leggi della stessa
Natura, tendono a spandersi egualmente su tutto il globo, e mentre
la prima di queste leggi è per se medesima evidente, l'altra la
troviamo esattamente confermata dalla storia. La civiltà tende
all'equilibrio fra due nazioni vicine, come il fluido elettrico fra
due nubi; quella degli Etruschi e Magno-Greci era molto superiore a
quella dei popoli montani d'Italia, quindi noi vediamo quelli
conquistati da questi, e l'opulenza e l'industria spandersi
egualmente su tutta la penisola; nella guisa stessa le conquiste de'
Romani in Oriente stabilirono l'equilibrio fra le due civiltà, l'una
scarsa, l'altra sovrabbondante; ed i Romani conquistando i barberi
d'occidente, la sparsero uniformemente sul vasto impero da essi
fondato; finalmente l'irruzione dei barberi del settentrione fu
conseguenza di questa mancanza d'equilibrio tra la civiltà
corruttrice de' Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini, e con
questa irruzione i limiti dell'Europa civile non furono il Reno ed
il Danubio, ma l'Oder, d'onde poi col mezzo stesso delle guerre e
del commercio penetrò in Russia; e mentre con moto incessante tali
destini si compivano in un periodo di forse quaranta secoli vedemmo
in Italia tre società progredire e poi, pei loro vizî, dissolversi i
Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani. Dunque il progresso
continuo è un sogno, i fatti sono troppo eloquenti per se medesimi,
né possono distruggersi da studiati sofismi.
Nell'Europa moderna la costituzione politica dei varî Stati, ha
raggiunto quel punto medesimo in cui si trovavano que' popoli
decaduti, il governo de' migliori; cotesto principio, sotto diverse
forme e con diversi nomi, regge tutte le Nazioni: i principî, o lo
son dichiarati da Dio, o eletti, e tali li dichiara il popolo.
Questo limite fatale, nessun popolo, antico come moderno, è stato
capace di oltrepassarlo, quantunque moltissimi tentativi si fussero
fatti per conseguire un tale scopo e migliorare istituzioni donde
nascevano grandissimi mali. Le eloquenti orazioni de' romani tribuni
contro il potere dei consoli, i tanti rivolgimenti delle repubbliche
italiane del medioevo, e particolarmente di quella di Firenze, i
tanti ritrovati dei moderni ad altro non mirano che a garentirsi
contro quella potestà dal popolo stesso conceduta; ma è forza
confessare che lo scopo non si è raggiunto. Appena affidasi il
maestrato supremo ad un uomo o a varî uomini, le forze di tutta la
nazione si volgono a profitto di questi pochi e de' loro seguaci, e
la schiavitú delle moltitudini, in varie gradazioni, è permanente.
È questo forse il limite fatale dalla Natura stabilito? Declinano i
moderni come i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo
dimostrato che la possibilità di andare oltre è attributo della
natura umana: come essa ha successivamente corretto le diverse
costituzioni ed è giunta allo stato presente, non havvi nessuna
ragione per credere che sotto il pungente stimolo del dolore non
possa stabilire ordinamenti migliori. Ma se è possibile migliorare,
è possibile eziandio che i moderni si dissolvano, come gli antichi,
prima di raggiungere il loro scopo. Ci faremo a svolgere tale
argomento interrogando le tendenze della moderna società, ma prima
di tutto fa d'uopo porre in vista, e richiamare l'attenzione del
lettore su di una grande verità, che risulta da quanto testè abbiam
detto.
Quale fu la cagione per cui, presso i Magno-Greci, all'antica
purezza di costumi successero i vizî che li corruppero? Quale fu la
cagione per cui tutte le cariche della repubblica, un tempo concesse
dal popolo ai piú degni, caddero nelle mani di pochi ricchi, i quali
ad altro non pensarono che ad avvilire e tiranneggiare il popolo, e
godersi la potestà usurpata e le esorbitanti ricchezze? Quale fu la
cagione per cui presso i Romani avvenne precisamente lo stesso? E
quale fu la cagione che rinnovò il fatto medesimo nei Comuni
italiani? La cagione fu sempre la medesima: la cattiva distribuzione
delle immense ricchezze che divisero la Nazione in opulenti e
mendichi, di quinci tutti i mali accennati, e quella voragine
spalancata in cui questi Imperi sprofondarono. Quale fu la cagione
per cui presso i Magno-Greci, i Romani, i Comuni, le ricchezze
nell'accrescersi si sono sempre piú ammassate fra un ristretto
numero di cittadini, e la miseria della plebe è cresciuta in ragion
diretta dell'aumento del prodotto sociale? La cagione è evidente, il
diritto di proprietà, il diritto che dà facoltà a pochi di
arricchirsi a discapito di molti; un tale diritto è l'asse intorno a
cui queste Nazioni, queste società hanno compito il loro ciclo.
Sofisti!… apologisti della proprietà, osereste negare quaranta
secoli d'istoria? Sareste voi capaci di dimostrare che non fu la
miseria della plebe e l'opulenza di pochi la sorgente di tutti i
vizî che le distrussero; che la tendenza del prodotto sociale di
accumolarsi in poche mani, e quindi cagionare la miseria delle
moltitudini, non sia una conseguenza inevitabile del diritto di
proprietà?
III. Le rapide e numerose comunicazioni, che si aprono ogni giorno e
traversano in ogni senso l'Europa, hanno fatto abilità ai prodotti
dell'industria di spandersi, quasi uniformemente dapertutto; hanno
reso le idee, le scoverte di comune ragione; hanno talmente
intrecciato gl'interessi de' varî popoli, che la guerra fra due
Stati europei vien considerata dalla numerosa turba di commercianti
ed industri quasi come guerra civile.
Intanto, le due diverse civiltà di Asia e d'Europa debbono in un
avvenire non lontano compenetrarsi, unificarsi, questa è una legge
che abbiamo dimostrato inevitabile e l'abbiamo vista confermata
dalla storia. Ma come avverrà questo fatto? sarà l'Europa che si
rovescerà sull'Asia o questa su quella? né l'uno né l'altro:
l'Europa non abbandona, né le converrebbe farlo, il suo commercio e
la sua industria per correre alla conquista dell'Asia, ne' questa ha
tali moventi che la facciano sortire dalla sua indolenza per
rovesciarsi sull'Europa; e se il facesse, il periglio comune
unificherebbe i dotti e numerosi eserciti europei, al cui urto gli
Asiatici verrebbero dispersi.
Se rivolgiamo lo sguardo all'America, la vediamo messa fra i due
continenti, fra le due civiltà, e parrebbe predestinata a dar
compimento a questa legge fatale, nella guisa stessa che l'Italia il
fece fra l'Oriente e l'occidente. Ma gli Americani son dediti al
commercio, all'industria, e non già alla guerra, i loro prodotti
trovano sempre mercati abbastanza vasti, e l'estensione e feracità
del suolo di cui dispone, fan sí che essa non ha bisogno di cercare
ventura per accrescere la sua prosperità.
La Russia, per la sua apparenza guerriera e per le velleità dei suoi
autocrati, c'indurrebbe a credere che un giorno fosse destinata a
compiere con la spada i decreti del fato; ma non vi è popolo meno
del russo adattato alla guerra, esso non è abbastanza civile per
sentire i stimoli della gloria militare; né tanto barbaro
d'abbandonare le proprie contrade e correre alla conquista di nuove
regioni; la volontà dell'autocrate basterà per esaltarlo in difesa
del proprio paese, ma non già per trasformare in conquistatori un
popolo di servi. La Russia contribuisce a compiere queste leggi
fatali non già con la guerra, ma col lento lavoro del commercio. La
civiltà europea già accavalca gli Ural e penetra in Asia.
Finalmente, se ci faremo a considerare attentamente le condizioni
dell'Inghilterra, ben lungi dal vedere in essa la Roma o la
Cartagine moderna, noi crediamo che essa rappresenti ciò che era
Venezia nel medioevo. L'Inghilterra vive d'industria, i suoi
prodotti sono immensi, e sempre crescenti, quindi essa ha bisogno di
mercati vastissimi, essa deve, se le circostanze lo richiedano,
aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti, quindi a noi pare che
l'Inghilterra sia destinata a capitanare l'esercito di trafficanti
che unificherà la civiltà europea e l'asiatica, se impreveduti
avvenimenti non cangiano la condizione dei popoli.
Dunque, esclameranno i parteggianti del continuo progresso, noi
avanziamo verso l'unità mondiale, che verrà quasi pacificamente
attuata; noi ci avviciniamo ad un libero e facile commercio fra
tutti i popoli della terra: i varî prodotti di tante nazioni, la
loro industria, le attitudini speciali di ciascun popolo, di ciascun
individuo, saranno volti a benefizio di tutta l'umanità, questo è
quello che desideriamo. Ma se la storia e la logica ci conducono a
queste incoraggianti conclusioni, cerchiamo le sorti piú vicine a
cui accenna la vita politica ed economica dei popoli moderni.
Sino allo scorcio del XV secolo l'Italia fu l'astro intorno a cui
tutti i popoli europei hanno compito il loro giro, il centro verso
di cui tutti hanno gravitato. La sua luce offuscata, questa signora
delle genti spenta, questo centro venuto meno, l'Europa abbandonata
a se stessa, per quasi tre secoli ha seguito un corso incerto e
balenante; la Francia, finalmente, si è surrogata all'Italia per
regolare il corso dei destini europei, ma il suo ascendente non è
evidente, incontrastabile come fu quello dell'Italia, spesso è
contrappesato, quasi sempre resta in ombra, e si discerne a pena,
qualche volta sparisce affatto. Nondimeno in Francia possiamo fare
studio sulle tendenze delle moderne Nazioni.
Sappiamo dalla storia, come in essa i Comuni non poterono mai
completamente francarsi, la regia potestà distrusse e si surrogò al
feudalismo. Ma il popolo non essendo libero come in Italia,
l'industria ed il commercio lentamente progredirono; il
protezionismo, conseguenza della monarchia, tutto interdisse.
Finalmente sotto Sully ed Enrico IV fiorí l'agricoltura, sotto
Colbert e Luigi XIV l'industria, a cui Turgot con l'abolizione delle
corvate e de' mestieri diede grandissimo impulso. Oggi i Francesi, e
quasi tutti gli oltremontani, han raggiunto quel grado di prosperità
a cui erano giunti gli Italiani allo scorcio del XIV secolo, e se
presso gl'Italiani, in quell'epoca, ogni cosa accennava decadenza,
quali sono le tendenze de' moderni? «Come!…- esclama Mercier de la
Rivière, - ed è un parteggiano del despotismo, l'agiatezza è
sconosciuta a color che la producono? Ah!!… diffidate di questo
contrasto». Ma spingiamoci innanzi alla ricerca dell'ignoto
avvenire.
È innegabile che la presente società può considerarsi divisa in due
classi: da una parte capitalisti e proprietarî, dall'altra operai e
fittaiuoli. Queste due classi sono in una evidente e continua
opposizione, quella prospera al deperire di questa. «Invano, - dice
Filangieri, - i moralisti han cercato di stabilire un trattato di
pace fra queste due condizioni: quelli cercheranno sempre di comprar
l'opera di questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno
sempre di vendergliela al maggior prezzo che possono. In questo
negoziato quale delle due parti soccumberà? Questo è evidente: la
piú numerosa». Questo vero non può negarsi che per ignoranza o per
difetto di buona fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il
prodotto netto, quindi al ribasso della mercede, alla ruina
dell'operaio, il proprietario a trarre quanto piú sia possibile dal
fittaiuolo onde alimentare i suoi ozî, poco curandosi de' bisogni di
quello.
La proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII
secolo, che scemarono di molto il suo ascendente sui destini della
società, oggi è il capitale l'arbitro dell'umanità, per esso corrono
prosperi i tempi. L'umano ingegno datosi all'industria, non
tardarono ad inventarsi macchine, strumenti, trovati che ne
facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata
l'operaio; le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto
il prodotto netto, e nel tempo medesimo ribassato grandemente il
salario; e quelle e questa riducendo l'opera dell'uomo ad un atto
puramente materiale e costante, non è rimasta al misero operaio
nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal fatto gli
economisti nol negano, ma come rimediarci?, eglino dicono.
Sostituiremo i viaggi sul dorso d'uomini alle strade ferrate, la
vanga all'aratro, il copista alla stampa? Non si arriva,
soggiungono, senza perdite sulla breccia? Né possiamo tener conto di
coloro che il carro del progresso schiaccia nel suo cammino. E
l'economista, atteggiandosi qual benefattore dell'umanità, con una
gravità sotto cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice: noi miriamo al
bene pubblico non già al privato. Meno quest'ultimo asserto, le loro
risposte sono giuste, sarebbe stoltezza pretendere di arrestare i
voli dell'umano ingegno, a noi basta registrare un vero, un fatto,
un risultato ch'eglino medesimi non possono negare ed è che: la
miseria dell'operaio cresce al crescere della ricchezza sociale, del
prodotto netto dell'industria.
Inoltre, maggiore è il capitale, ed in parità di lavoro, maggiore è
il prodotto, questo è un assioma in economia; però un vistoso
capitale producendo sempre piú a buon mercato che un picciolo
capitale, ne risulta che questi dovrà indubitamente soccumbere nella
concorrenza; d'onde risulta un altro fatto, che gli economisti non
possono disconoscere, ma non vogliono confessare, cioè: nella
continua lotta che si fanno i varî prodotti, e i varî capitali, la
ricchezza sociale si accresce, ed il numero di coloro che la
posseggono diminuisce. L'Inghilterra produce per quanto basta a
duecentocinquanta milioni d'uomini, ma solamente nove milioni sono i
possessori di queste immense ricchezze. Perché avviene ciò? per
legge di Natura: ricerca continua di prosperità; bisogni crescenti
al crescer de' prodotti, facoltà inferiori ai bisogni, ecco l'umana
natura, d'onde l'operosità, il progresso dell'industria indefinito,
la felicità asintoto degli umani sforzi impossibile; ed in questo
continuo ed istintivo moto l'uomo cercando di volgere in suo
profitto quanto capita sotto i suoi sensi, in una società in cui i
guadagni privati non sono cospiranti, non procedono per linee
parallele, ma contrarî ed in concorrenza, e cercando vicendevolmente
distruggersi, bisogna inevitabilmente, fatalmente tendere ad
un'oligarchia di ricchi e raggiungerla.
Dunque i principî su cui sono stabilite le leggi economiche, le
leggi immutabili di Natura, i fatti infine, ci dimostrano ad
evidenza che le moderne società si avvicinano rapidamente a quelle
condizioni medesime a cui giunsero i Magno-Greci, i Romani, i
Comuni, cioè esse tendono a ridursi in un'opulentissima oligarchia,
ed una moltitudine di mendichi.
Fin qui per ciascuna Nazione in particolare. Ora ci faremo ad
esaminare i destini dell'intera Europa. La giustizia, l'utile del
libero cambio, astrattamente, è incontrastabile; esso è una
conseguenza delle leggi naturali da cui vien regolato il mondo. Ma
queste leggi naturali vengono esse osservate nel resto degli ordini
sociali, nella distribuzione delle ricchezze? È questo il punto
della quistione, dagli economisti studiosamente evitato. La varietà
de' prodotti delle diverse regioni, la diversità delle attitudini di
ciascuna Nazione e di ciascun uomo, sono fatti da' quali risulta
l'utile, la necessità del libero cambio. Che ogni popolo fruisca de'
prodotti degli altri popoli e faccia loro fruire dei suoi; che
ognuno possa giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti di
quella di ognuno, è il problema umanitario, il problema che il
libero commercio, e la faciltà e rapidità delle comunicazioni
risolvono. Il libero cambio produrrà l'altro grandissimo vantaggio
che una Nazione, destinata dalla Natura ad essere agricola, non
abbandonerà certamente l'agricoltura per l'industria, e viceversa,
ed ogni popolo troverà il suo vantaggio rimanendo in quelle
condizioni che Natura gli ha fatto. Ma per ottenere cotesti
risultamenti richiederebbesi che i prodotti sociali, le ricchezze
insomma, scorressero e si diffondessero egualmente in tutte le
classi della società, e non già, come avviene, che si andassero
restringendo in pochissime mani; questo fatto, che abbiamo
dimostrato, fa crollare l'edifizio incantato de' liberi cambisti: è
questo lo scoglio ch'eglino vorrebbero nascondere, curandosi poco,
ottenuto l'intento, che la società vi rompesse.
Discendiamo ai fatti: un paese abbonda di cereali, ed ivi la plebe
vive a buon mercato. Si pone in atto il libero cambio, ed
immediatamente gl'incettatoti faranno acquisto di tutto il grano e
l'invieranno in quei mercati ove maggiore è il prezzo. Quale sarà la
conseguenza? Il caro del pane. Ma, vi rispondono i liberi cambisti,
se il prezzo del pane sarà maggiore, vi sarà in compenso una
grandissima diminuzione nel prezzo de' panni, delle stoffe, de'
tappeti; ed inoltre non contate l'oro che entra nella scarsella
degli incettatori? Tutto questo è veto, ma il popolo minuto, misero
come è, non ha bisogno per covrirsi de' panni forastieri, né gode
della diminuzione di prezzo di questi generi; l'oro che entra nella
scarsella degl'incettatori non arreca nessun vantaggio alle
moltitudini, ma è volto ad affamarle l'anno seguente. Né qui
finiscono i mali. La proprietà fondiaria è un monopolio permanente,
ed in una Nazione, destinata dalla Natura ad essere esclusivamente
agricola, non tutti possono dedicarsi all'agricoltura, i posti sono
occupati, quindi per necessità alcuni capitali e moltissime persone
si dedicano all'industria, che per l'indole nazionale, per le
condizioni del paese mai potrà ingrandirsi e perfezionarsi in modo
tale da sostenere la concorrenza di quelle fabbriche immense, di
que' prodotti de' popoli esclusivamente industri, e però il libero
commercio le distrugge immediatamente e priva di lavoro quelli
operai che già ha tormentati col caro del pane. I capitali poi
sortono immediatamente dallo Stato e passano allo straniero. Senza
poter rispondere alle prime obbiezioni, i liberi cambisti credono di
rispondere vittoriosamente a quest'ultima, e dicono: Allorché il
denaro passerà da A in B è segno che A ne abbonda, appena ne
mancherà, il danaro vi tornerà, per la ragione medesima che da A è
passato in B. Sí, vi tornerà, risponde Proudhon, ma vi ritornerà
nelle mani dei capitalisti stranieri, i quali acquisteranno terre,
stabiliranno fabbriche, ed A diverrà una nazione che vive dei salarî
che percepisce dai stranieri. L'ascendente dell'Inghilterra in
Portogallo è dovuta al libero commercio; il vasto impero delle
Indie, per questa ragione è divenuto proprietà di pochi mercanti. In
una parola, se le condizioni e le relazioni sociali non mutano, il
libero commercio facilita la concorrenza, e questa il monopolio di
sua natura oligarchico; quindi facilita la tendenza delle ricchezze
sociali a ridursi in poche mani, ed il crescere incessante del
numero dei mendichi e delle loro miserie.
Coteste verità, che studiosamente si disconoscono, fanno esclamare a
Proudhon: «Il libero commercio, ovvero il libero monopolio è la
Santa Alleanza de' grandi feudatarî del capitale e dell'industria; è
la mostruosa potenza che deve compiere su ciascun punto del globo
l'opera cominciata dalla divisione del lavoro, dalle macchine, dalla
concorrenza, dal monopolio, dalla polizia: schiacciare le industrie
minori e sottomettere definitivamente il proletariato. È la
centralizzazione su tutta la faccia della terra, è il reggimento
della spoliazione e della miseria, è la proprietà in tutta la sua
forza e gloria. È per conseguire l'adempimento di questo sistema,
che tanti milioni di lavoratori sono affamati, tante innocenti
creature gettate dalla mammella nel niente, tante fanciulle e donne
prostituite, tante riputazioni macchiate. E sapessero almeno gli
economisti un'uscita da questo laberinto, una fine di queste
torture. Ma no, sempre, mai, come l'orologio dei dannati è il
ritornello dell'apocalisse economica. Oh, se i dannati potessero
ardere l'inferno!!…»
Né qui si arrestano i mali, né qui cessa il potere che hanno le
leggi economiche sui destini sociali, esse informano, danno norma,
indirizzano verso la stessa meta a cui esse tendono, qualunque
politica istituzione, eziandio quelle che sembrano volte a
migliorare le condizioni delle moltitudini.
Il governo vive delle gravezze pagate da' cittadini, e queste, meno
pochissime su taluni oggetti di lusso, tutte gravitano sui
poverelli, sul minuto popolo, che pagane la piú gran parte, che piú
delle altre classi sociali ne risente il peso; mentre i ricchi, e
coloro che assorbono i maggiori stipendî, sono in proporzione i meno
gravati. Questi governi dovrebbero almeno proteggere i miseri. Mai
no: è il ricco che ne ottiene protezione, è il povero che popola le
prigioni, che vive sotto la sferza e la prepotenza de' birri.
Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere da un
monarca un provvedimento arbitrario ma repressivo contro il ricco;
nel governo rappresentativo, coverto con la maschera della legalità,
ciò è impossibile: elettori quelli che posseggono, eleggibili quelli
che posseggono, i nullatenenti son fuori la legge, sono in una
condizione peggiore de' schiavi; il governo è nelle mani de'
capitalisti o de' proprietarî, l'industria progredisce, la miseria
cresce, e la società corre verso l'oligarchia dell'oro.
Passiamo al suffragio universale, amara derisione del popolo minuto.
L'operaio, il contadino, che non votano pel capitalista, pel
proprietario, vengono da questi minacciati della fame. I capitalisti
fanno monopolio del voto come d'una derrata; il povero nel governo
rappresentativo è abbandonato affatto in balia del ricco, i suoi
mali giungono al colmo. Il capitale dispoticamente governa, di
quinci la codarda politica, co' deboli superbi e co' forti umili; la
noncuranza per l'avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima de'
presenti uomini di Stato; nelle loro mani il telegrafo elettrico ed
il vapore, grandi trovati dell'umano ingegno, son volti a perpetuare
l'usurpazione e la miseria. Il Sismondi scriveva alla Giovane
Italia: «Affiderete voi la causa del proletariato agli uomini che ne
dividono le privazioni? essi non hanno forza; l'affiderete quindi a'
ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero». Ecco il problema
fatale che tutte reassume le future sorti dell'umanità. Né questo è
tutto: le ricchezze de' pochi e la crescente miseria delle
moltitudini producono l'ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di
salariare parte del popolo per opprimere i rimanenti. Quindi le
numerose soldatesche ed il militare dispotismo. La quistione
politica è nulla in faccia all'importanza della quistione economica.
Finché vi sono uomini che per miseria si vendono, il governo sarà in
balia di coloro che piú posseggono, la libertà è un vano nome.
Invenzioni, scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti, altro non
fanno che sospingere la società in quell'abisso verso cui le leggi
economiche inesorabilmente la traggono. In quali Stati è maggiore la
miseria e piú sensibile l'oligarchia dei ricchi? In quelli ove le
moderne libertà e l'industria maggiormente fioriscono, piú che
altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in Francia… Gli Europei,
dalla burrasca economica che li travaglia, sono cacciati a torme
verso il nuovo mondo; e dall'Inghilterra emigrano il maggior numero,
perché, secondo i moderni, la piú civile. Son fatti questi e non
congetture che vengono in appoggio alla ragione, quindi il vantato
progresso altro non è che decadenza. Ma ove giungeremo? sarà un
giorno l'affamata umanità governata da una gretta oligarchia di
banchieri? È questa la domanda a cui risponderemo col ragionamento
che segue.
Svolgiamo la storia, essa ci indicherà quali furono le sorti di que'
popoli le cui ricchezze s'accumularono nelle mani di pochi patrizî.
I Magno-Greci son lontani da noi, e comeché la loro storia ci venga
tramandata attraverso la nebbia de' secoli, pure vedemmo che appena
pochi divennero i possessori delle ricchezze sociali cominciò, in
quelle repubbliche, il parteggiarsi del popolo, i tumulti, d'onde
risultò il militare dispotismo, quindi gli Aristodemi, gli Anassili,
i Dionisî, i Faleridi… Presso i Romani gli avvenimenti si disegnano
con recisi contorni: appena la società vien divisa in pochi ricchi e
numerosa ed ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa
suscitati, i tomulti: Tiberio e Gaio Gracco, Saturnino Apulieno,
Livio Druso, lo stesso Catilina, sono generosi che tentano francare
il popolo da schiavitú, alleviare le sue miserie; la guerra sociale,
la servile, la spartacida, la mariana, la sertoriana, la
catilinaria, furono i conati di un popolo infelice contro
l'usurpazione de' ricchi; ma la cagione de' mali non cadeva sotto i
sensi, non poteva perciò suggerirsi dall'istinto il rimedio, quindi
il concetto che avesse unificata e diretta l'universal volontà
mancò; il popolo fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti patrizî
gioirono delle loro usurpazioni; ad essi successe il dispotismo
militare… quindi Mario, Silla, Cesare, poi l'impero, i pretoriani,
che spogliarono ed oppressero ricchi e poveri. E gli stessi
avvenimenti li vediamo esattamente riprodotti nelle repubbliche del
medioevo: l'oligarchia de' ricchi cade sotto il dispotismo dei
venturieri. E presso i moderni quali sono i fatti che osserviamo?
chiunque senza spirito di parte si farà ad esaminarli potrà
riconoscere che essi sono del medesimo carattere di quelli avvenuti
presso i Magno-Greci, i Romani, il medioevo: i tumulti, le congiure,
le guerre civili si succedono, il dispotismo militare, fra noi, a
cagione degli eserciti permanenti, piú pronto, già s'estolle su
tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi, vuota borse…
Banchieri! monopolisti! cercate gioire del presente, giacché
l'avvenire non vi appartiene; il popolo non può ottenere il trionfo
che sbarbicando ed abbattendo tutto l'edifizio sociale, ed in tal
caso voi perirete sotto le ruine; se poi il popolo è vinto, il
dispotismo militare v'aspetta, la vostra morte sarà piú lenta,
vedrete poco a poco vuotare le vostre borse, e morrete consunti:
altra alternativa non v'è, questo decreto del fato è incancellabile.
Ecco, o dottrinarî!, il progresso sognato dalla vostra beata
schiera. È maravigliosa l'astrazione in cui questi cotali, lontani
dalla miseria e dall'opulenza vivono; eglino credono in buona fede
che dalle loro elucubrazioni fiorirà la libertà. Una catastrofe
politica li sorprende, un soldato prescrive i limiti alle loro
dissertazioni, come un pedagogo limita, minacciandoli colla sferza,
le ricreazioni de' fanciulli; essi senza perder coraggio velano le
loro idee, le lasciano indovinare, e procedono, sognando di far
guerra al dispotismo. L'idea, il concetto dominano, è vero, il
destino de' popoli: ma esse son conseguenza de' fatti, e non si
traducono in fatti che dalle rivoluzioni compite per forza d'armi;
ed il popolo non trascorre mai alla violenza perché animato da un
concetto, ma perché stimolato da' dolori. Cosa sono le idee senza le
rivoluzioni, senza la guerra che le faccia trionfare? un nulla, sono
le varie forme che i vapori prendono nell'aria e che uno zeffiro
disperde.
Ma non bisogna arrestarsi alla superficie della società, su cui
purtroppo chiaramente è scolpito un tale destino, fa d'uopo
esplorare il fondo per pronunciare la sentenza.
Discorremmo come i pregiudizî e le opinioni, in origine cari,
manifestando col tempo i loro attributi, cagionano, perché non
concordi con le leggi di Natura, mali gravissimi, ed il rispetto,
anzi il culto che il popolo aveva per essi cangiasi in disprezzo e
derisione. Coloro che primi scrollano questi pregiudizî sono i
riformatori, affrontano questi l'ira sociale, sovente l'esecrazione
di quelle moltitudini che eglino vogliono difendere, e tanti dolori
immediati tanti motivi esterni vengono in essi contrappesati dal
convincimento di essere i propugnatori del vero.
Incontro a questi, dicemmo eziandio, sorgono gli apologisti del
presente, dediti sempre a sacrificare ogni loro convincimento ai
vantaggi che gli vengono offerti dal mondo esteriore; sono questi i
propugnatori degl'interessi che prevalgono e, difensori delle classi
che predominano, nascondono sempre il male sotto le apparenze del
bene, sono gli ottimisti. Queste due schiere nemiche possono dirsi i
genî del bene e del male dell'umanità; quelli rappresentano il moto,
la vita; questi l'immobilità, la morte; sono due pleiadi che
precedono sempre le grandi crisi sociali; una tramonta a misura che
l'altra sorge sull'orizzonte. Queste due schiere nemiche vengono,
fra i moderni, chiaramente rappresentate dai socialisti e dagli
economisti, e noi ci faremo ad esporre per sommi capi la lotta che
tuttora fra loro si combatte.
Tutti i riformatori, osservando la cattiva e l'ingiusta
distribuzione delle ricchezze in una società che pretende di esser
libera, cercano un mezzo acciocché essa venga egualmente ripartita.
Le idee di Campanella nella Città del sole, di Cabet nell'Icaria, le
teorie di Owen, di Louis Blanc, tutte si propongono lo scopo di
creare una forza estrinseca, artificiale, la quale presieda alla
divisione delle ricchezze. Carlo Fourier, superiore a tutti,
rinviene questa forza nella natura stessa dell'uomo: sciogliete il
freno alle passioni, concedete ad esse piena libertà: e
l'equilibrio, egli dice, si stabilirà da sé. Nondimeno
nell'applicazione di questo trovato egli prescrive alcune regole;
grande nel rinvenire questa forza di cui si va in cerca, erra nel
modo come adoperarla.
Gli economisti hanno francamente appiccata la battaglia ed abilmente
ferito nel debole della corazza. I vostri sistemi, dicono essi, non
sono che il ristabilimento del dispotismo con tanta pena abbattuto.
Incontro ad essi, il passato protezionismo può dirsi libertà: voi
prescrivete il vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche
l'ora del coito. La società sotto un tal reggimento perirebbe di
languore, l'uomo non lavora che per sé; se distruggete la
personalità distruggete il prodotto. Pretendete forse con le vostre
utopie cangiare le immutabili leggi di Natura? Libertà a tutti e per
tutti è la formola degli economisti, e quindi, osservate
superficialmente le cose, eglino, in questa lotta, sembrano i
propugnatori della libertà e del progresso. La libertà ridona la
dignità all'operaio, vi dicono essi, noi non possiamo né vogliamo
lasciar da parte la sua volontà, altrimenti sarebbe ridurlo alla
condizione del bruto che opera sotto l'incubo della sferza.
Continuano, né tralasciano di servirsi giustamente ed abilmente del
sarcasmo: I vostri sistemi, dicono ai riformatori, sono cosí
complicati che solo il vostro grande ingegno che li ha concepiti può
averne un'idea chiara e distinta; e però per attuarli fa d'uopo che
la società abbandoni nelle vostre mani tutte le ricchezze, tutti i
suoi diritti, che vi conceda illimitatissima potestà, acciocché voi
possiate rigenerare l'umanità. Le vostre filantropiche pretese, è
forza confessarlo, non sono picciole.
Fin qui la vittoria degli economisti è completa. Ma quando si
trasporta la quistione sul suo vero terreno, cambiano le veci;
quando i riformatori a lor volta gli dicono: Voi parlate di libertà
e dignità dell'operaio? Quale libertà voi gli concedere se non
quella sola di morir di fame? Quale sferza è piú umiliante e piú
potente della fame, solo ed unico legame che aggioga il proletario
al carro sociale? Quando i riformatori numerano e mostrano la
profondità delle piaghe sociali e, la statistica alla mano,
terribile scienza, contano in Parigi trecentosessantamila persone
immerse nella miseria; ed in tutta la Francia sette milioni e mezzo
d'uomini che vivono con soli cinque soldi al giorno; e nel Belgio un
milione e mezzo che vivono di pubblica beneficenza; quando
spalancano innanzi ad essi quei tetri volumi delle ricerche fatte in
Londra, delle condizioni dei poveri; quindi scorgesi che quasi tutti
i malfattori son miseri ed ignoranti; quando si osserva, finanche un
morbo distruttore rispettare il ricco ed unirsi con gli altri
innumerevoli mali sotto il nero e stracciato vessillo della miseria;
quando infine, in forza delle stesse leggi economiche, gli
dimostrano ad evidenza che questi mali debbono immancabilmente
crescere con spaventevole celerità, allora gli economisti rimangono
atterriti. I loro sofismi sono impotenti, il sarcasmo cangiasi in
ira e prorompono alle onte, li chiamano anarchisti, parteggiatori;
ma i fatti, sanguinosi e minaccianti, non cessano di protestare.
Fra gli economisti, il solo onesto, Malthus, coraggiosamente si è
svincolato dalle fatali strette. Non sono le leggi economiche, egli
dice, non è l'ingiusta distribuzione delle ricchezze, non le
condizioni ed i rapporti sociali, la cagione di questi mali, ma essi
risultano da due leggi immutabili di Natura, che regolano la
propagazione della specie e l'accrescimento del prodotto, e fanno sí
che l'una procede in una progressione geometrica, mentre quello
cresce in una progressione aritmetica, e quindi conchiude: «Un uomo
che nasce in un mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha
come nutrirlo, e la società non ha bisogno del suo lavoro,
quest'uomo, dico, non ha il minimo diritto a reclamare una porzione
qualunque di nutrimento, egli è realmente soverchio sulla terra. Al
grande convito della Natura non v'è posto per lui, la natura gli
comanda d'andarsene, né tarderà a porre essa medesima quest'ordine
in esecuzione».
Non è necessario dimostrare, per ribattere l'argomento di Malthus,
che in Natura non esiste cotesta legge fatale e terribile, ma
basterà rispondere che se essa esistesse, non dovrebbe avere
effetto, se non quando ognuno non occupasse nel convito della vita
che un posto solo; ma se quella ingiusta distribuzione di ricchezze
di cui si ragiona fa sí che un solo occupa molti posti, che nove
milioni, per esempio, come avviene in Inghilterra, divorano la mensa
che Natura ha imbandito per duecentocinquanta milioni, allora chi
potrà impedire ai tanti esclusi di avvalersi di quella superiorità
di forze dalla Natura stessa concessegli e, calpestando quei pochi,
farsi da loro medesimi giustizia?
Giunta la quistione a tal punto, entra in lizza Proudhon, la chiave
della volta, secondo Garnier, dell'edifizio sociale è polverizzata:
la proprietà è un furto, è la netta, evidente, incontrastabile
conseguenza a cui perviene con la sua inesorabile logica. Gli
economisti hanno consumate inutilmente tutte le loro forze per
difendersi, ma l'impresa era troppo ardua, massime per la proprietà
fondiaria. Sarebbe soverchio venir ripetendo in queste pagine gli
argomenti di Proudhon, il certo è che: un uomo ozioso, semplice
consumatore, inutile alla società, che impone patti a suo capriccio
a coloro a' quali la società deve tutto, è l'immediata, la legittima
conseguenza del diritto di proprietà. L'ultimo fra i volgari, se i
pregiudizî non l'accecano, se la sua ragione può per un solo istante
francarsi dall'imperio de' fatti, è nel caso di comprendere questa
verità. Come mai può dirsi giusta una legge dalla quale risulta il
diritto di non far nulla e scialacquare il frutto degli altrui
sudori?
Gli economisti hanno alzata l'ultima barricata dietro di cui si
credevano invulnerabili: la terra, soggiunge Bastiat, non ha valore,
(quasi che la mancanza di valore in un oggetto da tutti desiderato
potesse adonestarne l'usurpazione), la proprietà, egli dice, è un
lavoro accumulato. Ma ad onta di questa ardita asserzione sono stati
disfatti, ed hanno visto distrutte eziandio le ragioni con cui
difendevano il capitale: l'uomo creato con facoltà inferiori ai suoi
bisogni non può bastare a se medesimo, e solo associandosi coi suoi
simili sorte dallo stato selvaggio; isolato è inferiore a quasi
tutti gli animali, associato diventa sovrano. Solo non può neppure
procacciarsi il necessario; in società, ottiene subito dal lavoro
collettivo un prodotto sovrabbondante, quindi comincia il risparmio,
il capitale; e siccome il lavoro, come afferma lo stesso Pellegrino
Rossi, non essendo trasmissibile, non è neppure usufruttabile, ne
risulta che il risparmio, ovvero il capitale, conseguenza di un
lavoro collettivo, non può essere che una proprietà collettiva. Il
capitalista che paga otto di salario ad ogni operaio che produce
dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba eziandio la loro
potenza collettiva, quella potenza per cui l'azione simultanea di
cento persone è superiore all'azione successiva di tutti gli uomini
della terra; potenza per cui accrescesi oltre misura il prodotto;
potenza generatrice del capitale. Per qual ragione adunque, gli
operai, padroni legittimi del prodotto del loro lavoro, padroni
legittimi del capitale che la loro potenza collettiva ha accumolato,
sottostanno alle esorbitanti e tiranniche esigenze d'un capitalista?
La fame ve li costringe; se nella presente società cessasse la
miseria, capitalisti e proprietarî piú non troverebbero né operai,
né fittaiuoli che volessero lavorare per loro conto, cesserebbe ogni
produzione; la miseria gli fa abilità ad usufruttare gli altrui
lavori, la miseria è il punto d'appoggio su cui librasi, è la base
su cui poggia, chiave della volta che sostiene l'edifizio sociale, è
il solo movente che produce quella vantata armonia sociale, per cui
pochi si giovano del frutto dei lavori di molti.
Gli economisti, vedendosi debellati, hanno eseguita un'abile
evoluzione, sono ritornati sull'antico terreno, hanno trascinato
nuovamente i loro avversarî ad esaminare i sistemi che pretendono
surrogare alle condizioni e relazioni presenti; han detto a loro:
«voi non fate che distruggere, edificate, ed esperimentiamo se i
vostri concetti sono attuabili». I riformatori in quest'ultima
contesa mancarono di carattere, si mostrarono deboli: eglino,
credendo sincere le proposte de' loro avversarî, si fecero a
chiedere ai proprietarî i mezzi come esperimentare una società senza
proprietà, la facoltà d'abolirla, ammirabile innocenza!!… eglino
avrebbero voluto riedificare senza distruggere, vestire il povero
senza spogliare il ricco, vana speranza! Lo stesso Proudhon pretende
riformare la società con alcune istituzioni che tutti potrebbero
accettare. I loro avversarî gli risposero con un sorriso di scherno,
ed ascosero il loro veleno per servirsene a miglior tempo. Noi
troncheremo il nodo della quistione, non essendovi alcuna necessità
di scioglierlo.
Riscontrasi forse registrato ne' fasti dell'umanità che le
rivoluzioni si compiono con una discussione o con un'esperienza? che
gl'interessi opposti, da cui viene l'urto, si salvano entrambi?
D'onde, se non dal torrente degli affetti che sgorgano dalle
rivoluzioni e travolgono nel loro rapido corso ogni ostacolo, sorte
inaspettato il nuovo ordine sociale? A noi basta d'aver provato, né
ciò possono negarlo gli economisti, che i mali, le cagioni di
pungenti dolori, esistono non solo, ma crescono continuamente, e
questo fatto, scritto a caratteri indelebili negli eterni volumi del
destino, racchiude in sé la rivoluzione, come i corpi il calorico.
«Quando il popolo non avrà piú nulla da mangiare, mangerà il ricco».
In questi termini, con queste parole, Rousseau ha preveduto e
definito la rivoluzione, e cosí avverrà. Inoltre le nazionalità
compresse, le ingorde tirannidi, l'agitarsi delle sette, sono altre
cagioni, effetti e causa della rivoluzione, le quali ne avvicinano
il momento, e vestono delle loro apparenze alcuni rivolgimenti, il
cui movente principale, la miseria, il bisogno di migliorare, rimane
nascosto.
Dunque, risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione
preveduta, desiderata, è la strage, la spoliazione? Sí, tale sarà,
ma le sue vittime saranno in numero assai minore di quello che voi
ne spegnete coi lunghi tormenti della miseria. E fossero piú, noi
ripeteremo le vostre frasi: «non si giunge senza perdite sulla
breccia - non possiamo tener conto di coloro che il carro del
progresso schiaccia nel suo cammino». Conchiudiamo: la rivoluzione è
inevitabile, essa si avvicina con caratteri chiari e distinti e
procede indipendente dalle discussioni dei dotti. Noi ci faremo ad
esaminarne piú minutamente le tendenze.
«La Provvidenza, - esclama Alessio Battiloro in Palermo nel 1647, -
fa le campagne ubertose per tutti, né noi dobbiamo morire di fame
perché alcuni ladri s'impinguano».
È questa la formola della rivoluzione, che esiste latente da due
secoli, dal momento che al popolo del medioevo successe il popolo
moderno. Tutti i rivolgimenti che hanno avuto luogo da quell'epoca,
che avranno luogo in avvenire, tutti, comeché in apparenza vestiti
di altri caratteri, sono l'effetto del medesimo movente, i bisogni
materiali del popolo. Questi varî rivolgimenti sono stati vinti e
sviati, imperocché l'istinto appigliandosi alle apparenze ha
trascurata la realtà, sollecito della riforma politica non ha curato
la sociale, ma il movente principale sino ad ora occulto,
sconosciuto, non compreso dalla moltitudine, già comincia ad
emergere dal fondo della coscienza sociale. Chi, oggi, è cosí
semplice da supporre che un popolo corra alle armi per surrogare
qualche scaltro ad un re, per inalberare uno straccio dipinto in un
modo piuttosto che in un altro, per ottenere con le stesse miserie
un pomposo nome? Chi negherà che il popolo armasi perché spera in
cuor suo, senza dirsi il come, migliorare le sue materiali
condizioni? Chi negherà che libertà, patria, diritti… sono vani
nomi, sono amare derisioni per coloro dannati in perpetuo, dalle
leggi sociali, alla miseria ed all'ignoranza, inerenti al diritto di
proprietà come l'ombra ai corpi? Perché amerà la libertà della
persona, del pensiero, della stampa, colui che non ha mezzi come
esistere, che per ignoranza non pensa e non legge? Sorrideva
Metternich quando i sovrani si spaventavano della quistione
politica; il suo arguto ingegno scorgeva che la vittoria era certa
pel dispotismo finché la quistione non diventasse sociale. Ed oggi
chi non vede che la quistione sociale comincia a prevalere alla
politica? Gli stessi uomini tenacemente ristretti fra le antiche
idee sono loro malgrado obbligati a concederle qualche pensiero,
qualche frase. Non era la quistione sociale che scriveva nel '33
sulle bandiere dei ribelli a Lione, Vivere travagliando, o morire
combattendo? Non era la quistione sociale quella a cui Cavaignac nel
giugno del '48 rispondeva a colpi di cannone? E le associazioni che
si creano, appena ne hanno facoltà, quasi istintivamente, non
accennano forse a cotesto avvenire? E l'indifferenza con cui il
popolo francese mirò violata la costituzione dello Stato, arrestati
i suoi rappresentanti, diroccato il palazzo dell'assemblea, non dice
chiaramente che egli sperava con la repubblica migliorare le proprie
condizioni, e, rimasto deluso, non trovò una ragione sufficiente per
difenderla contro l'Impero? Sono scorsi quasi due anni che ho
scritto queste pagine, ed al cominciar del 1856 con mia
soddisfazione, posso aggiungere nuovi fatti in conferma del mio
asserto. Ora che le dottrine socialiste piú non si manifestano, ora
che i dottrinanti d'ogni colore predicano l'assurda concordia de'
partiti contro il comune nemico, il socialismo si eleva alla
pratica, è l'aspirazione di una società secreta, la Marianna.
Le concioni popolari in Londra già prendono questo carattere,
aspreggiano i ricchi, Nella Spagna, ove non erasi mai scritto di
socialismo, esso mostrasi nei tomulti popoleschi; e la sollevazione
di Lione, quella di giugno, la Marianna, le concioni d'Inghilterra,
i tomulti di Barcellona… sono quella serie di fatti che tendono a
trasformare l'idea in sentimento, che renderanno suggerimento
dell'istinto ciò che a pena un tempo antivedeva la ragione. Quando
un tal fatto avverrà, in men che balena crollerà il moderno edifizio
sociale, e su le sue ruine si vedrà sorgere l'era della libera
associazione.
A cotesti fatti, sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori:
noi speriamo, dicono essi, che tutti i rivolgimenti vengano, come
per lo passato, soffocati nel sangue; noi non daremo campo alla
rivoluzione di ergere il capo, noi cercheremo di comprimere ogni
elatere dell'animo e vinceremo. Ed io rispondo, forse lo potrete, ma
nell'aspra lotta le forze della società si logorano, e voi di
vittoria in vittoria vi troverete inevitabilmente sotto il giogo del
militare dispotismo, e quindi della decadenza e dissoluzione.
L'avvenire è già inesorabilmente stabilito, o libera associazione, o
militare dispotismo. Quale di queste due condizioni sociali avrà il
trionfo è dubbio: noi faremo fine a questo paragrafo paragonando le
forze contrarie che debbono venire in lotta, e cosí [potremo]
manifestare un'opinione se non esatta, almeno probabile, rispetto al
nostro avvenire.
Se il popolo scuote la schiena rovescia facilmente nobili, ricchi,
preti che l'opprimono, questa imbelle schiera d'oppressori non
possono paragonarsi alla gagliarda aristocrazia feudale, essi
verrebbero fugati dal solo fragore della plebe in corruccio; la sola
forza che li protegge, la sola forza che si oppone alla rivoluzione,
sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro natura? Possiamo
paragonarli ai satelliti armati di cui si circondavano i tiranni
della Magna Grecia, a' pretoriani de' romani imperatori, a'
venturieri del medioevo? No: pei moderni ufficiali la milizia è un
mestiere, ma non lo è pe' gregarî, per questi è un peso a cui con
riluttanza si sottomettono. La disciplina adopera ogni mezzo onde,
quasi direi, affatturarli, e farne un sostegno della tirannide, di
cui i soldati sono le vittime piú che le altre tormentate, ma non
perciò cessano di esser popolo, dal cui seno sono svelti a forza, e
sempre agognano di farvi ritorno. Perché dunque credere che il
fascino, l'incanto che li aggioga al dispotismo, non possa cadere,
né possa sorgere in essi la speranza di un migliore avvenire, da
conquistarsi non già al prezzo di una battaglia, ma solamente
rifiutandosi di combattere contro i proprî concittadini ed amici?
Chi piú del semplice soldato deve desiderare un miglioramento delle
condizioni della plebe? Egli non è che plebe. Inoltre, quell'amor
proprio di corpo in cui risiede tutta la forza de' moderni eserciti
è, eziandio, efficacissimo conduttore d'ogni nuova idea; un solo, in
que' difficili momenti, in cui gli spiriti esaltati ondeggiano
nell'incertezza, momenti nelle guerre civili comunissimi, basterebbe
per trascinare col suo esempio un reggimento intero, ed un
reggimento un esercito. Aggiungi che la polvere da sparo ha reso
facilissimo l'armeggiare; ha diroccato le torri dei feudatarî; ha
sfondata la loro corazza; ha uguagliato il povero al ricco, il forte
al debole; ha reso impossibile alle soldatesche sostenersi in una
città, in cui i cittadini padroni degli edifizî son decisi a
combattere; e dando finalmente il vantaggio al numero sul valore,
pare che abbia favorevolmente decisa la causa dell'umanità.
Concludiamo: la moderna società trovasi in quel punto fatale d'onde
le antiche hanno rapidamente declinato. Ma, facendo considerazioni
sulle condizioni de' moderni, osserviamo una grande differenza con
gli antichi. Il popolo è misero come l'antico, ma non come quello
parteggiato da' ricchi, e legato alle loro persone; il prestigio di
cui godevano gli oppressori piú non esiste; le quistioni sulle
riforme vaste, nette, non vaghe ed oscure come le antiche, esse
dall'astrazione di pochi cominciano già a diventare idee pratiche,
sentimento di molti: facili gli armeggiamenti, la trasformazione del
cittadino in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i soli
eserciti permanenti, popolo anch'essi, e però può sperarsi che la
società non declini, ma ascenda all'era della libera associazione,
scorrendo cosí un'orbita piú vasta di quella percorsa dai popoli che
ci hanno preceduto.
IV. Discorremmo come i varî rivolgimenti trasformano la società, ed
illuminati da' fatti, dalle moderne condizioni e relazioni degli
uomini, abbiamo sospinto lo sguardo nell'avvenire. La religione fra
coteste vicende molto opera, ma pochissimo le modifica, quindi
preferimmo per semplicità separatamente discorrerne.
La religione è un effetto dell'ignoranza e del terrore; l'uomo
deifica ogni forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste
forze dandogli le proprie forme, le proprie passioni: quindi mutano
i costumi e gli attributi de' dei al cangiare de' costumi de'
popoli.
I primi numi furono i reggitori di quelle forze, che la Natura
manifesta nel suo tremendo corruccio, e cotesti numi cosí possenti
la sconvolgevano, al credere de' stupidi ed attoniti mortali, per
muover guerra all'uomo. Di quinci la credenza di averli offesi, il
desio di placarli, e siccome la sola vendetta accheta l'uomo
sdegnato, per placare gli dei gli offrirono la vita dell'offensore,
ed il culto manifestossi con gli umani sacrifizî. Isolati gli
uomini, ognuno ebbe i propri dei, quindi gli dei penati, i lari.
Riuniti in città, surse il pubblico culto, come surse la pubblica
opinione, il pubblico costume.
I popoli si mansuefecero, si assottigliarono le menti, e la
religione cangiò; l'agricolo e placido Etiopo adorò le costellazioni
che annunziavano le stagioni, avverse o propizîe ai suoi campi, ed
il dilagare dei fiumi fecondatori; le nomò con simboli conformi alle
sue idee, ed adorò questi simboli, queste sue creature. Il guerriero
e politico Italiano, adorò la fede, la pace, la guerra… Infine, con
l'ingentilirsi de' costumi, i sacrifizî umani cessarono.
Nell'assottigliarsi della ragione surse la greca e l'italica
filosofia, la quale era in opposizione, come ogni filosofia, coi
principî religiosi. Gli dei de' Greci e de' Romani non erano gli
arbitri del destino degli uomini, ma di aiuto efficacissimo se
propizî alle loro imprese, nemici terribili se irati; al disopra di
essi eravi l'immutabile destino, alle cui leggi sottostavano dei e
mortali. La filosofia, naturalmente, concentrò tutti i suoi studî su
questa forza, questa legge suprema, e riconoscendo la frivolità
degli altri simboli, l'assurdità della numerosa turba di dei, li
dichiarò tutti falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza
superiore, che fu l'unico Dio, le cui leggi essendo eminentemente
giuste, e però immutabili, distruggevano qualunque culto, qualunque
relazione tra Dio e gli uomini, e cosí, come era naturale, la
filosofia stabiliva l'ateismo.
Il riconoscere una legge suprema, giusta e fatale, regolatrice de'
destini degli uomini, era idea che poteva allignare solamente fra un
popolo puro e conscio della propria dignità, ma la buona semenza fu
sparsa su cattivo terreno, il degradato popolo del cadente Impero.
Popolo avvilito, popolo schiavo, che le miserie avevano ridotto
quasi nello stato medesimo del selvaggio atterrito dalla sconvolta
Natura, venne, naturalmente, dal proprio scetticismo condotto a
rimettere le proprie sorti nelle mani di questo unico Dio, e ne fece
il vendicatore degli oppressi, l'arbitro degli umani destini; e
siccome i popoli si creano i dii ad immagine loro, cosí gli
attributi di esso furono la sua propria abbiettezza, l'umiltà, la
pazienza, l'indifferenza per le cose terrene. Il culto come
adorarlo, i misteri, i riti li trasse dagli Orientali, quanto i
Romani di quell'epoca schiavi ed indolenti. Intanto la solitudine
degli animi e degli interessi, l'egoismo umano, volto solo all'utile
privato, questo in diretta contraddizione con l'utile pubblico,
produsse, naturalmente, la reazione negli animi dei scrittori, i
quali come sogliono i correttori di costumi, senza comprendere che
que' vizî erano l'effetto dello sfacelo in cui andava la società,
dell'istituzioni che la reggevano, credettero porvi rimedio
predicando contro di essi, e contrappesandoli con massime di
fratellanza ed abnegazione, e cosí da questa morale predicata ma
impraticabile, e dalla teologia orientale nacque il cristianesmo, le
di cui regole, le di cui massime mostrano benissimo che sursero fra
un popolo eccessivamente degradato ed in balia di uno sfrenato
egoismo. Quindi, giustamente, Hegel dichiara la modestia cristiana
nel sapere il grado supremo dell'immoralità. Immorali e
contraddittorie alla Natura umana dovevano essere tali massime,
perché surte fra un popolo in cui ogni elatere dell'animo era
spento, e predicate in contraddizione della realtà, dei fatti
ch'erano effetti delle immutabili leggi di Natura. Gli uomini
deificati formarono ad imitazione del paganesimo la turba de' dii
minori che, come gli antichi, presiedettero a tutte le operazioni
della vita, a tutti i fenomeni della Natura. Alcune madonne, alcuni
santi con speciali attributi, gli amuleti, le reliquie, specie di
feticcio, si surrogarono ai dei penati, ai lari, e cosí con diversi
principî e nomi, ma quasi con le stesse forme, alla religione di un
popolo giovane e fiorente si sostituí quella che convenivasi ad un
popolo degradato e corrotto.
Gli dei antichi erano degli eroi, perché eroico il popolo che li
adorava quelli de' cristiani dei martiri, perché schiavi ed oppressi
gli adoratori. Avvezzi gli antichi a vedere il trionfo ed a
rispettare il giusto, lo riguardavano come legge immutabile a cui
sottostavano dei e uomini; i cristiani per contro, che la miseria
aveva sospinti allo scetticismo, ne perdettero ogni idea, e
deificarono l'arbitrio, abbandonando i destini dell'umanità in balia
d'un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e cosí al
padrone che si creavano nel cielo, davano gli attributi medesimi che
avevano i loro padroni sulla terra. La morale degli antichi,
risultata dall'azione, era pratica e però d'accordo con l'umana
natura; quella dei cristiani impraticabile, perché volta a frenare
le sue leggi.
La nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando fra i
potenti, ma divenuta padrona della forza, mostrossi oltre ogni
credere feroce e codarda. Inorridiscono i moderni, in pensando a'
terribili riti druidici ed agli umani sacrifizî degli antichi, non
conoscono, tanto da' pregiudizî è oscurato il loro intelletto,
quanto piú atroci e codardi sono gli assassinî del cristianesimo,
commessi nei tetri recessi dell'inquisizione.
Coronata di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso,
alla splendida luce del sole, fra devota e festosa moltitudine,
involavasi la vittima degli antichi, la cui vita, in men che balena,
veniva spenta dal colpo che vibrava il destro sacerdote.
Carica di catene, estenuata dalla fame, sotto le oscure e solitarie
volte de' sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati
al rapido uccidere, ma raffinati nel lento incrudelire, frusto a
frusto, fra tormenti atrocissimi, consumavasi la vittima dei
cristiani.
Ne' sacrifizî degli antichi l'aria risuonava dei canti
dell'inneggiante e devoto popolo, ed era profumata dalle nuvole di
fumo che s'innalzavano dai bruciati incensi; fra' cristiani, invece,
veniva percossa da' stridi acutissimi della vittima ed appestata dal
lezzo insopportabile di carni lacerate ed arse. E quindi i principî,
i misteri, gli attributi degli dei, i riti, i sacrifizî, tutto
insomma, rivela nel paganesmo un popolo generoso, e nel cristianesmo
un popolo codardo e feroce.
Fin qui della religione. Ora diremo de' sacerdoti ogni eroe fu sommo
sacerdote nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i
vichi, i paghi, le città, la concione de' forti, spesso, non potendo
occuparsi delle cose divine concernenti il pubblico culto, delegò
altri a compiere tali ufficî, ma costoro, con tali facoltà,
acquistarono ben presto un grande ascendente sulla credula
moltitudine, e l'aristocrazia si vide osteggiata, contrappesata
dalla teocrazia, di quinci la lotta fra queste due caste, che si
disputavano la sovranità. Uno dei fatti piú antichi che ci rammenta
questa lotta accanita, è l'esterminio che Nob fece d'Achimelech con
altri ottantacinque sacerdoti. E le mille volte, presso i Celti,
incalzati dal fulmineo brando de' prodi aristocratici, i tremanti
sacerdoti dovettero riparare nelle caverne. In Italia l'aristocrazia
prevalse, presso i Magno-Greci, come presso i Romani, i numi
ubbidivano alla suprema potestà dello Stato.
Le medesime vicende si riscontrano nel cristianesmo: surto in uno
Stato già costituito, fu al principio indipendente dal governo. Come
fra i vichi ed i paghi della primitiva barbarie il capo era sommo
sacerdote, cosí ogni villaggio, ogni città de' primi cristiani
elesse un cittadino a tale ufficio, il vescovo. In tal guisa
cominciò la teocrazia, la quale, crescendo il suo potete, si
rinserrò in una casta e si attribuí que' diritti che ad essi
venivano dal popolo, ed erano inerenti al popolo.
La lotta con l'aristocrazia non tardò a dichiararsi, quindi i guelfi
e i ghibellini. La spada vinse, il prete fra' moderni, ove il
reggimento è nelle mani di uomini né codardi né devoti, se non di
diritto, di fatto è soggetto a chi impera: il pergamo, i miracoli,
le preghiere sono ai comandi del trono.
Cerchiamo ora di scorgere quale sia l'avvenire a cui accenna la
religione. Discorremmo come essa ha seguito i destini de' popoli ed
è conforme ai loro costumi. In quella de' selvaggi vi è impresso il
terrore di cui è figlia; il loro ingentilirsi ne rammorbidisce
gradatamente i troppo duri contorni, e la religione di una società
fiorente è quale si conviene ad un popolo di eroi, ed è sempre in
perfetto accordo con l'utile pubblico, come quella nata fra uomini
dediti al bene ed alla grandezza della patria.
Nella decadenza delle società, poi, si riscontrano in essa le
contraddizioni e la viltà d'un popolo degradato, e, cercando rapire
l'uomo alle cure di un mondo in cui soffre con la promessa di un
futuro ed immaginario godimento, deve sempre trovarsi in opposizione
con l'utile pubblico.
Dunque, affinché una nuova religione potesse sorgere, sarebbe
indispensabile che un cataclismo confondesse la nostra mente, ne
cancellasse ogni tradizione e riproducesse in noi la meraviglia
stessa, lo stesso terrore che i selvaggi sentirono al brontolate del
tuono. O pure è indispensabile che la corruzione e la miseria,
comprimendo affatto l'elatere di nostra vita, ci prostri talmente
che, disperando delle proprie forze, ci costringa ad invocare
potenze immaginarie; non v'è che l'uomo atterrito o degradato che
ripone le proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si
riprodurrebbero le primitive religioni, con nomi diversi, perché
spente sono quelle tradizioni. Nel secondo, esistendo ancora una
religione surta in simili condizioni, non potrebbe che riprodursi,
rifiorire la medesima. Quindi se la società moderna declina,
risorgerà il cristianesmo e raggiungerà nuovo splendore con
rifiorire il cattolicismo, stato di sua perfezione; e viceversa, se
questa religione perde il suo prestigio è indizio che la società
s'avvicina al suo risorgimento. Apriamo l'animo alla speranza, esso
non dovrebbe esser lontano.
Ma quale sarà la religione della società rigenerata? È questa
l'ultima domanda a cui ci faremo a rispondere. La religione è
fondata su di un'idea di potestà suprema, di dipendenza, senza della
quale non potrebbe esistere. Senza preghiere, senza credenze, senza
culto, senza autorità non v'è religione. Dunque sono indispensabili
i sacerdoti, che parlano in nome degli dei, che predicano la virtú
che gli dei richieggono. È egli mai possibile che ciò avvenga? In
una società la quale tende verso la libera associazione e
l'uguaglianza, ove ogni gerarchia sarà abolita, potrà mai allignare
fra essa l'idea di dipendenza da una somma sapienza? chi oserà dirsi
delegato da Dio a predicare la virtú? chi, eziandio, nelle presenti
condizioni, può farlo senza esser deriso? Il popolo, dice Mazzini,
sarà il solo interprete di Dio; ma in simile caso Dio che cosa
diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo né potranno esser
differenti, imperocché per esprimerli sarebbe d'uopo d'interpreti
che non fossero popolo, quindi Dio diventa un vano nome, e non
altro. Se poi, come soggiunge lo stesso Mazzini, Dio è la legge,
allora fa d'uopo dichiarare di quale legge parlasi; se di una legge
naturale, allora essa deve assolutamente esistere nel popolo, quindi
Dio sparisce, Dio è il popolo. Se poi questa legge è differente da
quella di Natura, sarà indispensabile un rivelatore, ma chi l'oserà?
Ognuno, al giorno d'oggi, potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi! io
vi darò le migliori leggi possibili, ma niuno avrà tanto ardire, o
sarà cosí stolto d'aggiungervi: esse mi sono state rivelate da Dio!
La religione non è, come asseriscono alcuni, il desiderio, il
bisogno di venire alla conoscenza dell'assoluto; la religione è un
sentimento di debolezza che rendeci creatori ed adoratori di potenze
sovrumane, e quando la ragione dimostra che queste forze non
esistono, o almeno non impongono doveri, né accordano premî, né
infliggono castighi, né havvi mezzo come placarle e renderle a noi
propizie, la religione piú non esiste. Dicono alcuni: il simbolo
della nuova religione sarà l'Umanità, la Ragione, la Libertà. Ma
coteste idee non essendo né mistiche, né sovrumane, non hanno in sé
alcun sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in inutile
giro di parole, domandiamo a costoro, se nella nuova società a cui
eglino medesimi accennano, vi potrà essere un'idea mistica che ne
modifichi la costituzione ed i costumi degli uomini. La risposta non
può essere che negativa, quindi la società rigenerata dovrà essere
indubitatamente irreligiosa.
Chiamare religione e deismo l'aspirazione alla conoscenza
dell'infinito, è un'improprietà di linguaggio, è oscurare le nuove
idee con voci antiche destinate ad esprimere tutt'altro sentimento.
Non ammettere che queste aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio
assurdo, negargli ogni ingerenza nella vita dell'uomo, altro non è
che irreligione ed ateismo.
In tutte le religioni sino ad ora esistite la fede ha creduto alla
certezza e verità obbiettiva della parte sovrumana. La ragione altro
non aveva fatto che distruggere un simbolo e sostituirne un altro
accettato come verissimo. Ma oggi siamo trascorsi piú innanzi:
studiando sul passato e scorgendo una successione di simboli
religiosi, ognuno a sua volta dichiarato falso, si è dedotto che
tutti erano egualmente bugiardi, che tale è il presente, che tale
sarebbe un nuovo simbolo che ad esso si sostituisse. Dunque la nuova
fede quale è? Il non aver fede in nessun simbolo perché chimere
della nostra immaginazione: ovvero la nuova fede è l'irreligione.
Tutti i riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono
irreligiosi ed atei, ma tutti non vogliono accettare questa
conseguenza della loro dialettica e si dichiarano, con enfasi,
religiosi e deisti. Per contro, non tutti sono socialisti, ma tutti,
comeché professando dottrine opposte al socialismo, si compiacciono
dirsi tali, e perché. La ragione è evidente: l'irreligione è già
sentimento, quindi tutti la professano, ma sono riluttanti a
confessarlo; il socialismo riguardasi ancora dottrina, e tutti
cercano farne pompa, senza comprenderlo o approvarlo.
Un'altra ragione per cui la religione si dichiara indispensabile è
che la storia la registra come un fatto universale e costante. Ma
questa ragione non dovrebbe avere alcun peso per coloro che credono
al progresso indefinito, imperocché tale credenza non può ammettere
che una qualsiasi istituzione debba esistere per la sola ragione che
ha sempre esistito, anzi la dottrina del progresso indefinito
stabilisce il contrario. La religione ha sempre esistito imperocché
tutti i popoli della terra hanno percorso sino ad ora la medesima
orbita, son soggiaciuti alle medesime vicende. Gli Orientali, gli
Etruschi, i Magno-Greci, i Romani, i moderni, tutti partendo o dallo
stato selvaggio, o dalla barbarie ricorsa, hanno raggiunto il
medesimo grado di civiltà, e sonosi trovati nelle medesime
condizioni. Al termine poi di questo ciclo sociale percorso da tutti
i popoli del mondo, si è accennato ad una legge di fraternità ed
eguaglianza quasi sintesi dell'idea sociale: vi accennarono le
dottrine di Zoroastro e di Confucio, vi accennò Platone, vi accennò
il cristianesmo, vi aspirano piú recisamente i moderni. Quei popoli
decaddero né poterono raggiungere questo nuovo stato; noi,
raggiungendolo, varcheremo un punto che nessun popolo ha varcato,
quindi niuna delle istituzioni passate o presenti ci può esser norma
da indovinare le future. L'irreligione sarà nuova, come è nuovo il
socialismo.
Faremo fine a questo capitolo richiamando l'attenzione del lettore
su di un fatto, da cui moltissimi son stati tratti in un grossolano
errore. Quell'aspirazione alla fratellanza, che abbiamo scorto in
tutte le società che cominciavano a dissolversi, la comunità de'
beni predicata nel vangelo, ha lasciato credere quasi a tutti che
quelle antiche idee fussero i rudimenti del moderno socialismo, ma
quest'aspirazione ad un migliore avvenire, che sentiva un popolo
avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza
delle condizioni di quella società che doveva o progredire o
decadere. Ma essa non fu che una semplice aspirazione, le massime
che prevalsero furono quelle dell'umiltà, dell'indifferenza alle
cose terrene de' cristiani, effetto di loro degradazione e causa che
ne accelerò la caduta; una tale aspirazione fu il crepuscolo d'un
tramonto tolto quale l'alba di nuovo giorno.
L'avvenire immaginato da' cristiani in tale aspirazione sarebbe
stato la trasformazione del mondo in un convento. Il fanatismo
condusse que' popoli al martirio, ma non potette elevarli alla
battaglia. Per contro, fra le dottrine de moderni socialisti, fra le
massime ricevute, non havvene alcuna che dissolve od avvilisce: gli
uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire, ma per
prestarsi vicendevole aiuto, lavorando, per acquistare maggior
prosperità, e per combattere; l'aspirazione del socialismo non è
quella di ascendere in cielo, ma godere sulla terra. La differenza
che passa fra esso ed il vangelo è la stessa che si riscontra fra la
rigogliosa vita d'un giovine corpo ed il rantolo d'un moribondo.
CAPITOLO SECONDO
V. Nazionalità. - VI. Libertà. - VII. Unità. - VIII. Federazione.
V. Senza obliare le verità economiche rammentate nelle precedenti
pagine, e le conseguenze da esse dedotte, restringeremo le nostre
considerazioni fra i confini che le Alpi ed il mare segnano alla
nostra patria; e prima di farcene a scrutare l'avvenire, verremmo
svolgendo que' popolari concetti che sembrano reassumerlo, mentre
essi non potranno ch'esserne la conseguenza e l'effetto.
In Italia, il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra
i voti e le speranze universali; il politico predomina, e la ragione
è, per se medesima, evidente: un popolo a cui negasi una patria,
crede un tal fatto cagione assoluta de' mali suoi, e conquistandola
spera alleviarli: nondimeno i fugaci esperimenti del '48 e '49 han
fatto scemare fra gl'Italiani, e per essi non intendo sette, ma
l'intera nazione, il prestigio che aveva il politico concetto. Se
malamente sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un
cangiamento di forme, di nomi, d'uomini, non è rimedio efficace; ed
un tal sentimento, comeché sconfortante al presente, è pegno
indubitato di migliore avvenire, avvegnaché sarebbe impossibile
abbracciare nuove idee, nuovi ordini, prima che il fatto non avesse
distrutto le passate illusioni e gli antichi pregiudizî. Inoltre,
sono le relazioni di Stato a Stato cosí intime, e cosí intrecciate
in Europa, che gli esperimenti in politica fatti da una nazione, del
pari che le invenzioni e le scoverte, sono di un utile universale,
non potendo rimanere inosservati ed infruttuosi per gli altri
popoli; epperò l'Italia va ammaestrandosi, non solo con le proprie
esperienze, ma ancora con quelle de' suoi vicini. I Stati europei
navigano di conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi
determinerà la linea sulla quale verranno ad arringarsi. La Francia,
piú che ogni altra moderna nazione, ha fatto numerose esperienze
sulle varie forme del suo reggimento. Gli Italiani han visto,
tremendo esempio, crescere i suoi mali senza verun vantaggio: un tal
fatto, e le nostre passate esperienze, sono cagioni abbastanza gravi
a determinarci allo studio accurato delle conseguenze ove potrebbero
condurci le nostre istintive aspirazioni. A chi credono che la buona
scelta degli individui o qualche picciolo cangiamento facesse
fruttare in Italia felicità quelle stesse istituzioni cadute in
Francia nel dispotismo, è inutile rispondere; io non scrivo per
costoro, i quali, se non sono ignorantissimi, la malafede è
indubitata.
Nazionalità è una parola, che, all'iniziarsi i rivolgimenti del '48,
corse di bocca in bocca, ed è tuttora per gl'Italiani di grandissima
efficacia, ma sempre è stata malamente definita, mai profondamente
riflettuta.
La nazionalità è l'essere di una nazione. Un uomo che liberamente
opera, liberamente vive ed esprime i propri pensieri, possiede
completamente il suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce
lo sviluppo delle sue facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i
moti, l'essere piú non esiste. Nella stessa guisa, per esservi
nazionalità bisogna che non frappongasi ostacolo di sorta alla
libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno
interesse prevalga all'interesse universale, quindi non può
scompagnarsi dalla piena ed assoluta libertà, né ammettere classi
privilegiate, o dinastie, o individui la cui volontà, attesi gli
ordini sociali, debba assolutamente prevalere: è nazionalità quella
che godesi sotto il giogo d'un assoluto sovrano? Quale utile ebbero
i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si combattono in
Europa, guerre di rivalità dinastiche e non d'altro? Gli Austriaci,
i Prussiani, i Piemontesi, i Spagnuoli quali ragioni avevano di
correte alle armi e d'assalire i Francesi per vendicare la morte di
Luigi XVI? Il popolo sotto tali governi è un gregge vilissimo,
tosato in pace co' balzelli, strumento in guerra di vendetta e
d'odio personale fra i principi. La ricca vita nazionale si reassume
e si angustia in quella ignobilissima d'un despota, o d'un suo
favorito, e diventa però mutabilissima, quindi la stessa Nazione la
vediamo ora superba, ora umile, ora bigotta, ora religiosa, ora
debole, ora forte; il continuato progresso impossibile, ogni
ministro distrugge o sceglie altra via del predecessore, sempre suo
rivale, e la nazione è condannata ad un perpetuo ondeggiare. Tutto
ciò ch'è collettivo, epperò nazionale, abborrito, interdetto. La
storia della nazione riducesi ad una cronaca menzognera o scandalosa
delle virtú o de' vizî dei principi. Ove adunque trovasi la
nazionalità? Quali vantaggi otterrebbe l'Italia con l'unità
monarchica assoluta? Nuovi mali, e non altro.
Tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni
principato in cui è divisa l'Italia, non cesserebbero, ma, a queste,
altre ne verrebbero aggiunte che dall'accentramento del potere e
dell'amministrazione naturalmente risultano.
Come ora languono le provincie d'ogni Stato, languirebbero allora
egualmente le città che oggi son capitali, eccetto una. Il male e
l'ingiustizia che le provincie sieno governate da uomini spediti da
lontane corti, crescerebbero in immenso con l'unità. Gli abitanti
delle varie capitali, oggi usufruttano quasi tutte le cariche di
ogni Stato, in allora ad una sola città restringerebbesi un tal
vantaggio. La probabilità di rinvenire fra tanti principi uno che
sia meno cattivo, la loro debolezza che rende meno ardua l'impresa
di rovesciarli, cesserebbe. Scapiterebbe l'industria, che ora in
ogni Stato ha un centro di moto; scapiterebbe per la ragione
medesima il commercio, non contrappesandosi i danni
dell'accentramento dalla piú libera circolazione interna. Ogni
governo, eziandio dispotico, è costretto alcune volte, o perché
l'epoca il comporta, o per indole del principe, a proteggere le
scienze, ed avvalersi de' distinti ingegni; quindi, in ragion del
numero de' governi cresce la probabilità che splendesse qualche face
fra le fitte tenebre della tirannide; né Beccaria, né Filangieri, né
Pagano, né Romagnosi, conterebbe l'Italia se fosse stata una sola
monarchia. Avvegnaché in un sol centro troppo lontano dagli estremi
sarebbesi favorito lo sviluppo dell'ingegno, e difficilmente un sol
governo sarebbesi mostrato in breve tempo piú di una volta propenso
alle riforme, né avrebbero avuto luogo le varie vicende che le
promossero.
La forza è il solo apparente vantaggio dell'unità; dico apparente,
perocché l'esercito ed il tesoro sono mezzi di cui dispone il re,
non già la nazione, volti ad opprimerla e non già a difenderla: non
pegno di prosperità ma incentivo a' capricci di qualche despota
avventuroso.
Quale monarchia può reggere al paragone del nostro splendido
medioevo, co' suoi torreggianti edifizî, col suo Dante, col suo
Machiavelli, coi suoi guerrieri di ventura, e raggiungere in sí
breve tempo quel grande sviluppo dell'industria e del commercio?
L'Italia surse dalla barbarie, raggiunse l'apogeo della civiltà,
decadde, ed allora le altre nazioni vennero ad attingere dalle sue
ruine una scintilla di vita. Non prima dell'epoca di Luigi XIV la
Francia s'avvicinò a ciò ch'era stata l'Italia nel XIV secolo. La
storia di Francia sarà sempre la cronaca d'una corte dissoluta; e
quella [d']Italia la storia di libere genti; l'una è l'immagine de'
dispotici imperi asiatici, l'altra della libera Grecia. Perché tanta
differenza? Perché l'indole svegliata degl'Italiani ed il loro
spirito d'indipendenza non si prestò mai, né mai si presterà a
seguire come stupido gregge le sorti di una dinastia. La libertà, e
non già la forza, potrà unificare l'Italia.
Nelle grandi monarchie, salvo la capitale, le altre provincie
languono quasi membra inaridite e dogliose: esempio la Francia, ove
la fazione che trionfa in Parigi dispone a suo talento di
trentaquattro milioni di Francesi. Minori assai sono i nostri mali,
divisi come siamo in tanti principati, che l'esser tutti sottoposti
al medesimo tiranno.
Passiamo ora a far paragonare fra la monarchia assoluta e lo stato
di conquista. Un paese governato dispoticamente subisce una perenne
conquista. I principi non hanno patria, loro patria è il mondo che
si parteggiano. Ove cercano le spose, ove gli amici? fra i
connazionali forse? mai no: fra questi cercano sgherri e cortegiani;
loro amici sono gli altri principi, pronti a muovere le armi in loro
difesa. Quale interesse possono avere gli Italiani di favorire una
dinastia piuttosto che un'altra? il medesimo di un condannato a cui
fosse concesso di scegliere il carnefice. Se mai siamo destinati ad
essere tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del
despota, i sostegni del dispotismo, siano stranieri. Ne verrà
risparmiato il dolore di veder rivolti [contro] noi stessi i nostri
concittadini: ed essendo maggiore il distacco fra il governo ed il
popolo, piú sentito sarà l'odio, piú pronta e terribile la vendetta.
Non è forse piú onorevole pe' Romani che il papa debba sostenersi
per forza d'armi straniere che se lo fosse da armi nazionali? Non
sarebbe stato, per la Francia, meno vergognoso il sottostare ad una
conquista, che vedersi oppressa, umiliata, venduta, da Francesi
stessi? Si direbbe disgraziata la Francia, ma non corrotta. La
conquista può essere l'effetto di una momentanea prepotenza di
forza, né dura se lo spirito nazionale esiste. La tirannide
domestica, per contro, sorge dalle viscere stesse della Nazione, e
vi tiene profondate e sparse le barbe. In una parola, quando i tempi
son maturi per libertà, che un despota scacci un altro despota o si
sostituisca alla conquista straniera, il popolo, senza nulla
guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti i mali della guerra. Col
dispotismo non v'è nazionalità, qualunque lingua parli il tiranno,
qualunque sia il luogo ove ebbe i natali.
Della monarchia costituzionale, dirò brevemente, non perché dopo il
detto sia necessario, ma ad evitare l'accusa d'averne taciuto ad
arte. Tal forma di governo è assurda altro non è che un'ipocrita
tirannide. Il principe, capo delle armate, padrone del tesoro,
distributore di tutte le cariche ed onori dello Stato, negoziatore
con le Potenze straniere, sorgente di tutte le grazie, solo
inviolabile ed irresponsabile di qualunque atto, mentre non havvene
alcuno che non sia sua emanazione e sua volontà. Adunque, gli
attributi, la forza, i privilegî del principe sono i medesimi che
nella monarchia assoluta; quali sono incontro ad essi le guarentigie
del popolo? Un patto, ovvero il giuramento del principe stesso, ed
un congresso, che il governo, fonte di tutti i favori, facilmente
rendesi ligio. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa
istituzione è un accrescimento di forza al governo, e non già una
difesa del popolo. I suoi capi sono a scelta del re, e sarà perciò
facilissimo, se non d'avvalersi dell'opera di questi armati,
paralizzare almeno la loro azione, perocché, essi, loro malgrado,
subiranno, quantunque leggermente, l'influenza dell'autorità de'
loro capi, e moltissimi cittadini, che in qualche avvenimento
prenderebbero parte attivissima, se ne astengono, se guardie
nazionali. Inoltre, l'inutile servizio ad essa imposto è, ai piú, di
gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa l'indole e
condizione dell'individuo, ai vantaggi che esso ottiene dalle
franchigie accordate dal governo. Dalla sola volontà del re dipende
l'esistenza di un tal governo, quindi è stabile per quanto può
esserlo la volontà d'un individuo, che un matrimonio, il credito di
un favorito, la paura, o altro impreveduto avvenimento, cangia. Si
attengono i ministri alle forme, perché da esse dipende il loro
utile personale, la loro carica; ma se credono necessaria una misura
arbitraria, come ne' governi assoluti, e non altrimenti, l'eseguono;
ne sparla il pubblico, ne scrivono i giornali, qualche deputato ne
chiede conto a' ministri, e qui finiscono le opposizioni, a questo
si riducono i diritti, le guarentigie del popolo.
Credo inutile distendere piú oltre un tal ragionamento, non
parendomi necessario addurre ragioni, quando sonovi i fatti che
parlano chiaramente. La storia delle monarchie costituzionali è
contemporanea, ricca, notissima: la Francia, dopo essersi dibattuta
per ventuno anni sotto un tal governo (tale eziandio dovendo
considerarsi l'ultima sedicente repubblica), è ritornata al puro
dispotismo; nella Spagna son corsi, infruttuosi, fiumi di sangue; e
moltissime costituzioni, nell'anno '48, le abbiam vedute soffocate
in fasce da' principi medesimi che le avevano concesse e giurate.
Non è l'Inghilterra eccezione a questa regola generale; le sue
grandiose apparenze non fanno che nascondere le cancrenose piaghe di
quella società. Ora che scrivo, il governo inglese è una piramide,
alla cui cima pochi sessagenarî si ripartiscono le cariche dello
Stato; piú sotto un congresso parteggiato, non da principî politici,
ma dal credito personale di quelle reliquie; quindi gli elettori,
commercianti ed industriali, che mercanteggiano, eziandio, il loro
voto; alla base infine una plebe ignorante e misera oltre misura. Se
meno che altrove hanno luogo nell'Inghilterra gli arbitrî del
governo, ciò dipende dall'indole pacifica di quel popolo, dalle
tradizioni, da alcune leggi che l'avvicinano ad una repubblica
aristocratica piú che ad una monarchia.
Inoltre la monarchia costituzionale è corruttrice per eccellenza; è
un armistizio segnato fra i principi ed i monopolisti in danno
dell'onestà. Il dispotismo non cerca l'appoggio della pubblica
opinione; la nazione soffre e tace, ma non mentisce; il governo
costituzionale ha bisogno del plauso e dell'approvazione di pochi
per opprimere i molti, li compra; e l'approvazione e le lodi si
trasformano, sotto tal governo, in merci. Di quinci, l'ignobile e
puerile schiera de' soddisfatti ad ogni costo, che si atteggiano,
parlano, scrivono (lodando sempre) come se fossero davvero liberi
cittadini e la loro opinione avesse peso nelle determinazioni
governative. Vantano i loro dritti e la loro libertà, che riducesi
al dritto ed alla libertà di applaudire al governo. Tra costoro,
quelli che non son venduti materialmente rassomigliano a quei
fanciulli i quali, con elmo di carta, spada di legno, credono
rappresentare Scipione o Marcello.
Il despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l'oro,
quindi appena il reggimento d'uno Stato d'assoluto cangiasi in
costituzionale, le gravezze crescono in modo esorbitante. Il
dispotismo incatena i corpi, il costituzionalismo perverte il
morale; quello comprime l'elatere dell'animo, questi lo logora, lo
distrugge, ed abitua il cittadino ad una continua transazione, a
quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e da essa si è
sparso sull'Europa intera. Sotto nome di libertà, favorito e
protetto il monopolio, e quindi il proletario abbandonato affatto
all'avidità de' monopolisti ed incettatori. La politica esteriore,
codarda ed ipocrita, dovendosi tutelare gl'interessi di una
dinastia, facendo le viste di propugnare i dritti della Nazione.
Conchiudo, monopolisti, dottrinarî, giornalisti, editori…
vantaggiano col reggimento costituzionale, mentre le sorti de'
proprietari e quelle del minuto popolo peggiorano. Sovente una tal
forma di governo è d'impaccio ad un principe, od un ministro
riformatore; se gli stati napoletani avessero avuto uno statuto al
tempo in cui Tanucci ne resse le sorti, probabilmente a questo
ministro sarebbe riuscito impossibile attuare le tante riforme.
Questo governo ermafrodito impaccia un principe che voglia far del
bene, ma non frena le niquizie di un despota.
Parmi di aver dimostrato che, sia l'Italia divisa in varî
principati, sia riunita sotto una sola monarchia dispotica o
costituzionale, la nazionalità italiana non esisterà per questo;
l'Italia sarà feudo di varî principotti, o di un solo, e gl'Italiani
non altro che vassalli. Ma voglio supporre erronee le ragioni
esposte, e concedere che la nazionalità esiste ogni qualvolta le
dinastie, o la dinastia regnante, siano indigene, e farmi a studiare
sui mezzi e le probabilità di scacciare i stranieri dal suolo
italiano, e francare il paese da ogni loro ascendente.
Autorità, tradizioni e forza sono i principî su cui son costituiti
tutti i governi d'Europa, la sola differenza che passa fra loro
dipende dalle diverse gradazioni con cui la libertà individuale
accordasi con essi, perciò nella sustanza differenza non v'è.
Cotesti principî son già in discredito; libertà, nazionalità,
diritto sorgono ad osteggiarli; di quinci la lega dell'Europa intera
contro le nuove idee. I governi occidentali, piú del nord temono
queste idee, e quindi piú immediatamente interessati ad osteggiare
ogni rivolgimento; né questa triade rivoluzionaria può essere
mutilata in modo alcuno; sconvolte le passioni popolari, è
impossibile arrestare il torrente ed egli è assurdo per parte nostra
il pretendere che si facessero a combattere, per giovare altrui, i
principî su cui si basano. Può mai suscitare la rivoluzione chi la
teme piú di qualunque altro nemico? Potranno esservi momenti, come è
accaduto, in cui le potenze occidentali, per loro mire particolari,
facessero le viste di proteggere i rivolgimenti popolari contro la
prepotenza del nord, ma appena ottenuto il loro intento,
s'unirebbero co' nostri nemici per opprimerci, spezzare, dopo
essersene servito, un pernicioso strumento e punire come delitto di
maestà i fatti da loro promossi e le speranze che han fatto sorgere.
Se l'Austria che francamente ci osteggia merita l'odio nostro,
Francia ed Inghilterra (e parlasi qui del governo, non già del
popolo) meritano odio e disprezzo perché nemiche occulte. Alí
Tébélen, diceva ai Greci: «Non contate che su voi soli: Russi,
Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal momento che sapranno
che volete essere un popolo, non perdete mai di veduta questa
importante verità». Ed egli è cosa naturale che la sola ragione
d'impedire che un altro Stato, dalla condizione di vassallo, venisse
a sedere accanto a loro ne' congressi europei, sarebbe bastante per
far volgere in noi tutte le loro armi. Dunque il risorgimento
italiano altro non potrà essere che la vittoria delle nostre armi
sull'Europa de' re. In qual modo compiere una tanta impresa? Quali
mezzi posseggono i principi italiani per combattere l'Europa intera
è quello che verremo ora studiando.
Il primitivo e naturale concetto è una lega dei principi italiani
contro l'Austria, ma essi le debbono due volte il trono; sin dal
1815 è l'Austria che timoneggia la loro politica, che protegge i
deboli dall'ambizione de' forti, e tutti dalla rivoluzione. Quale
utile avrebbero essi di cacciarla dall'Italia, privandosi cosí del
piú saldo sostegno de' loro troni? Del Lombardo-Veneto dovrebbero
creare uno Stato indipendente o spartirselo, cose entrambe di somma
difficoltà ed imbarazzo. Il supporre che tutti cooperassero
all'ingrandimento d'un solo, è un assurdo inutile a discuterlo, che
il senso comune ed i fatti han dichiarato impossibile. Ma poniamo
che i popoli con mezzi violenti e piú stabili che nel '48
costringessero i principi a scendere nell'agone, quale speranza
potrebbe porsi in una lega che porta con sé il germe della
dissoluzione, il mal volere? Concedasi vinto anche questo ostacolo,
restano sempre le discordie, il dubbiare, la poco energia con cui
operano le armi collegate: la storia registra fatti innumerevoli che
ne dimostrano l'impotenza. L'Europa s'è collegata contro Federico
II, contro l'Inghilterra durante la guerra americana, contro la
Francia durante la rivoluzione; Federico uscí vittorioso dalla
lotta, l'Inghilterra conservò sempre una grande superiorità sui
nemici, fu la costanza degli americani e l'abilità di Washington che
la vinsero; i Francesi vinsero sempre, caddero per propria
stanchezza e non già per virtú del nemico. Chi è solo ha il
vantaggio incommensurabile dell'unità di volontà e di comando. E
furono leghe coteste in cui ogni collegato da sé solo pareggiava, se
non superava di forze, il comune avversario. Cosa sperare adunque da
quella di principi italiani di cui tutte le forze messe insieme sono
inferiori alle austriache, e fra cui contasi il papa, cosmopolita, e
centro di dissoluzione e di discordie?
Se l'Austria abbandonasse la sua abile politica e minacciasse di
voler conquistare d'un sol tratto l'Italia, sarebbe il solo caso di
una lega sincera, ma durevole quanto il periglio. Le leghe fra i
despoti non son mai cementate da mire comuni e durature, l'indole
d'un principe, il suo capriccio, un matrimonio cangia la politica e
si violano i patti. Basta promettere ad uno de' collegati vantaggi
in preferenza degli altri per staccarlo dalla lega, e forse da amico
farlo nemico. La colleganza de' re contro i popoli è la sola
possibile e permanente; essa esiste di fatto, essendo il periglio
comune e durevole.
Facciamoci ora a discorrere del caso in cui un solo de' principi
italiani voglia assumere l'impresa d'unificare l'Italia, numeriano i
nemici; prima l'Austria, che tre o quattro disfatte non debellano,
mentre le perdita d'una battaglia prostra le forze d'un picciolo
Stato; con l'Austria s'uniranno gli altri principi italiani facenti
ogni sforzo per salvare i loro troni, ed il papa con essi, che oltre
di chiamare l'Europa intera in sua difesa, lancerebbe in campo la
livida schiera de' clericali, con le armi che le son proprie,
tradimento e raggiro. Armi efficacissime in quello sciame di
cortigiani di cui circondasi il trono, e che temono scapitare se il
padrone vien costretto a spandere in circolo piú ampio i suoi
favori. Non trattasi di un re che caccia i stranieri dai proprî
Stati; ma di un picciolo Stato che conquisti e debelli Stati ad esso
molto superiori di forze. A contrappesare tanti nemici, il principe
conquistatore si rivolgerà alle simpatie de' popoli italiani, che,
in un baleno, potrebbero rovesciare i troni, soffocare le mene de'
clericali, e schierarsi sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del
popolo in ogni Stato non basta ad ottenere l'unità di voleri e di
sforzi che richiede l'impresa. Il volontario cangiamento di dinastia
è per se medesimo illogico, chi può rispondere della virtú di una
schiatta? In parità di potere la migliore dinastia è sempre la
regnante, e perché la piú affine, e perché il paese non sottogiace
all'invasione d'uomini nuovi ed ignoti. Allorché tali cangiamenti
non avvengono per forza d'armi, sono tranelli di pochi
imbrogliatori, che il futuro ed il presente bene della patria
sacrificano a' vantaggi personali che sperano dalla nuova corte.
Arrogi, che nel caso di cui parliamo, trattandosi di cessare d'esser
monarchia per diventar provincia di monarchia, maggiori sarebbero le
difficoltà. A tali unificazioni ripugnano i popoli, e piú che gli
altri, e con ragione, gl'Italiani. Adunque ogni città, ogni Stato
imporrebbe a questo principe patti, chiederebbe tali guarentigie da
suscitare in esso gravi preoccupazioni; egli vedrebbe il trono de'
suoi avi abbandonato in balia de' mugghianti flutti de' popolari
rivolgimenti, né potrebbero menare a fine guerra lunga e terribile.
Suppongasi ora cotesti ostacoli rimossi, ed il popolo italiano, con
illimitata fiducia, abbandonarsi all'arbitrio di questo principe, e
che niun partito, niun uomo sorga a propugnare idee contrarie o a
spargere diffidenza. In tale ipotesi, impossibile a verificarsi,
esaminiamo se questo principe potrà osteggiare e vincere l'intera
Europa. Quanti ostacoli e di sommo rilievo non si opporrebbero al
rapido andamento dell'impresa? delle tasse e della coscrizione, due
muscoli della guerra, per mancanza d'ordinamento e d'unità, per
diversità di leggi, d'usi, di tradizioni, sarebbe quasi impossibile
ad avvalersi. L'Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo
stesso; e son miracoli questi che fanno le monarchie? Sperasi forse
nell'esaltazione universale? essa, senza dubbio alcuno, è arma
terribile contro il nemico, spiana nell'interno ogni ostacolo, tien
luogo di leggi e di magistrati, ma potrà un principe avvalersene
senza tema di rivolgerne in se medesimo la punta?
I liberi e popolari oratori che suscitano le passioni; le promesse e
le speranze d'un migliore avvenire; schiusa la via a brillanti e
rapide carriere; il magico nome di libertà che agita gli animi e li
sospinge in cerca di moto e d'azione; l'amore che tutti sentono per
la cosa pubblica, perché a tutti è dato liberamente parlarne, farà
correre a torme gli uomini alle bandiere, ed entreranno nel pubblico
tesoro le sustanze de' privati. Ma potrà un principe avvalersi di
questi mezzi? ordinerà invano ai suoi agenti di far suonare le
parole di patria e libertà: il suono sarà fioco, il senso oscuro
nella bocca di un cortegiano; unite con le lodi della magnanimità
del principe formeranno una strana e discorde mistura. Gli uomini
che fra l'universale esaltazione corrono alla pugna non possono che
esser prodi: come sfuggire, se codardi, alla pubblica esecrazione?
La libertà, facendo d'ogni cittadino un censore del governo, ne
forma eziandio un sostegno. È cosa notissima come erano onorati
presso le antiche repubbliche que' cittadini che si facevano a
scoprire e rivelare le trame dannose allo Stato; e fra i moderni
stessi, non appena vien adottato il reggimento a popolo, ogni
cittadino non dubita farsi il persecutore de' contumaci, opera
vilissima in una monarchia. La repubblica, non escludendo nessuno
dal sindacato, ed ogni cittadino avendo il diritto di censurare la
condotta del generale, non esiterà a denunziare il soldato o
qualunque ufficiale; e la stampa, la libera parola ne' circoli e
nelle piazze, gli offrirà il mezzo come farlo dignitosamente ed
eziandio acquistarne fama. Per contro un severo e pubblico censore
trasformasi sotto il principato in un vile delatore: il silenzio è
imposto, o almeno la parola limitata; è inviolabile il principe, e
non è ragionevole, dicono i monarchici, trovare difetto d'ingegno,
di carattere, di patriottismo negli uomini che il principe chiama a
reggere lo Stato. Adunque la censura non colpirebbe efficacemente
che il povero gregario e dovrebbe esporsi a voce bassa nelle
anticamere delle EE. LL.; quindi, comunque rivolta al bene del
paese, diverrebbe atto obbliquo e degradante. Inoltre è natura dei
cuori generosi, il non sentir simpatia pei re o altro potere che
s'impone al paese, e sotto tali reggimenti i refrattarî trovano
protezione e compatimento, e non già riprovazione: questa è una
delle tante cause per cui gli eserciti regî, ad onta di pene
rigorissime, non son mai saldi come le schiere repubblicane.
Né qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un
popolo libero. È istituzione fra questi il fare abilità al valore ed
all'ingegno di palesarsi ed aspirare a balzi ai primi onori, di
quinci, l'universale operosità, l'ambizione, madre d'eroi. Un
generale d'esercito, avido di conservare l'aura popolare, stimato
dalla sferza d'una stampa libera e severa, sollecito di soddisfare
alla pubblica aspettazione ed impedire che un rivale, con arditi
disegni, lo soppianti, precipitasi in quelle audacissime imprese che
sono l'impeto di un popolo corrente verso la libertà. Nei regî
eserciti è ben diverso il modo di governarsi: il campo della scelta
angustiato fra un cerchiolino di favoriti; il duce supremo contento
del favore del re, scudo e difesa sicurissima a qualunque errore; un
ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitú piú
che d'onore, tenuto in maggior conto che la pubblica opinione. Da
queste varie cagioni risulta la paralisi, il dubbiare continuo, il
temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per
conseguenza meschine imprese, disastri, o patti vergognosi.
Ne' rivolgimenti popolari, egli è vero, che accanto agli eroi si
veggono codardi ed impostori, ed il disordine spesso accompagna le
grandi imprese, ma non perciò vien turbato il rapido corso degli
avvenimenti.
Le rivoluzioni son come le onde d'un rapido torrente che, quantunque
torbide della mota sollevata dal fondo, non s'arrestano perciò, né
cessano di sgombrare con fremito gli ostacoli che contrastano al
loro corso. Appena un principe, o un potere qualunque sorge a
reggere il movimento, e dice: farò io,. immediatamente ogni
cittadino diviene d'attore spettatore, l'impeto della rivoluzione
s'ammorza.
Suppongasi che dall'ignobile schiera de' moderni cortegiani, da
quella torba di generali cresciuti fra le pedantesche discipline de'
quartieri, sorga, come dalla brillante nobiltà del medioevo, non
serva, ma partecipe de' splendori del trono, un Condé, un Turenna,
un Montecuccoli… esso non potrebbe menare a buon fine la guerra
italiana, avvegnaché, dovendo, durante la guerra, creare la nazione,
gli farebbe d'uopo d'un potere piú che sovrano. La sola libertà può
risolvere il complicato problema: abrogando ogni legge, dichiarando
libero ed indipendente ogni Comune, ogni cittadino, si spezzano le
pastoie domestiche, le differenze, i limiti de' vari Stati
spariscono, e dall'uguaglianza l'unità risulta di fatto; e cosí non
sarà l'effetto d'un nuovo patto imposto agl'Italiani, ma la naturale
conseguenza dell'abolizione di ogni patto. Reso libero ed
indipendente, ogni Comune avrà il solo obbligo, che gli viene
imposto dalla necessità di conservare l'acquistata libertà ed
indipendenza, di concorrere con tutti i suoi mezzi a francare
l'Italia dai nemici esterni. Una Convenzione italiana ripartirà sui
diversi Comuni, ma senza ingerirsi della loro interna
amministrazione, proporzionalmente, le gravezze volte ad alimentar
la guerra, e l'esercito, eleggendosi, come è suo diritto, i capi,
sarà l'esecutore de' voleri della nazione: sgomberare l'Italia dalle
Alpi al mare da ogni elemento straniero e tirannico. Potrà mai un
principe operare in tal modo? Egli, non potendo accordare illimitata
libertà, o dovrà bandire in Italia nuove leggi, o pretendere che
tutti si uniformassero durante la guerra a quelle di uno Stato, cose
entrambe impossibili ad effettuarsi. In ogni provincia, in ogni
Stato giungeranno i regî commissarî, ed il malcontento o
l'indifferenza li accompagneranno come l'ombra i corpi.
L'Italia non subirà mai il giogo d'un potere che abbia il benché
minimo carattere d'uno de' presenti Stati in cui essa dividesi:
tutto ciò ch'è esclusivamente piemontese, napoletano, romano… non è
italiano. Un principe, durante qualche disastro, essendo puerilità
supporre una sequela non interrotta di vittorie, può scendere a
patti per salvare il trono degli avi; e però all'Italia fa d'uopo
una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non
quello dell'intera Italia, e che dirà: tutto o nulla. Se vi fosse
una città che venga dall'esercito considerata come capitale, sarà lo
scoglio contro cui romperebbero i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò
a difendere Torino, i veneziani Venezia, i romani Roma… tutti furono
vinti, perché angustiarono l'idea italiana fra le mura d'una
capitale; durante la guerra l'Italia non dovrà averne altra che il
punto strategico determinato dal corso delle operazioni militari. Un
principe non può, con animo sgombero da sospetti, armare l'intero
popolo italiano e trasformarlo in un esercito, e per tema di non
poterlo padroneggiare e perché la natura del suo governo nol
comporta; il principe dovrà guerreggiare con l'esercito, e la nostra
è guerra da combattersi dall'intera nazione. Solo un Alessandro, un
Cesare, un Napoleone… potrebbe menare a compimento una simile
impresa, ma questi grandi, sempre o quasi sempre, sorgono dalle
rivoluzioni; ed inoltre la monarchia italiana, fondata da un
Alessandro, facendo cedere il fato alla prepotenza del suo genio,
sfascerebbesi alla sua morte, come si sfasciarono tutti gl'imperi
fondati per conquista. I vantaggi che può offrire la monarchia non
son tali da far dimenticare agli Italiani le loro splendide
tradizioni municipali; le rivalità e l'odio fra i diversi popoli con
tal reggimento non si spengono, ma crescono, e le detronizzate
famiglie non mancherebbero usufruttarle in loro favore; la libertà
assoluta e l'uguaglianza può solo cancellare le rimembranze del
passato.
I re, che da disgregate baronie formarono regni, sonovi riusciti
distruggendo od assorbendo nella corte le famiglie baronali, ed
unificando i popoli con abolire il vassallaggio; ma i tempi son
mutati, ed assai diverso è il caso in Italia: la piú larga promessa
che farà un principe è uno statuto, cosa sia il sappiamo; promessa
che non tarderebbero, e piú largamente, a fare i suoi rivali, ed in
parità di circostanze ognuno preferirà di esser monarchia piuttosto
che provincia di monarchia. In una parola, la storia e la ragione
han dimostrato abbastanza che la forza non fonda Nazioni, ma
conquista schiavi.
Finalmente, se la sola guerra di popolo, e guerra affatto
rivoluzionaria, può solo riscattare l'Italia dal suo servaggio, non
v'è luogo piú a dubbi, se debbasi o pur no lasciar campo alla
monarchia di mischiarvisi. Una rappresentanza popolare, che sorgesse
in uno degli Stati in cui è divisa l'Italia, non potrebbe né
dovrebbe porsi d'accordo, per cacciar lo straniero, con niuna delle
monarchie italiane; troppo diverse sarebbero i mandati dei due
poteri, troppo diverse le mire, per sortirne un buon effetto. Il
principe, piú che all'indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla
salvezza del proprio trono, che il reggimento repubblicano, ricco in
Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe di ruina. Un potere
nazionale, per contro, col mandato di sgomberare l'Italia di quanto
osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni modo impedire
che il principato acquistasse credito e potere. L'uno direbbe:
meglio io re e l'Italia schiava, che questa libera ed io esule.
L'altro non dovrebbe riconoscere altri limiti che le Alpi e il mare;
altro patto che l'assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo
ognuno la propria politica, o per volere della nazione,
s'accordassero, quale potrebbe essere il patto? interrogare il paese
a guerra vinta, lo stesso del '48; né pare che lo spirito di
conciliazione potrebbesi spingere piú oltre di quello che lo fu in
quell'epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No;
l'atto della fusione il ruppe; e cosí avverrebbe sempre, da' regî o
da' repubblicani (a chi prima capitasse il destro) sarebbe infranto.
Ed è poi da supporsi che un re, eziandio nella certezza di essere
eletto, rinuncierebbe al diritto divino, per surrogargli quello del
popolo? Dio non può interrogarsi, il popolo sempre; concedere al
popolo il diritto di fare un re, è, vogliasi o no, concedergli il
dritto di disfarlo.
Ma concediamo tutto possibile, la colleganza, il patto, la fede al
patto; a chi verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai
generali regî, o ai republicani? Permetterebbero questi che le loro
forze venissero logorate e distrutte dall'indubitata incapacità e
dalla dubbia fede di quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito
a generali d'un partito avverso? Egli è facile in simili momenti
gridare concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze delle cose,
senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono
sorgere gli ostacoli che generano disordine, codardia, illusioni,
disfatta.
Finalmente, le speranze di vedere ingranditi i possedimenti di casa
Savoia con l'aiuto delle Potenze occidentali; non essendo se non
calcoli ed utili parziali, o tutto al piú di una provincia d'Italia,
non entrano nel quadro di questo libro; nondimeno ne parleremo di
volo. Un forte regno boreale, se non è vassallo della Francia, è
dannoso per essa.
La Francia, ogni qualvolta muove guerra all'Austria, deve, per
ragione strategica, dirigere i suoi sforzi nella vallata del Po,
mentre all'Austria, per contro, conviene tenersi in questa sulle
difese e schierare sul Danubio l'esercito maggiore; quindi alla
prima rileva sommamente che in Italia, fra esse e l'Austria, non
s'intramettesse altra Potenza, capace, se non d'altro, di mantenere
la propria neutralità. Il supporre questo regno sempre ligio a
Francia è puerile concetto che non merita risposta. Una volta
costituito, esso avrebbe propria autonomia, proprî interessi, i
quali attese le frontiere e la natura de' prodotti,
l'avvicinerebbero piú alla Germania che alla Francia. E questo regno
italiano non potrebbe giammai dar norma (come asseriscono i suoi
propugnatori) alla politica degli altri Stati: Napoli, Toscana, il
papa, per non subirne la preponderanza, si getterebbero nelle
braccia del Russo, dell'Austriaco, del Francese: negarlo è
disconoscere l'istoria de' Longobardi, degli Angioini, dei Visconti,
di Venezia. Mai i Stati italiani han voluto subire un protettorato
italiano, perché natura de' principi come de' popoli è, allorché son
costretti di avere un protettore, di scegliere sempre il piú potente
ed il piú lontano. Quindi questa utopia, che sperano o fingono di
sperare i cortegiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco, che i
solo Lombardo-Veneti. Fo fine a questo ragionamento, persuaso di
aver dimostrato abbastanza che la nazionalità cercata ad una lega di
principi, ad una monarchia, è un fantasma, una illusione, non è
nazionalità; né potrà mai attuarsi, perché leghe principesche, o
principi, non possono né conquistarla né conservarla. L'Italia, per
vincere i suoi numerosi e potenti nemici, bisogna che combatta
svincolata dalle pastoie domestiche: la guerra del risorgimento gli
Italiani debbono guerreggiarla da uomini perfettamente liberi:
richiedere all'esaltazione le schiere, ed al bollor delle passioni
popolati quei genî che mai non mancano nelle rivoluzioni, come le
folgori non mancano alla tempesta; il credere che la libertà debba
seguire l'indipendenza è funestissimo errore, è quel desso che nel
'48 ci ricacciò nella schiavitú.
VI. Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di
nazionalità, godere di libertà. La piú parte di costoro son dotti,
pei quali, a loro credere, è patria il mondo; e cotesta vanità può,
in parte, adonestare il loro asserto che, assurdo quanto quello di
nazionalità senza libertà, male adeguerebbesi con la loro dottrina.
L'esser privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero
debba, nella nostra patria, preponderare, ed in tal caso è
indubitato che la libertà individuale verrà lesa. L'Italia, o parte
di essa, dicono costoro, potrà formar parte di un'altra nazione
libera, e godere di una tal libertà. In primo luogo, come l'utile,
le attitudini, le inclinazioni non si riscontrano mai identiche fra
due individui, del pari avviene delle nazioni. Un Italiano non sarà
mai né Francese, né Tedesco senza una forza estrinseca che violenti
il suo naturale. È questa una verità sentita, un assioma che non ha
bisogno di dimostrazioni; una provincia italiana, o l'intera Italia,
che facesse parte di liberissimo Impero, non potrebbe perciò dirsi
libera; gli Italiani non sarebbero che schiavi beati, (per quanto
possa esservi beatitudine fra le catene), ma non altro che schiavi.
Se poi l'Italia, o parte di essa, fosse confederata con altra
nazione, in tal caso sarebbe libera se unita da volontario patto ed
allora di fatto esisterebbe la nazionalità; ma se una ragione
qualunque imponesse questo patto, nazionalità e libertà sparirebbero
entrambe. Tali furono i Cisalpini, vergogna maggiore del bastone
tedesco. Tra i Cisalpini ed i moderni Lombardo-Veneti havvi la
differenza medesima che fra un vile cortigiano ed un fiero e
dignitoso cittadino condannato per delitto di maestà. Se la semplice
centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come essa può
mai rimanere intera sotto l'attrito che eserciterebbe su noi un
popolo straniero? eziandio riducendo il tutto alla sola libertà di
stampa, pure i scrittori che si faranno a propugnare l'utile della
propria nazione, giungeranno ad un punto che intaccheranno il
protettore, e la forza li farà tacere, se l'oro non giungerà a
comprarli.
Facciamoci ora a considerare la libertà, nel suo vero aspetto, nel
suo vero significato: dritto di eleggersi i proprî maestrati, di
esser giudicati da' proprî conterranei; di esser legislatori di se
medesimi; di non sottostare ad alcuna determinazione, senza che
venga ascoltato il proprio parere, o di chi eleggesi quale
rappresentante… Possono tali condizioni verificarsi senza una recisa
nazionalità? Oltrecché, come un individuo per esistere deve sentire
il proprio essere, la propria sensibilità, ed avere un pensiero
tutto suo, attributi che non solo non possono venirgli comunicati,
ma vengono distrutti o mutilati dalla benché minima influenza
altrui, del pari ogni influenza straniera non potrà mai favorire, ma
ritardare il nostro risorgimento.
Sperano altri che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci
libertà, ed è questa delle utopie la piú assurda e codarda ad un
tempo stesso. Il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che
nel francare completamente il debole; senza che, la libertà ottenuta
in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non è
libera una nazione convinta, ch'altri, volendo, possa rapirgli la
sua libertà; la piena fiducia nelle proprie forze è una condizione
indispensabile (fiducia che solo dai fatti può emergere), quindi la
libertà deve non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti. Se
gl'invasori d'Italia, ritirandosi, l'abbandonassero a se medesima,
non per questo l'Italia sarebbe libera: senz'alcuna fiducia, o
almeno dubitando del suo valore, ad ogni incontro, non potrebbe che
trattare umilmente con l'antico padrone temendo che questi gli
rapisse il dono concesso, ed è spettacolo piú della schiavitú
umiliante lo scorgere una nazione che vantasi di essere libera
subire le violenze d'un prepotente vicino. L'Italia per essere
libera deve essere indipendente, e libertà ed indipendenza non
altrimenti si ottengono che conquistandole: l'Italia deve fare da
sé; e tanto piú salda sarà la sua futura libertà per quanto piú
numerosi saranno i debellati nemici, e piú superbi i monumenti di
gloria meritati per conquistarla.
Dicono i dottrinarî, i quali temono che i marosi della rivoluzione
non li sommerga insieme alle lor dottrine: che bisogna educarsi al
vivere libero: ottenerlo per gradi e non per salti, ed accettare una
mezzana libertà come sgabello all'intera, come pegno di migliore
avvenire. Strano ed assurdo argomento. La brama di libertà è
sentimento, è aspirazione naturale dell'uomo, e non già dottrina, ed
i ripetuti sforzi del dispotismo non bastano a distruggerla. L'uomo
sottoggiace all'altrui dipendenza, non già perché mancasse in lui il
desiderio di francarsene ed il convincimento di usare utilmente di
sua libertà, ma perché teme maggiore tirannia, ed altri mali, che la
propria immaginazione, guasta dal desiderio della quiete, gli
figura; ed è al bisogno, al desiderio di conservare parte di sua
libertà, ch'egli sacrifica la rimanente. Allo schiavo è forza che
sia educato secondo i voleri del padrone; ma per vivere da uomo
libero basta seguire gli impulsi della propria natura, né havvi
necessità d'educazione.
L'uomo appena sentesi soverchiamente gravato dal peso della
tirannide e scorge la probabilità di rovesciarla, senza piú,
insorge; ed i progressi della scienza, lo sviluppo della ragione,
cosa valgono all'insurrezione ed alla battaglia? quali dottrine
sospinsero gli Svizzeri alle armi, o inspirarono la guerra degli
Olandesi, degli Americani? quali dotti contava la barbera Grecia
allorché dava l'esempio del piú eroico coraggio e del piú sentito
patriottismo?
Ghermita la vittoria, il soccorso della scienza sembra
indispensabile; essa può, svolgendo i tesori dall'esperienza
accumolati, additare i mezzi come confermare le conquiste. Ma questi
vantaggi, il fatto li dimostra piú effimeri che reali, perciocché
non accettano le nazioni i suggerimenti della scienza, ed il volgo
di niun progresso è capace se non v'è balzato dall'imperiosa
necessità, né havvi ragionamento oltre il fatto che valga a
convincerlo; i mali sofferti, il bene conquistato, sono i soli
argomenti che fruttano. La discussione, le opinioni, i sistemi
emergono dai mali che soffre la società, e la dottrina, in politica,
segue e non precede i fatti. Essa dimostra di quanta levatura sia il
pensiero della nazione, ma non già la piú o meno probabilità d'un
rivolgimento. Una nazione senza dottrina sarà come un uomo semplice
e di soverchia buona fede, che facilmente cade nell'inganno, ma non
mancherà per questo di forza, di coraggio, d'eroismo, e dell'ardente
desiderio di migliorare la propria condizione. E può eziandio
avvenire che un popolo dottissimo, imputridito nei vizî, abbandoni,
non curante, il proprio destino al primo venuto. Né le nazioni si
addottrinano e sortono dalla loro semplicità a furia di libri e di
giornali, ma progrediscono attraverso una serie di fatti terribili e
sanguinosi. L'opinione la piú assurda è il supporre che una mezza
libertà possa bel bello, e senza veruna scossa, menarci all'intera,
mentre cotesto vantato progresso legale mena dritto alla corruzione.
Facciamoci a sviluppare in tale asserto.
Le condizioni indispensabili ad un popolo per conquistate una
libertà duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide,
determinato dai mali presenti; e per evitarli in avvenire la piena
conoscenza della causa di questi mali, ricercati dalla scienza.
Esaminiamo la mezza libertà, quanto favorisca coteste cagioni
determinanti e dirigenti.
I reggimenti moderati, per loro natura, nascondono e leniscono i
mali che, non essendo abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere
in noi medesimi lo sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali di
popoli piú infelici, che dalla nostra imaginazione esagerati, ci
sembrano molto piú di quello che realmente sono, facendoci perciò
benedire le dorate catene.
Il morale non compresso, ma logorato, illanguidito, perde la sua
elasticità, ed a servi beati l'insorgere riesce impossibile.
Accettasi senza dolore la direzione, i nervi del pensiero e
dell'imaginazione son tronchi affatto; metodicamente vengono i
sudditi condotti a non pensare diversamente da quello che vogliono i
governanti; si avvezzano per mancanza di dolore a non rimontare
all'origine delle cose, di quinci la mollezza. Per converso,
afflizioni, dolori, ostacoli, l'isolamento stesso a cui costringe la
tirannide, ritorcono il pensiero in se medesimo, che per propria
conservazione tenta ogni oggetto, rendono l'uomo alacre
consideratore, e suscitando le passioni s'accelera la reazione e
sospingono alla realtà, all'azione. La congiura del Rutli, che
divampava con la battaglia di Morgarten ed inaugurava la libertà
svizzera, non avrebbe avuto luogo senza l'avversione che Alberto I
d'Austria ebbe per le franchigie, e l'efferrata tirannide di Gessler
suo proconsole. Né l'Olanda, senza il S. Uffizio ed il duca d'Alba,
sarebbesi francata dal terribile giogo sotto cui gemeva. E se
l'Inghilterra avesse rispettato l'indipendenza amministrativa delle
sue colonie, l'America farebbe parte del suo Impero. Avendo
dimostrato come i reggimenti moderati allontanano le cagioni
dell'insorgere, ci faremo a studiare sino a che punto essi
favoriscono lo sviluppo delle idee.
Pochi, oggigiorno, sono i cultori delle scienze economiche e
politiche, la noncuranza che, generalmente, si ha per la cosa
pubblica, l'utile individuale affatto staccato dall'universale, sono
cause di cotesto male. Quei che se n'occupano non già per farsi
ripetitori, ma per trarre nuove conseguenze, scovrire nuove verità
ed elevarsi all'applicazione, riscontrano nella società in cui
vivono, non solo le cagioni determinanti a farlo, come è naturale,
ma eziandio le istituzioni, i costumi di essa società, prescrivono i
limiti alle loro ricerche, a guisa che la scienza si distende
secondo tali limiti e secondo l'intensità e la purezza delle cagioni
determinanti. Fra le nazioni ove havvi qualche franchigia, le
cagioni determinanti sono numerosissime, ma volgono tali studî, non
già all'esplorazione dei mali, ma alla ricerca del bene; oltreché,
soddisfatti un gran numero, pochissimi attaccano radicalmente il
governo, e la libertà del dire da esso concessa, facendo
discreditare presso il pubblico gli attacchi e gli attaccanti,
limitano il campo della critica: infatti, presso queste nazioni, il
frutto che si ottiene dalle migliaia di volumi che si pubblicano, da
tante accademie, da tanti dotti e dottrinarî, riducesi a qualche
microscopica riforma politica, o ritrovato economico, in apparenza
utile. Gli onori, gli stipendî di cui largheggiano questi governi
coi dotti, sono incentivo a tali lavori che, mascherati da qualche
umile osservazione, sono le piú sfrontate apologie del presente. La
tirannide, per converso, tutto interdice; il mistero o la fuga
possono solamente salvare da' suoi artigli colui che ardisce alzar
la voce; rarissime perciò le cause determinanti a scovrire le piaghe
della nazione, ma se sorgono, purissime e fortemente sentite, altre
non ponno essere che i mali da cui è oppressa la società, e la
nobile ambizione dell'aura popolare comprata a caro prezzo. La
moderazione di niuna difesa a chi osa; l'opinione pubblica pronta a
favorire colui il quale con piú ardire muove i suoi attacchi, quindi
libero, franco, appassionato il dire. Per lunghi anni si tace in uno
stato dispotico, ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi,
appariscono quegli opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi
sarà poca erudizione e sfoggio di dottrina, ma questa a che giova se
non scende ai fatti? Conchiudiamo, che la mezza libertà, le
concessioni, non sono stato di transizione per giungere a francarsi
da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui giovasi la forza per
garentire le sue usurpazioni; è uno stato non di scuola, ma di
paralisi. Né qui finiscono i mali dei moderati reggimenti.
I rivolgimenti di un popolo vissuto sotto un duro dispotismo sono
piú terribili, piú recisi e piú atti a gettar radici che quelli di
uno Stato a metà libero. Quale differenza fra la repubblica francese
del '91 e quella del '48, l'una surta sulle ruine d'un lungo regno
assoluto, l'altra basata sul fango d'un moderato reggimento? Quella
terrore dell'Europa e sola pagina onorevole della storia di quel
popolo; questa oggetto di scherno e disprezzo universale, e macchia
indelebile all'onore della nazione. Inoltre, istituzioni, caste,
privilegî, culti, tutto è odiato sotto il peso della tirannide,
perché tutte armi volte ad opprimere la moltitudine, epperò tutte
nei rivolgimenti distrutte, quindi sgombero il cammino da ogni
ostacolo.
Invece nei Stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la
rivoluzione da mille impacci è arrestata o sviata dal suo corso.
Dottrinarî, che a voi convenga la mezza libertà, che l'industria ed
il commercio fiorisca alla sua ombra, concedo; ma non asserite che
essa giovi al minuto popolo, e che ci meni ad un migliore avvenire.
L'uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza per giungere alla
conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i quali
garentiscono la conquistata libertà; ma per francarsi dalla
tirannide che l'opprime, procede a salti, lo schiavo non smaglia
lentamente le catene, ma le spezza.
Conchiudiamo: la libertà non ammette restrizioni di sorta alcuna, né
fa d'uopo d'educazione e di tirocinio per gustarla, essa è
sentimento innato nell'umana natura; le franchigie concesse dai
despoti nei momenti che non si veggono sicuri della vittoria, non
sono che un narcotico somministrato al popolo per addormentarlo fra
le lentate catene ed annebbiarne l'intelletto, e quindi senza
nazionalità, la libertà non può esistere. Ma oltre la nazionalità,
essa per non dirsi una menzogna, una derisione, richiede un'altra
condizione, per molto tempo ignorata, ora ad arte disconosciuta,
l'uguaglianza.
Egli è falso che l'uomo associandosi co' suoi simili debba
sacrificare parte di sua libertà. Questa può definirsi il libero
esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, che vien limitato
dal mondo esteriore, da' bisogni, da' mezzi di soddisfarli. La
società, mediante la sua forza collettiva, trasforma in mille guise
il mondo esteriore, giovandosi, con infiniti modi, delle forze
naturali e dei loro prodotti, quindi offre all'uomo un campo sempre
piú vasto per l'esercizio delle sue facoltà, accresce i suoi
bisogni, facilita i mezzi come soddisfarli, e la vita dell'uomo
associato deve necessariamente essere piú ricca di sensazioni di
quella dell'uomo isolato, ovvero quello goderà di una libertà
maggiore che questo. Proudhon scrive: «La libertà di ciascuno,
riscontra nella libertà altrui, non un limite, ma un aiuto; l'uomo
il piú libero è quello che ha maggior numero di rapporti coi suoi
simili». Quindi, se per un individuo o per una classe d'individui
non si verifichi tale verità, è forza conchiudere che i loro
rapporti con l'intera società non sono equi, ma v'è indubitatamente
ingiustizia. Se da un uomo non richiedesi lavoro, mentre si
costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi privilegio per
quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo della società. Il
solo lavoro, che ogni uomo senza distinzione alcuna deve per proprio
utile compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano ed
i suoi bisogni richieggono; con questa legge, e non altra, tutti
gl'individui componenti una società dovrebbero contribuire
all'accrescimento del comune prodotto. Inoltre, cotesta società,
dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri, senza
veruna eccezione, tutti quei mezzi che essa possiede, onde
facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali, e fargli
abilità a riconoscere le proprie attitudini e scegliere il modo come
impiegare le proprie forze, solo in tal caso dall'assoluta libertà
d'ognuno risulterebbe massimo prodotto e massima felicità. Ma quanto
siamo lungi da un simile stato!…
Come provvedesi all'educazione del proletariato? in un modo
negativo, costringendolo dall'infanzia a continuato lavoro, che
aggiunge alla mancanza dei mezzi, quella del tempo e delle forze. E
sotto qual pena, cotesta numerosa classe vien condannata
all'ignoranza? la piú terribile, la morte per fame fra l'abbondanza.
E mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà che la Natura
ha concesse al proletario, e lo sospinge suo malgrado sulla via
faticosa ed aspra percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal
quale mai potrà cavarsi frutto, perché ricco, avrà tempo e mezzi
esuberanti per la sua educazione, che verranno inutilmente sprecati.
L'uguaglianza politica è derisione, allorché i rapporti sociali
dividono i cittadini in due classi distintissime, l'una condannata a
perpetuo lavoro per miseramente vivere, l'altra destinata a godersi
il frutto dei sudori di quelli. L'uguaglianza politica non è che un
ritrovato per sgravarsi dell'obbligo di nutrire i schiavi, per
privare il fanciullo, il vecchio, il malato d'assistenza; è un
ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la
facoltà d'avvalersi di quelli dei suoi dipendenti. Sonosi sciolte le
catene de' schiavi recidendogli i garretti.
Una tale ingiustizia, che sacrifica a pochi i moltissimi è,
eziandio, danno manifesto all'intera società, perché riesce
impossibile a' null'abbienti ingegnarsi, ed ai troppo facoltosi
manca ogni stimolo per farlo; e crescendo cosí la disuguaglianza,
corresi, come altrove dicemmo, al deperimento, alla dissoluzione
sociale.
In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al
lavoro, la libertà non esiste, la virtú è impossibile, il misfatto è
inevitabile: la fame e l'ignoranza, sua conseguenza imediata,
rendono la plebe sostegno di quelle medesime instituzioni, di que'
pregiudizî da cui emerge la loro miseria; rivolgono la spada del
cittadino contro i cittadini medesimi a difesa d'una tirannide che
opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale
dell'assassino, prostituisce la donna. La società intera viene
abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la
sua volontà, sarà sempre quella di cotesti pochi, i quali ammolliti
dalle ricchezze, che temono di perdere, sacrificheranno sempre
l'onore, la dignità, l'utile universale ai loro ozî beati, e
l'ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera
espressione della loro volontà, distrugge affatto la nazionalità,
espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza
di classi.
Conchiudiamo: la libertà senza l'uguaglianza non esiste, e questa e
quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua
volta le contiene, come il sole la luce ed il calorico.
VII. Gl'Italiani siamo unitarî, tali furono gli antichi, ed una tale
aspirazione, fra moderni, comincia da Dante. L'idea che nel 1814 ha
cominciato a farsi popolare, che ha progredito sempre, che s'è
mostrata dominante in tutti gl'istanti di vita vissuti dal popolo
italiano, è l'unità; ma gli ostacoli per attuarla son piú che
moltissimi.
Un governo unico, pe' piú liberali emanazione diretta del popolo,
responsabile, e revocabile, e per tutti poi, energico, compatto,
distributore di cariche, premiatore del merito, è il concetto
volgare. Ma se non vogliamo disconoscere l'umana natura, sarà facile
scovrire le conseguenze di una tal forma di governo.
L'uomo o gli uomini componenti il governo, non potranno spogliarsi
delle loro passioni, rinunziare a' loro concetti, abdicare infine
alla loro individualità: questa pretesa sarebbe assurda e ridicola,
chi il crede possibile non legga questo libro, io non scrivo per
esso. Eglino, come tutti gli uomini, vedranno le cose sotto
quell'aspetto che le loro passioni le presentano, ed adattando i
provvedimenti alle loro convinzioni, opereranno coscienziosamente e
faranno quanto ad un uomo è dato di fare; quindi i loro desiderî, i
loro concetti prevarranno su quelli dell'intera nazione, ed avverrà
precisamente che, volendo il bene pubblico, conseguiranno uno scopo
affatto contrario, imperciocché i desiderî, i concetti, le passioni
di pochi non potranno essere quelli di tutti, la parte non può
uguagliare al tutto. Inoltre tal governo dovrà esser forte, quindi
diverrà immancabilmente tiranno, imponendo con la forza ciò che egli
con fini rettissimi vuole; e la tirannide sarà piú dura per quanto
maggiore sarà la forza dell'ingegno e della volontà degli uomini
prescelti al reggimento; in altri termini, per quanto migliore sarà
stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento delle
elezioni, poi abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro
che l'aura popolare menerà al potere; i candidati saranno vari,
quindi il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quello ch'è
sempre avvenuto, il partito prevalente sarà tirannico con gli altri,
e questi schiavi ed in permanente cospirazione contro di esso, e le
continue lotte intestine roderanno le viscere della nazione, e sarà
impossibile la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza
che forma la felicità e la grandezza dei popoli; come nel medioevo,
l'opera d'un partito verrà distrutta da quello che lo soppianta.
Questo scoglio contro cui rompe, immancabilmente, la democrazia, lo
scansarono gli antichi popoli italiani, poi i Romani, piú tardi i
Veneziani, con l'istituzione del patriziato; questo potere dava a
tutta la macchina sociale un continuato ed uniforme impulso, che
solo può condurre a grandi risultamenti.
Adunque, democrazia ed unità cosí concepite conducono al governo dei
partiti, e nazionalità e libertà sono nomi che servono loro di
maschera, di pretesto onde lacerare la patria, né qui finiscono i
mali. L'unità, facendo influire tutto ad un centro gli umori vitali
della nazione, ne consegue, come dicemmo nelle pagine precedenti,
che il resto dell'Italia deperirà, quasi membra inaridite e
dogliose.
VIII. La federazione è concetto di pochi, ma di uomini di svegliato
ingegno e solleciti di libertà; credono costoro, dividendo l'Italia
in varî Stati che un patto comune unisca nella politica esteriore,
garantirsi dal dispotismo; ma una tale opinione non ha fondamento.
La tirannide del governo in un picciolo Stato non è diversa da
quella che opprime una grande nazione, anzi spesso è peggiore, è piú
tremenda perché piú difficile sfuggire dai suoi artigli; e se eglino
credono, con una savia costituzione, evitarla in una picciola
repubblica, perché in tal caso non applicare tale costituzione
all'intera Italia? Lo stesso potremmo dire per la prosperità
materiale del paese: se i privilegî di una capitale son dannosi al
resto della nazione, in ogni Stato avverrà lo stesso, il male sarà
minorato, è vero, ma non evitato; e nel caso che potranno esservi
provvedimenti da evitarlo in un picciol Stato, questi provvedimenti
stessi saranno applicabili ad uno Stato piú vasto.
Oltre ciò, se i varî Stati in cui si dividerà l'Italia avranno
simili interessi, perché non potranno reggersi coi medesimi ordini?
se interessi diversi, allora i stranieri saranno arbitri fra noi.
Vedremo riprodotto il miserabile spettacolo delle repubblichette del
medioevo, che, civilissime com'erano, chiamavano i semi-barberi a
decidere le loro contese. I Stati soccomberanno in una lotta
parlamentare, in un congresso federale, se non forti abbastanza per
farsi ragione con le armi, invocheranno l'aiuto straniero. È questo
un fatto storico innegabile, è un fatto che lo vediamo riprodotto
nell'Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio in America, se il vasto
oceano non la separasse dall'Europa. Non appena troncasi una parte
di una nazione, per costituirne uno Stato, questo immediatamente
prende la propria autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono
quelli dell'intera nazione, e ne sono tanto piú discordi quanto
maggiore è la sua estensione, e piú sentita la possibilità di
esistere da sé. Non havvi una teoria piú assurda e volgare nel tempo
stesso, di quella che nell'ingrandimento successivo dei Stati
italiani, e nel minorarsi il numero di essi, scorge la tendenza
all'unità; avviene precisamente il contrario. Se l'Italia si
dividesse in due soli Stati, l'unità diverrebbe quasi impossibile, i
loro sacrifizî sarebbero troppo grandi per sottomettersi
volontariamente ad un tal patto; l'uno dovrebbe conquistare l'altro
che, dopo esaurite le proprie forze, chiederebbe l'aiuto straniero;
un grande Stato vuol conservar sempre l'esistenza propria;
quantunque meno splendida. Per contro, se l'Italia venisse suddivisa
in tanti Stati per quanti sono i suoi Comuni, ne risulterebbe di
fatto l'unità, i sacrifizî che gli verrebbero imposti da un patto
comune non potrebbero essere che lievi, e non sperando di reggersi e
grandeggiare ognuno da sé in faccia ai stranieri, troverebbero un
giusto compenso nel patto comune, non che nell'unità.
Finalmente, se il concetto di una federazione di Stati italiani è
assurdo, è ruinoso nei particolari, lo è eziandio se vien riguardato
sotto un aspetto piú generale. La federazione altro non è che uno
stato di transazione per giungere all'unità; e quando i costumi, il
clima, le razze, la lingua, la religione, la geografia non
costituiscono che una sola nazione, l'unità è un fatto superiore ad
ogni calcolo, che non può disconoscersi senza rinnegare le leggi
della natura. La federazione, come dice il Mazzini, sarebbe in tal
caso: «simulacro di Patria e non patria, un gretto calcolo
d'aristocrazia o di partiti». E nobilitando questa idea, non avremmo
che gretto municipalismo. Fra il contrastare la sovranità d'una
capitale per non volerne alcuna, e contrastarla per diventar
capitale, corre la medesima differenza che fra due individui, di cui
l'uno attacca il governo per sostituirvi libertà, e l'altro
l'attacchi per sostituirsi in sua vece; il primo è un eroe, il
secondo è bassamente ambizioso.
CAPITOLO TERZO
IX. Diritto di proprietà. - X. Governo. - XI. Dichiarazione di
principî. - XII. Recapitolazione.
IX. I legami indissolubili che esistono fra nazionalità e libertà,
le condizioni da cui quest'ultima non può scompagnarsi, gli
inconvenienti che si riscontrano nell'unità, come nella federazione,
sono stati svolti nel precedente capitolo. Opera, diranno molti, di
sola distruzione, perocché niuna sostituzione, s'è fatta in loro
vece. La risposta è semplicissima: voi, che dagli individui
pretendete sapere con quali ordini la società debba ricostituirsi,
sconoscete affatto le leggi dell'eterna repubblica naturale,
sconoscete i diritti dell'intera nazione, e pretendete sostituire il
concetto d'un uomo alla ragione universale.
Ogni nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve sottostare al
proprio fato, che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue
tradizioni, il presente, l'indole del popolo, le sue correlazioni
co' vicini, costituiscono. Ogni nazione prossima ad un rivolgimento,
nasconde nel suo seno il suo futuro reggimento, le sue future sorti,
esse non attendono a svilupparsi, che una causa, la quale turbando
l'equilibrio le precipiti nel moto. L'avvenire d'un popolo, facendo
accurato studio sulla sua ragione storica, sui suoi rapporti
sociali… può comprendersi nel suo insieme, come uno scienziato la
scienza, ma non può manifestarsi che da una serie successiva di
fatti, come la scienza non può esporsi, da quello, che pigliando le
mosse dalle semplici e facendo seguire le une alle altre, le varie
proposizioni.
Tale manifestazione comincia dall'apparire de' riformatori, sagaci
interpreti della loro età, di cui esprimono il sentire. La missione
di costoro non è di formulare nuovi ordinamenti, ma distruggere gli
esistenti, esplorando sin nel profondo e ponendo a nudo le piaghe
della società! I riformatori sono la manifestazione della ragion
collettiva, dal dolore costretta all'esame de' mali sociali; sono
piloti, che non determinano la meta del viaggio già stabilita, ma
indicano i scogli contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli
che fanno studio, che scrutano, registrano le sanguinose esperienze
fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le presentano ad esso
dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrire i medesimi
mali.
Intanto i riformatori non solo distruggono, ma non tralasciano di
proporre nuovi ordini, di creare sistemi; ma la prima parte del loro
lavoro è sempre incontrastabile, è la ragione universale che
predomina; nella seconda, sempre o quasi sempre, errano, è
l'individuo che parla; non raggiungono mai il vero, ma tanto piú vi
si accostano, quanto piú vicino è un rivolgimento. Meno sentiti,
meno gravi sono i mali, piú calmi sono gli animi, piú profonda, piú
vasta è la dottrina de' riformatori, ma nell'applicarla, eglino poco
o nulla si distaccano dagl'instituti vigenti. Se, invece, gli animi
sono concitati, se l'odio al presente è fortemente sentito, i
riformatori saranno meno dotti, ma di tempra piú gagliarda, d'indole
piú audace; le conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe, tali
le richieggono i tempi; e l'applicazione de' principî, scostandosi
dagl'instituti in vigore perché universalmente odiati, piú si
avvicina al futuro che [i riformatori] prevedono.
La schiera de' riformatori surse in Italia assai precocemente:
l'accademia telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi
Bruno, Vanini, Campanella, riconobbero i mali da cui veniva roso
l'edifizio sociale, e dalla cima vollero diroccarlo. Cominciarono
dal riscattare il diritto della ragione e sostituirlo all'autorità,
era questa l'arma che dovevano guadagnarsi onde compiere la loro
missione; questa prima tenzone costò loro la vita. I conservatori
surti a combatterli, eziandio d'ingegno potente, furono i gesuiti
rincalzati dalla schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e
Vanini al rogo, e Campanella soffrí la tortura e ventisette anni di
carcere, e se oggi ne ammiriamo il profondo e splendido ingegno, i
contemporanei ne ammirarono il sovrumano coraggio. Se i filosofi
francesi del XVIII secolo potettero lietamente abbandonarsi ai voli
del loro ingegno ed oggi i socialisti disputano, senza tema del
carnefice e del rogo, devesi ciò ai riformatori italiani che
comprarono col sangue il diritto di ragionare.
Ai sullodati riformatori tenne dietro il Vico, il Gravina… e tutta
la nobile schiera dei nostri filosofi che termina con Romagnosi. Le
leggi, come fugacemente dicemmo, che regolano le società, non furono
piú ignote, e la filosofia civile, come un maestoso fiume, che
raccoglie nel suo placido corso i spumeggianti torrenti, riuní le
sparse membra dello scibile umano e formonne un tutto.
Intanto, oltr'Alpe s'inaugurò il governo costituzionale, eclettismo
politico, epperò sursero gli ecclettici in filosofia, e la paralisi,
che da mezzo secolo ci opprime, dalla Francia si sparse sull'Europa
intera. L'incerta e pallida luce dell'ecclettismo riverberò in
Italia, quindi venne interrotto il maestoso lavoro, che seguitava
continuo da Telesio a Romagnosi. Le dottrine del Gioberti, del
Mamiani, di Rosmini, di Ventura… vennero in luce. In esse non
riscontrasi nulla del gran pensiero italiano, [ma, invece, uno]
strano connubio de' piú contraddittori principî: ragione e fede,
autorità e libertà, diritti dei popoli e diritti dei principi; né
costoro, che intrecciano la loro filosofia sull'orditura impostagli
dai birri e dai preti, meritano il nome di filosofi italiani.
Durante i rivolgimenti del '48, ligia l'Italia a tali dottrine,
naufragò, prima di prendere il largo.
Se ci faremo a svolgere le pagine dei nostri filosofi, vi troveremo
consacrate le leggi magistrali della Natura. Eglino tentarono
applicarle, ma troppo lontani dal risorgimento, subirono
l'ascendente dei tempi, epperò vollero raddolcire i mali,
rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non già sbarbicare
quelli e rompere queste; ma oggi, le passate esperienze, le tendenze
della società, i suoi mali cresciuti, ci danno facoltà a farlo.
Quelle leggi debbono formare i cardini su cui dovrà equilibrarsi
l'edificio sociale. Ricercare le istituzioni contraddittorie con
esse, annientarle, e sostituite in loro vece i principî che
n'emergono, sarà lo scopo del ragionamento che segue.
La prima verità che non può disconoscersi, senza negare l'evidenza,
senza negare quaranta secoli di storia, è, che la ragione economica,
nella società, domina la politica; quindi senza riformar quella,
riesce inutile riformar questa. «Conservazione e tranquillità, -
scrive Filangieri, - è il primo dato, e questo e non altro, è
l'oggetto unico ed universale della scienza della legislazione. Ma
l'uomo non può conservarsi senza i mezzi, la possibilità dunque di
esistere, e di esistere con agio». A che servono, infatti, i diritti
dalle leggi accordati se la miseria rende impossibile il
profittarne? Inoltre, non solo il difetto de' mezzi materiali
necessarî ad esistere annulla la vita politica della piú gran parte
della Nazione, ma l'eccesso delle ricchezze che si accumulano fra
pochi, non produce danno minore: ingigantiscono le voglie, succede
all'operosità l'ignavia, ed in putredine di vizî si marcisce. La
società, dall'ingiusto riparto delle ricchezze, vien divisa in due
parti, i pochi e i molti, e questi da quelli dipendenti: proclamare
i diritti della democrazia è una impostura, un'ipocrisia. Chi in
buona fede può negare che i capitalisti ed i proprietarî sono i soli
a cui è dato godere de' diritti politici, che la società è governata
dalla gretta aristocrazia dell'oro, inspiratrice della codarda e
ruinosa politica moderna?
Si rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con stabilire piú eque
relazioni fra il proprietario ed il fittaiuolo, fra il capitalista e
l'operaio; sparirà la miseria, dicono altri, con lo sviluppo
dell'industria, con l'aumento del prodotto sociale. Abbiamo discorso
nei precedenti capitoli dell'efficacia di tali mezzi; è cosa chiara
come la sostituzione d'un nuovo protezionismo all'antico riuscirebbe
inutile tirannide, inutile inceppamento all'industria; e dimostrammo
come la miseria cresce al crescere del prodotto sociale. Finché i
pochi, sono proprietarî dei mezzi, onde soddisfare agli incalzanti
bisogni de' molti, questi saranno servi di quelli, qualunque siano
le leggi; basta [il fatto] che esse riconoscono e proteggono il
diritto di proprietà.
L'assicurare a tutti un'agiata esistenza, sarebbe, al certo, un
mezzo efficace, ma ove cercare le ingenti somme? non potrebbesi che
spogliare parte della società, per togliere all'altra ogni stimolo
al lavoro, la società perirebbe; e riconoscendo il diritto di
proprietà, come potrà mutilarsi, come limitarlo? non potranno essere
che leggi complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed
all'ingiustizia.
Non resterebbe che l'uguale riparto delle ricchezze, ma spaventati
rispondono gli economisti in Francia, nazione ricca, avrebbesi
appena 78 centesimi per caduno. Un tale asserto è assurdo e
ridicolo, lo spirito di partito, o meglio l'amor dell'oro li
costringe a mentire con inconcepibile impudenza. Se fosse esatto, la
Francia altro non sarebbe che una nazione di mendichi. Avvegnaché,
sarebbe tale il numero dl coloro che posseggono meno di sí tenue
somma, che a pena raggiungerebbesi una tal cifra facendo un eguale
riparto di tutte le ricchezze di coloro che posseggono piú di 78
centesimi. Questo calcolo deve essere assolutamente falso, ma noi
vogliamo ammettere che rappresenti il riparto del prodotto netto. In
tal caso un operaio, con moglie e cinque figli, avrebbe il suo
salario, piú sette volte 78 centesimi; né questo è tutto, sarebbevi
un aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario, tutti i
pingui stipendî che i capitalisti insaccano come compenso alla
fatica che durano per arricchirsi, epperò saremmo al disotto del
vero affermando che un tale operaio percepirebbe un dieci lire al
giorno, ovvero un vivere agiato. E chi negherà essere piú giusto che
tutti vivessero agiatamente, invece di far perire nella miseria nove
decimi della nazione, acciocché pochissimi possedessero oltre il
bisogno? Ma la ragione che rende impossibile la pratica di tale idea
è piú potente di questa ridicola menzogna. Una tale ripartizione
sarebbe operazione complicatissima, né mai potrebbesi evitare la
frode; la società dovrebbe sottostare ad una continua forza
tirannica, che spigolasse tutte le borse, altrimenti la materiale
uguaglianza stabilita non durerebbe che un giorno solo.
Sortono alcuni da questo campo, che, per essi, lo trovano troppo
gretto e materiale, e dicono: noi allevieremo, anzi distruggeremo i
mali pel proletario con l'educazione. Strana utopia di questa buona
gente, condannata dalla natura a vivere d'astrazioni. Come vi
procaccerete le grandi somme necessarie all'educazione dei
proletarî, alla loro esistenza durante tale educazione, ed al
compenso che bisogna pagare alla famiglia privata del guadagno che
avrebbele fruttato il lavoro del giovane che voi gli rapite per
educare? Con le gravezze forse? Ma non sapete che, rispettando il
diritto di proprietà, esse ricadono precisamente sul proletario, nel
modo stesso che la base sopporta tutte le spinte e le pressioni del
soprastante edifizio? Voi l'affamerete per educarlo. Ma vogliamo
ammettere possibile la vostra utopia, cosa guadagneranno con
l'educazione? condannati, come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non
avendo che qualche ora necessaria a rinfrancare le forze,
l'educazione ricevuta li farebbe piú infelici. Se hanno da vivere da
bruti, è meglio lasciarli bruti quali or sono.
I piú positivi propongono l'associazione ed esaltano la sua
innegabile potenza, ma piú che l'associazione è potente il capitale.
Non vale proporre come regole alcune eccezioni; egli è una delle
cardinali verità di economia pubblica, non solo che l'associazione
del lavoro deve soccumbere in contro alla potenza del capitale, ma
eziandio che i piccioli capitali sono inesorabilmente condannati ad
essere inghiottiti dai grandi. L'associazione del capitale e del
lavoro non conviene al capitalista, specialmente se fa uso di
macchine. Alcuni il negano asserendo che l'associazione del capitale
e del lavoro, accrescendo il prodotto, debba riuscire eziandio
vantaggiosa al capitalista, senza riflettere che il guadagno
individuale del capitalista, con tale associazione, scema
moltissimo. Infatti, eglino medesimi aggiungono: se questa
associazione non è libera, ma imposta da una legge, i capitali
saranno trafugati. Contraddizione manifesta, imperocché se reali
fossero i vantaggi del capitalista, sarebbero ben presto conosciuti,
ed ognuno, senza contrasto, contentissimo sottoporrebbesi a tal
legge. Quindi, per fornire di capitali il lavoro, altro mezzo non
v'è che imporre gravezze a coloro che posseggono; ma qual ne sarebbe
il risultamento il dicemmo; gli operai verrebbero affamati e non
soccorsi.
Concludiamo che l'offrire a tutti un vivere agiato, cardine su cui,
giusta la sentenza del Filangieri, debbono poggiare gli ordini
sociali, non solo non riscontrasi nella moderna società, ma non v'è
alcun mezzo come soddisfare a tale condizione. La società è divisa
in due parti, possessori e nullatenenti, che il diritto di proprietà
determina. L'economia pubblica, pigliando le mosse da questo
diritto, sviluppa le sue leggi, che si basano su di esso. Queste
leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra queste due classi, e
conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti ne
risultano di fatto né possono modificarsi, sotto pena di un
deperimento universale; unica legge possibile è la libertà:
conseguenza di essa, miseria sempre crescente. Se togliete al ricco
parte del suo avere onde soccorrere il povero, egli, mentre con una
mano sborsa il danaro che gli vien chiesto, con l'altra lo rapisce
di nuovo; ben presto incarisce il vivere, e la miseria s'accresce.
Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero; la
causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove
vedemmo, alla decadenza, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo
scopo principale che si propone la società, il benessere di tutti, o
almeno de' piú, è il mostruoso diritto di proprietà. La logica
dunque impone di rimuovere l'ostacolo, poco curandosi delle
conseguenze; la società riprenderà da sé l'equilibrio, dal caos,
naturalmente, verrà il cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro
ragionamento, per se medesimo abbastanza chiaro, con l'opinione di
due illustri nomi, Cesare Beccaria e Mario Pagano:
«Il furto, - dice Beccaria, - non è per l'ordinario che il delitto
della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice
parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non
necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza».
Molto piú a lungo ed esplicito ne ragiona Mario Pagano: «Quello che
viene occupato, posseduto ed ingombro dal nostro corpo è pur nostro,
perché ivi si estende la nostra fisica potenza, e morale benanche.
Quell'aria che respiriamo, e ch'ebbe eziandio, sotto la tirannide
de' greci imperatori, a riscattare con un dazio l'avvilito mortale;
quella porzione di terra che premiamo col piede, la quale è solo
retaggio di gran moltitudine d'uomini; quello spazio cui riempie il
nostro corpo, il quale neppure ci si toglie con la vita stessa, è
cosí nostro come le proprie membra. Que' prodotti della terra che,
per sostenimento della nostra vita occupa la nostra mano, per la
medesima ragione sono nostri, che della pianta sono non solamente il
tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle vengono conficcate ma
ben'anche quel nutrimento, quell'umore, quei succhi, che bevono le
sue radici, e servono al conservamento suo.
«Ma come poi si appropria un uomo solo quelle ampie foreste,
quegl'immensi campi che non misura il suo piede, la mano sua non
occupa, e neppur signoreggia lo sguardo?
«La natura un patrimonio comune ha conceduto agli uomini tutti, ha
legato loro un'ampia eredità, la quale è questa terra, dal cui seno
prodotti gli ha, e nel seno della quale gli ha piantati e radicati.
Come alle piante per nutrirsi ha dato le radici, cosí le mani
all'uomo per estendere la sua forza sul retaggio comune, e far
proprio ciò che alla sua sussistenza faccia d'uopo. Ma queste
naturali potenze, dirette dalla sua sensibilità e sviluppate dalla
sua mano, hanno un termine ed un confine tra il quale, quando esse
sono racchiuse, divengono morali potenze e diritti originati
dall'eterna immutabile legge dell'ordine.
«E quali sono mai questi confini e quali gli stabiliti scopi? I
limiti delle azioni sono, come si è detto, dalle reazioni degli
altri essere circoscritti. Quando l'essere, dalla sua sfera uscendo,
invade ed occupa lo spazio e la sfera d'un altro, quello reagisce e
riurta, e nella propria situazione lo ripone. Quando un corpo vuol
penetrare nell'altro, cioè passare in quella parte dello spazio
occupato da quello, ritrova la resistenza che impenetrabilità
diciamo, prova la reazione, e se mai persiste nello sforzo di
compenetrarvi, vien finalmente distrutto. Cosí se tu, mortale,
distendi la mano e la tua forza di là del confine che ti segnò
natura, occupi dei prodotti della terra tanto che ne siano offesi
gli altri esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu
proverai il riurto loro; il tuo delitto è l'invasione, il violamento
dell'ordine; la tua pena è la tua distruzione».
Cosí i fatti, la ragione, l'autorità d'accordo protestano e
dichiarano il diritto di proprietà la causa de' mali, alla cui piena
indarno la società oppone argini e serragli. Egli è cosa mostruosa
scorgere la proprietà del frutto dei proprî lavori, non solo non
protetta dalle leggi, ma annullata, manomessa, in vantaggio
dell'usurpazione dichiarata proprietà sacra ed inviolabile. Si
garentisce la proprietà, e piuttosto che violarla si lasciano
migliaia d'infelici perire nella miseria; ma non proteggono le leggi
il frutto de' lavori d'un operaio, i sudori di un contadino, contro
l'usura e l'avidità dei capitalisti e dei proprietarî. È dichiarato
assassino colui che uccide per rapire un pane necessario alla sua
esistenza; uomo onesto chi, divorando il vitto sufficiente a dieci
famiglie, lascia che queste perissero d'inedia. E ciò avviene in
nome della giustizia, prova evidente che essa altro non è che una
parola il cui significato cangia al cangiar dei rapporti sociali:
quello che oggi dicesi giusto, i posteri lo vedranno con l'orrore
medesimo che noi riguardiamo il diritto di vita e di morte che
accordavasi al padrone sugli schiavi. Il frutto del proprio lavoro
garentito; tutt'altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi
fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio
sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza
che la Natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano: la
distruzione di chi usurpa.
X. «L'essere senziente, - scrive il Romagnosi, - nel sentire non può
mai uscire da se medesimo. Egli non può sentire che con la propria
sensibilità, non può sentire che il proprio piacere o dolore; non
può amare o odiare altrui che in sé, e per sé; agire cogli altri, ed
a pro degli altri, o contro gli altri, che per sé… Avviene che
l'amor proprio d'ognuno trasportato in società è un centro
d'attrazione che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni e
di servizî; e per sé solo opera anche quando agisce a pro d'altrui,
benché di ciò egli per avventura non si avvegga».
Ecco in poche parole messa a nudo l'umana natura, trovata la cagione
di ogni speranza, d'ogni pensiero, d'ogni atto: ricercare il
piacere, fuggire il dolore; piaceri e dolori, che secondo l'indole
dell'uomo ed i rapporti sociali, variano in mille guise,
dall'epicureo che cerca il godimento nell'ozio e nella crapola, a
Bruno, che preferisce il rogo al dolore di rinnegare le proprie
dottrine. Ogni atto è preceduto dalla volontà, e la determinazione
di essa è un effetto relativo e proporzionale alla specie ed
all'energia de' moventi che si riscontrano nel mondo esteriore. Una
grande efficacia in questi motivi, esercitata su d'un individuo
d'un'indole capace a sentirla, genera le forti passioni, che
richieggono fortissima dose d'amor proprio. Queste forti passioni
formano gli eroi ed i scellerati, i grandi genî nelle scienze e
nelle arti, ed i grandi corruttori di entrambe.
In una società in cui la fama, il potere, le ricchezze… non possono
sperarsi che dalla guerra, o dal bene operato a pro del pubblico,
nascono gli Scevola, gli Attilî, i Curzî. «Chi piú di loro, -
esclama Filangieri, - fu agitato da una forte passione, chi piú di
loro amò per conseguenza se stesso, chi piú di loro serví la società
e la patria?» Se poi un governo si farà il distributore di onori, di
ricchezze e di ogni altro bene sociale, tutti gli sforzi
degl'individui saranno rivolti, non già a guadagnarsi il pubblico
plauso, ma le grazie di questo governo, quindi cortegiani,
adulatori, sicarî; e quanto piú l'indole della nazione sarà capace
di forti passioni tanto piú impudenti e tiranni saranno i satelliti
che si stringono intorno a questo centro usurpatore degli universali
diritti. Quel popolo, che durante il suo splendore sarà stato ricco
d'eroi, nella sua decadenza i seidi saranno numerosissimi, e
numerosissimi i martiri se comincia ad accennare al suo
risorgimento. Per contro, ove tardo è il corso degli umori, e le
passioni rimesse, non vi saranno né eroi né scellerati; all'apogeo
come al perigeo tutto sarà pedestre e volgare.
La virtú ed il vizio adunque, nulla hanno d'assoluto; la loro sede
non è nell'uomo ma nella società; i significati di queste parole al
cangiare degli ordini sociali cangiano senza mai durar d'essi.
Infatti, facendo astrazione della società, le virtú ed i vizî
spariscono, l'uomo isolato non ha che due qualità, forza ed astuzia.
Marco Bruto, vicino a morte, esclamò. O virtú, tu non sei che un
nome, io ti seguiva come fossi cosa; ma tu sottostavi alla fortuna.
Ingannavasi Bruto: essa non sottostava alla fortuna, ma ai tempi.
L'antica Roma riverberava nel suo cuore le virtú già tramontate
all'epoca di sua vita; esse si sentivano dall'universale come
l'ultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle virtú de'
Bruti erano successe le virtú de' Cesari a cui la società destinava
il trionfo.
Queste leggi magistrali della Natura, svolte da Vico, da Beccaria,
da Pagano, da Filangieri, da Romagnosi, e dagli altri filosofi
italiani non imbastarditi dall'ecclettismo d'oltremonte, sono
l'ordito su cui debbono adattarsi gli ordinamenti sociali, sono i
veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni; e noi su tali
principî baseremo il ragionamento che segue.
Il fine che si propone la società nel costituirsi, altro non
dovrebb'essere che assicurare il pieno e libero sviluppo di queste
leggi, facendole tutte concorrere al pubblico bene. Se esse vengono
violate o interdette nella benché minima parte, l'opera non solo è
tirannica, ma stolta, perché invano combattesi contro le forze della
Natura.
Da questo vero, il principio d'autorità vien completamente
distrutto: chiunque vuole insegnarmi la virtú, o costringemi a
seguirla, è un impostore o un tiranno; un impostore se a convalidare
le sue dottrine chiama in aiuto il misticismo; un tiranno se ricorre
alla forza; e se non giovasi o non può giovarsi di alcuno di questi
due mezzi, un povero stolto che predica al deserto. Le dottrine de'
pitagorici, quelle di Platone, il manuale d'Epitteto, la morale del
Vangelo, non hanno per tanti secoli, non dico modificata ma neanche
scossa l'umana natura; gli uomini, usando diverse parole, hanno
sempre operato nel modo medesimo. Il Vangelo non solo ha predicato
la fratellanza e la mansuetudine, minacciando le pene dell'inferno,
ma ha ricorso alla spada, ai tormenti, al rogo… e cosa ha ottenuto
con tali mezzi? Ha costretto la natura umana, che sempre ha ubbidito
alle medesime leggi, di covrirsi con la maschera dell'ipocrisia.
Invano verrà inculcato l'amor di patria ove la patria non dona che
miserie e stenti; né vi sarà bisogno inculcarlo quando la felicità
del cittadino dipenderà dalla grandezza e prosperità di essa. A che
predicherete l'amore della gloria, il disprezzo delle ricchezze, in
una società ove, non curata la fama, potentissimo è l'oro? E se i
beni maggiori saranno conseguenza della fama e delle virtú, tale
dottrina non avrà bisogno di apostoli. Concludiamo che il pubblico
costume, assolutamente indipendente dalle dottrine, dalla fede,
dalle pene, scaturisce immediatamente dai rapporti e dagli ordini
sociali; voler cangiare i costumi, senza cangiar questi, è
impossibile, quindi: un governo regolatore de' costumi è la piú
stupida ed assurda tirannide che mai uomo immaginasse.
L'origine del governo è stato il dominio eroico de' forti sui
deboli. Le prime leggi, l'arbitrio di quelli, in seguito trasformato
in consuetudini. I famoli, resi potenti per numero, impedirono i
nuovi arbitrî, obbligarono i forti a sottomettersi alla ragione
storica, a rispettare le consuetudini, le quali furono, perciò, il
rudimento del patto comune, del codice. Questo patto, comunque
modificato, non ha potuto, né potrà mai liberare su giusta lance i
diritti di tutti, imperciocché trae origine dalla violenza e
l'usurpazione, e dovrà esservi sempre qualche parte che preponderi,
qualche altra che minacci reazione. A mantenere nella società questo
labile equilibrio, ebbesi uopo del governo, che può definirsi
l'ostacolo allo sviluppo delle leggi naturali, il sostegno de'
privilegî. Ma se ogni privilegio cessasse, se i diritti risultassero
dai rapporti reali e necessarî delle cose, il dovere diverrebbe un
bisogno; l'uomo non servirebbe piú all'uomo, ma, come scrive il
Romagnosi, «solamente alla necessità della natura, ed al proprio
meglio». In altri termini il Filangieri esprime l'opinione medesima:
«L'uomo non può esser felice, - dice egli, - senza esser libero.
L'uomo non può essere felice senza convivere coi suoi simili. L'uomo
non può convivere co' suoi simili senza governo e senza leggi.
Dunque per esser felice deve esser libero e dipendente. Ma il dovere
senza la volontà esclude la libertà; la volontà senza il dovere
esclude la dipendenza. Il nesso che unisce queste due opposte
condizioni non può essere che la volontà di far ciò che si deve».
Quindi la società, costituita ne' suoi reali e necessarî rapporti,
esclude ogni idea di governo, e come ben equilibrato edifizio regge
da sé, senza aver bisogno di fasciature o di rinfianchi. Questi
principî de' nostri padri ora cominciano eziandio a discutersi in
Francia; ivi esclama Proudhon: «chiunque mette la mano su di me per
governarmi, è un usurpatore, un tiranno, io lo dichiaro mio
nemico…»; ed altrove: «chi siete voi per sostituire la vostra
saggezza di un quarto d'ora alla ragione eterna ed universale?»
Ciascuno nasce con speciali attitudini ed inclinazioni, ed una
società ben costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i mezzi
come soddisfar queste ed utilizzar quelle, e cosí, seguendo l'uomo
la propria volontà ed il proprio utile, seconderà la volontà
collettiva e l'utile pubblico. Derogare da questa legge è un
costringere l'uomo ad un lavoro forzato, è una tirannide. Quindi il
governo, che lo abbiamo trovato assurdo e tirannico, tanto come
correttor di costumi quanto come sostegno del patto sociale, come
educatore è inutile: l'educazione altro non deve essere che una
legge generale, con la quale pongonsi a disposizione d'ogni
cittadino, onde facilitare lo sviluppo delle sue facoltà fisiche e
morali, tutti i mezzi di cui dispone la società.
Ma ancora piú innanzi vanno i mali, che, senza utile veruno,
sgorgano inevitabilmente dal governo. Se ad esso non verrà concesso
né altra forza, né altri mezzi, onde esercitare il suo potere, se
non quelli che potrà trarre dall'universale appoggio, che i
cittadini darebbero ai suoi atti, credendoli giusti, ne risulterà un
governo inutile e ridicolo: lo si vedrà darsi cura di educazione, di
costumi, di patto sociale, fatti i quali risultano e si sostengono
in forza de' rapporti medesimi delle cose, che esso, privo di forza,
non potrà menomamente modificare, epperò quanto piú operoso, tanto
piú sarà ridicolo. Se poi gli concederete forza materiale, o lo
farete distributore di cariche, di premî, di onori, allora
cominciano i perigli per la società. Colui o coloro nelle cui mani
verrà affidato il maestrato supremo, come nel precedente capitolo
dicemmo, dovranno, perché uomini, soggiacere all'impero delle loro
passioni e delle loro imperfezioni fisiche e morali, quindi il
giudizio e le determinazioni di questo governo dovranno, senza
dubbio, trovarsi in disaccordo coi giudizî e le determinazioni del
pubblico, che, essendo la media di tutti i giudizî e le
determinazioni individuali, resta scevra da tali influenze.
Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la
pubblica volontà è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante
del tutto. Inoltre, l'uomo per sua natura sdegna i rivali e
l'opposizione, e gli amici del governo non saranno certamente
coloro, che manifestano i suoi errori, che contrastano la sua
opinione, ma bensí que' che lo piaggiano; gli oppositori saranno
occultamente odiati, e, se lo si potrà impunemente, oppressi;
negarlo è un disconoscere l'umana natura, è negare la storia, negare
i fatti che tuttodí si riproducono; quindi questo governo sarà
sempre un'ulcera che tende di spandere la cancrena sull'intera
società.
Se, cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel fondo della
nostra coscienza, ad interrogare l'intimo nostro sentimento, vi
troveremo la condanna d'ogni governo. Quella complicazione di ruote,
aggiunte alla macchina sociale, per tutelarsi contro l'usurpazione e
la tirannide de' governanti, ha già fatto pessima pruova, senza
impedire i mali, li accresce, e rende il procedere lento ed incerto.
La pubblica opinione è affatto cangiata su tale riguardo: ognuno,
nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche pezzo alla
macchina, o come regolatore, o come moderatore, mentre ora, per
contro, tendesi alla semplificazione, il cui ultimo termine è
l'anarchia, ove l'umano intelletto s'accheterà. I propugnatori de'
governi forti fanno fine ad ogni loro diceria, ad ogni loro
ragionamento, con proporre le misure da cui eglino sperano la
pubblica felicità; ed il convincimento che riscontrasi in ogni
individuo, che i soli provvedimenti per reggere con successo la cosa
pubblica son quelli che egli nasconde nel proprio cuore, è la
condanna la piú aperta d'ogni forma di governo.
Da quanto esponemmo possiamo desumere che le numerose esperienze
registrate dalla storia, che nelle leggi regolatrici della Natura
trovano piena conferma, additano come terribili sorgenti di male,
come ostacoli all'umana felicità, come scogli di sicuro naufragio,
il diritto di proprietà ed il governo. Ma come la società, diranno
molti, priva di questi mali, potrà reggere? Cosa verrà ad essi
sostituito? Non sono quistioni che deve farsi il rivoluzionario, né
che si fanno le moltitudini. Quello addita la causa dei mali, gli
ostacoli al bene pubblico, queste irrompono come marosi mugnanti e
li rovesciano. La società, come le acque che tendono sempre a
livellarsi, riprenderà da sé l'equilibrio; egli è strano pretendere
che un uomo dia conto di quello che l'universale volontà potrà
compiere. Nondimeno, dalle leggi stesse naturali ed eterne, che ci
hanno condotti a queste conclusioni, emergono alcuni principî
inconcussi, che violati in tutto o in parte dalle varie società,
antiche e moderne, sono stati e saranno la cagione di loro ruina;
questi principî, che ora verremo svolgendo, sono superiori ai
diritti de' popoli, e sono gl'incastri fra' quali l'umanità, dopo
tante penose oscillazioni, verrà ad assettarsi.
XI. La Natura, avendo concesso a tutti gli uomini i medesimi organi,
le medesime sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali,
ed ha, con tal fatto, concesso loro uguale diritto al godimento dei
beni che essa produce. Come del pari, avendo creato ogni uomo capace
di provvedere alla propria esistenza, l'ha dichiarato indipendente e
libero.
I bisogni sono i soli limiti naturali della libertà ed indipendenza,
quindi se all'uomo si facilitano i mezzi come soddisfarli, la
libertà ed indipendenza è piú completa. L'uomo s'associa onde piú
facilmente soddisfare a' suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera in
cui si esercitano le sue facoltà, e conseguire libertà ed
indipendenza maggiore, epperò ogni rapporto sociale che tende a
mutilare questi due attributi dell'uomo, non ha potuto, perché
contro natura, contro il fine che si propone la società, stabilirsi
volontariamente, ma subirsi a forza; esso non può esser l'effetto di
libera associazione, ma di conquista o d'errore. Dunque ogni
contratto, in cui una delle parti, dalla fame o dalla forza, vien
costretta ad accettarlo e mantenerlo, è violazione manifesta delle
leggi di Natura; ogni contratto dovrà perciò dichiararsi annullato
di fatto, appena mancagli il liberissimo consenso delle due parti
contrattanti. Da queste leggi eterne ed incontrastabili, che debbono
essere la base del patto sociale, emergono i seguenti principî, i
quali reassumono l'intera rivoluzione economica:
1. Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali
di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà
fisiche e morali.
2. Oggetto principale del patto sociale, il garentire ad ognuno la
libertà assoluta.
3. Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietà del
proprio essere, epperò:
a) L'usufruttazione dell'uomo per l'uomo abolita.
b) Abolizione d'ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle
patti contrattanti.
c) Godimento de' mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui
deve provvedersi alla
propria esistenza.
d) Il frutto de' proprî lavori sacro ed inviolabile.
Determinata, con tre principî fondamentali, la rivoluzione
economica, passeremo alla politica.
I bisogni sono i limiti della libertà ed indipendenza. Questa legge
è innegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o
principio, non sentito ma predicato, non può essere altro che
impostura di qualche scaltro che tenda profittare dell'altrui
semplicità, ovvero effetto dell'ignoranza di chi predica e di chi
ascolta, e la gerarchia, che viola direttamente libertà ed
indipendenza, è contro natura.
La sovranità risiede nella Nazione intera. Gli atti di ogni uomo
sono proporzionati e conseguenza della facoltà di sentire, variabile
in ogni individuo; del pari, gli atti della sovranità sono
proporzionati e conseguenza della media fra tutte le facoltà di
sentire de' varî individui che la compongono, media in cui son
distrutte tutte le particolari influenze alle quali ogni essere piú
o meno sottogiace: la sovranità è il senso comune, ovvero, come dice
Vico, quel giudizio, che senz'alcuna riflessione vien comunemente
sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutto il genere
umano; ed il delegarla è un assurdo, come sarebbe quello di delegare
la propria sensibilità, essa è inalienabile, risiede nell'intera
Nazione, né mai può essere legittimamente rappresentata da una parte
di essa. Le leggi di Natura, sotto pena di gravissimi mali,
proibiscono il comandare del pari che l'ubbidire. Un popolo, che per
esistere piú facilmente delega la propria sovranità, opera come uno
che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste verità
emergono i seguenti principî, che fanno seguito a quelli già
stabiliti:
4. Le gerarchie, l'autorità, violazione manifesta delle leggi di
Natura, vanno abolite. La piramide: Dio, il re, i migliori, la
plebe, adeguata alla base.
5. Come ogni Italiano non può essere che libero ed indipendente, del
pari dovrà esserlo ogni Comune. Come è assurda la gerarchia fra
gl'individui, lo è fra i Comuni. Ogni Comune non può essere che una
libera associazione d'individui e la Nazione una libera associazione
dei Comuni.
Intanto, molti ostacoli materiali e morali vietano in molte
occorrenze le funzioni della sovranità. I principî stabiliti,
conseguenza delle leggi di Natura, non sono che il primo ordito
degli ordini sociali, e non bastano: bisogna discendere a
determinare i varî rapporti che dovranno essere d'accordo con essi.
In questa laboriosa ricerca, la nostra natura, vinta dal costume e
smarrita nel suo corso, ad ogni passo cade nell'errore, quindi
richiedesi una continuità di attenzione, una serie di ragionamenti,
cose per le moltitudini impossibili, e sovente mancherebbe il luogo
e 'l tempo onde fare abilità a sí numerosa assemblea di riunirsi e
deliberare.
Cotesti lavori sono da individui, ed un solo dev'essere dichiarato
legislatore. Inoltre, è una verità dimostrata all'evidenza dal
Romagnosi, che il giudizio di tutti i savî del mondo può essere
erroneo nel sindacare il lavoro compito da un solo; quindi un
congresso di delegati del popolo avrebbe l'incumbenza, non già di
svolgere, di sopraccaricare di clausole ed emendamenti le leggi
proposte, ma solo verificare scrupolosamente se i principî
immutabili, dichiarati base del patto sociale, vengano in qualche
parte lesi da queste leggi. Fatto ciò, pubblicarle; né può andar piú
innanzi il potere del legislatore e del congresso; la Nazione le
adotterà se vorrà e quando vorrà, non avendo il diritto di concedere
ad uno o a pochi il potere d'imporgli leggi, l'attuazione di esse è
atto della sovranità, e la sovranità non può delegarsi. I concetti
di un individuo possono definirsi i pensieri della nazione, è il
modo di cui essa si avvale onde manifestare il suo concetto
collettivo, ma come un individuo non impone a se medesimo l'obbligo
di trarre in atto i proprî pensieri, cosí i concetti di un solo non
possono venire imposti a tutti. Per la ragione medesima, che la
sovranità non può abdicarsi, o trasmettersi, non potrà determinarsi
la durata delle funzioni del legislatore e del congresso, esse
cesseranno appena la Nazione il vorrà; e la volontà del mandante,
dovendo costituire la legge del mandatario, ogni deputato non può
essere che sempre revocabile da' suoi elettori. L'imporsi per un
dato tempo un governo o un'assemblea è un assurdo, come lo è per un
individuo il costringersi da un voto. È lo stesso che dichiarare la
volontà e la determinazione di un momento arbitra e tiranna della
volontà che progressivamente può manifestarsi in avvenire. Di quinci
i principî che seguono:
6. Le leggi non possono imporsi, ma proporsi alla Nazione.
7. I mandatarî sono sempre revocabili dai mandanti.
Di piú la Natura stessa, che ha creato l'uomo indipendente e libero,
ha dotato ogni individuo di attitudini speciali, d'onde la potenza
del lavoro collettivo, la sociabilità. Coteste attitudini son quelle
appunto che, nelle varie operazioni della vita, costituiscono la
diversità delle incumbenze. Dichiarare un'incumbenza piú nobile che
un'altra è un assurdo degno di una società che ha vanità e
privilegio per base. «Ma qual si è l'arte vile, - esclama Mario
Pagano, - quando ella giova alla società? vile è l'opinione degli
uomini che avvilisce gli utili mestieri». Ed è eziandio assurdo
dichiarare una funzione piú che un'altra faticosa; la meno faticosa
è quella che meglio armonizzi con le proprie attitudini ed
inclinazioni, epperò esse solamente debbono dar norma alla
distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella società si
riscontrano.
In tutte le varie operazioni dell'intera società o di un nucleo
qualunque di cittadini, sono indispensabili gli ordini e la
distribuzione delle funzioni; egli è impossibile operare
tumultuariamente. Ciò deve aver luogo nelle grandi, come nelle
picciole cose, tanto nella guerra e nella pubblica amministrazione
come in qualunque altra speculazione o industria. A conservare
illesa la sovranità nazionale, nel caso che una parte di cittadini
debba compiere un'impresa che riguarda l'intera società, due
condizioni si richieggono, cioè: che l'impresa da eseguirsi e gli
ordini da adottarsi siano il risultamento della volontà nazionale,
il che emerge di fatto da' principî 6. e 7.; e che la distribuzione
delle varie funzioni, fra quel nucleo di cittadini operanti, venga
fatta da que' cittadini medesimi. Se la nazione volesse indicargli i
capi che debbono dirigerli, violerebbe manifestamente la libera
associazione. Quindi i principî seguenti:
8. Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo, e sarà
sempre dal popolo revocabile.
9. Qualunque nucleo di cittadini dalla società destinati a compiere
una speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino
medesimi le varie funzioni, ed eleggersi i proprî capi. Finalmente,
l'uomo, facendo parte di una società, è immedesimato con essa; e
questa società proponendosi come fine principale non solo di
garentire, ma ampliare quanto piú sia possibile la libertà ed
indipendenza individuale, ed ogni offesa d'individuo ad individuo
riducendosi alla violazione di questi due attributi, ne inferisce
che le offese private debbono tutte considerarsi come offese
pubbliche: ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende
direttamente l'intera società, la quale, giusto il tacito patto che
ha con ognuno de' suoi membri, ha il dovere di vendicare l'offeso, e
con l'esempio contenere i male intenzionati; e questo dovere della
società, per la natura medesima dell'uomo, portato a vendicare
altrui a tutela di se medesimo, diventa, come dice il Romagnosi,
controspinta, ma non già criminosa, perocché l'urtato ha il diritto
di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del
delitto, utile. Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto
trovi la cagione promotrice negli ordini sociali, o nell'indole
dell'individuo, conchiuderemo come il patto sociale debba esser
volto a rimuovere le cagioni del delinquere ed all'educazione de'
colpevoli, onde non venga distrutto dalla società medesima uno de'
suoi membri.
Egli è indubitato che le leggi scritte, invariabili, fra il continuo
mutar dei tempi e de' costumi, riescono, in alcune epoche,
soverchiamente rigide, e troppo forte il loro contrasto con la
pubblica opinione, quindi l'utile della giurisprudenza, che cerca
rammorbidirle ed adattarle ai tempi. Ma, se riesce soverchiamente
duro il non lasciare al giudice altra facoltà, se non quella di
pronunciare la sua sentenza dietro il sillogismo prescritto dal
Beccaria, c'è cosa egualmente perigliosa, il dar luogo alla
giurisprudenza che conduca all'arbitrio. Come evitare entrambi
questi inconvenienti che risultano dall'ordine stesso sociale, dallo
svolgersi e modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi
giudici naturali, al popolo. Le leggi scritte siano di norma e non
d'altro, le decisioni del popolo superiori ad ogni legge. Potrà il
popolo eleggere dal suo seno alcuni cittadini e costituirli giudici,
ma i giudizî di questi saranno sempre annullati dalla volontà
collettiva, a cui deve riconoscersi come diritto inalienabile,
inerente alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione suprema
di ogni contesa. Cosí non potrà piú avvenire che vengano inflitte
punizioni contraddittorie con la pubblica opinione e coi tempi; cosí
avverrà che le leggi seguiranno lo svolgersi ed il mutar dei
costumi, né mai questi verranno in lotta accanita e sanguinosa con
esse. Adunque:
10. La sentenza del popolo è superiore ad ogni legge, od ogni
maestrato. Chiunque credesi mal giudicato può appellarsi al popolo.
E cosí prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili
verità: - 1. L'uomo è creato indipendente e libero, e solo i bisogni
sono assegnati come limiti a questi attributi; 2. Per allontanare da
sé questi limiti e rendere sempre piú ampia la sfera di sua attività
l'uomo s'associa, epperò la società non può, senza mancare al
proprio scopo, ledere in menoma parte gli attributi dell'uomo; -
siamo stati condotti alla dichiarazione di dieci principî
fondamentali, de' quali uno solo che non venga rigorosamente
osservato, la libertà e l'indipendenza saranno violate. Dunque ogni
contratto sociale, volto non già a confermare l'usurpazione di una
classe, ma la felicità dell'intera nazione, deve aver come base
questi principî.
XII. Pria di procedere piú innanzi, rileva rammentare, per sommi
capi, quello di cui sino ad ora discorremmo in questo saggio.
Ragionando del progresso abbiamo scorto come le società tendono,
nelle varie loro evoluzioni, ad assettarsi fra le leggi naturali, e
quando, per errore dell'istinto, per disaccordo del sentimento con
la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente declinano.
Indi osservammo come lo scambio facilissimo delle idee e dei
prodotti abbia fatto, di tutt'Europa, un popolo di costumi, di
leggi, di propensioni quasi uniformi; e noi, abbracciandolo nel suo
insieme, ne siamo venuti scrutando le tendenze, tanto economiche
come politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il
restringersi il numero de' possessori di esso, il crescere
incessante de' miseri e della miseria, sono cose evidenti,
innegabili, e quindi i mali, la necessità di migliorare, la reazione
de' tanti miseri contro i pochissimi ricchi, certa, immancabile. Di
quinci, sotto varie cagioni mascherato, il connubio de' pochi agiati
co' despoti, e ad ogni minaccia, ad ogni tomulto, ad ogni
rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine contro la
numerosa plebe, e da questa lotta emergere, indubitatamente, il
dispotismo militare o il trionfo della democrazia, l'uno seguito
dalla licenza e dalla dissoluzione, l'altro dal rinnovamento
sociale. Altra alternativa non v'è.
Incerti, ci facemmo a cercare quale delle due soluzioni fusse la piú
probabile. L'atteggio, i tentativi, il cupo gorgogliare del
proletario, fanno fede che la sua fibra è rozza, non flaccida,
l'elatere n'è compresso ma non spento, quindi havvi speme di vita.
Il soldato che lo fronteggia non è pretoriano, non avventuriere, ma
proletario anch'esso, affatturato da magica forza che lo costringe a
sacrificare se medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle
de' suoi uguali, epperò la speme che la sua ottenebrata mente
potesse balenare per un istante, e ciò basterebbe alla società per
risorgere. Questi incerti e pallidi raggi di luce ci sembrarono
fulgidi, scorgendo quasi nunzî del nuovo giorno la splendida pleiade
de' socialisti, la tendenza delle moltitudini all'associazione, la
preponderanza che giornalmente il concetto sociale acquista sul
politico. Ristorato l'animo, ci siamo ristretti all'Italia
solamente.
Abbiamo fatto studio sulle varie quistioni politiche, che si agitano
in seno della nostra patria, e dimostrammo quanto vana ed inutile
sarebbe la loro soluzione se non si sbarbicassero le due cagioni da
cui la miseria, la schiavitú, la corruzione irraggiano, proprietà e
governo. In ultimo, abbiamo stabiliti dieci principî, conseguenza
immediata delle leggi di Natura, come base del futuro contratto
sociale. Ora, non verremo esponendo un sistema, proponendo ordini,
promettendo felicità, né esorteremo con gonfie declamazioni
gl'Italiani alla concordia, alla battaglia. Noi studieremo le forze
che operano nel seno della Nazione, ne cercheremo l'intensità, la
direzione, la risultante, onde conoscere cosa l'Italia sarà, non già
cosa vogliono che sia i partiti. Epperò cominceremo dall'esaminare
quale sia lo stato dell'Italia relativamente alle altre nazioni
dell'Europa.
CAPITOLO QUARTO
XIII. Italia e Francia. - XIV. I partiti in Italia. - XV. Il
Comitato nazionale e Giuseppe Mazzini. - XVI. Insurrezione. - XVII.
Dittatura.
XIII. Il volgo, il quale senza esaminate minutamente le cose,
giudica dalla fallace apparenza di esse, considera la Francia e
l'Inghilterra come le due nazioni dalle quali debbono partire gli
impulsi che sospingeranno i popoli ad un migliore avvenire, quasi
che la rigenerazione politica-sociale d'Europa dipendesse dal
progresso industriale di esse. Per non dilungarci soverchiamente su
tale argomento, e perché cotesta missione rigeneratrice si
attribuisce alla Francia piú che all'Inghilterra, noi faremo
paragone fra la prima di queste due nazioni e l'Italia. La
rivoluzione francese del 1789 fu una grandiosa esperienza che mise a
nudo la poca importanza delle varie forme di governo relativamente
ai mali che la società ammiseriscono. Coloro che governarono quella
rivoluzione cercarono garentire la libertà, proponendosi a modello
Grecia e Roma, e mostrarono ignorare affatto quelle storie. Se con
maggiore oculatezza avessero cercato le cagioni di quello splendore
le avrebbero scorte ne' rapporti sociali, nello stato economico di
que' popoli, per cui legavasi strettamente l'utile pubblico al
privato; ed in quelle forme di governi, creduti origine d'ogni bene,
avrebbero riscontrato la causa della non tarda ruina di quelle
nazioni. Se avessero fatto studio sui tanti esperimenti che fecero
que' popoli, e tutti invano, per impedire l'usurpazione di chi
reggevali; se avessero meditata la storia d'un'epoca meno remota,
quella degl'Italiani del medioevo, che pel loro stato economico,
religioso, morale, si rassomigliavano ai Francesi piú che i Greci ed
i Romani, si sarebbero convinti facilmente come sia impossibile
limitare l'abuso ed evitare il despotismo, allorché delegasi a pochi
la sovranità ed il potere che risiede in tutti, e solleciti delle
forme lasciansi sfuggire la sostanza delle cose.
La Francia al '93 subí l'esperienza medesima che già avevano subito
gl'Italiani nel medioevo. I nobili, domati dal regio potere, avevano
smesse le armi, ed il re aveva vinto un rivale, ma perduto un
sostegno. Intanto, come in Italia il popolo, combattendo a difesa
del papa, conobbe di aver diritti, cosí in Francia, assumendo la
difesa del re, imparò a difendere se stesso. Parteggiando pel re,
egli credette migliorare, ma svincolato dalle strette del
feudalismo, videsi abbandonato, privo di mezzi ed appoggi, in una
lotta ineguale co' ricchi; sospinto dai suoi dolori rovesciò il
trono, in tal modo la rivoluzione si compí, rivoluzione che, come
quella del mille in Italia, fu il trionfo del Comune sul medioevo.
Agli Italiani bastarono sei secoli per cangiare in popolare il
barbaro reggimento, ai Francesi ne bisognarono quattordici. L'unità,
l'indipendenza assoluta, le superstizioni del cristianesimo
scrollate, il prestigio de' nomi caduto, resero, all'esterno, la
Francia piú maestosa dell'Italia, furono idee, non famiglie, che
parteggiarono il popolo. Ma la stessa unità, la minore energia della
plebe, lo spirito di libertà poco comune, insomma lo spirito
repubblicano, universale in Italia e difettivo in Francia, e per
contro fortemente sentite le tradizioni della monarchia, distrussero
in dieci anni tutte quelle conquiste del popolo che gli Italiani
conservarono per quattro secoli.
La rivoluzione francese scosse dal loro letargo i popoli d'Europa,
ed il governo, che i moderni chiamano rappresentativo, fu la
barriera, l'ostacolo che gl'impotenti troni opposero all'esigenze
del popolo. Abbiamo parlato abbastanza largo di una tal forma di
governo, quindi non è mestieri ritornare sull'argomento, diremo solo
che da tale epoca cominciò a germogliare l'epoca che minaccia di
cancrena l'Europa. Intanto, l'industria, il commercio, le scienze,
progredirono, il secolo XIX venne chiamato il secolo del progresso,
ed i dottrinarî credettero, o gli convenne credere, che sotto tale
reggimento compivasi gradatamente l'educazione del popolo,
navigandosi a golfo lanciato verso la libertà, strana aberrazione, o
strana menzogna. Il secolo XIX sarà famoso nei fasti dell'umanità,
non già per la servile e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti
dal suo seno, ma perché in tal torno il socialismo, d'aspirazione
fattosi sentimento, ebbe partito ed avrà attuazione.
La grandezza, la degnità della Nazione non va misurata dal numero
de' libri che in essa si pubblicano, come non è la dottrina
solamente la qualità che determina il conto in cui debba tenersi un
individuo. Un dotto, che pone la sua penna a disposizione del
maggiore offerente, lambisce la mano che lo sferza, bacia le catene
che l'avvincono, e con facile viltà maledice chi cadde, né mai osa
di biasimare il potente, non può certamente preferirsi ad un
ignorante che, domo dalla forza, guarda torvo l'oppressore, minaccia
ne' ferri, né lasciasi intimorire dalla spada, né dall'oro
corrompere: il primo sarà un uomo culto ma degradato, il secondo
rozzo ma pieno del sentimento della propria dignità; nell'uno
possiamo rappresentare il basso Impero e l'Italia al secolo de'
Medici; nell'altro la Roma de' Bruti, de' Scevola… e l'Italia del
mille; nel primo possiamo scorgere l'odierna Francia, nel secondo
l'Italia moderna. Colui che si crea un padrone è schiavo per natura,
chi lo subisce non è che disgraziato.
Se i rivolgimenti avvenissero in ragione de' libri, non sarebbe
stata la Sicilia la prima ad iniziare i moti del '48, né la dotta
Germania sarebbesi rimasta quasi inerte tra l'universale
sconvolgimento. Quali dotti contava la Grecia all'epoca della sua
memorabile rivoluzione? Gli Hoche, i Marceau, i Kléber… i Marco
Botzari, i Canaris… eroi da rivoluzione e non già da poltrona, non
sono parto di dottrine, primogeniti di queste sono i Guizot, i
Thiers… La probabilità di un rivolgimento è in ragion diretta de'
mali che opprimono il popolo e del grado d'energia che esso
conserva. Faremo studio su di ciò, onde discernere se in Italia
l'abilità al moto sia minore che in Francia.
In Italia come in Francia, la vita pubblica è difettiva, non curato
l'utile nazionale, a cui viene sempre preposto l'utile privato. La
vita pubblica de' moderni consiste nelle gesta da romanzo che
suppliscono alla sterilità degli avvenimenti storici. L'eroe da
romanzo è il modello che la gioventú si propone nel suo esordire;
una brillante comparsa, come dicono i Francesi, dans le tourbillons
du monde, è l'ambizione de' moderni eroi, de' lyons, è la gloria che
per essi adegua, anzi sorpassa quella de' Scipioni e de' Marcelli.
All'operosità succede il riposo, il lyon si trasforma e comparisce
nel mondo sotto il carattere d'homme blasé. Il lyon ama i rischi del
duello, di una corsa a cavallo e… ma guardasi bene dal mischiarsi in
politica, se le barricate covrono le strade, chiudesi in casa
curandosi poco dell'esito della lotta, ed aspetta tranquillo quando
les affairs ont repris, per essere richiamato all'azione. Allora si
fa di nuovo ad usare in quelle numerose brigate ove lo scambio degli
affetti è impossibile, ed in quei teatri ove con mostruosi drammi si
tenta invano scuotere la flaccida e logorata fibra dell'annoiato
ascoltante. In Italia i lyons, i grandi ridotti, quel genere di
produzioni teatrali sono piante esotiche. Ci sforziamo, egli è vero,
di accettare i medesimi gusti e farci imitatori degli oltremontani,
ma fortunatamente con pochissimo successo. Quanto ristretto è il
numero de' romanzi e dei romanzieri in Italia!… E perché? mancano
forse gl'ingegni, o la favella, come alcuni asseriscono, non
prestasi a tali letterarie produzioni? mai no; se esse venissero
chieste dalla pubblica opinione, tutte le difficoltà sarebbero
superate, né la tirannide le interdice. Ma quello poi che
maggiormente ridonda a gloria nostra è che i pochi romanzi italiani
sono quasi tutti di fama imperitura, quasi tutti hanno uno scopo
politico, ed i piú accreditati fra essi, come l'Assedio di Firenze,
Nicolò de' Lapi, Ettore Fieramosca,… suscitando un torrente di
affetti patrii, affogano, attutiscono ogni affetto privato.
Il prestigio del fasto immenso in Francia, in Italia abborrita la
pompa: gradirono i Francesi il brillante corteggio di Bonaparte piú
che la semplicità del governo provvisorio del '48 e di Cavaignac; in
Italia, per contro, il modesto vivere di Mazzini e di Manin
riscossero plauso ed universale simpatia.
La superstizione religiosa, in Italia come in Francia, non esiste
che fra le donnicciuole; la religione è ridotta ad atti esterni, è
un'abitudine, non già un sentimento, e se sentimento religioso vi
fusse ancora al giorno d'oggi, la sua sede sarebbe in Francia e non
già in Italia. Proudhon rinnegava la storia scrivendo Le bigot
italien, egli non rammentavasi come i Francesi, da Carlo Magno, sono
stati sempre i difensori del papa, non per ragion di Stato, ma per
fanatismo, ed i nemici de' pontefici sono stati e sono gl'Italiani,
ai quali è riserbato d'inaugurare il trionfo su tutte le idee
religiose.
Si eccettui il Piemonte in cui, per soverchia docilità del popolo il
reggimento costituzionale dura, nelle altre parti d'Italia non ha
potuto gettar le sue barbe; la violenza, la corruzione non son
bastate in Napoli, in Roma, in Toscana, ad ottenere una camera
suddita del ministero. Troverete in queste provincie satelliti
efferati ed impudenti della tirannide, ma quei trafficanti in
politica, pronti ad inchinarsi ai fatti compiuti, non esistono,
feccia e non cima di società, come essi si compiacciono credere; in
Napoli sonovi i Windishgratz e gli Haynau, ma invano si cercano i
Magnan, i Saint-Arnaud, i Maupas… Gli ex-triunviri, gli ex-ministri,
gli ex-generali italiani vivono tutti nell'indigenza, mentre non
trovasi in Francia un ex-impiegato che non abbia sa petite fortune.
Secondo il proprio stato, i proprî bisogni, le proprie inclinazioni,
producono le nazioni gli uomini che le rappresentano, e viceversa
dal carattere di questi uomini potrà inferirsi lo stato in cui esse
si rattrovano. E se non volesse considerarsi come passeggiero il
presente stato della Francia, in vedendola padroneggiata da' Guizot,
da' Magnan, da' Saint-Arnaud, da' Bonaparte… bisognerebbe
conchiudere che essa si dissolve, e che le ultime virtú
rivoluzionarie sonosi spente con Armand Carrel. In Italia, per
contro si rattrovano esseri spregevoli, ma non sono che i
rappresentanti de' varî governi locali vicini a ruinare, mentre la
nazione intera non onora, non prezza né costoro né i dottrinanti che
predicano rassegnazione, ma i martiri suoi; quindi è nazione che
sente il peso de' proprî mali, che onora quelli che danno la vita
per combatterli, e dal martirio alla battaglia non havvi che un
passo.
L'attacco di centosettantamila stranieri contro Italia divisa, quasi
non bastò a ristabilire il dispotismo; essi per vincere han dovuto
ricorrere eziandio al raggiro ed alla menzogna. Tre battaglie,
quattro assedî, sessanta combattimenti, tre città messe a ferro e
fuoco, sono i gloriosi monumenti di nostra resistenza, mentre gli
esuli, i prigioni, le vittime che muoiono col nome d'Italia sulle
labbra [sono] la nostra continua e gloriosa protesta. Come ha difeso
Francia la sua libertà? un pugno di compri francesi in poche ore da
libera la fanno schiava, e la nazione, ben lungi dal resistere, col
suffragio universale, sancisce l'usurpazione ed appoggia la
spregevole tirannide. Come negare che i rivolgimenti avvenuti in
Francia il 1830, il '48, il due dicembre, sono l'effetto d'una
vittoria ottenuta da un ristretto partito in Parigi? E somigliano
moltissimo alle congiure di palazzo del basso Impero, a cui veruna
parte prendevano le popolazioni delle provincie, mentre in Italia
non v'è movimento che non trovi un'eco in tutte le valli
dell'Appennino. Tre volte, nel breve spazio di cinquanta anni, la
Francia è stata arbitra de' suoi destini, tre volte da se medesima
si è foggiata le catene, mentre, se non vi fosse stato intervento
straniero, l'Italia, forse, sarebbe libera da molto tempo. I gusti
adunque, i costumi, i fatti, la dimostrano meno indifferente a' suoi
mali, meno degradata che Francia, quindi maggior probabilità di
risorgere, accresciuta eziandio dal desiderio ardente che sente ogni
Italiano, di conquistare la propria nazionalità, significante
movente di cui difettano i Francesi perché credono possederla.
Esaminate le forze che sospingono al moto, ci faremo a studiate
quelle che resistono. La nobiltà, la borghesia, i preti, gli
impiegati d'ogni genere, un forte e numeroso esercito, sono una base
di granito che in Francia sorregge ogni genere di despotismo; ma ove
sono queste forze in Italia? La piú famosa nobiltà italiana, la vera
nobiltà feudale venne distrutta al sorgere de' Comuni; solo
nell'Italia cistiberina durò ancora lungamente, ma fu in continua
lotta col trono. Doma da Federico, riprese vigore per l'avarizia
degli Angioini; di nuovo perseguitata dagli Aragonesi, durante il
regno del perfido Ferdinando d'Aragona, fece l'ultimo sforzo con la
famosa congiura. Dieci Baroni de' piú famosi lasciarono la vita sul
palco, altri fuggirono, furono occupate le loro castella, disarmato
il vassallaggio. I discendenti non ebbero piú forza, e per
tradizione, e pel continuo cangiare della dinastia regnante, essi
non furono mai gli amici del re: undici nobili di primo rango
perirono nel '99 come repubblicani, fra questi il formidabile
campione della libertà, Ettore Carafa conte di Ruvo. In Piemonte la
nobiltà non conta che i fasti di sua docile servitú, nobiltà di
secondo rango, perocché i grandi feudatarî si estinsero
successivamente, e sulle loro mine s'innalzò il trono di casa
Savoia. I numerosi titolari che brulicano ne' varî Stati d'Italia,
sono nobili nuovi, ovvero non nobili, né formano casta i cui
privilegî li lega per utile proprio al trono; sudditi, come il resto
de' cittadini, sono regî se percepiscono stipendio, liberali in caso
contrario. I veri nobili d'Italia sono i patrizî delle varie
repubbliche, ed in primo luogo i veneziani, e cotesta nobiltà potrà
essere municipale e non regia. La borghesia italiana, non solo non
sostiene ma odia i presenti governi, e se non è sollecita al
muovere, non avversa i movimenti. I preti, non essendo salariati
come in Francia, contano moltissimi liberali, ed anche soldati della
libertà. Infine possiamo conchiudere che se togli dall'Italia i
stranieri, l'appoggio dei troni riducesi alla codarda schiera degli
impiegati e de' poliziotti. Solo in Napoli ed in Piemonte havvi un
esercito, ma esso non si è mostrato, in certe circostanze,
inaccessibile alla brama di libertà. Quindi la tirannide non si
sostiene che in virtú di forze straniere; aggiungi, le tradizioni
dell'Italiani repubblicane tutte, quelle de' Francesi regie, e
potremo senza errore conchiudere che l'esercito conservativo,
potentissimo in Francia, in Italia quasi non esiste.
La sola cosa che in apparenza favorisce la Francia, è lo scorgere
che in essa le idee di riforma sociale sono piú generalmente
sentite, sono già scritte sulla bandiera d'un partito. Ma questo
partito non è reciso ne' suoi concetti e nella sua propaganda; lo
stesso Proudhon spera accordare l'utile del proletario e quello
della borghesia; tutti sono, nella pratica, dubbiosi e timidi.
I riformatori che svolgono le dottrine, foggiano sistemi, altro non
fanno che delineare la prima orditura, che stabilire de' principî;
un numero ristrettissimo di persone s'inspirano ne' loro volumi, e
questi volumi possono dirsi un retaggio europeo. Ma nulla apprende
il numeroso volgo, ché, eziandio le cose volte a migliorare la sua
condizione e minorare la sua fatica, non le accetta che stretto
dall'estremo bisogno, e non si lascia convincere se non dal fatto. I
giornali, i ragionamenti e le corrispondenze pubbliche o private,
gli scopi che si propongono le congiure, le persecuzioni, le
vittime, gli avvenimenti, sono quella serie di argomenti per cui le
astrazioni de' riformatori divengono concetti popolari. I discorsi
di Proudhon all'assemblea, i suoi articoli sul giornale da esso
redatto, le lezioni di Louis Blanc al Lussemburgo, le manifatture
nazionali, le barricate di luglio, ha formato la propaganda la quale
cominciò a trasfondere nelle masse il socialismo; il popolo, forse,
non ha compreso il significato dell'ordinamento del lavoro, ma sa di
essersi battuto per esso, e quindi può non sembrargli strano il
ritentare l'impresa.
Il due decembre ha spaventato ogni partito, e tutti avrebbero
desiderato far tregua alle contese onde abbattere il nemico comune,
i socialisti han taciuto ed han quasi perduto il terreno che avevano
guadagnato. Le dicerie pubblicate dai rivoluzionarî francesi sono
vuote declamazioni. Non si scrutano i varî rapporti, non si dimostra
al minuto popolo quale sarebbe l'avvenire che, volendo, può
conquistarsi: son formalisti e non altro. Tutti, si eccettui
Proudhon, persistono nel grave errore di pretendere iniziare le
riforme dall'alto [al] basso, imporle al popolo, e non farle sorgere
spontanee dal basso in alto; e siccome ogni caporale di partito
credesi il solo atto a praticare le proprie idee, che egli crede le
sole vere e giuste, tutti si fanno propugnatori della dittatura,
perché ognuno la spera per sé, non per ambizione, ma pour faire le
bien, dicono i Francesi, per educare il popolo, dicono gl'Italiani;
epperò, comeché il moderno socialismo fosse nato in Francia, non è
la Francia piú innanzi dell'Italia nella pratica di tali dottrine.
Inoltre, il compimento della sociale riforma deve in Francia
superare ostacoli assai maggiori che in Italia, e perché il grande
sviluppo dell'industria accumulando grandi capitali ha creato
potenti e numerose forze che resistono; e perché bisogna ridonare la
vita al Comune, spenta affatto dall'unità francese, mentre in Italia
essa è latente, ma vigorosa e pronta a svilupparsi. Quindi non solo
l'Italia ha in sé probabilità di moto maggiori che la Francia, ma la
soluzione del problema sociale è molto piú facile ed omogenea
all'Italia che alla Francia.
Seguiamo il confronto fra le due Nazioni, e cerchiamo discernere per
quale delle due, ammesso il moto, è piú facile il successo. Parigi è
la sola città della Francia ove l'insorgere è possibile; ivi, egli è
vero, sono raccolti grandi mezzi di resistenza, ma il popolo
parigino è numeroso ed arrischiato, il vacillare delle soldatesche
facilissimo in una sí grande città, quindi facile la vittoria che
menerà un partito al potere. La Francia pensa ed opera come Parigi:
a Carlo X succede Luigi Filippo, a questi la repubblica, poi
Cavaignac, Bonaparte, l'Impero… ed in tutti questi cangiamenti, solo
di nomi, la Francia intera si rimane tranquilla. Cangiano i pubblici
funzionarî, piú per premiare i partegiani del nuovo potere che per
punire quelli del caduto, pronti sempre ad inchinarsi al vincitore,
tanto è cieca la disciplina. Ubbidienza a chi comanda è la formola
che regge la Francia intera; il re, il governo provvisorio, il
presidente, l'imperatore… qualunque, infine, sia il nome del potere
che siede sovrano a Parigi, esso disporrà arbitrariamente delle
forze di tutta la nazione. Fra i moderni, i suoi ordini militari
sono ottimi, le schiere istrutte e costumate a fatica, il Francese
per indole prode e facile all'esaltazione, le tradizioni militari
brillanti e recenti, la fiducia nelle proprie forze grandissima,
quindi formidabile, rispettata. Dopo l'esempio del '93 nessuna
Potenza d'Europa attaccherà la Francia per sostenere un partito,
anzi tutti gli Stati crederanno di avere ottenuta una grande
vittoria se dopo un rivolgimento la Francia si rimane nelle sue
frontiere. Per essa, adunque, li cangiar forma di governo è un fatto
il quale, con pochissimo rischio, compiesi in pochi giorni. Ma quale
è il vantaggio di tali rivolgimenti? sotto altre vesti, forse piú
luride, il dispotismo è permanente.
La forza cade nelle mani di uomini che, parlando [di] libertà, si
sostituiscono al despota, ne calcano le orme, ne seguono il sistema,
e fannosi scudo contro i cittadini di quell'esercito stesso che
pochi istanti prima riguardavano loro nemico. Inesperti nel trattare
un tanto terribile strumento di tirannide ne rivolgono contro loro
medesimi le offese: un soldato o il discendente d'un soldato,
legittimo possessore e vero rappresentante del diritto della forza,
impone silenzio al loro importuno garrire, e col piatto della
sciabola li caccia ignominiosamente di seggio. Quando dittatura vi è
in un paese, questa non può essere che militare, e se tale non la
crea la nazione, essa per la natura stessa delle cose tale diventa,
sono vani gli ostacoli, i raggiri del curiali per garentirsi. Di un
tal genere di rivolgimenti, cioè ad una fazione sostituirgli
un'altra al potere, la Francia può compierne uno l'anno; all'Italia
sono impossibili. Ci faremo a dimostrarlo.
Non già in una sola città italiana, ma in ognuna di esse, perché
piene di vita municipale, potrebbesi iniziare un movimento, ma con
poca speranza di successo. L'Italia intera seguirà l'esempio, ma
senza unità: gli uomini nel[le] cui mani, in ogni regione, verrà
affidato il potere, non vorranno sottomettersi gli uni agli altri,
ed ogni Stato, forse ogni Comune, spererà salvezza isolando la
propria causa. Ma poniamo il caso che gl'Italiani, resi dotti dalle
passate vicende, affidassero ad un centro comune la somma delle
cose, questo governo unico, a quanti bisogni deve provvedere, e
prontamente provvedere? Insorgere e vincere le prime prove non basta
agli Italiani, essi debbono combattere una delle piú formidabili
Potenze militari, che possiede in Italia una munita e forte base
d'operazione, alla quale appoggia un numeroso esercito, quindi è
forza che, ad onta del difetto di milizie e di armi, un esercito
italiano sorga in un baleno numeroso e compatto. Come provvederà il
governo? ricorrerà al terrore? Coloro i quali credono che un
illusorio potere concesso da pochi ad alcuni uomini possa far loro
abilità di comandare d'un capo all'altro d'Italia s'ingannano,
eglino conoscono l'Italia come può conoscerla un Francese o un
Inglese, che giudicano dal proprio l'altrui paese.
La formola obbedienza a chi comanda, che ora regge la Francia, resse
eziandio l'Italia, nel secolo passato e ne' due precedenti, ma il
concetto del risorgimento italiano, fatto sentimento, dal '14,
cangiolla. Il costume che, ora, dalle Alpi al Lilibeo, hanno i
popoli Italiani, è, sempre che lo possono, resistenza a chi comanda,
né esso può cangiarsi in un istante. Il terrore produrrebbe
l'immediata reazione, favorevole al nemico già accampato fra noi; le
passioni in Italia non son tiepide, la forza medesima di esse rese
gli Italiani padroni del mondo, e ne fa un popolo di assai difficile
reggimento. Ed ammessa l'ubbidienza, cosa valgono que' battaglioni
per forza raccolti? ne' tomulti ardenti, son codardi in ordinate
battaglie. La Francia stessa, su cui il terrore ebbe grandissimo
successo, non ebbe esercito prima del '94; per cinque anni rimase
esposta ai colpi nemici, fu salva non già per propria virtú, ma per
gli errori di quelli. Ma l'Italia non può sperare tale fortuna,
appena qualche mese sarà concesso all'insurrezione italiana per
trasformarsi in esercito.
Inutile, inefficace, ruinoso è il terrore in Italia, quali mezzi
rimangono, adunque, agli uomini eletti a governarla in sí difficile
emergenza? un solo: fare un fervido e continuato invito al paese,
proporre i mezzi come provvedere a tutto, dico proporre, perocché
non potendo abusare della forza, i comandi non si ridurrebbero che a
semplici proposte, il cui risultamento dipenderà dalla volontà del
paese, epperò dalle cagioni che determineranno questa volontà.
L'odio ai presenti governi bastante ad insorgere, trionfata
l'insurrezione s'ammorza, quindi bisogna suscitare una passione da
bilanciare i rischi ed i stenti della guerra. Il desiderio di
libertà, d'indipendenza, l'amor della patria, han forza grandissima
nei cuori di quella balda ed intelligente gioventú che è sempre
prima ad affrontare i perigli delle battaglie; ma essi soli non
bastano, l'Italia trionferà quando il contadino cangerà,
volontariamente, la marra col fucile; e, per questi, onore e patria
sono parole che non hanno alcun significato; qualunque sia il
risultamento della guerra, la servitú e la miseria lo aspettano. Chi
può, senza mentire a se medesimo, affermare che le sorti del
contadino e del minuto popolo, verificandosi i concetti de' presenti
rivoluzionarî, subiranno tal cangiamento da meritare le pene ed i
sacrificî necessarî a vincere? Il socialismo, o se vogliasi usare
altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l'unico
mezzo che, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da
conquistarsi, li sospingerà alla battaglia. Quindi, le difficoltà
che presenta la guerra del nostro risorgimento, i numerosi nemici,
l'indole italiana di assai difficile reggimento, la vita municipale
prima a manifestarsi nelle rivoluzioni, il costume, omai reso
seconda natura, di resistere a chi comanda… costituiscono il fato
della nazione, che inesorabilmente ne ha segnato il destino.
Schiavitú o socialismo, altra alternativa non v'è.
Poniamo ora il caso che in un rivolgimento il popolo italiano vegga
la possibilità di migliorare il suo avvenire, ed animato da una
passione forte e popolare, che unifichi e determini la sua volontà e
la sua azione, corra volenteroso incontro al nemico, e facciamoci a
ricercare, seguendo il paragone con la Francia, se i suoi mezzi
materiali son tali da vincere.
La Francia avanti la rivoluzione contava duecentocinquantamila
uomini, de' quali diecimila erano milizie dorate della corte sparite
con essa; settantasettemila erano battaglioni provinciali; e venti o
venticinquemila stranieri, quindi i soldati regolari nazionali si
riducevano a' centocinquantamila. In Italia, ammessa una rivoluzione
universalmente sentita che ne raccolga le forze sotto la stessa
bandiera, non manca certamente un tal numero di soldati. Aggiungi
che gli abusi, dopo quell'epoca riformati, han reso gli eserciti piú
mobili e piú compatti, e centocinquantamila uomini in oggi valgono
assai piú che centocinquantamila uomini in allora, e la superiorità
di ordini ed istruzione che avevano gli eserciti alemanni sul
francese, nel caso nostro non esiste, perocché gli eserciti
stanziali, all'epoca presente, si pareggiano in Europa. Le schiere
francesi rimasero quasi dissolte pel numero significante d'ufficiali
che seguirono le sorti del re, in Italia, per contro, probabilmente
non se ne conterebbe alcuno. Quindi le nostre forze materiali,
possiamo dirle per numero ed ordinamento superiori a quelle che
possedevano i Francesi al cominciare della rivoluzione.
Negare agli Italiani il primato in armi, è negare la storia, che
perciò siamo venuti rammemorando nel primo Saggio. La nostra
temperie, fornita di una quantità sufficiente, ma non eccedente, di
sangue igneo, accoppia il coraggio all'ingegno, qualità che spesse
volte si escludono; l'Italiano discerne il pericolo, studia il
proprio vantaggio, ed opera. Se noi siamo degeneri dagli antichi, lo
sono del pari gli altri popoli d'Europa, quindi il vantaggio che
deriva dall'indole nostra, dono della Natura, rimane il medesimo. Ma
il valore individuale non ci vien negato, tutti son convinti che un
Italiano valga assai piú, o almeno quanto un Francese. Ci faremo a
discorrere del valore delle soldatesche.
Un contadino che difende il suo tugurio con coraggio da leone, un
brigante che combatte valorosamente la sbirraglia, può, fatto
soldato, mostrarsi codardo perché non vede la ragione, non sente la
necessità di rischiare la propria vita, e qualunque sia la severità
della disciplina, le pene da cui vien minacciato non
controbilanciano mai i perigli immediati della battaglia. La
disciplina, bastante a rendere il Russo e l'Inglese ottimo soldato,
non basta, con diverse gradazioni, all'Italiano, al Greco, allo
Spagnuolo, al Francese eziandio; questi popoli debbono combattere
sotto il pungolo d'una passione che li esalti; questi popoli hanno
troppo discernimento per sacrificarsi come ciechi strumenti
dell'altrui volontà. I Suliotti, di eroico valore fra le loro
montagne, arrolati dalla corte di Napoli come soldati, non
corrisposero alla fama [che] era corsa di loro; al '99 l'esercito
napoletano fugge, ed il popolo napoletano combatte strenuamente il
nemico in ogni vallata; Capua, difesa da un esercito, e la
fortissima Gaeta, non indugiano la marcia dello straniero che vede
in periglio la sua facile vittoria innanzi alla città di Napoli,
aperta e priva di ogni genere di milizia. Non appena in Francia
cessò il feudalismo, ed ai guerrieri feudali, guerrieri eroici,
successero le regie milizie, i Francesi perdettero il primato delle
armi, i lanzi ed i Svizzeri gli vennero preferiti. Fate paragone tra
le gesta de' Francesi durante la guerra de' sette anni e quelle
durante la guerra della rivoluzione, e scorgerete quanta differenza
passi fra le milizie regie e le repubblicane; quelle strumento d'un
despota, queste animate da una forte passione. Paragonate le
battaglie di Rosbach e Jemappes, la prima combattuta dal fiore delle
regie milizie, l'altra da inesperti volontarî tumultuariamente
accozzati. Paragonate il soldato italiano a Pastrengo, e lo stesso
soldato a Novara, e scorgerete ad evidenza come il convincimento e
l'esaltazione siano per tutti i popoli di svegliato ingegno moventi
assai piú efficaci che la disciplina ed il terrore. In virtú del
loro discernimento cotesti popoli, e particolarmente gl'Italiani,
combattono da eroi in lontane regioni, e mollemente, se manca
l'esaltazione, nel proprio paese; nel primo caso essi veggono nella
disfatta la loro ruina, nel secondo un pretesto per tornarsene a
casa. Solamente dopo una lunga carriera sui campi di battaglia ed
una serie non interrotta di vittorie, possono formarsi quelle
schiere di veterani che amano la guerra per la guerra, che tutto il
loro utile si reassume nell'utile della vittoria, come erano le
schiere napoleoniche; ma senza la rivoluzione, e per essa dieci anni
di prospera guerra, non sarebbero esistite né quelle schiere, né
Napoleone, né le vittorie di cui la Francia incoronasi degnamente.
Adunque, la cagione medesima, la nostra temperie, che assicuraci il
primato in guerra, è stata quella per cui i moderni eserciti
italiani fecero cattiva prova; gli Italiani discernono troppo il
periglio, per incontrano in forza di una virtú negativa,
l'ubbidienza. Questa virtú è efficacissima pe' popoli del nord, che,
dotati di una grande abbondanza di sangue caldo, sono stupidi e
coraggiosi, atti ad essere menati come massa inerte contro il
cannone, ma, per contro, incapaci di que' sforzi che richiede la
virtú ardita e libera allorché inspirasi nelle grandi passioni. In
tali sforzi gli Italiani non hanno pari che i Greci; seguono con
maggiore impeto, ma minor costanza, i Francesi.
Un esercito d'Italiani, guerreggiando per conto di una dinastia e
per cagioni che non comprende, sarà il peggiore degli eserciti
europei, se poi combatterà per una causa sentita e popolare, sarà
invincibile. Senza una passione universalmente sentita, gli Italiani
non potranno combattere con valore; se poi la passione e
l'esaltazione esisterà, le nostre schiere saranno tanto superiori a
quelle degli altri popoli per quanto lo furono i Romani, i quali non
vissero sotto clima diverso dal presente, né ebbero un maggiore
numero d'organi sensorî, né diversa temperie che noi. Essi nella
guerra vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e
nulla piú, passa tra noi e loro.
La popolazione della Italia oggigiorno è quanto quella della Francia
nell'89, mentre l'estensione della nostra frontiera è poco piú del
terzo di quella. La Francia mise in armi ottocentomila uomini, ma
questi, ripartiti in quattordici eserciti, (cosí richiedeva la
ragion di guerra), non potettero in alcun punto ottenere sul nemico
una significante preponderanza di forze; gli eserciti a' confini di
Spagna, d'Italia, del Belgio, della Germania, non potevano
certamente operare con un comune disegno, ed ognuno d'essi rimase
abbandonato alle proprie forze. La posizione degli Italiani è molto
migliore: difesi dalla cerchia delle Alpi, il nemico è costretto a
raccogliere le sue forze in paese sterile e dirupato, mentre
gl'Italiani si trovano nella valle del Po, regione ubertosa ove
popolose e ricche città, numerose strade, un maestoso fiume,
forniscono, trasfondono facilmente le vettovaglie. Gli attacchi che
le diverse Potenze potrebbero intraprendere sui varî punti della
frontiera, non possono riuscire simultanei, perché non sono
prevedibili tutti gli ostacoli che attraverso i monti possono
indugiare la marcia d'un esercito. Impossibile riescirebbe loro il
darsi un vicendevole soccorso, perché l'asprezza del terreno nol
comporta, ed ogni attacco, non solo rimarrebbe isolato, ma,
sboccando dalle valli, non porrebbe che presentare delle teste di
colonne agli Italiani, i quali possono, facilmente, far massa contro
il piú vicino de' nemici; di modo che i Francesi con ottocentomila
uomini si difesero contro tutta l'Europa, né potettero sempre
pareggiare in numero il nemico sui diversi campi di battaglia,
mentre agli Italiani basterebbero duecentocinquantamila uomini per
conservare in ogni scontro la loro superiorità. I nemici della
Francia, finalmente, ebbero uno scopo alle loro operazioni, Parigi,
i nemici d'Italia non ne avrebbero alcuno; l'importanza delle varie
capitali sparirebbe con la rivoluzione; né potrebbesi questa, ad
onta dei sforzi che farebbero gli stolti, attribuire ad una sola fra
esse, sia anche Roma, perché l'indole nazionale nol tollera; quindi
il nemico sarebbe costretto vincere in ogni vallata, in ogni borgo,
troverebbe tante capitali innanzi a sé per quanti sono i punti
strategici del nostro suolo.
Facendoci a reassumere il detto conchiuderemo che le tendenze e le
probabilità di moto sono in Italia maggiori che in Francia, e minori
le forze resistenti; che, quantunque i moderni socialisti siano
francesi, la propaganda pratica di quelle idee non è in Francia piú
avanzata che in Italia. Nondimeno i vantaggi che esse promettono
sono tali, che se un rivolgimento ne permetterà la benché minima
applicazione, esse diverranno in un tratto popolarissime in Italia
come in Francia. Ammesso il moto prodotto da cagione universalmente
sentita, abbiamo discorso del numero e valore delle soldatesche,
delle frontiere, della guerra che dovremmo sostenere, e che la
Francia sostenne, ed il vantaggio, evidentemente, è dalla nostra
parte. Possa questo confronto rilevare gli animi, generare la
fiducia in noi stessi, ch'è forza confessarlo, manca, imperciocché
gli Italiani hanno il torto di confondere le imprese dei nostri
tirannelli con quelle della nazione. Perché essi non s'inspirano in
quelle gesta che l'Italia tutta unita compí? in esse, la cui memoria
dura da tanti secoli e durerà lontana, avranno la giusta misura
delle nostre forze, né ci sarà luogo a scoraggiamento.
Le nazioni, durante le medesime fasi di loro vita, sono sempre le
stesse; credi tu, o lettore, che siamo in decadenza? non leggere
oltre, non perdere il tempo, caccia le mani nella corruzione che ti
circonda, usa ogni mezzo per arricchirti e goder della vita,
inchinati ai tiranni, basta che ti assicurino i materiali godimenti;
se poi credi che possiamo risorgere, devi assolutamente credere che
saremo grandi come furono i nostri progenitori; se nol credi ti
compatisco, il tuo animo poco gagliardo non regge alle impressioni
delle conseguenze estreme, tentenni nel mezzo, e sei fra la turba di
coloro che vissero senza biasimo e senza lode; sarai poco utile alla
patria ed increscioso a te stesso.
Inoltre, il nostro ragionamento farà risaltare sempre piú la
stranezza di alcuni Italiani di pregevole ingegno, di ottimo cuore,
i quali credono fermamente adoperarsi per lo bene della patria, col
tessere una continuata apologia di Francia, mostrandocela quale
astro che dovrà dar norma e rischiarare il nostro avvenire. E perché
abbiamo qualche chilometro di meno di strade a rotaie e di telegrafi
elettrici, perché l'aristocrazia bancaria non è cosí potente come in
Francia, perché il monopolio, tra noi, non ha raggiunto l'apogeo,
perché in Francia si pubblica qualche migliaio di piú di bugiardi
volumi, n'inferiscono che l'Italia non regge al confronto di quella
nazione. I loro scritti, eziandio nel cuore dei piú imparziali non
possono che suscitare un certo disgusto, pure, considerando ogni
libro che si pubblica l'espressione di un sentimento nazionale, e
lasciando all'intolleranza religiosa e regia la ripartizione fra
libri buoni e libri cattivi, noi ci siamo dati alla ricerca delle
cagioni che possono suscitare simili dottrine. L'apparenza degli
eventi hanno tratto fuori del loro proposito cotesti scrittori.
Eglino, per scrivere come rivoluzionarî italiani, sonosi dati a fare
profondo studio sulle cose e sulle idee di Francia, che, al momento,
avevano vita piú rigogliosa, e tutti invasi di quelle idee si son
fatti a ricercarle in Italia; cercavano Francia, ad essi notissima,
han trovato Italia, che poco conoscevano, e, come se le nazioni
durante la loro vita dovessero calcare le medesime orme, han
dichiarato Italia in ritardo. Intanto la loro posizione, dovendo
scrivere d'Italia con idee francesi, era falsa, e la conchiusione
non poteva essere ch'una, l'Italia non è Francia. Allora han
colorito diversamente il loro disegno, han reso francese l'Europa,
ed in questo quadro generale, in un posto affatto secondario, quasi
totalmente in ombra, si scorge l'Italia in lontananza. Ma chi parte
da falsi principî deve esser condotto, naturalmente, a false
conseguenze. Infrancescato il globo intero, ne inferiva la
supremazia francese, e l'avvenire da essi prognosticato sarebbe,
come dice V. Hugo, il mondo francese e quindi la rivoluzione, la
rigenerazione umanitaria, risultando d'un carattere speciale e non
già umanitario, veniva da essi, che se ne dicono i propugnatori.
rinnegata affatto.
E tratti ancora piú innanzi da' loro ragionamenti additano la
Francia come nostra protettrice, come fonte di ogni nostro futuro
bene, e predicano la fratellanza con essa; assurdo manifesto.
Avvegnaché tra il protettore ed il protetto, il maestro ed il
discepolo, il difensore ed il difeso, fratellanza non può esservi
mai, ma dipendenza. Senza che essi se ne accorgano, i loro
ragionamenti prognosticano che un giorno Parigi sarà la nuova Roma,
e come ora la Francia china il capo ai Vitellî sublimati da compri
pretoriani, nel felicissimo avvenire al quale ci avviciniamo, tutta
l'Europa farà lo stesso. Se questo è il progresso, auguriamoci il
regresso, e regresso prontissimo.
Non si affretta né si propugna la rivoluzione con dottrine che la
distruggono, o almeno la travisano e sgagliardiscono l'animo;
l'unità mondiale vi sarà, ma non già come pretendono costoro,
distruggendo le nazionalità, incorporandosi insieme, o assorbite
dalla preponderanza di una fra esse; ma come un individuo,
associandosi co' suoi simili, viene abilitato ad uno sviluppo
maggiore delle proprie facoltà, del pari, nell'associazione
universale, ogni nazione, lungi dal perdere la sua individualità e
l'indole propria, troverà campo piú vasto di svilupparla; e nel modo
stesso che una nazione non sarà libera in tutto il significato della
parola libertà, se ogni suo individuo non sente fiducia nelle
proprie forze, dignità, ed uguaglianza assoluta col resto dei
cittadini, cosí l'associazione universale non potrà aver luogo, se
prima ogni nazione non si costituisca strettamente ne' proprî
caratteri e non ci sia fra tutte che un'uguaglianza universalmente
sentita. Quindi, per attuarsi la nostra fratellanza con la Francia,
bisogna combatterla e vincerla, o almeno è indispensabile che, in
parità di circostanze e di forze, sul medesimo campo di battaglia,
contro un nemico comune, meritassimo la palma in una nobile gara di
gloriose gesta.
XIV. Se per numerare i partiti in Italia ci faremmo con microscopica
diligenza a discutere le minime gradazioni, e vorremmo tener conto
di una turba di persone che affannosi brulicano intorno ai troni,
l'impresa riuscirebbe faticosa ed ingrata. Cotestoro non sono che
individui, le cui opinioni mutano al mutare degli eventi: ora
veggono il re di Sardegna cacciare d'Italia stranieri, principi,
papa, ed incoronarsi re d'Italia; ora promettono corone ed
assicurano successi in virtú d'un credito che mai ebbero o piú non
hanno; oppure distribuiscono l'Italia ai varî principi d'una
dinastia, e cangiano il pensiero italiano in servitú per una
schiatta principesca, e vorrebbero richiamare a vita antichi regni,
coi suoi baroni, i suoi pari, i suoi prelati, e tutta la pompa del
feudalismo; altri, e sono i piú abbietti, cercano un re oltr'Alpi
invocando l'appoggio d'un avventuriero e degli assassini di Roma.
Sono tra questi dottrinarî, paghi di esprimere moderatamente i loro
pensieri, badando, come essi medesimi dicono, che la scienza non
uscisse dalla sua innocenza, ovvero si riducesse ad una pura perdita
di tempo; vi sono banchieri e commercianti le cui faccende
prosperano, e quindi temono qualunque rivolgimento che ne
ristagnasse il corso. Ma questi non sono partiti, neppur sette, sono
individui, ripeto, esuli i piú, a' quali l'esilio, sorgente per la
maggior parte di miserie e dolori, fruttò loro onori,
considerazioni, lucri, che mai ottennero nel proprio paese.
Rispettando in questa numerosa schiera i pochissimi illusi perché
non vogliono darsi la pena di pensare, e perché Natura li creò
d'animo poco gagliardo, spregiamo la generalità; né ci faremo a
rimescolare un tal fango, le nostre riflessioni si rivolgeranno su
coloro che meritano il nome di partito.
I regî bramano la guerra europea; e leggendo come casa Savoia,
barcheggiando fra Austria e Francia, abbia ingrandito i suoi Stati,
sperano che si possa porre ad effetto la cacciata dello straniero, e
costituire un forte regno boreale arbitro de' destini italiani. Il
principio loro è quello sviluppato dal Balbo, tendere all'unità col
successivo ingrandimento de' varî Stati italiani. Noi teniamo bene,
e l'abbiamo dimostrato, che questo successivo ingrandimento è di
ostacolo all'unità: che uno Stato italiano non darà mai norma agli
altri, ma accrescerà in quelli l'occulto potere ed il credito de'
stranieri; abbiamo emessa distesamente la nostra opinione riguardo
al significato che diamo alla parola nazionalità, epperò non
possiamo riscontrare la nazionalità italiana negli abitanti della
vallata del Po, retti secondo i capricci di un principe; ed in
ultimo, insegnandoci la storia con severissima lezione, che le
guerre regie combattute in Italia son sempre state scaturigine di
miserie ed umiliazione, rispettiamo una tale opinione, ma la logica
ed il cuore si ricusano a dichiararla italiana.
L'altro partito che raccoglie sotto la sua bandiera la piú ardita e
generosa gioventú, è il repubblicano. Assennati da' passati disastri
non han fede alcuna ne' principi, il risorgimento d'Italia, la
cacciata dello straniero, la sperano dalle proprie forze, da una
rivoluzione.
Si distaccano alquanto da questi un numero limitatissimo d'individui
che si dicono federalisti: per gli unitarî lo scopo principale è la
nazionalità, pei federalisti la libertà; quelli escludono qualunque
intrusione straniera, questi accetterebbero la libertà dalla
Francia, quasi che la libertà potesse riceversi in dono, e cosí
federalisti ed unitarî, per soverchia esclusività ne' loro sistemi,
errano, non potendo esistere, come nei precedenti capitoli abbiamo
dimostrato, nazionalità senza libertà, né questa senza quella. I
federalisti hanno piú chiari e recisi concetti politici, sono
repubblicani di principî; gli unitarî sentono piú fortemente la
dignità nazionale, ma non sono repubblicani che di forme. Quindi
repubblicani unitarî, federalisti e regî sono i tre partiti che si
riscontrano in Italia, ma i due ultimi aspettano l'impulso
d'altronde, e son ben rari fra loro gli uomini d'azione, i piú son
dottrinarî; i primi invece vanno fastosi di una schiera nobilissima
di martiri e contano quaranta anni di vita operosissima. Inoltre,
tanto i regî, come abbiamo detto, quanto i federalisti, appartengono
quasi tutti all'Italia boreale o alla Sicilia, gli uni contenti di
un regno, gli altri di una cisalpina, mentre gli unitarî abbracciano
nelle loro mire l'intera penisola, dalle Alpi al Lilibeo, epperò, se
non vogliasi disconoscere il vero, i soli che abbiano un carattere
reciso di partito italiano sono i repubblicani unitarî. Gli
avversarî accusano questo partito di debolezza e discordia, e
correndo dietro una chimera, ma è forza riconoscere che sono i soli
i quali si adoperano a dar corpo a cotesta chimera, senza attendere
che la manna piombi dal cielo.
Dal detto possiamo conchiudere che, quantunque l'energia arricchisce
l'Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa
conta, il che dal volgo è tolto quale disgrazia, fatto studio sulle
diverse opinioni, tre soli partiti abbiamo visto nettamente
coloreggiarsi, de' quali due limitarsi a sperare, un solo operoso.
Senza che, fra queste tre parti, che in apparenza sembrano
escludersi, havvi eziandio un punto di contatto: l'odio ai
stranieri; sentimento ad ogni altro prevalente in un cuore italiano.
E fatta eccezione di alcuni servili, o salariati, o baroni, che
ambiscono d'essere senatori, o strisciare nelle anticamere de' re,
il partito regio in Italia ha un carattere affatto diverso da quello
che hanno i realisti d'oltralpe; non è simpatia per la monarchia, o
per una schiatta, ovvero, come dicono i Francesi, dévouement, che
legali al trono, ma è il bisogno che essi sentono d'un appoggio, per
la poca fiducia che hanno ne' rivolgimenti popoleschi. Del pari, le
opinioni de' repubblicani, meno pochi, avvicinansi assai piú al
dubbio, ovvero ad un'oscura ed incerta percezione di rapporti, che
all'evidenza; son repubblicani perché convinti che i principi non
vogliono né possono volere l'unità e l'indipendenza italiana ma regî
e repubblicani saranno tutti con quell'insegne che prime muoveranno
arditamente e lealmente contro li stranieri. Il modo adunque per
discernere quale partito è il piú forte, non è, in Italia, quello di
numerarlo; l'azione, indubitatamente, farà sparite i partiti, li
raccoglierà sotto la medesima bandiera; ma invece bisogna studiare
quale abbia maggior probabilità d'iniziativa, quale, pei principî
che propugna, potrà solvere piú facilmente i tanti ostacoli che si
presentano.
Nel ragionare della nazionalità abbiamo visto come lo stato presente
d'Europa, le questioni che vi si agitano, l'energia italiana, le
tradizioni municipali, la difficoltà dell'impresa, non rendono
possibile il risorgimento italiano, che da una rivoluzione radicale
e sentita, epperò l'utile delle masse sarà come un torrente che
trarrà seco alla battaglia gl'Italiani d'ogni opinione.
Seguiamo ora il successivo sviluppo di queste opinioni in tutte le
diverse loro fasi, facciamo studio sugli insegnamenti del passato,
onde scorgere ove la forza delle cose, ovvero il fato della nazione,
ci condurrà.
XV. Allorché una forza prepotente opprime un rivolgimento qualunque,
nel cuore de' vinti, privati de' loro beni, sorge, a rattemprare i
mali, una fervida speranza della riscossa, che lo scorrer degli
anni, in luogo di rafforzare, scema e dilegua. Imperocché essendo
allora il disquilibrio dell'utile e delle affezioni private
grandissimo, la natura umana creasi un puntello, la speranza, e
volge tutta la sua operosità alla cosa pubblica, che in que'
fugacissimi momenti reassume eziandio l'utile privato, mentre in
seguito l'imperiosa necessità li separa di nuovo, e l'abitudine,
scemando i mali, ammorza il desiderio della riscossa.
Queste naturali ed universali disposizioni, cessata la repubblica
romana, trovarono in Mazzini chi diede loro forme ed azione. Cosí
surse l'associazione nazionale, poi il comitato nazionale, fatto la
cui importanza lo rendono del dominio storico e meritevole di
riflessione. Epperò, innanzi tutto, ci renderemo esatto conto, e
sottoporremo a severa critica le dottrine che professa Mazzini,
inspiratore di un tal fatto e degli avvenimenti che n'emersero.
Giuseppe Mazzini è una indole nobilissima. I suoi piaceri, i suoi
godimenti si reassumono nel farsi strumento del risorgimento
italiano. Sospingere gli Italiani alla conquista della loro patria
fu il primo forte pensiero che balenò nella sua mente giovanile,
[fu] poi la stella polare della sua vita, e sarà l'ultimo suo voto.
Se ragiona assistito dalla verità, ha logica potentissima: il suo
discorso è colorito e convincente; ma se qualche pregiudizio lo trae
di passo, allora declama, e ripetesi sovente, quasiché delle idee
fisse, de' punti di fede, angustiassero il suo grande ingegno in
picciolissimo giro.
Facile all'amicizia, generoso, inaccessabile all'odio, e coi suoi
nemici personali magnanimo.
La sua temperie non è robusta, ed a niuno meglio che a lui
converrebbero gli agi della vita: nondimeno, niuno piú di lui li
sprezza; per esso la vita materiale non esiste.
Durante la sua laboriosa e tribolata carriera, esposto alle ingiurie
ed alle persecuzioni degli uomini e de' governi, essendo privo
d'appoggio in sulla terra, ha inteso il bisogno di rivolgersi al
cielo, ha ricorso alla religione, e perciò ne' suoi concetti
politici havvi un poco del misticismo. La religione l'ha fatto
propendere un poco verso il principio d'autorità; quindi le accuse
mosse contro di lui, ora di assumere un tuono dittatoriale, ora
profetico, mentre la sua indole lo rende capace della [piú] pacata
discussione e della piú ampia tolleranza. Quindi i suoi difetti, i
suoi errori prendono tutti origine nei suoi sentimenti religiosi; se
Mazzini fosse irreligioso sarebbe l'ideale del cittadino. Su lui il
mondo esteriore non ha potenza di sorta alcuna, mutano i tempi,
cadono e sorgono troni, ognuno in questi mutamenti cerca fortuna, o
salvarsi dalla caduta, egli invece, costante ne' suoi principî,
marcia attraverso le rovine, come attraverso le ricchezze, verso il
fine proposto. Il sentimento interno ha sempre la prevalenza sulle
impressioni esteriori. Parlerò delle sue dottrine, esporrò piú
diffusamente quello di cui tante volte parlammo insieme.
Il fato di una nazione, Mazzini nol cerca ne' rapporti sociali ed
internazionali d'onde scaturiscono le guerre, le conquiste, le
rivoluzioni, ma abbandona la terra e lo cerca nel cielo. La legge,
dice egli, è un'emanazione di dio, che impone di vivere nel vero,
nel reale, nel giusto. Cotesto dovere non e, secondo lui, verso noi
medesimi, ma verso l'umanità. Quindi la vita una missione a
compiere, un continuo sacrificio, che necessariamente deve
aspettarsi un premio o una pena, altrimenti non avrebbe scopo. Ma
ove conducono questi principî?
Questo dovere, questa missione, questo sacrificio, secondo Mazzini,
oggigiorno è disconosciuto. Dal che risulta un fatto che gli è forza
riconoscere: il dispotismo, forza mondana e materiale, ha soffocato
un'idea, una tendenza celeste, che Dio avrebbe dovuto infondere in
tutti i cuori.
Per compiere la rivoluzione bisogna adoperare ogni sforzo onde far
rivivere questo sentimento, questo germe divino, che trovasi in ogni
cuore. Ma se la rivoluzione avvenisse quando esso sarà risorto,
avverrebbe precisamente quando piú non sarebbe necessaria, giacché
se ognuno, trascurando se medesimo, s'interessasse non d'altro che
del bene pubblico, allora, ad onta de' despoti e de' stranieri, la
nazione, pare, dovrebbe essere felicissima; senza che, despoti e
stranieri, uomini anch'essi, e perciò soggetti alla potenza di tale
legge, diverrebbero nostri padri affettuosi, nostri fratelli, e gli
Austriaci, volontariamente, senza bruttarsi le mani di sangue,
andrebbero a compiere, ne' loro paesi, la missione della vita. Tutta
questa dottrina, altro non è che la sognata fratellanza del vangelo.
Mazzini sfugge questa conseguenza: il despotismo, egli dice,
impedisce che questa legge si trasfonda nell'umanità (tanto poco
curasi Dio di propagare le sue leggi), solo pochissimi eletti, i
migliori per senno e per virtú, hanno il privilegio di comprenderla,
e nel tempo stesso il dovere di rovesciare gli ostacoli materiali e
fare abilità ai molti di riconoscere ove si trovi il vero.
Ponghiamo caso che alla voce, all'impulso di pochi, tutti
rispondessero, e la patria fusse conquistata. Cosa ne seguirebbe? Il
passato avendoci insegnato quanto sia facile corrompere gli animi e
cancellare da essi la percezione del vero e del giusto, bisogna che,
in avvenire, s'adoperi ogni mezzo onde evitare, impedire ogni trista
tendenza. D'onde emerge per necessità il governo de' migliori, i
padri della patria, che terranno le anime sotto la loro tutela, che
diranno al cittadino: tu hai un'anima immortale, una missione da
compiere, un vincolo con quanto [ha] vita, un dovere verso tutti, un
diritto all'amore ed all'aiuto di tutti. Chiunque affermasse che
l'anima non è immortale; che non abbiamo missione da compiere, ma un
istinto, che ci sospinge continuamente verso il nostro meglio; che,
verso altrui, non abbiamo né doveri né diritti, ma vincoli di libera
associazione, che il nostro personale vantaggio determina, sarebbe
un eretico, meriterebbe l'ostracismo con onta, ed infamati
dovrebbero essere i nomi di Beccaria, di Filangieri, di Romagnosi.
Conseguente a tali principî, Mazzini attribuisce i mali sotto cui
ora geme la Francia al cattivo apostolato: e perciò l'apostolato non
potrà esser libero, ma bisogna adoperarsi in ogni modo onde l'anima
non venga illaqueata da' sofismi de' materialisti; indice adunque
de' libri proibiti, censura, financo il rogo, per gli ostinati, se
fa bisogno; eterno, inesorabile assurdo in cui cadono coloro i quali
riconoscono come una necessità imporre de' limiti alla libertà.
I libri e le azioni, ripetiamolo, che risultano dalla lettura di
essi, altro non sono che la manifestazione della vita sociale, ne
sono i pensieri e le opere. La tirannide che cerca interdire cotesta
manifestazione onde sostituirsi in sua vece, è naturale che la tema.
Ma riconoscere il diritto e la sovranità della volontà nazionale, e
declamare contro i cattivi libri è un grossolano errore; un popolo
libero che volesse limitare la stampa, sarebbe come un individuo che
per limitare i propri pensieri, le proprie azioni, mutilasse il suo
essere.
L'imperatore delle Russie Alessandro I dichiarò esservi al disopra
di lui il principio della giustizia, ma chi proclamava questo
principio? egli medesimo; chi n'erano i custodi? i suoi satelliti.
Ogni epoca annovera il suo giusto ed il suo vero: di quali, fra'
tanti, parla Mazzini? Riconoscere doveri è, né può negarsi,
ammettere il diritto di limitare la libertà, e questo principio, piú
o meno largamente applicato, è quello su cui si fondano i moderni
governi d'Europa. Voi siete liberi, vi dice la monarchia
costituzionale, fin tanto che la vostra libertà non eccede i limiti
dell'equo e del giusto; il fisco è incaricato di additarvi cotesti
limiti.
Chiunque mi dirà: devi compiere il dovere di conquistarti la patria,
assume su di me un tuono di superiorità e di comando, io nol
patisco, e rispondo: chi sei tu che il dici - Dio lo vuole. - Ed io:
dimostrami prima che esiste Dio, e poi dammi le prove che tu sei
l'interprete della sua volontà, altrimenti, se puoi costringermi con
la forza, non sei che un tiranno, nel caso contrario non posso che
compatirti. Per contro, ogni individuo può farsi propugnatore de'
diritti universali senza arrogarsi autorità e senza intaccare la
libertà di alcuno. L'uomo nasce libero ed indipendente, dunque ha
diritto all'esistenza, diritto di sviluppare ed utilizzare le
proprie facoltà, diritto al pieno godimento del frutto de' suoi
lavori… ecco delle verità che non hanno bisogno d'essere
interpretare e svolte da' migliori per senno e per virtú; chiunque
le propugna, sia egli l'ultimo o il primo per senno, sia egli
cultore della virtú o del vizio, esse non perderanno mai la loro
evidenza, non cesseranno mai di esser verità. Costui potrà
aggiungere: - la tirannide che sostiene i privilegî è quella che vi
rapisce questi diritti; abbattiamola! - ed ognuno, senza fare atto
di ubbidienza, potrà afferrare un fucile e seguirlo.
La società non impone doveri, ma li crea, con promettere solamente
guarentigia de' diritti d'ognuno, il che limita di fatto i diritti
altrui. La dissoluzione della società conducendo per conseguenza
immediata alla perdita di questi diritti, n'emerge, senza aver
bisogno d'apostolato o di educazione, l'impegno, la volontà
d'adoperarsi con ogni possa onde difendere questa società. Ma se
questi diritti si riducono a quelli del proletario, morir di fame ed
essere tratto in prigione, allora la sola forza, favorita
dall'ignoranza, potrà indurre cotesti iloti a difendere quel sistema
e quelle istituzioni che l'opprimono.
Questi diritti sono quelli che mantengono l'equilibrio sociale,
senza esservi bisogno di governo; ma non appena questi diritti
vengono lesi nella benché minima parte, il governo diventa
indispensabile perché sostegno d'usurpazioni e privilegi, non di
leggi eterne e naturali, che reggono da sé.
Tanti fratelli messi sotto la tutela de' migliori, è la società, la
nazione sognata da Mazzini, ovvero l'attuazione del cristianesimo.
Quale teoria ha avuto un cosí lungo apostolato come l'evangelica, ed
in quale epoca si è mai verificato il sogno della fratellanza? I
selvaggi in mortali duelli si disputano il vitto e la donna, si
sbranano l'un l'altro; in essi è la Natura che parla in tutta la sua
purezza, e secondo i religiosi è Dio che manifesta le sue leggi. Le
famiglie combattono fra loro. Dall'unione delle famiglie, prodotta
dal bisogno di difesa, sorgono le città, le nazioni, che si
conquidono, si distruggono, si asserviscono, quasi senza veruna
ragione sufficiente, il piú sovente pel capriccio di un despota. Un
soldato per un magro guadagno, si dà al mestiere di uccisore
d'uomini che non conosce e con cui non ha astio veruno, anzi spesso
vincoli di parentela e di amicizia. Il forte cerca sempre di
opprimere il debole; l'astuto profitta dell'altrui semplicità; il
dotto dell'altrui ignoranza. Non havvi fortuna che non si elevi
sulle altrui ruine. Fratelli contro fratelli, figli contro padre
s'accaneggiano, disputandosi il possesso di ricchezze che hanno
usurpate al povero. Un mercante vedrebbe ad occhio asciutto cadere a
migliaia i suoi simili, piuttosto che ribassare il prezzo di una sua
merce. Insomma, il mondo sempre in possesso de' piú forti e de' piú
astuti è la storia dell'umanità. Finalmente, i primi cristiani, i
piú fanatici adoratori di Cristo, discutevano, nella Tebaide, di
fratellanza e mansuetudine a colpi di pietre e di bastone. E piú
tardi gli ortodossi cattolici ponevano ad effetto il dogma della
fratellanza con ardere vivo chi non voleva dirsi loro fratello.
L'uomo, ben lungi dal propendere a dividere il suo con altri, mai
sempre scontento di quel che ha, desidera ciò ch'altri possiede, di
quinci l'infaticabile operosità. Il coraggio, in qualunque epoca, in
qualunque nazione, dall'uomo timido come dal valoroso,
nell'assassino o nell'eroe, è sempre ammirato, di quinci le ardite
imprese. Son queste le due espressioni che dan norma alla vita
dell'uomo, e sono in contraddizione manifesta col dogma della
fratellanza.
Un uomo, in passando, scorge un moribondo per fame, oggetto che
produce in lui, in ragione della delicatezza di sua fibra, una
sensazione dolorosa; a sfuggirla, soccorre l'infelice. Il domani,
esaurito il magro soccorso, quello muore per fame, e questi che non
è piú sotto l'impressione dolorosa del giorno innanzi, neppur
pensandovi, banchetta lietamente. Un tal fatto, argomento
validissimo contro l'istinto della beneficenza, è tolto dai
propugnatoti di essa, dallo stesso Rousseau, come una dimostrazione
favorevole, tanto scarsi sono gli argomenti che rincalzano la loro
asserzione.
A' Romani ed a' Greci non venne mai in mente dirsi fratelli, e ne
ammiriamo, stupefatti, l'amor di patria, gli atti generosi, il
continuo prevalere dell'utile pubblico sul privato: mentre il mondo
cristiano, che si disse un mondo di fratelli, presentaci il
miserando spettacolo d'una solitudine di voleri e di mire,
scaturigine d'ignobili fazioni e guerre civili atrocissime. Egli è
adunque ben meraviglioso il pretendere rigenerare il mondo,
predicando la fraternità, che dopo diciotto secoli di apostolato è
rimasta infruttuosa.
L'indole umana, le sue propensioni, i suoi istinti sono
inesorabilmente invariabili, e sono le forze di cui il sistema
sociale deve avvalersi per produrre la pubblica felicità, la quale
sarà, necessariamente, nulla, se coteste forze si combattono e si
elidono perché applicate in opposta direzione, e massima se tutte
cospireranno al medesimo scopo. Quindi non è l'uomo che deve
educarsi, ma sono i rapporti sociali che deggiono cangiare affatto e
ciò basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un
popolo d'eroi; amor di patria e fratellanza vi sarà quando l'utile
privato verrà indissolubilmente legato coll'utile pubblico, quando
ognuno adoperandosi pel proprio bene, farà eziandio il bene
dell'universale. Consolantissima verità, che sostituisce al lento,
impossibile, assurdo sistema di educazione, quello prontissimo della
rivoluzione, e che in luogo di escludere, come irriducibili, un
numero considerevole d'individui, e restringere gli eletti a
pochissimi, allarga in vasto campo la nostra coscienza, ed abbraccia
senza eccezione di sorta l'universalità de' cittadini; il traditore,
l'assassino, il ladro… tutti potranno diventare utili al paese
allorché saranno sparite le cagioni del delinquere e l'utile che dal
delitto traevano. Il fine è l'unità d'interesse, la fratellanza; il
mezzo, la riforma completa degli ordini sociali operata con la
forza.
Inoltre, sarà sempre un enigma inesplicabile, come alcuni trovino
nelle pagine del vangelo l'inno delle battaglie; come il vangelo,
ove è scritto: obedite principibus etiam dyscolis, racchiuda massime
favorevoli alla libertà. I stranieri, i satelliti del dispotismo,
sono nostri fratelli, bisogna convincerli, non già ammazzarli: quale
orrore! versare il sangue fraterno!… ma questa è l'eterna
contraddizione del mondo cristiano. I fiorentini dichiarando Cristo
patrono della città ed armandosi contro il principe d'Orange,
mentivano a loro medesimi: lungi da voi que' micidiali brandi,
calpestate i fregi de' vostri cimieri, inginocchiatevi e pregate,
umiliatevi al vostro nemico, il vostro regno è nel cielo, tanto piú
splendido quanto piú umiliati in terra, ecco la dottrina di Cristo.
Voi combattete innalzando il vessillo della croce? voi non siete che
degli ipocriti e de' stolidi che non sanno quel che si fanno. Un
valoroso polacco, durante la rivoluzione di Polonia, fece scrivere
sul vessillo della sua legione: tutti gli uomini sono fratelli; e
questa legione fu il terrore de' fratelli russi. Ebbene metterò de'
guanti, rispose un soldato francese il due decembre ad un popolano
che dicevagli di non bruttarsi le mani di sangue fraterno, meritato
sarcasmo alla stupida ed ipocrita proposta. Allorché il popolo
insorge, i soldati potrebbero fargli il medesimo rimprovero, nulla
giustifica il fratricidio, è a Dio, secondo la vostra dottrina, il
punire i colpevoli. Ma la digressione sulla fratellanza è già lunga
e noiosa, riprendiamo il filo delle idee e continuiamo il
ragionamento sul comitato nazionale.
Tutti coloro che speravano il risorgimento per mezzo delle forze
della nazione e non d'altronde, applaudirono unanimemente
all'installazione del comitato nazionale. Tutti rivolsero lo sguardo
a questo nuovo faro; tutti fidavano nella candida fama degli uomini
che lo componevano, guarentigia solenne della rettitudine di loro
intenzioni. Il comitato non ebbe in suo potere alcun mezzo materiale
per farsi riconoscere, anzi la minaccia di prigionia e d'esilio [vi
era] contro chiunque facessegli adesione, nondimeno le adesioni
furono numerosissime; prova incontrastabile di sua legittimità. Si
confortarono i dubbiosi, si ravvivarono le speranze, e generale era
l'aspettativa. Il comitato esordí col prestito nazionale, e comeché
il risultamento non avesse corrisposto alle speranze, fu un atto
logico e necessario; sarebbe stato follia sperare di piú; ottener
danaro è cosa piú difficile che ottener combattenti; ed in simile
circostanza trattav[asi] di sborsarli correndo rischi gravissimi. La
fama de' membri del comitato prestavasi egregiamente ad ogni
operazione finanziaria, come quella superiore ad ogni villano
attacco che si potesse muovere in materia d'interesse.
Egli è cosa indispensabile, per determinare quale avrebbe dovuto
essere la condotta del comitato nazionale, il renderci conto esatto
dello stato in cui trovavasi il popolo italiano alla caduta di Roma.
E poiché gli individui giudicar non si possono dalla vita monotona
ed abituale a cui le circostanze li costringono, ma bensí da certi
rarissimi momenti ne' quali tutta e liberamente manifestano la forza
di loro temperie, cosí i popoli non dalle leggi, non da' costumi,
non dall'inerzia in cui oppressi trascorrono molti anni prima di
manifestare la nuova vita, ma da' tomulti, da' martirî, da' grandi
misfatti, da' tratti d'eroismo, si giudicano. Epperò senza troppo
distenderci, e sorvolando sugli avvenimenti, prenderemo le mosse
alquanto da lungi.
Le sollevazioni di Masaniello, di Balilla, de' straccioni… avevano,
come dicemmo, annunziato un nuovo popolo italiano sulla scena
politica del mondo, il popolo moderno. A Cosenza si concepirono i
primi forti e liberi pensieri, che poi Bruno, Campanella, Vico
svolsero. Ma questi rapidi slanci furono ben tosto repressi. Le armi
straniere arrestarono l'azione nel popolo ed i gesuiti spensero ogni
scintilla di libertà che manifestavasi nel pensiero. L'Italia
palpitò, ma i suoi palpiti furono repressi dalla barbera Europa e
l'Italia, ritornata cadavere, tale si fu sino all'89.
Poco prima della rivoluzione francese, i monarchi, non ancora
atterriti dallo spettro della rivoluzione, scossero tanto torpore.
Tanucci, Leopoldo, l'imperatore [Giuseppe II] si diedero a
migliorare la condizione de' popoli, e sursero scrittori che d'un
balzo superarono gli oltremontani, ma il ruggito del popolo fecesi
sentire, e le riforme ristagnarono di botto. I principi ripresero le
antiche armi: la tirannide, avendo a maestra la paura, mostrossi piú
atroce che mai.
La guerra tenne dietro alla rivoluzione; i principi italiani,
essendosi adoperati a tutto potere a spegnere ne' popoli ogni
sentimento nazionale, non potettero opporre al nemico che schiere di
servi vestiti da soldati, che vennero sbaragliati al primo urto de'
liberi Francesi. Vinti, atterriti, si videro costretti ad invocare
quella passione medesima che prima avevano combattuto; i loro editti
poco differiscono da quelli de' rivoluzionarî moderni, ed il popolo
rispose al generoso invito; a Domodossola, a Pavia, a Lugo, a
Verona, a Napoli, in Calabria, i stranieri cadevano sotto il brando
italiano; tutte le valli dell'Alpi furono intronate dal fragore
delle armi.
Profondiamo un istante la nostra riflessione, e vedremo una
riproduzione de' fatti del mille. In quell'epoca il papa scosse il
popolo dal letargo, gli disse di essere italiano e l'oppose
all'imperatore. Il popolo, che per legge di natura, fa sempre
precedere i fatti al pensiero, senza riflettere, combatté lo
straniero; nel modo stesso adoperò nel '96. Al mille sursero in
Italia due partiti, guelfi e ghibellini, questi, che avevano
privilegî da conservare e difendere dall'avidità della teocrazia,
parteggiavano per l'imperatore; quelli, che non avevano nulla da
conservare, lo combattevano perché straniero; similmente nel '96, i
pensatori, gli amanti di libertà, erano coi Francesi, togliendoli
quai difensori di essa, il popolo, invece, che altro non vedeva in
essi che invasori, osteggiavali. Al mille appena i popoli
cominciarono ad avvertire ciò che avevano solamente inteso,
combatterono nobili e prelati, vollero governarsi da sé, e dopo
mezzo secolo, al cominciare dell'XI, il popolo era risorto. Dal '96
noi scorgeremo nel popolo italiano un continuo progresso e lo stesso
cangiamento, la stessa unificazione di partiti avvenuta sul mille.
Nel 1805, ne' quattro anni seguenti, l'agitazione contro i stranieri
manifestossi in diversi luoghi d'Italia, nel Polesine, nel basso Po,
nelle Calabrie, a Parma, nel Tirolo, e questa volta il partito
liberale, che sostiene i stranieri, piú non esiste, ne sono
parteggiani non altri che gli impiegati. In tale epoca,
gradatamente, la contro-rivoluzione comincia ad assumere i caratteri
di rivoluzione; il '14 la trasformazione è completa. Il popolo
cominciava a comprendere il bene della libertà, ed apprezzava le
pretese dei liberali, questi, d'altra parte, s'erano convinti che i
Francesi con pompose e mendaci parole non portavano che tirannide, e
si erano ravvicinati al popolo. Murat e Beauharnais venivano
assaliti dagli Italiani al nome di libertà. Gli Inglesi, i fautori
del dispotismo e della schiavitú d'Italia, per acquistare le
simpatie de' popoli della penisola, sbarcando a Livorno, scrivevano
sulle loro bandiere libertà ed indipendenza italiana. Al '14 gli
sforzi degli Italiani cominciarono ad avere unità, e la storia del
nostro risorgimento comincia: lotta continua fra la giovane Italia e
l'Italia ufficiale; come quella che ebbe luogo dal 1056 all'XI, fra
i Comuni ed i feudatarî ed ecclesiastici. I popoli ne' loro
risorgimenti seguono le stesse evoluzioni.
Ugo Foscolo, prima che Bonaparte distruggesse Venezia, giura odio a'
stranieri, poi, rivolgendo un mesto sguardo all'Italia, e
scorgendola priva di forze e di sentimento, dispera, ed accetta
l'invasione come una crudele necessità; quindi la combatte con la
parola, cospira contro di essa, e vorrebbe trarne profitto per la
sua patria. La sua vita, le sue opere, le sue speranze, reassumono
la vita, le opere, le speranze del popolo italiano dal '96 al '14,
di cui Ugo Foscolo n'è la personificazione.
Qui cade in acconcio una degressione onde coglier cagione a
combattere gl'infrancesati, e distruggere il turpe vezzo
d'idoleggiare i stranieri, ed esaltarli in nostro paragone non solo,
ma dichiararli nostri benefattori. Dalle continue irruzioni che han
fatto i Francesi in Italia, sin dall'epoca di Carlo VIII, traggono
alcuni argomento a dimostrare la loro influenza, e, trascinati
dall'amor di un sistema, veggono sempre in Italia partiti che,
secondo le varie epoche, si agitano a favore o contro cotesti
stranieri. Una tale asserzione è assurda: la storia, durante tre
secoli di guerra, ci mostra l'Italia cadavere, essa non era
rappresentata che da varie corti codarde e dissolute, in Italia non
v'erano che individui, popolo e partiti piú non esistevano.
All'epoca della rivoluzione francese s'iniziò il nostro
risorgimento, non già perché di Francia si trasfondessero in noi
idee di libertà, leggi, istituzioni, come alcuni asseriscono;
coteste intrusioni non furono che dannose, il regno di Napoli, ove
fu maggiore, quali vantaggi ne trasse? nessuno; perdette invece le
franchigie municipali di cui sempre aveva goduto. Il fragore di
quella rivoluzione serví a risvegliarci dal nostro letargo e non
altro, fu lo scroscio di fulmine del Vico. I Francesi altro non
furono in Italia che predoni e tiranni, gli uomini che governarono
l'Italia durante l'occupazione francese furono quali il Foscolo li
definisce: «antichi schiavi, novelli tiranni… La regia autorità era
in essi senza il coraggio e senza il genio d'esercitarla, vili cogli
audaci, audaci coi vili…» I Francesi in quell'epoca ci disarmarono,
perché temevano di noi; quindi ci dissero codardi, perché cosí
disarmati non combattemmo i loro nemici.
Ripetiamo, senza mai credere d'averlo detto abbastanza, quale è la
vantata superiorità della Francia su noi? forse perché havvi fra
essa piú vasta erudizione? No, un uomo potrà essere eruditissimo,
dottissimo, non perciò essere grande, esser uomo modello. La vita
della Francia, dal risorgimento alla rivoluzione dell'89, altro non
è che un continuo strisciare dietro lo splendore e le dissolutezze
di una corte. L'89, una fazione la sospinse sul sentiero della
gloria e della grandezza, ma il popolo stesso la rovesciò, e volle
farsi sgabello a nuovo trono. Al 1830, padrone un'altra volta delle
proprie sorti, fu suo primo pensiero crearsi un padrone. Il '48, per
la terza volta nel torno brevissimo di mezzo secolo, la Francia è
arbitra de' suoi destini, quali sono le sue gesta? conserva nella
sua costituzione tutto l'ordito d'un governo assoluto ed affida il
supremo maestrato ad un ambizioso e goffo pretendente, e suo primo
pensiero è quello d'assassinare l'Italia. Finalmente l'esercito,
dopo poche ore di strage proclama l'Impero, e la Francia applaude,
la Francia affida i suoi figli ed i suoi tesori con codarda
rassegnazione al piú ridicolo ed incapace reggimento che mai abbia
usurpato trono. Non è nostro proposito ragionare dell'erudizione
francese, a noi basta d'aver dimostrato che non abbiamo bisogno di
cercare oltremonti le leggi magistrali della Natura, in Italia
proclamate prima che altrove. Ma concediamo sotto tale riguardo
qualsiasi superiorità alla Francia, essa rappresenterà un dotto la
cui dottrina è al servigio del successo, de' fatti compiuti e di chi
meglio paga. Il dottrinario che trovasi bene in tutte le epoche, e
sotto qualunque reggimento smaltisce con guadagno la propria
dottrina, è precisamente la personificazione della Francia. L'Italia
invece è un colosso, cinto da catene, circondato d'armati pronti a
soffocare in lui ogni palpito di vita; se il gigante svincola uno
de' suoi membri sbaraglia gli oppressori, ma immediatamente tutta
l'Europa corregli addosso per opprimerlo. Facciamo fine alla
digressione, che i gallomani han provocata, e rispettiamo tutti i
popoli, ma senza ammettere, né popoli modelli, né popoli arbitri
delle sorti d'Europa. Il carattere con cui si annunzia la futura
rivoluzione nol comporta. La prima nazione che senza curarsi
dell'avvenire abbatterà tutto l'ordine sociale che l'opprime,
estirpando fin l'ultime sue barbe, sarà la testa di colonna
dell'umanità, e questo popolo potrà essere l'italiano, come il
greco, come il francese, come il tedesco; e questo popolo non sarà
il piú dotto, ma il meno degradato, e quello che maggiormente sente
l'oppressione presente.
Le sanguinose e tristi esperienze che gli Italiani fecero dal '96 al
'14 racchiudono gravissimi ed importanti ammaestramenti: i liberali
sperarono ne' Francesi, e n'ebbero invece disarmo, taglie di guerra
e schiavitú; sperarono bene dalla restaurazione, ma l'Austria
mancando alle promesse, le loro condizioni peggiorarono. I stranieri
ci chiamano codardi se fidando in loro ci sottoponiamo al loro
giogo, ribelli se insorgiamo, quindi da essi non bisogna sperare che
disprezzo o martirio: combatterli e vincerli è la sola risorsa che
ci resta.
Dopo questi fatali disinganni l'Italia comincia a vivere nelle
società segrete, che tutte vanno ad incorporarsi in quella
famosissima de' carbonari, che, dal '19 al '21, fu oltre ogni
credere potente. Il '20 il movimento si manifestò nel regno di
Napoli, in vaste proporzioni, poi in Piemonte; venne oppresso dalle
bajonette straniere. Le file de' settarî, quantunque decimate dalla
paurosa tirannide, conservarono ordini e forza. I Capozzoli,
generosi, che dal '20, piuttosto che inchinarsi alla ferocia del
governo, battevano la campagna, si fecero iniziatori di una sommossa
che, non secondata, e quasi preveduta e desiderata dal governo, fu
soffocata nel sangue di numerosi cittadini e [sotto] le ruine di
Bosco. Al '31 Ciro Menotti muore da eroe a Modena, Bologna
sollevasi. Tutti gli occhi si rivolgono alla Francia, essa proclama
il non intervento, nuova menzogna per tradire i popoli. Gli Italiani
ebbero la stoltezza di credervi ed osservarono ridicolmente il
patto. I bolognesi non soccorsero perciò i modenesi, e non accolsero
Zucchi, incalzato da forze straniere, che disarmato.
Gli Austriaci, ad onta de' Francesi, intervennero: piú tardi
intervennero eziandio i Francesi in aiuto de' primi, e, secondo loro
costume, intervennero mascherandosi con bugiarde proteste.
Questi fatti furono nuovi ammaestramenti, le società segrete sono
mezzi poco efficaci, esse, avvolte nel mistero, tolgono a modello il
dispotismo: come questo ad un cenno muove i suoi battaglioni,
aggregato di armati uniti per disciplina, per utile, e materialmente
concentrati; cosí quelle vorrebbero disporre de' loro ascritti,
separati non solo materialmente, ma eziandio dalle circostanze e
dall'utile di ognuno. Vane speranze, son sempre pochi che muovono,
la nazione rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta
trionfano, allora hanno nel loro seno il germe della dissoluzione,
la gerarchia della setta, e le sue esigenze si sostituiscono al
governo, in cui prevalgono le cupe e torte abitudini de'
cospiratori. Il cospiratore vien costretto a simulare, e la
simulazione al governo trasformasi in moderazione e diplomatici
raggiri; il cospiratore è avvezzo ad infiltrare gradatamente le sue
idee quasi mascherandole, mentre coloro che sono chiamati a reggere
una rivoluzione debbono, a scesa di testa, apertamente proclamare i
principî e dai primi istanti afferrare le ultime conseguenze,
perocché ivi solo si riscontra l'utile che può convincere le
moltitudini.
La Giovine Italia surse come conseguenza di tali ammaestramenti. Non
fida piú ne' governi stranieri ma ne' popoli, non piú nelle società
segrete ma nelle masse popolari, ad esse, e non a' capi, vuole
affidare il risultamento della rivoluzione, respinge perciò ogni
idea di dittatura, e sminuzza il popolo in bande. Mazzini non tace,
non asconde i suoi principî, come i carbonari: Mazzini, da
rivoluzionario, tuona, e fa noto all'Europa de' popoli le miserie
degl'Italiani, i loro diritti, le loro speranze. Le cospirazioni
cangiano carattere, i vendicatori del popolo, gli amici del popolo
non hanno il mistero e le discipline de' carbonari, sono piú
adattate all'epoca, ma piú esposte agli attacchi de' governi. La
cospirazione del '33 è soffocata al nascere, la spedizione di
Savoia, come doveva, abortí. Il '41 l'Aquila e Civita di Penne
rimangono isolate. Il '43, il movimento doveva essere vasto, non
scoppiò, i Bandiera, se non estranei alla cospirazione, lo erano
almeno per quella regione ove sbarcarono, furono le vittime.
Attraverso a tali esperienze, e sacrificando numerosi e nobili
martiri, l'Italia compiva la sua propaganda, di fatti non di parole.
Dietro i fatti, sempre tardi, sempre incerti sorgono i scrittori. I
primi scrittori cominciarono per rinnegare le nostre tradizioni:
Mario Pagano aveva già dimostrato come arti, scienze, industria,
tutto emerge dalla vita politica de' popoli. Romagnosi aveva
raccolto tutto lo scibile umano nella filosofia civile, la scienza
del cittadino, ed essi, invece, si dissero letterati e si
dichiararono estranei alla politica. «Voi siete, - diceva loro
Mazzini, - prosatori, verseggiatori, pedanti, non mai cittadini».
Epperò con Mazzini e Guerrazzi comincia la letteratura italiana ad
assumere un nuovo carattere, ma i loro scritti in Italia sono
soppressi sul nascere e la voce d'Italia non può sentirsi che fuori
d'Italia. Allora i scrittori, per ottenere il favore alle loro
dottrine, si rivolsero a' principi, sperando eziandio d'aver un
nuovo e saldo appoggio alle loro speranze. Eglino reassumevano le
passate esperienze, dichiarando nostri nemici i stranieri, impotenti
le cospirazioni; di quinci le dottrine di Gioberti, di Balbo,
l'Italia deve far da sé, uniamoci tutti, popoli e principi, eziandio
i gesuiti, scriveva il Balbo.
I rivolgimenti del '48 ebbero precisamente questo carattere; tutto
il popolo che si agita, i principi sono travolti nel turbine, ed al
termine di questa nuova fase succede una nuova disfatta ed un nuovo
ammaestramento. Popolo e principi hanno mire opposte: quindi
diffidenza, dubbia fede, spergiuro, incapacità ne' capi, e, dopo
tanti sforzi, il popolo altro non guadagnò che persecuzioni ed
efferata tirannide.
A Roma o Venezia il popolo combatte solo, quasi svincolato dalle
pastoie domestiche, ivi combattesi con tutta l'anima; gregarî e capi
non vogliono che la vittoria, hanno unità di mire, unità
d'interessi; la disfatta è egualmente ruinosa per tutti, non vi sono
cagioni estranee alla causa italiana che distornano ed ammorzano
l'impeto de' combattenti, non v'è nulla da conservare. Nondimeno
Roma e Venezia cadono, e perché? perché angustiarono i loro sguardi
fra le mura di una città, si combatté per Roma e per Venezia, non
già per l'Italia. Come in Ugo Foscolo si personifica la vita del
popolo italiano dal '96 al '14, in Mazzini si personifica la stessa
vita sino al '48. Mazzini esordí per esser carbonaro, poi osteggiò
questa setta, fondò la Giovine Italia, vinto in ogni tentativo, il
'48, egli, repubblicano, fu costretto, come tutti i repubblicani, a
rassegnarsi all'opinione universale. A Roma fu troppo romano.
In questi quarant'anni di storia rinviensi l'avvenire d'Italia. E se
ogni Italiano appuntasse il suo intelletto sulle gloriose pagine di
un tale libro, troverebbe in esso la soluzione di ogni dubbio che
adombra la sua mente. Dalla vita de' nostri martiri, dalla
narrazione di tutti gli sforzi fatti dagl'Italiani, scaturisce un
corpo di dottrine, d'onde dovrebbero prendere le mosse i
ragionamenti, e trarsi le conchiusioni che i dottrinanti, con poco
senno e poco decoro, cercano altronde. In questo periodo di nostra
storia, Mazzini, che vi occupa un posto glorioso, avrebbe dovuto
trarre le norme per la condotta a tenersi dal comitato nazionale,
ivi avrebbe trovato scritto a caratteri indelebili: i stranieri e
principi [sono] nostri nemici; le sette impotenti; il municipalismo
ruinoso. Non eravi che un altro passo a fare, ed egli lo avrebbe
potuto studiando sui passati avvenimenti, senza farsi trarre di
passo da ciò che detestava presso gli oltremontani.
La prima esaltazione rivoluzionaria creò que' battaglioni che
valorosamente difesero la romana repubblica, quella ammorzata,
quantunque tutti applaudissero al governo repubblicano, esso non
trovava soldati. Il volgo, in un tal fatto, altro non scorge che un
mal volere, una ripugnanza alla milizia, mentre esso emerge da piú
lontane fonti, da piú importanti cagioni, è la quistione economica
che sotto varî aspetti padroneggia l'Europa e reclama la sua
supremazia; il popolo non ottenne dalla repubblica vantaggi tali da
impugnare le armi a sua difesa, in esso prevaleva l'odio al passato
piú che l'amore al presente. Mazzini, oltre ciò, avrebbe dovuto
ridursi alla memoria la lettera che Sismondi scriveva alla Giovine
Italia: «Finalmente la stessa libertà, - scriveva l'insigne
pubblicista, - offre il piú tremendo di tutti i problemi, quello
della protezione del povero e dell'ignorante… affiderete voi la
causa del proletario agli uomini che ne dividono le privazioni? essi
non hanno forza. L'affiderete quindi ai ricchi? essi saranno i primi
a tradire il popolo». Questo problema Mazzini avrebbe dovuto farne
il cardine principale de' suoi sforzi, della sua propaganda,
svolgerlo, ventilarlo, l'adesione di molti sarebbe mancata al
Comitato, ma le sue file in luogo di diradarsi, sarebbero andate
sempre ingrossandosi dell'immensa moltitudine che soffre e che sola
combatte.
Mazzini avrebbe dovuto essere quale fu allorché iniziata la Giovine
Italia: combattere i governi, le sette, ogni specie di dittatura;
richiedere tutto alle masse popolari ed aggiungervi una franca
propaganda de' diritti del povero, una guerra accanita alle
usurpazioni del ricco. Ma egli non ha presentito allora la morte
della borghesia, la supremazia della plebe: si diresse alla prima,
questa gli è venuta meno di fatto, ed egli, che credevasi isolato,
ha visto sorgere spontanea la plebe e sostituirsi a quella.
Il mandato del comitato nazionale era rivoluzionario; quindi era suo
principale carattere quello di escludere la guerra regia, guerra
antirivoluzionaria, e già dichiarata dagli avvenimenti del '48 e '49
impotente e volta solo a spegnere l'esaltazione nazionale. Il
comitato sorgeva per sostituirsi a quel trono, verso cui fugacemente
s'erano rivolte le speranze d Italia; accordarsi con esso era
rinnegare la propria legittimità; era assurdo, era ridicolo. Il
governo sardo, volendo operare, non facevagli mestieri dell'adesione
d'un comitato d'esuli residenti a Londra. Se gl'Italiani volevano
seguire le sorti del Piemonte, non avrebbero certamente domandato,
per farlo, l'adesione del comitato; e non volendolo, quell'adesione
valeva poco. Il comitato, in luogo di farsi un organo pel cui mezzo
la pubblica opinione poteva manifestarsi ed operare, pretese darle
forma e carattere, se ne credette l'arbitro, e parlava come un
governo costituito che offriva patti al governo sabaudo. Un tale
errore fu di breve durata: il comitato, dopo poco tempo, si
disdisse.
Unificare le volontà sgomberando i dubbî, avrebbe dovuto essere
l'opera principale del comitato; era seconda quella di aiutare con
mezzi materiali l'azione ovunque spontaneamente sorgesse. Il primo
lavoro avrebbe dovuto esser quello di distruggere l'antico errore;
la rivoluzione non era, e forse non è, compresa nel suo vero senso.
Il prestigio di un nome superava quello delle idee; ed il nome di
Mazzini aveva tanta autorità, da aggiungere grandissima forza alla
verità per se medesima potente. «Italiani, - avrebbe dovuto
esclamare, - in Roma, io e tutti coloro che mi circondarono, non
fummo rivoluzionarî, non fummo all'altezza delle circostanze, e per
legge fatale nol potevamo essere; l'Italia doveva subire
l'esperienza del '48. Noi avremmo dovuto con un decreto rovesciare
l'antico edifizio, proclamare i diritti che ad ognuno le leggi di
Natura accordano; lasciare ai cittadini libera la scelta de'
magistrati, all'esercito la scelta de' generali e degli uffiziali di
ogni grado: chiamare tutta la nazione alle armi, bandire la guerra,
intraprenderla con audacia; cosí operando, se il popolo secondavaci,
l'Italia era salva; nel caso contrario, saremmo eziandio caduti, ma
con la coscienza di aver fatto il proprio dovere. Noi invece,
calcammo le orme de' passati governi, attaccati, abbiamo resistito,
ecco il nostro merito. Facciamo studio su questi errori, per non
incorrerci nell'avvenire».
Ben lungi dall'esserne oscurata, sarebbesi accresciuta in immenso la
fama di Mazzini; invece la repubblica romana venne dichiarata
repubblica modello.
Mazzini, se erra, conserva sempre la coscienza la piú pura, e le
intenzioni le piú rette. Egli non tradisce mai i suoi principî, sono
i suoi principî che qualche volta tradiscono lui. Egli propende a
credere che gl'individui non rappresentano le nazioni, ma sono le
nazioni che seguono l'impulso di pochi; e cotesto è gravissimo
errore. Mi spiego piú chiaramente.
L'individuo non potendo avere idee, che non siano state generare in
lui dalle impressioni che riceve dal mondo esteriore, non può mai
svelare verità, il cui germe non si trovi già abbastanza sviluppato
nella società. La fama immediata è retaggio di colui che afferra il
concetto collettivo e lo svolge all'occhio dell'universale; o di
quello che nel campo dell'azione non trae la nazione dietro di sé
(cosa impossibile), ma la regge in quel cammino che la nazione
medesima presceglie. La boria dell'uomo l'induce a credersi creatore
di que' concetti che egli ha semplicemente svolto, inspiratore di
quelle imprese che, dall'universale volontà sospinto, produsse a
fine; e mentre l'uomo cosí favorevolmente giudica se stesso, ogni
altro, non trovando in sé o in altri tali concetti, conferma un tale
giudizio, e di quinci la personificazione de' principî, la
deificazione degli uomini, mentre la società nell'onorare gli eroi,
altro non fa che onorare le sue piú eccelse opere; è un artista che
ammira il proprio lavoro. Quando la fama di uno scrittore è
universale, e finanche il volgo comprende le sue idee, esso sarà
onoratissimo, produrrà alla patria beni incommensurabili, se poi
questa fama restringesi nel picciol mondo de' dotti, allora verrà
dimenticato, non frutterà alcun bene, e tutto al piú lo
rammenteranno ed onoreranno i posteri, e pure il secondo ha merito
molto maggiore che il primo. Questi ha schiuso la via ad un germe
quasi impercettibile ed ha dato un frutto tanto precoce che la
società non vuol riconoscere come suo, quello ha trovato la pianta
già rigogliosa e grande, ed il frutto già maturo, ha durata poca
fatica a coglierlo. Secondo la teoria dei deificatori d'uomini, se
Romolo, Cesare, Carlo Magno, Napoleone… non fossero nati, l'umanità
non avrebbe storia. Cosí l'uomo per non riconoscere la potenza
collettiva, cade nel puerile.
Gli eroi sono effetti, non causa degli avvenimenti sociali; i loro
caratteri sono il complesso de' vizî, delle virtú, delle tendenze
dell'epoca; la società può riconoscersi in essi, come un uomo
nell'imagine che ai restringe nel breve cerchio dello specchio di
una picciol lente. Un popolo che vi addita come suoi duci i
Scipioni, gli Attilî, i Cincinnati… è un popolo libero, la gloria e
la grandezza della patria ne sono le passioni predominanti… Se, per
contro, sono i Cesari che primeggiano, potete inferirne che la
nazione inchinasi allo splendore guerresco ed alla forza; se
volontariamente lasciasi reggere da uomini inetti e corrotti, la
nazione declina. Facciamo fine alla digressione, per ritornare al
comitato.
Il concetto, non solo il finale, ma le prime linee dell'avvenire,
mancavano in Italia; le questioni di unità e federazioni pendevano
incerte, né sono ancora risolte: per unità s'intende la francese;
per federazione quella adottata nell'Elvezia o in America.
L'opinione prevalente, senza dubbio, è l'unitaria, ma i fatti danno
ragione a' federalisti; nei passati rivolgimenti, fu impossibile
tradurre in atto il concetto: Roma, Firenze, Genova, Venezia,
Palermo furono libere, e ad onta de' sforzi fatti dal partito
unitario, non si unirono. Il modo come operare ne' primi istanti
d'un'insurrezione incertissimo, gli Italiani, vittoriosi in una
città, non sanno come governarsi, non sanno quale sia il prossimo
avvenimento che li attende, di quinci la deificazione de' nomi:
insorgiamo, concediamo al tale tutti i poteri, ed egli penserà al
resto. Strana e ruinosa aberrazione è questa, rinunziasi alla
libertà con tanti sacrifizî acquistata, s'ammorza l'esaltazione; e
noi che manchiamo di un prossimo e splendido passato, epperò
manchiamo d'uomini, fondiamo sugli uomini il nostro avvenire!!!…
questi dubbî, questi errori, in luogo di venir rimossi con un esteso
lavoro di propaganda, il comitato nazionale li confermò.
La propaganda rivoluzionaria in Italia, pel numero de' nemici, per
le varie divisioni politiche, per le sentite e numerose tradizioni
municipali, è lavoro difficoltosissimo, che solo la potente voce
della nazione può compiere. E questa voce solenne viene espressa da
ogni italiano, che parla, scrive, opera come meglio crede, in un
campo libero e non già angustiato o dalle tiranniche esigenze de'
governi o delle sette. Dalle discordi voci, dalle tante idee che si
manifestano emerge il concetto collettivo, che unifica le tante
volontà, latente sino all'istante dell'azione, i fatti che si
svolgono lo manifestano. Tanto il federalista, quanto l'unitario che
propugnano le loro dottrine, hanno uguale diritto alla gratitudine
della patria, perché entrambi, in manifestando i pregî ed i difetti
de' due sistemi, lumeggiano l'argomento, ed entrambi sono sotto
l'ampio vessillo della rivoluzione che il comitato avrebbe dovuto
inalberare.
Egli, elevandosi al disopra di tutte le opinioni, avrebbe dovuto
essere sua missione il facilitare cotesta propaganda, che sorge
spontanea fra i cittadini, facendo abilità ad ogni scritto
rivoluzionario, senza prediligere una dottrina piuttosto che
un'altra, di circolare nell'interno. Il comitato non avrebbe dovuto
credersi un governo, aggiunto a' tanti altri che opprimono l'Italia,
ma un mezzo come eludere la vigilanza di essi e scrollarne
l'autorità; non crear ceppi ma rompere gli esistenti; non chieder
silenzio, ma libertà di dire, non fare né dire, ma lasciar fare e
lasciar dire; non governare ma rivoluzionare. Il comitato volle
imperare; la sua formula fu tacete e fate; avrebbe dovuto essere:
FATE e dite come meglio credete.
Le città d'Italia, varie d'indole e di tradizione, e variamente
oppresse, non possono astringersi ad unico organamento, né da un sol
centro dipendere, ma solo riceverne aiuto. Il popolo che in varie
foggie vede sorgere i patiboli e cadere le vittime, è solo giudice
del come i cittadini debbano tra loro intendersi ed a quali uomini
debbano fidarsi. Il comitato volle tutto accentrare nelle sue mani,
e che tutti muovessero ad un suo cenno.
L'intolleranza, nelle opinioni, crebbe a tale che il comitato
toscano escluse pubblicamente dalle sue file coloro i quali non
erano unitarî, dicendosi abbastanza forte, e mostrandosi quale
fazione dominante in Italia; ingenua confessione della piú assoluta
mancanza d'idee pratiche.
Fu concetto de' carbonari, ed allora era idea comunemente accetta,
liberata l'Italia, conservare, per un certo tempo, una dittatura
educatrice; ora le opinioni son cangiate, non si fa guerra ai
governanti ma al governo, al principio d'autorità: ed intanto
Mazzini, il fondatore della Giovine Italia, che avea combattuta la
dittatura in quell'epoca, se ne fece, al giorno d'oggi, il
propugnatore. Dittatura, dice il Mazzini, che preparerebbe:
l'educazione iniziatrice; con la stampa ordinata ad un fine; con
l'associazione pubblica concentrata ad una sola bandiera; con
l'esercizio delle facoltà elettorali fin dove è possibile ai militi.
E non è forse questo il principio su [cui] fondasi il dispotismo,
che non dice: voi dovete essere schiavi, ma ammette la necessità di
ordinare e limitate la libertà? Non anarchia, continua Mazzini, non
tentativo di sovvertimento delle condizioni sociali, predicazioni
inconsiderate di sistemi stranieri, esclusivi, imperfetti,
tirannici. Quindi la censura, la persecuzione, lo spionaggio per
conoscere se alcuno secretamente si facesse l'apostolo di tali
sistemi, erano le conseguenze immediate di coteste massime. Egli è
certo che scrivendo queste parole soggiacque ad un momento
d'aberrazione. E chi sei tu, può rispondergli ogni Italiano, che
pretendi proibirmi di propugnare tali sistemi? D'onde trai il
convincimento che fosse questa la volontà della nazione? se questi
sistemi son contrarî al voto pubblico, essi saranno respinti, io,
italiano quanto te, opino diversamente, e quale altro giudice se non
l'universale volontà ed il fatto, può decidere la nostra contesa? Tu
dici che la nazione in ceppi non può esprimere la sua volontà, ed
ammesso questo, come puoi asserire che il tuo e non già il mio sia
il concetto nazionale? E poniamo caso che l'Italia risorga, che,
trascurando la sustanza delle cose ed attenendosi alle forme, ti
conceda assoluti poteri, e col potere la forza, tu mi costringerai a
tacere, ma non perciò avrai ragione, ne avrai tanto quanto ne ha
Bonaparte contro i socialisti di Francia. È vano il dire, la nazione
mi ha concessa la forza: tutti i tiranni possono dirlo, allorché non
reggono in virtú di forze straniere. Furono francesi quelli che
compirono il colpo di Stato, francesi quelli che votarono, e se la
Francia non volesse davvero, potrebbe reggere Bonaparte sul trono?
Nel potere a te, o a chiunque altro concesso, io non vedrei, se
questo potere restringe la mia libertà individuale, che il
momentaneo trionfo d'una tirannica fazione. Come adunque decidere la
quistione? Se dal primo istante che in un angolo qualunque della
terra italiana cesserà il presente stato di cose, avremo tutti piena
libertà di dire e nessuno la forza per porre altrui il bavaglio, e
la nazione accetterà le tue e non già le mie idee, allora io ti darò
ragione. Ma finché tal prova non sia fatta, chiunque vorrà imporre
una sua idea, dicendo: «cosí vuole il paese», se ha forza materiale
non è che un tiranno. La tirannide, la semi-tirannide, o qualsiasi
specie di governo, esprimendo sempre la prepotenza di una parte piú
o meno numerosa della Nazione, deve, per sua natura, temere la
manifestazione dell'universale volontà, essendo dessa che l'osteggia
e tenta indefessa di sostituire la sovranità del tutto
all'usurpazione della parte. Ma bandire la sovranità del popolo e
limitare la manifestazione del pensiero, è un chiedere la luce con
favorire le tenebre. Le opere ed i pensieri di una società non
possono mai minacciare l'esistenza di essa società, ma tendono
sempre d'assettarla ne' suoi incastri, e contrastano a tutto ciò che
vuole spostarnela e mantenerla in un equilibrio che non gli è
naturale.
Conchiudiamo, al comitato nazionale è avvenuto quello che ad ogni
governo, a cui non sia tronca affatto la possibilità di usurpare,
avviene. Per istinto invariabile dell'umana natura, gli uomini che
lo compongono cercano farsi centro d'attrazione di quanto succede, e
sempre, comecché spesso con rettissimi fini, pretendono che tutto
pieghi alla loro volontà; eglino praticano e non dicono ciò che il
XIV Luigi diceva e praticava: «lo Stato sono io». Il comitato fece
solitudine intorno a sé, allontanandosene tutti coloro che non
volevano abdicare alla ragione e credevano assurdo e ruinoso errore
il rinunziare alla libertà per conquistarla. La stampa che
rappresentava il partito, in luogo di richiamarlo con severa critica
sul diritto sentiero, sacro debito d'Italiano, credette migliore
tattica adularlo. Disconobbe cosí la propria missione, e prese norma
da' scrittori ministeriali, i quali, in luogo di correggere, lodano
a cielo gli atti del governo. I pochi utili atti, che un governo o
un centro qualunque può compiere, portano scritta in fronte la loro
apologia; sono innumerevoli i dannosi che la stampa debba
energicamente attaccare. Ogni governo, ogni centro, a cui per
necessità viene concesso un potere superiore a quello che per loro
medesimi avrebbero gli individui che lo compongono, è un'ulcera che
tende a spandersi sulla società se la pubblica opinione non ne
arresta il progresso.
Intanto se, scorgendo gli Italiani uniti a rovesciare la monarchia,
adottarne i principî, le forme, i costumi, bisognava conchiudere che
la rivoluzione non era compresa; nella guisa stessa, scorgendo come
il comitato cessò, perché successivamente gli vennero meno tutti gli
appoggi, se ne inferisce che vi è stato progresso significante nelle
idee. Come il cristianesmo è sceso nel sepolcro co' panni da
filosofo di cui l'han vestito Gioberti e Rosmini… del pari il
comitato nazionale, speriamolo almeno, è stata l'ultima prova del
principio monarchico, che, trasformandosi in mille forme,
mascherandosi con varî nomi, si è spento con quello di comitato
rivoluzionario.
Pongo fine a questo capitolo consacrandone a Mazzini gli ultimi
versi. Ho fatto tacere ogni simpatia personale, e com'era mio
debito, l'ho severamente giudicato. Ora mi sarà caro il dire, che il
suo nome, ad onta della mia censura, avrà sempre meritate e
splendide pagine nella nostra storia. Niuno, durante l'intera vita,
ha operato con fini piú retti, niuno ha rivolto, con maggior
costanza, tutti i pensieri e tutte le opere ad un solo fine, cosí
grandioso come è quello del risorgimento italiano, una tale idea ha
inspirato la sua giovinezza e ne ha assorbito ogni affetto. Nella
storia antica e moderna non si riscontra un uomo che abbia
sacrificato tutto l'utile privato ad un utile pubblico sperato.
Cotesto tipo di un uomo, di cui tutti i pensieri e gli affetti si
reassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria, è frutto di
terra italiana, è una gloria di piú da aggiungersi alle tante che
noi contiamo.
XVI. Il comitato italiano cessato, gl'Italiani ondeggiarono
nell'incertezza: era un sistema crollato perché venuto meno il punto
d'appoggio. Surse in alcuni l'idea di ricostituire un nuovo centro,
fortuna che non si rinvennero uomini che avessero raccolti i
suffragî universali, altrimenti sarebbesi ricaduti nel fatale errore
per cui tutte le rivoluzioni riescono infruttuose: cangiare gli
uomini ritenendo i principî.
Il piú grande amatore di libertà, non appena assume il potere, se
non è uomo dappoco, vuole che tutto pieghi alla sua volontà;
epperciò il nuovo centro, come il caduto, avrebbe personificato in
se medesimo la patria, dichiarando ambiziosi e corrotti coloro che
si fossero opposti alle sue mire. Il comitato aveva fatto un gran
bene, aveva incarnato il convincimento negli Italiani, di sperare la
loro salvezza dalla cospirazione e dalle proprie forze; aveva poi
prodotto un gran male, quello di dare alle cospirazioni un carattere
passivo, che, invece di operare da sé, aspettavano sempre e
l'imbeccata e gli ordini d'altronde. Per determinare il modo come
governarsi in tale bisogna, è d'uopo esaminare come operano queste
forze latenti che si nascondono nel seno di un popolo, e che in
alcuni giorni fatali si manifestano terribili.
Le nazioni funzionano come l'individuo, che prima avverte appena,
poi con turbamento, quindi riflette, in ultimo opera. Ma sovente il
dolore troppo vivo precipita l'uomo dal turbamento all'azione senza
dargli campo a riflettere, mentre altre volte, i stimoli essendo
leggieri, ne prolungano oltre il bisogno, la riflessione. Nella
guisa medesima, in una nazione ove godesi una certa libertà di
pensiero, ed ove i mali sono leggieri, si svolgono fra un importuno
cicalío molte dottrine; per contro, ove forti sono i dolori ed
interdetto il pensiero, i fatti abbondano e quasi sempre precedono
le parole. Da ciò s'inferisce quanto sia assurdo il voler decidere
se una nazione debba ragionare o combattere; è lo stesso che
pretendere di voler regolare secondo la propria volontà il moto
degli elementi.
Le idee, i ragionamenti, le dottrine politiche-sociali, non sono che
lo studio dei mali che opprimono la società e la ricerca dei modi
come lenire questi mali. Secondo le circostanze e l'ingegno
dell'autore, piú o meno inclinato all'astrazione, le dottrine si
allontanano o si avvicinano alla pratica. Vico dai mali che
opprimevano la sua patria fu mosso a cercarvi un rimedio, e non
potendo appigliarsi agli immediati e pratici perché l'epoca glielo
avrebbe interdetto, e la natura del suo ingegno nol comportava, e'
si elevò ad altissime regioni e l'animo suo acchetossi, trovando che
una legge e non il caso reggeva i destini dell'umanità; legge
ch'egli la nominò provvidenza, e determinò [cosí] la periferia di
quel circolo su cui le nazioni dovevano compiere il loro giro.
Mentre Vico rivela un fatto che riconosceranno sempre con maggiore
evidenza le future generazioni, vi sarà altri d'animo rimesso e
d'ingegno pedestre, che, stimolato dai medesimi moventi, dopo lunghi
ragionamenti, chiederà il cangiamento d'un ministro o qualche
insignificante concessione, fra questi due estremi trovasi tutta la
diversa gradazione dei scrittori. Or dunque, scrittori le cui idee
potranno giovare alla costituzione sociale non potranno esistere
senza mali sociali. Oltrecché fra placidi affetti e deboli passioni
è assai raro che si formino, in tale materia, grandiose idee ed
ardite verità, l'operosità umana manca di stimoli sufficienti;
durante la tempesta, e non già durante la calma, il pilota manifesta
la sua abilità. Quei scrittori medesimi che ora imprecano contro le
insurrezioni, senza le tempeste del '48 e '49 sarebbero un nulla,
sarebbero rimasti ai Prolegomeni di Gioberti. Epperò, ammettere il
facile e lento progresso fra il continuo prosperare della società, è
un pretendere l'effetto senza la causa.
Come i mali sociali fanno sorgere i scrittori, i medesimi mali
producono le sette, le congiure, le insurrezioni; la gradazione che
scorgesi fra i scrittori, si osserva eziandio fra i congiuratori
stimolati dai medesimi moventi: havvi congiura per conquistare una
patria libera, l'altra per l'abolizione di una tassa. Cosí procedono
le nazioni col pensiero e con le opere, e siccome l'uomo compie i
piú grandi fatti quando esegue energicamente ciò che maturamente ha
pensato, cosí le nazioni sono mature, toccano quasi la meta alla
quale aspirano, allorché i scrittori ed i congiuratori tendono al
medesimo fine. Quale è in questo svolgersi delle umane vicende
l'opera ed il dovere del rivoluzionario? Con la penna trattare tutte
le quistioni che conducono al fine bramato; con la congiura far
cospirare l'azione al medesimo fine; e cercare di legare
strettamente il pensiero e l'azione. Dire fucili e non libri è un
errore, come il dire libri e non fucili.
Abbiamo già detto come una sequela non interrotta di fatti, dal '14
al giorno d'oggi, sono le varie esperienze attraverso le quali ha
proceduto il popolo italiano. Da queste esperienze, e non già dai
libri, risulta la coscienza nazionale. Ma questa coscienza ove si
manifesta, nei scrittori o nei congiuratori? indubbiamente nei
secondi. Cotesta coscienza, cotesto sentimento è vago nella
generalità, in pochissimi è reciso, esso per conseguenza è soggetto
a vacillare sotto l'impressione dei fatti; gli avvenimenti che si
succedono, mostrano l'avvenire sotto tanti diversi aspetti sempre
erronei; come i gruppi dei monti, i quali sembrano cangiare la loro
dispositura al cangiare del sito dell'osservatore; quindi quel
mutare continuo delle opinioni. Una nota diplomatica, le parole di
un ministro, la morte di un principe possono dar cagione ad una
quantità di opuscoli; sono essi l'espressione della coscienza
nazionale? No. Ma mutano la coscienza nazionale piú o meno
modificata da tale avvenimento, secondo la gagliardia d'animo di chi
scrive. La cospirazione per contro non prende le mosse da tali
avvenimenti, ma molto piú da lungi, le sue aspirazioni e le sue
forze non le cerca in ciò che mostrasi sulla società, ma in quei
sentimenti, in quelle aspirazioni occulte non solo, ma osteggiate;
inoltre la congiura richiede fermezza di proposito e gagliardia
d'animo piú dello scrivere, quindi tutte le circostanze concorrono a
mantenere salda cotesta coscienza nazionale piú nel cospiratore che
nell'autore, epperò le aspirazioni di quello sono prove piú evidenti
che le ragioni di questo.
Quanti libri, discordi fra loro, sonosi stampati in Italia dal '49
al giorno d'oggi? Chi vuole l'Italia una; chi il regno boreale; chi
due Italie; chi spera tutto dalla Francia; chi tutto dal Piemonte;
quale sarebbe adunque la coscienza nazionale? impossibile a dirlo.
Ma osservate le cospirazioni, le congiure, i martiri tutti
indistintamente, ed in tutte le epoche hanno accennato al medesimo
scopo: Italia una e libera; e quindi è forza inferirne che, ad onta
dei colpi di Stato, dei protocolli, dei memorandum, la coscienza
nazionale è rimasta salda. Sarebbe stoltezza attribuire al solo
Mazzini, ispiratore della maggior parte di questi tentativi, tale
fermezza di proposito. Mazzini non avrebbe potuto trovare mai tante
braccia pronte ai suoi voleri; egli, cessato il comitato, ritornò ad
esser semplice cittadino, e, come tale, fece molto piú bene di
quello che non aveva fatto come membro del comitato; la sua
operosità, la sua fortuna, il suo credito personale fu messo al
servizio di coloro che volevano tentare di salvare la patria; forse
avrebbe potuto accettare con piú riserva, o rifiutare certi progetti
che non promettevano riuscita, ma da questo picciolissimo torto
all'accusa stolta di mandare la gente al macello havvi un abisso.
Egli avrebbe dovuto, a parer mio, scegliere una sola regione
d'Italia, ed evidentemente il mezzogiorno, e su quella accentrare
tutti i mezzi di cui disponeva. Invece preferí farsi centro
universale a cui ricorrevano tutti coloro che volevano trarre in
atto un pensiero generoso, cosí governandosi, forse, avrà ritardato
una rivoluzione; e se avesse negato agli operosi i suoi soccorsi,
cosa non facile per chi sente sviscerato amore di patria, avrebbe
risparmiato qualche vittima, ma non perciò il bene che egli ha fatto
può disconoscersi.
Poniamo il caso che non fosse esistito il comitato nazionale, né le
sue vicende, né Mazzini, o altri come lui che avesse continuamente
fomentato le cospirazioni e le congiure; e che in Italia, secondo
avrebbero voluto i dottrinanti, niuno avesse pensato a muovere, chi
parlerebbe d'Italia? Forse l'Austria, rassicurata dello spirito
pacifico delle sue popolazioni, avrebbe imposto al Piemonte delle
restrizioni alle sue libertà; ed il Piemonte stesso, in una
tranquillità generale, non avrebbe inteso il bisogno di mostrarsi
ostile all'Austria. Su che si fondavano le ragioni addotte al
congresso di Parigi, per chiedere riforme? sugli articoli di
giornali e sui libri stampati in Italia, o sulle vittime, sui
condannati, sui processi continui, che sono poi l'effetto delle
congiure, di quella resistenza organizzata in Italia? Ed a quale
partito è dovuta la presente agitazione in Inghilterra in favore
d'Italia? Ai dottrinanti o ai congiuratori? Ripetiamolo, sono i
fatti e non le dottrine che manifestano la vita della nazione.
Una nazione, ripeteranno i dottrinanti, che insorge senza un
concetto politico reciso, ricade nella schiavitú. D'accordo in
questo. Ma questo concetto politico non si forma né diventa popolare
coi libri, ma coi fatti; i rivolgimenti del '48 falliti sono quelli
che hanno convinto gli Italiani di non aver fede nei principi,
perché casta la quale ha degl'interessi affatto staccati dal popolo;
e, come nel '48 coloro i quali dimostravano questa verità non erano
ascoltati, anzi maledetti, cosí in un nuovo rivolgimento rimarranno
delusi coloro che vorrebbero rifare il '48. Il popolo progredisce
nelle sue idee, ma i soli fatti lo balzano da un concetto in un
altro.
Se dai libri dipendesse il progresso di una nazione, i scrittori
sarebbero gli arbitri delle sorti dell'umanità. Invece sono gli
uomini d'azione che imperano; e tutti gli usurpatori, da Cesare a
Bonaparte, han sempre trovato un grandissimo appoggio nella
coscienza nazionale, di cui quasi potevano dirsi i rappresentanti
secondo i mezzi piú o meno violenti, piú o meno obliqui con cui
hanno raggiunto il fine.
Quale scrittore in buona fede può affermare che la plebe, che non sa
leggere, educasi coi libri? Non parliamo di coloro che sotto il
dispotismo pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi
esserne degno, che vale il dire ad un uomo legato: prima di
scioglierti è d'uopo che impari a correre; o altri che, vedendo un
popolo corrotto, pretendono renderlo morale, non già sbarbicando
ogni germe di corruzione, ma proponendo un reggimento fondato
precisamente su di un sistema corruttore; ma di quelli i quali
credono possibile, a furia di scritti, spandere le idee
rivoluzionarie.
La plebe non è dorata di quelle eroiche qualità che alcuni gli
attribuiscono, la plebe sovente, traviata dai pregiudizî, ed
angustiata la mente dall'ignoranza, ondeggia fra la temerità e
l'abbiettezza. Stimolata dai materiali bisogni, la loro mente non
può elevarsi a pensieri sublimi, ma se tra loro uno giunge ad
appuntare l'intelletto sulle quistioni politiche che agitano il
paese, quasi per istinto ragiona con maggiore esattezza che il
migliore fra i scrittori; imperocché tutte le impressioni che il
mondo ufficiale, che l'ordinamento sociale produce sulle altre
classi della società, non han presa, non hanno ascendente sull'uomo
del popolo; egli non è stimolato che da' mali, quindi, svincolato da
tutti quei legami che lo incatenano allo stato presente delle cose;
oggi non vede che male; ragionando, riconosce senza fatica dove è il
bene. Ma coloro i quali non sentono il bisogno di migliorare, ed
anzi temono che una scossa improvvisa li balzi fuori da quella
nicchia ove godono, se non altro, l'inerzia, amano ragionare
dell'avvenire, ma vorrebbero placidamente raggiungerlo, non
rischiare per esso se non altro il placido presente; di quinci
l'innumerevole schiera dei conservatori, degli eroi da poltrona
flagellati dal Giusti.
Tutti gli sforzi che vuol sospingere un popolo al risorgimento
debbono consistere a svolgere e rendere popolati le idee,
adattandole alla loro intelligenza e traendone quelle conseguenze
che debbono condurre ad un utile materiale immediato, onde siano
sempre fomite maggiore alle passioni che debbono, essenzialmente,
esistere nel popolo. Il rivoluzionario dev'essere apostolo e
cospiratore.
«La passione, - scrive Beccaria, - è un'impressione sempre costante
della sensibilità nostra, tutta rivolta ad un medesimo oggetto; essa
è un desiderio di ottenere o di fuggire qualche cosa che sempre si
riproduce, ed è sempre riprodotta nella nostra mente quasi ad ogni
circostanza». Quindi perché un desiderio si trasformi in passione,
fa d'uopo che vi sia mancanza e percezione della cosa desiderata, il
che troveremo verificarsi nel minuto popolo, se ci facciamo a
riflettere sul suo stato. La mancanza è la miseria in cui esso geme,
una vita piú agiata è la cosa desiderata e percepita; e siccome la
mancanza del necessario è continua, continuo eziandio è il dolore ed
il desiderio del benessere venendo perciò riprodotto ad ogni istante
di sua vita; le passioni esistono e non resta che giovarsene
eccitandole e dirigendole ad un giusto fine. L'impossibilità di
conquistare il desiderato benessere le ammorza, la mancanza d'un
obbietto determinato le svia dal diritto sentiero, e perciò [quelli
de] il popolo, o adagiandosi ne' difetti si rassegnano, oppure con
la forza e con la frode tentano rapire ad altri quello che essi
agognano e corrono cercando l'agiatezza, dall'ignoranza sospinti, al
patibolo. Scuotiamo adunque gli addormentati ed ai sviati mostriamo
il cammino. Se il despotismo promettegli come premio di loro
rassegnazione beni celesti, il rivoluzionario, con la spada della
vendetta e la bilancia della giustizia, dovrà promettergli beni
terreni ed immediati, additandogli il modo come conquistarli.
Esploriamo ogni sua piaga, richiamiamo su di essa la sua attenzione,
ed additiamo un solo mezzo come rimedio, la conquista della patria,
ma non già di un pomposo nome e di vani diritti, ma la conquista del
suolo della nazione e di quanti prodotti vi esistono. Ognuno diventi
un Socrate, in piazza, ne' trivii, al deschetto del ciabattino, al
pancone del falegname, si faccia ad interrogare quelle rozze menti,
e le conduca passo per passo alla scoverta della verità. Io sono
simile a mia madre, diceva Socrate, figlio di una levatrice, non
creo nulla, ma aiuto gli altri a produrre. È questo il solo mezzo di
rischiarare, in parte, la mente del popolo, di educarlo, e non già
tenendolo a forza nelle scuole, o stampando libri che esso non
legge. E questo mezzo medesimo di propaganda volgare, ed adatto alla
sua intelligenza, e che trae argomento dai suoi piú pressanti
bisogni, neppur è bastante a conseguire lo scopo desiderato.
La plebe non si lascia convincere che da' fatti, ma la propaganda di
cui discorremmo elabora, fra un numero significante di giovani, la
conoscenza de' diritti che ad ogni uomo accorda la Natura; e cotesti
giovani, appena il popolo, sotto la sferza del dolore, si precipita
nel moto, e dubbioso non sa ove dirigere gli attacchi e come
colorire i desiderî, facendosi tutti oratori di circostanza
dureranno pochissima fatica a far loro comprendere quello che in un
secolo di calma ed in mille volumi non avrebbero mai appreso da'
dottrinarî. Non già la profonda dottrina richiedesi in cotesti
oratori, ma forza di carattere che non li faccia retrocedere in
faccia alle conseguenze ignote de' principî da essi propugnati; guai
se essi si accostano alla spregevole schiera de' cosiddetti
moderati, che si atteggiano da rivoluzionarî, da riformatori, da
amici de' popoli, perché si fanno a sostenere alcune franchigie che
servono a riempire le loro casse e soddisfare la loro bassa e
puerile vanità. Il rivoluzionario di buona fede sospinge lo sguardo
sulle moltitudini, e non mira che al trionfo della vera democrazia,
discendere alla benché minima transazione è un rinnegare la
rivoluzione; come la minuta polve che il turbo solleva, o poggiasi
sulla corona de' re e sulle eccelse torri, oppure ricade sotto i
piedi de' passanti, cosí il minuto popolo o acquista pieni ed interi
i suoi diritti, o ritorna turba di vilissimi servi derisi con
pomposi nomi. Quando non mirasi al trionfo d'una setta o di una
classe di cittadini, il mezzo termine, qualunque caso sia, tronca i
nervi della rivoluzione e l'uccide.
Finalmente a' spiriti rimessi e timidi, a cui è spavento l'assoluta
libertà, e chiedono programmi e norme, risponderemo che il programma
già esiste. Siete voi rivoluzionari? mirate al trionfo della vera
democrazia? in tal caso per voi non può esservene altro che gli
aforismi di cui ragionammo nel terzo capitolo. Se pretendete
limitarne, nella benché minima parte, il significato, cesserete
d'essere rivoluzionarî, non sarete che opportunisti o faziosi.
XVII. Fatto studio sul modo come la nazione elabora le idee ed opera
onde prorompere all'azione, è mestieri segnarne, supposto iniziato
il moto, le prime orme. I principî da cui bisogna prender norma, son
que' medesimi accettati da' rivoluzionarî, quindi ognuno altro non
dovrà fare che mostrarsi consentaneo a se medesimo, e respingere
qualunque misura, comunque temporanea, che li leda nella benché
minima parte. Da tale base prenderemo le mosse, e ci faremo a
distendere un tale argomento.
La piú importante quistione a risolversi, è il determinare il potere
che dovrà reggere quella parte d'Italia che prima sarà sgombera da'
nemici, e quindi man mano l'Italia tutta sino al termine della
guerra.
La sovranità del popolo, che tutti bandiscono, a cui tutti aspirano,
è, nel governo, la sostituzione del concetto collettivo
all'individuale. Il concetto collettivo emerge dallo stato di
progresso della nazione, costituito da' svariatissimi rapporti
sociali. Chi parlasse di libertà a gente che avesse servo il cuore,
non sarebbe compreso, i suoi sforzi tornerebbero vani; come a gente
di spiriti liberi farebbe schifo il linguaggio di uno schiavo. Il
concetto della nazione è fatale, esso è il solo giusto ed il solo
possibile, esso sarà indubitamente, l'arbitro delle nostre sorti,
lasciamo adunque che si manifesti liberamente; il pretendere di
mutarlo è vano. Diremo solo che un popolo, il quale per esser libero
vuol esser dominato, o erra o non è degno di libertà, e tanto
nell'uno quanto nell'altro caso non sarà mai libero, e piú che ogni
altro popolo l'italiano, perché maggiori ostacoli si frappongono al
suo risorgimento, e per superarli gli fa d'uopo libertà maggiore.
La dittatura deve esser potente, se non è tale non è dittatura.
Essendo scopo di un tal maestrato il far prevalere la propria
volontà a quella dell'intera nazione, bisogna che i capi
dell'esercito e tutti i pubblici funzionarî siano di sua scelta; gli
è mestieri d'una polizia onde spiare i passi ed i pensieri de'
cospiratori, de' ribelli, immancabili, perocché essi sono alla
dittatura come l'ombra ai corpi; e dovendo rivolgere in suo favore
l'opinione pubblica, deve, per conseguenza, spiare i pensieri di
ognuno; ed infine dovrà possedere a sua tutela una potente forza
materiale. Un tale governo sarà divenuto ancora piú solido per le
ottenute vittorie; e quando l'epoca della sua missione sarà compita,
chi potrà imporgli di cedere il posto alla costituente? e cosí la
libertà conquistata a prezzo di tante vittime, di tanti sacrifizî,
sarà in balía di uno o piú individui, dalla cui buona fede dipenderà
la sorte della nazione.
Ma chi ignora quanto sia facile che nella mente de' dittatori sorga
l'idea che essi siano necessari all'Italia, che abbiano una missione
da compiere? Se tale idea diventa sentimento, eglino trucideranno e
si lasceranno trucidare prima di abbandonare il seggio dittatoriale.
L'amore stesso del paese, e la natura umana generano un tal
sentimento, ognuno credendo le proprie idee le migliori, crederà
fare il bene della patria costringendola ad accettarle. Chiunque è
al potere (esclusi que' tiranni che per salvezza personale cercano
tutto colpire perché di tutto temono) crede, in ogni suo atto, fare
cosa utile o almeno necessaria al paese. Nel 1494 i fiorentini
cacciarono i principi, e per porre rimedio a' tanti mali da cui
erano gravati, confidarono pieni poteri a coloro che credevano atti
a governarli, ma ad onta del continuo cangiar di governanti e di
scegliere coloro i quali con maggior veemenza declamavano contro
cotesti mali, andarono sempre da male in peggio, di quinci l'adagio
italiano: costoro hanno un'anima in piazza ed un'altra in palazzo. E
pure, il torto non era di coloro che erano assunti al potere, un
uomo non può cangiare mai totalmente i rapporti stabiliti dal lungo
lavoro de' secoli, solo una rivoluzione può farlo: i Fiorentini
avevano nelle loro mani il modo di sciogliere il problema,
dichiarandosi e rendendosi di fatto liberi ed uguali, la nazione
poteva solo far ciò e non mai un individuo; i mali scaturivano da un
sol fatto, pochi straordinariamente ricchi, moltissimi mendichi, né
vi erano governanti che avrebbero potuto far sparire tale
mostruosità.
Ogni cittadino ha il diritto di proporre leggi e riforme, ma
chiunque - abbiate fede in me, affidatemi il potere, ed io vi
renderò liberi e felici -, costui non merita neanche di essere
ascoltato. Libertà ed uguaglianza sono i cardini su cui deve
poggiare l'umana felicità, tutte le leggi che favoriscono questi
principî ottime, quelle che tendono a limitarle pessime; la fede
negli individui spalanca alla nazione l'abisso, imperocché la fede
senza convincimento turba l'uguaglianza.
«L'autorità libera nel potere, limitata nel tempo, - scrive il
Machiavelli, - è pericolosissima, perocché nell'uomo nasce brama di
perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi non essendo dati
dalla legge a quel fine al quale egli l'indirizza, debbono per
necessità diventar tirannici». Ammettiamo che in Italia vi siano
uomini di una tempera diversa che tutti gli altri, e che, debellati
i nemici, educati tutti noi a libertà, eglino ritornino, all'epoca
stabilita, a confondersi nelle file del popolo; l'orditura del loro
governo, l'incastellamento del governo dittatoriale, il principio
che l'informa, l'ubbidienza; gli interessi creati da questo governo,
non potranno certamente sparire; quindi vi sarà sempre la dittatura.
Cangeranno i nomi, le forme, ma non già la sustanza delle cose. Il
popolo continuerà ad ubbidire, i pubblici funzionarî a comandare, lo
spirito della nazione sarà monarchico, ed ogni governo che gli
succederà, eziandio non volendo comandare (e chi non vuole!),
comanderà come quelli comandavano. Delle due cose l'una, o la
dittatura non giungerà a comprimere ed aggiogare gli spiriti
nazionali ed in tal caso riesce inutile, o vi riescirà, ed allora,
per rilevarli, fa d'uopo d'una seconda rivoluzione. Dopo lunghissimi
anni di sforzi, di sangue sparso, di patimenti dorati onde esaltare
lo spirito nazionale, noi medesimi, mentre ci affatichiamo a ciò,
andiamo in traccia del mezzo come comprimerlo. Oh nullità dell'umana
ragione!… Terminata la guerra sotto il reggimento dittatoriale, ci
troveremmo una monarchia senza re, ed i re facilmente si trovano.
Guai quando non si confermano da' primi momenti le conquiste del
popolo!
Fino ad ora abbiamo ragionato, ed abbiamo ammessa possibile la
dittatura civile ma essa non può distinguersi dalla militare. Le
forze armate della nazione saranno, oppur no, sotto la sua immediata
giurisdizione? Se vi saranno la dittatura sarà militare di fatto; se
non vi saranno non esisterà dittatura. Ma ammettiamo eziandio
cotesta anomalía, vi sarà dittatura di uomini non militari. La loro
sorte è irrevocabilmente decisa, eglino verranno cacciati di seggio
col piatto della sciabola dal vincitore delle prime battaglie. Quei
giovanotti medesimi, che ora parteggiano da fanatici per la
dittatura, allora saranno gl'istrumenti che la cangeranno. La gloria
militare ecclissa qualunque altra, rapisce l'animo de' guerrieri in
favore di colui, dal cui braccio, dalla cui mente riconoscono
l'inebbriante piacere della vittoria, quindi il generale disporrà
de' soldati. Intanto, questo generale che periglia in campo, e
credesi giustamente lo strumento di salvezza di sua patria, con
riluttanza riceverà ordini da un governo civile; egli crederà, e non
a torto, che durante la guerra da cui la nazione spera salute, sia
piú giusto, piú logico, piú utile, che un guerriero abbia questo
assoluto potere, e non mancherà di ghermirlo, eziandio con la forza.
Non senza ragione i principi cercano fra i piú fidi servitori i capi
dell'esercito, si circondano di prestigio, si incalzano col diritto
divino, si dichiarano guerrieri essi medesimi, eziandio senza
esserlo.
I convenzionali francesi, uomini al certo di somma energia, caddero
inesorabilmente sotto la spada di Napoleone; vissero otto anni, e
vissero a prezzo di moltissimo sangue, imperocché, richiedendo la
Francia quattordici eserciti, potettero contrapporre gli uni agli
altri i varî generali; ma non appena la riputazione di uno elevossi
su gli altri, quest'uno ghermí il potere. In Italia richiedesi un
solo esercito, epperò dopo la prima battaglia vinta, il generale non
avrà rivali. Nel '48 in Ungheria la dittatura finí per passare nelle
mani di Görgey. La Repubblica francese del '48 creò una presidenza
civile, ed essa ben presto si è trasformata in dittatura militare.
Pare impossibile come l'amor proprio faccia disconoscere le verità
piú evidenti, i fatti piú noti. È un assioma, è un fatto evidente,
che ripetesi tuttogiorno, e può dirsi esistere nell'ordine naturale
delle cose, che la forza militare s'impadronirà sempre della
dittatura se essa esiste. Con facilità ed indifferenza cangiasi di
padrone, anzi natura del popolo è, se lo accostumasi ad ubbidire, di
scegliere colui che piú imperiosamente comanda, e tutto quello che
vien creato dalla forza, presto o tardi in potere della forza
ritorna. Per contro, se da' primi istanti cominciasi ad assaporare
la libertà, niuno soffrirà che altri venga a rapircela; e quanto è
naturale e facile il sostituirsi in luogo d'un altro, per tanto è
difficile cangiare le istituzioni ed un reggimento libero
trasformarlo in dittatoriale.
Risuona nella bocca di molti il nome di Washington quale argomento
che dimostri l'utilità della dittatura, la possibilità d'evitarne i
perigli, ma un tal fatto, che verrebbe a rincalzare le nostre
asserzioni imperocché sarebbe stata una dittatura militare, non ha
mai esistito, e chi il crede ignora affatto quell'interessante
storia. Le leggi, le istituzioni da cui venivano rette le colonie
inglesi in America, erano liberissime, quasi come lo sono al
presente, eziandio prima della guerra. In ogni Stato i pubblici
funzionarî erano eletti dal popolo, le leggi, le tasse, decretate
dalle assemblee, liberissima la stampa, garentita la libertà
individuale. Scacciati i governatori che dall'Inghilterra venivano
inviati in ogni Stato, le colonie furono di fatto liberissime senza
aver bisogno di mutare la costituzione, o di far nuove leggi. Un
congresso assunse il potere supremo, non di far leggi, non di
educare, non di limitare i diritti de' cittadini, ma incaricato solo
di riunire i sforzi dei vari Stati, richiedendo ad ognuno uomini e
danaro per osteggiare il nemico comune.
Ogni Stato, con riprovevole costume ebbe le sue milizie; eravi poi
un esercito comune a tutti, e qualche volta due, dipendenti dal
congresso: di questi due eserciti, un solo, il maggiore, fu
capitanato da Washington, ma egli non ebbe mai ingerenza alcuna
nelle faccende civili, ed il suo potere, come semplice generale, fu
inferiore a quello che concedesi comunemente ai condottieri di
eserciti, la sua opinione, eziandio ne' disegni di guerra, doveva
sottostare a quella della maggioranza de' generali.
In un momento assai difficile il congresso gli conferí sei mesi di
dittatura, ma il suo potere in altro non consisteva che eseguire gli
arrolamenti, provvedere l'esercito nel modo il piú spedito
possibile, e senza dirigersi al congresso, scorsi i sei mesi, i suoi
poteri furono di nuovo limitati. Solamente la sua opinione ne'
disegni di guerra fu dichiarata prevalente, e cosí corressero un
grave errore. Washington non fu mai dittatore nel vero senso in cui
s'interpreta questa parola. Egli, per carpire in America un potere
dittatoriale, non bastava che si fosse sostituito al congresso, ma
sarebbe stato costretto a debellare ad uno ad uno i diversi Stati e
cangiarne le istituzioni. Washington salvò l'America, non già per
gli estesi poteri a lui accordati, ma pel suo gran carattere
mostrato come generale. Egli (concedasi a un tale eroe una breve
digressione) rimase saldo durante le avversità e le difficili
congiunture in cui mettevalo la dissoluzione del suo esercito. Egli
fu gran generale, e la sua condotta, forse, fu superiore a quella di
Fabio Massimo. Questi ebbe forze sempre superiori al nemico, e
comandava a' Romani, per indole e tradizioni guerrieri per
eccellenza; quello comandò esercito sempre minore del nemico, e
composto di gente raccogliticcia a cui mancavano tradizioni ed
abitudini militari. Fabio non impedí le scorrerie del nemico,
Washington, senza combattere, interdisse tutte le operazioni agli
Inglesi, ed in ultimo, ghermita l'occasione, e col semplice soccorso
della flotta francese, distrusse un esercito nemico e pose fine alla
guerra.
La Svizzera, le Fiandre, l'America, la Francia, la Grecia han
compiuto memorabili rivoluzioni; martiri, eroi, battaglie,
combattimenti, ostinate difese di città, nobili sacrifizî, nulla ad
esse è mancato, e le gesta delle due ultime nazioni sono, è cosa
innegabile, piú brillanti, gli eroi piú sublimi, e maggiore lo
sviluppo delle passioni; nondimeno Grecia e Francia sono schiave, le
altre libere, d'onde questa differenza? Le prime non dovettero fare
altro che rovesciare il giogo che interdiceva lo sviluppo delle loro
libere istituzioni comunali, non concessero mai ad alcuno il potere
di comandare a bacchetta, e nol potevano concedere senza ledere le
libere leggi che si trovavano in vigore, e perciò il dispotismo non
trovò terreno da gittar le sue radici. Per contro, tutte le nuove
costituzioni francesi, non hanno distrutta ma riformata l'antica, la
quale è pura emanazione della tirannide, e corrivi i francesi,
perché d'indole servili, a concedere estesi poteri, a crearsi le
pouvoir fort, com'essi dicono, ad onta delle goffe e stolide
complicazioni aggiunte alla macchina governativa per garantirsi,
essi sono stati sempre schiavi, sempre tiranneggiati, prima della
rivoluzione, durante la rivoluzione, e dopo la rivoluzione. La
Grecia ebbe tutto a creare, ed in luogo di abbandonarsi liberamente
alle proprie ispirazioni, prese norma da' Stati che si dicevano
civilizzati, ritornò serva. In Italia, le istituzioni in vigore sono
tali, tali le abitudini de' pubblici funzionarî, i quali si credono
i padroni non già i servitori del popolo, che se concederemo dieci
gradi di potere ad un governo, esso, indubitatamente, n'usurperà
altri dieci. Guai a noi, se ci faremo a ritoccare e correggere
l'antica legislazione, a conservare le vecchie basi, la vecchia
orditura, noi non sortiremo dalla schiavitú, ma stringeremo,
complicheremo le nostre catene. Gl'Italiani debbono spianare affatto
il vecchio edifizio, e lasciare che i rapporti fra i cittadini ne'
Comuni, e quelli de' Comuni fra loro, vadano creandosi da sé, non
assegnando loro altra norma che leggi di natura ed il triste
passato. La Nazione essa medesima prenderà l'equilibrio sul suo vero
centro di gravità. Per condurre la guerra basta un centro, come
diremo, ove, facendo capo i mezzi che la nazione vorrà impiegarvi,
verranno diretti contro il nemico.
Nell'antica Roma il potere dittatoriale non poneva in nessun rischio
la libertà: il paese era già costituito, le leggi quali si
convenivano ad un popolo libero; e queste leggi tacevano pel breve
tempo che durava la dittatura, quindi riprendevano vigore. Eravi,
inoltre, un potente patriziato, quasi tutti già generali di
eserciti, guarentigia bastante contro ogni usurpazione. Né la
dittatura doveva dar leggi o educare un popolo, essa era dittatura
militare e non civile, e fu creata dai patrizî onde contrapporla al
potere tribunizio. Propugnare in Italia una dittatura educatrice, ed
educatrice a libertà, è tale enigma, è tale frase che altro non
racchiude che una manifesta contraddizione.
Dimostrato come la dittatura altro non sia che una contraddizione
con se medesimo per un popolo che aspiri a libertà, come sia
impotente a produrre il bene, e scaturigine d'ogni male; come
nasconda in se medesima grandissimi perigli, ora ci faremo a
dimostrarla impotente affatto a dirigere la guerra.
L'Italia potrà vincere solo a patto, il dice Mazzini, che la lotta
sia lotta di giganti; abbiamo adunque bisogno di capi, i quali
suppliscano con l'ingegno e con l'energia al difetto del materiale,
alla propria inesperienza ed a quella delle soldatesche: di capi, i
quali non si credono impacciati, ma sanno giovarsi delle passioni
che bollono nel popolo. Tali capi, ora che rivoluzione non v'è, non
esistono, ma non mancheranno certamente fra i venticinque milioni
d'Italiani. Quale stoltezza cercarli prima? I generali son figli,
non padri della rivoluzione. Ma come sperare che sorgessero cotesti
eroi, coteste folgori, se la dittatura verrà ben tosto a calmare la
tempesta, ad ammorzare col suo soffio tiepido le passioni? Gli eroi
non escono né da' guardinfanti delle corti né dalla camera d'un
dittatore, ma dal fermento delle passioni popolari. Se tutto dovrà
piegarsi al volere d'un uomo, le forti passioni sono impossibili, ed
impossibili, per conseguenza, gli eroi.
Oltrecché, i dittatori che verranno sostituiti alla nazione, come
conosceranno le numerose capacità che l'Italia nasconde dalle Alpi
al Lilibeo? La loro scelta dovrà raggirarsi fra l'angusto campo de'
loro aderenti, e tra questi, non già ai piú capaci, verranno
affidate le sorti della nazione, e perché, non essendo militari, non
potranno essere giudici competenti, e perché la preferenza verrà
naturalmente accordata a colui che sia piú amico, piú simpatico, per
docilità e per dottrina, coi dittatori.
Infine cotesti dittatori civili preferiscono, quasi sempre, generali
stranieri a' nazionali, imperocché temono il credito di questi, e
piú facilmente conservano il predominio su quelli, e cosí decretano
la ruina e la vergogna della nazione; ed atterriti dalla popolarità
che acquista un generale, son riluttanti a menare di forza la
guerra, e se scorgono una probabilità di terminarla, senza piú,
eziandio con danno della causa, transigono. Finalmente è mestieri
riflettere, comunque voglia supporsi perfetto un tale governo, che,
in caso de' rovesci, il governo non essendo fondato su de' principî,
ma sul carattere e l'opinione degli uomini presso cui trovasi il
maestrato supremo, si ricorrerà al volgare e puerile mezzo, quale è
quello di cangiarli, e quindi un sol disastro, probabilissimo in
simile lotta, basterà per sostituire al potere uomini d'altra
gradazione di colore, che daranno alla rivoluzione un nuovo
indirizzo politico, e da tale continuo ondeggiamento verrà
strozzata. La dittatura in Italia, come in Europa, ha fatto le sue
prove, il governo provvisorio di Milano, quello di Venezia, di
Firenze, di Roma, di Sicilia… potevano decretare tasse, provvisioni
militari, far la pace o la guerra, creare cariche, e ne crearono
infinite, furono insomma poteri dittatoriali. Che cosa avvenne? Lo
stato delle cose rimase ove la nazione l'avea condotto nel primo
periodo del suo rivolgimento, la rivoluzione non avanzò d'un passo,
anzi, come è natura d'ogni potere, ne repressero gli slanci, senza
accrescerne le forze. Se con la dittatura siamo stati mai sempre
vinti, perché non provare la libertà?
Faremo fine a questo ragionamento con affermare, come cosa per se
medesima evidente che, se la dittatura fosse necessaria all'Italia,
in tal caso bisognerebbe disperare affatto del nostro risorgimento,
la dittatura in Italia è impossibile: sarebbe il frangente della
rivoluzione, renderebbe inattuabile l'unità degli sforzi. Il fato
che ha decretato per l'Italia la schiavitú o l'assoluta libertà, con
la grandezza che l'accompagna, ha reso impossibile la dittatura.
Come supporre che tutta l'Italia s'inchinasse al potere assoluto
surto dalle barricate di una città? Palermo, Napoli, Milano
riderebbero degli ordini che si emanassero da Roma. Questa dittatura
non solo dovrebbe combattere i stranieri, ma per unificare l'Italia
dovrebbe conquistare i varî Stati e tenerli soggetti, fare in un
mese assai piú di quello che non fece l'antica Roma in sei secoli.
Quale erroneo giudizio dell'indole del paese!
Dimostrata l'assurdità di tale concetto, e come in esso, senza
vantaggio veruno, si riscontrano tutti gli inconvenienti e tutti i
rischi della tirannide, e come le tradizioni e l'indole del paese
siano con esso riluttanti, ora verremo a discorrere di quello che
bisogna sostituirvi. Lo stato presente d'Italia, il fine a cui
tendiamo, i sacri principî che emergono dalle leggi di natura,
determinano recisamente la forma e le attribuzioni del potere che
dovrà amministrare gl'interessi della nazione durante la lotta.
Le diverse condizioni in cui trovansi i diversi Stati non solo, ma
le diverse città d'Italia, rendono quasi impossibile un insorgere
simultaneo; ed eziandio che per una favorevole circostanza ciò
avvenisse, non in un tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombero
il suolo da' nemici. Quindi è forza che non già l'Italia tutta, ma
una parte di essa, dovrà prima che le altre inalberare la bandiera
comune, e nominare un maestrato, non municipale, ma italiano. Questi
Italiani, primi ad esser liberi, che dovranno al caso o alle loro
speciali circostanze l'iniziativa, non potranno certamente
pretendere che la nazione intera confermi o si sottometta al potere
da essi eletto, tale pretesa non solo sarebbe tirannica ma vana; si
vedrebbero sorgere tanti altri governi per quante sono le diverse
provincie, o almeno i diversi Stati in cui ora è divisa. Il
maestrato che dovrà amministrare l'Italia, deve assolutamente
procedere per addentellati, facendo cosí abilità ad ogni parte di
essa, fatta libera, d'unirsi alle provincie iniziatrici del moto,
non già sottomettendosi, ma trovando pronto il proprio incastro,
onde comporre un sol tutto. Quindi altro non potrà essere che una
convenzione o congresso nazionale, eletto con suffragio universale,
il quale verrà completandosi a misura che la rivoluzione proceda.
Restaci ora a determinare le attribuzioni di questo congresso.
Se ci faremo a considerarlo con quelle idee, che oggi si hanno in
Europa, del governo parlamentare, ognuno ne troverà, nel fondo della
propria coscienza, la condanna. Garrule, lente, tumultuanti,
snervate, riescono coteste congreghe, ed esse o cagionano la ruina
del paese o si restringono in una dittatura, essendo cosa
impossibile ottenere l'unità de' fatti in tanta disparità di pareri.
Ma ciò non è difetto di queste adunanze, ma bensí errore de' popoli
che le concedono poteri e ne richieggono opere con la loro natura
riluttanti. Un tal congresso deve essere non imitazione della
convenzione francese, ma tutt'altro; avvicinarsi piuttosto al
congresso americano, a quello delle Fiandre, al greco, cercando la
maggiore unità ed energia di sforzi non già in esso, ma
nell'ordinamento delle altre parti dello Stato. Prima d'ogni altro,
non bisogna mai perdere di vista il principio che un popolo, per
esser libero, bisogna che fin dal primo istante spezzi le sue catene
ed assicuri la libertà.
La sovranità per legge di natura è inalienabile, né havvi
circostanza che possa giustificare la violazione di questa legge;
concederla ad altri è un suicidarsi; il suicidio consumato, è vana
speranza il pretendere di ritornare in vita; quindi ogni membro di
questo congresso è sempre revocabile da' suoi elettori, e la istessa
durata del congresso non può prestabilirsi, dovendo dipendere dalla
libera volontà della nazione.
Il suo mandato è quello di mandare ad effetto il concetto collettivo
della nazione, concetto chiaro ed innegabile, il quale comprende in
se' la rivoluzione, né ammette restrizione di sorta alcuna: guerra
allo straniero, qualunque lingua esso parli, finché non sia fuori
d'Italia; guerra a tutto ciò che inceppi l'assoluta libertà. Questo
concetto è il despota, il dittatore degli Italiani, se eglino
trasgrediranno i suoi assoluti ed imperiosi comandi, la pena sarà
certa e terribile: schiavitú e miseria. I limiti poi ne' quali dovrà
operare cotesto congresso, o convenzione nazionale, vengono
tracciati dalle leggi di natura, che son le basi del patto sociale,
espresse nel terzo capitolo di questo saggio, ed esse non danno
luogo a dubbio di sorta alcuna. Essendo sacra la libertà individuale
e quella de' Comuni, il congresso non avrà la benché minima autorità
nella loro interna amministrazione e nella nomina de' pubblici
funzionarî; i Comuni, assolutamente indipendenti, provvederanno come
meglio credono alla loro amministrazione, uniformandosi ai dettati
di quelle tali leggi naturali, che formano il solo patto costituente
l'unità italiana. L'esercito, essendo un nucleo di cittadini
destinati dalla nazione a compiere una speciale missione, in virtú
delle medesime leggi testè citate, hanno il diritto di eleggersi i
propri capi, ai quali, come nel terzo [recte: quarto] Saggio
ampiamente svilupperemo, per ragion di guerra s'addice il concetto
de' disegni militari e l'esecuzione di essi. Svincolati dalle mille
spire in cui la diplomazia si va ravvolgendo, questo congresso non
ha alcun trattato da lacerare in volto al nemico: finché esso sarà
sul suolo italiano altra ragione oltre il cannone non v'è; cacciato
d'Italia, compiuta la missione dell'esercito, allora solo,
pacatamente il congresso potrà discendere a ragionare, non avendo il
diritto di nulla stabilire senza il consenso della nazione.
Adunque questo congresso non ha cariche od onori da conferire; non
leggi da fare, non trattati da conchiudere, non eserciti da
dirigere. È sua missione accusare al cospetto della nazione ed
esortare a riprendere il dritto sentiero quel Comune o
quell'individuo il quale violasse i principî da noi stabiliti come
base del patto nazionale; è sua incumbenza determinare, secondo la
popolazione e la ricchezza d'ogni Comune, la porzione contingente in
uomini e danari con cui deve concorrere alla guerra, e cosí,
equamente, ripartire i sacrifizî; è sua speciale opera raccogliere
tutte le risorse materiali e dirigerle ove l'esercito il richiede,
onde fornire incessantemente il campo. In tal guisa, la nazione,
assolutamente libera, appresta in ogni Comune tutte le sue forze; il
congresso le raccoglie e le invia all'esercito; questo, secondo la
ragion di guerra, le dirige contro il nemico. Il congresso non è
governo, ma centro su cui la nazione equilibrasi, verso cui tendono
le sue forze, e vigile guardiano del patto nazionale. Esso può, in
virtú di quelle medesime leggi che gli danno vita e ne tracciano le
funzioni, conferire a pochi individui, o ad un solo, scelti dal suo
seno o fuori, i proprî attributi, onde ottenere la massima energia
nel disbrigo delle sue incumbenze, basta che non abdichi mai il
diritto inalienabile della loro revoca e del sindacato su di essi.
In questo solo modo può concepirsi in Italia l'unità degli sforzi,
senza ledere in menoma parte la libertà.
CAPITOLO QUINTO
XVIII. Risorgimento d'Italia. - XIX. Educazione pubblica. - XX.
Bandiera e formola.
XVIII. Nei primi capitoli di questo Saggio abbiamo cercato quelle
leggi di Natura, que' principî, non già deduzioni d'un ragionamento
basato su di arbitrarî accordi o strani supposti, ma attributi della
Natura stessa, effetti invariabili dell'indole umana. Principî che
una società non può riconoscere come veri, senza prima percorrere
lunga, scabrosa ed intricata via, per cui il fugace utile immediato
ed i pregiudizî, facendo ombra al suo intelletto, la costringono a
serpeggiare. In seguito abbiamo discorso del cospirare,
dell'insorgere, mezzi di cui s'avvalgono le nazioni onde sgomberare
con fremito il cammino dalle incomode ruine del passato. Non ho
creduto proporre un modo nuovo di cospirare e dar norma ai primi
passi della rivoluzione, ma bensí fu mio proposito il dimostrare
logori i mezzi sino ad ora usati, e determinare non quale dovrebbe
essere, ma quale inesorabilmente sarà lo sviluppo ed il modo di
operare delle varie forze che possiede la società. E porto ferma
opinione che la vera rivoluzione, il vero trionfo della democrazia,
che suona trionfo del proletariato, non si otterrà con altri mezzi
se non con questi, né si conquisterà la libertà che liberamente
operando.
Il sottostare a forza maggiore è necessità, il rinunziare
volontariamente ad una parte o a tutta la libertà, non è prova di
spiriti liberi ma d'inclinazione al servaggio. Chi vende i proprî
convincimenti ha cuore depravato ma piú libero di colui che
volontariamente li abdica. Quello rinunzia alla libertà per un
guadagno, patteggia col nemico, questi per l'indole; l'uno, trovando
il suo meglio, saprà riacquistarla e avvalersene, l'altro, eziandio
volendolo, nol potrà fare. È vano il dire che sarà cosa pregevole
rinunziarvi per amor di patria, imperocché il sommo bene della
nazione altro non è che assoluta libertà, che essendo costituita non
dai limiti imposti alla libertà individuale, ma dal pieno sviluppo
di essa, rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della
patria, è lo stesso che mutilarla per renderla intera, è un assurdo.
Agli Italiani è mestieri di educarsi a libertà, ma educatori e
libertà sono materie eterogenee che si escludono affatto. La libertà
non può apprendersi, essa è sentimento, e nessuno può darci
sensazioni non nostre. Per educarci a libertà bisogna vivere, per
quanto possiamo, liberamente, in tal guisa ognuno, educando se
medesimo, educa tutti, e tutti compiono l'educazione di ognuno. Da
ciò risultano spontanee le cospirazioni, le congiure, ma senza
idoli, senza patroni, senza padri, niuno pretenderà comandare, come
niuno si piegherà ad ubbidire. Se la nazione devierà ancora dalla
linea retta, se ancora non è abbastanza assennata dall'esperienza,
potranno de' strani connubî, delle strane combinazioni aver luogo,
ma essa non raggiungerà con questi mezzi la sua piena libertà e la
grandezza a cui è destinata.
Additate le piaghe della società, i diritti di chi soffre, le
usurpazioni di chi gode; dimostrata la necessità di estirpare fin
l'ultima barba della presente costituzione sociale, di sgomberare il
suolo dalle sterminate macerie di pregiudizî, di leggi, di opinioni
ammucchiare sul diritto di proprietà che gli serve di base, e che
poggia a sua volta sugli omeri dell'immensa moltitudine de'
null'abbienti, come rivoluzionario potrei far fine. La nazione
penserà a ricostituirsi. Nondimeno sospingeremo lo sguardo in questo
ignoto avvenire e procederemo in esso attenendoci strettamente a'
stabiliti principî.
«I tiranni, - scrive Mario Pagano, - col progresso del tempo, dalle
continue reazioni degli oppressi, debbono rimaner disfatti. La legge
è immutabile, l'ordine è costante, la pena è certa, benché col piè
di piombo giunge al fine». Ora che scrivo, la miseria cresce ogni
giorno, i governi moderati, corruttori e codardi, in putredine vanno
consumandosi, la tirannide mostrasi, perché minacciata, terribile ed
ingorda e cosí la sua azione affretta l'immancabile reazione. I
popoli, intolleranti dello stato presente, fremono, il movimento non
tarderà, e non già, come pretendono i dottrinarî, il popolo piú
dotto e piú incivilito, ma il piú oppresso darà il segnale della
battaglia. La quistione economica, quasi in tutt'Europa prevale, non
solo fra i dotti, ma nella plebe, la questione politica n'è stata
quasi del tutto ecclissata.
Cominciato lo sbaraglio, vedremo il popolo, da' suoi dolori
sospinto, con abbandonate redini precipitarsi ne' pericoli, ma le
sue prime orme saranno incerte, vacillanti, esso non saprà scorgere
il vero nemico, né colorite i suoi disegni. In questi momenti, la
riuscita, l'indirizzo della rivoluzione, dipenderà da quella
gioventú intelligente, non dotti, ma illuminati combattenti di cui
il popolo naturalmente se ne fa testa. Se questi desiderano il vero
bene della patria, dovranno, senza far gruppi o sette, ma ognuno
secondo le ispirazioni del proprio genio, darsi a tutt'uomo, non già
calmare, ma a sfrenare per quanto può le passioni del popolo e,
dando forma a' suoi desiderî, additargli il nemico. Colui che dopo
tanti tristi e sanguinosi casi, che i popoli, nel fare transazioni e
contentarsi di rimedî mezzani, patirono, in luogo di mirare alla
riforma completa degli ordini sociali, broglia per afferrare una
carica, o per donare i poteri a qualche suo idolo, e, tutto fede,
spera che un uomo compia la rivoluzione, ammorzando l'effervescenza
popolare, presenti il dorso al bastone della tirannide, egli altro
non è che vilissimo schiavo, mascherato col saio del repubblicano.
Ci faremo ora a compendiare quanto dicemmo del passato e del
presente, dei mali sociali e de' rimedî, delle usurpazioni della
tirannide e de' diritti della democrazia, e cosí rileveremo le
provvisioni da prendersi, le riforme da adottarsi.
Son quasi quattro secoli di schiavitú, e durante quest'epoca, quanti
inutili tentativi, quanto sangue inutilmente sparso!… I popoli a noi
vicini, dopo grandissimi sforzi non son riusciti a migliorare la
loro condizione. È dunque inutile l'insorgere? No. È questo un
fatale cammino che il popolo è costretto a percorrere, onde dalle
sanguinose esperienze venga condotto alla scoverta degli errori.
Raccogliamo adunque i frutti del passato travaglio; gioviamoci di
que' fatti, e sia questa rivoluzione principio d'êra novella, e non
già nuova esperienza utile a' posteri, a noi dannosa.
Che cosa ha fruttato la moderazione? patibolo, carceri, esilio. I
nostri nemici sono inesorabili, ingordi; ad ottenere due gradi di
libertà (se la libertà si ottenesse per gradi), ed ottenerla intera,
ci è forza sostenere la lotta medesima. Perché dunque arrestarci ai
primi passi? La moderazione ci ha fruttato, forse, la protezione di
qualche altra Potenza? Mai no, tutti i governi stranieri,
apertamente o con l'inganno, sonosi cooperati alla nostra rovina.
Confidiamo adunque nelle sole nostre forze, e miriamo alla completa
distruzione del nemico, senza arrestarci alla minaccia, essa altro
non è che un'arma nelle mani del minacciato.
Guai se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere
dall'altrui volere le proprie sorti! Essa vedrà molti di coloro che
si dicono liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci
parole adularla, come costumano adulare i tiranni, e carpirne il
voto. Divenuti onnipotenti ed inviolabili, pensano al loro meglio, e
ribadiscono le sue catene; ed alla richiesta di pane e lavoro
rispondono, come l'assemblea francese rispose nel '48, col cannone.
Finché la società verrà composta da molti che lavorano e da pochi
che dissipano, e nelle mani di questi pochi sarà il governo, il
popolo deriso col nome di libero e di sovrano, [i molti] non saranno
che vilissimi schiavi.
Tutte le leggi, tutte le riforme, eziandio quelle in apparenza
popolari, favoriscono solamente la classe ricca e culta; imperocché
le istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutto in suo
vantaggio. Voi plebe, allorché crederete avvicinarvi alla meta, ne
sarete, invece, piú discosti. Voi lavorate, gli oziosi gioiscono;
voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattete ed essi godono
la libertà. Il suffragio universale è un inganno: come il vostro
voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario
del padrone, dalle concessioni del proprietario? voi indubitatamente
votereste, costretti dal bisogno, come quelli vorranno. Come il
vostro voto può esser giusto, se la miseria vi condanna a perpetua
ignoranza e vi toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e de'
loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la cui esistenza dal
capriccio d'un altro uomo dipende?
La miseria è la principale cagione, la sorgente inesauribile di
tutti i mali della società, voragine spalancata che ne inghiotte
ogni virtú. La miseria aguzza il pugnale dell'assassino;
prostituisce la donna; corrompe il cittadino; trova satelliti al
dispotismo. Conseguenza immediata della miseria è l'ignoranza, che
vi rende incapaci di governare i vostri particolari negozî, nonché
quelli del pubblico, e corrivi nel credere tutte quelle imposture
che vi rendono fanatici, superstiziosi, intolleranti. La miseria e
l'ignoranza sono gli angeli tutelari della moderna società, sono i
sostegni sui quali la sua costituzione si incastella, restringendo
in picciol giro l'ampio cerchio dell'universale cittadinanza. Il
delitto e la prostituzione, conseguenze inevitabili, sgorgano dal
seno di questa società. Bagni e patiboli sono le sue opere, volte a
punire, con raffinata ipocrisia, i frutti medesimi delle sue
viscere. La statistica, scienza moderna, che mostra come
indissolubilmente si legano le varie istituzioni sociali, ha già
registrato come la miseria e l'ignoranza non scompagnano mai il
misfatto. Finché i mezzi necessarî all'educazione e l'indipendenza
assoluta del vivere non saranno assicurati ad ognuno, la libertà è
promessa ingannevole.
I nemici che dobbiamo debellare son molti, è vano l'illudersi, ma se
tutti vorremo combattere da liberi cittadini, vinceremo. Cerchiamo
penetrare con lo sguardo attraverso l'atmosfera che i pregiudizî ci
hanno addensato intorno, né vi sarà difficile discernere, in questo
istante che trovasi distrutta la gerarchia sociale, quanto siano
mostruose le usurpazioni del ricco e quanto grandi le miserie del
popolo!… Con qual diritto un ozioso proprietario scialacqua col
prodotto de' sudori del fittaiuolo, mentre questi appena potrà
offrire un pane alla sua povera e laboriosa famiglia? Con quale
diritto, in un'officina in cui cento lavorano, un solo, oltre ogni
stima arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato
l'avvenire, ma neanche la benché minima guarentigia del presente,
bastando il capriccio di un solo per affamare centinaia di
dipendenti? Distruggiamo coteste mostruosità col garantire al
contadino ed all'operaio il frutto del loro lavoro, e questi e
quelli saranno contenti [di] lasciare per poco la vanga ed il
martello, ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistati
diritti. Se la vittoria assicura a tutti l'agiatezza, e la disfatta
li ricaccia nella miseria, tutti saranno valorosi. Ecco il segreto
di cui si avvalsero i nostri progenitori per soggiogare il mondo.
Nei passati rivolgimenti sonosi cangiati gli uomini e le forme del
governo, ma il principio su cui esso poggiava, l'autorità insomma,
cangiando nome, rimase; come adunque potevano sparire i mali? Volete
cogliere il frutto di tante pene? diroccate l'antico edifizio sino
alle fondamenta, sgomberate il suolo dalle ruine, e su nuove basi
riedificate.
Le leggi a cui ubbidiamo sono quelle stesse, che da tredici secoli,
da Giustiniano, i despoti ed un ordine privilegiato, quelli che
posseggono, hanno create, svolte, e curatane l'esecuzione sempre in
danno della plebe; e queste leggi che hanno sí bene servita la
tirannide, non possono certamente essere utili ad un popolo che
vuole esser libero. E però la prima determinazione da prendersi è
quella di annullarle tutte; una sola che ne rimanga basterà per dare
alla rivoluzione un falso indirizzo, o almeno per ritardarne il
naturale progresso.
La forza è l'altro cardine sul quale poggia la tirannide, qualunque
siasi il nome del governo, re, dittatore, triumvirato, congresso, se
esso dispone di forza materiale, saremo schiavi. Non bisogna mai
conferire ad altri la facoltà di nuocere; gli uomini, buono o tristo
sia lo scopo a cui tendono, sono o prepotenti o deboli; questi
inetti al governo, quelli oppressori; i primi, avendone la forza,
opprimono, i secondi ci abbandoneranno ai loro satelliti. Ognuno, in
buona fede, crede che le proprie idee tornino a gran d'uopo al
paese; e però se avrà la forza d'imporle, le imporrà. Lasciamo a
tutti la libertà di proporre i proprî pensieri, a nessuno facoltà
d'imporli. L'uomo, creato indipendente e libero, non dovrà mai
servire un altro uomo, ma solo la propria natura ed il proprio
meglio; e se in virtú di questa legge, nelle specialità, conviengli
alla direzione de' migliori sottoporsi, non dovrà mai, in forza
della legge medesima, lasciare che altri stabilisca i rapporti della
società di cui fa parte e dia norma a tutto il suo vivere. I diritti
di ognuno limitano di fatto la sfera d'azione de' diritti altrui, le
naturali inclinazioni ne distribuiscono le incombenze, e da questa
libertà ch'altri limiti non conosce che l'altrui libertà, ne risulta
l'armonia sociale. Chiunque pretende governarmi, chiunque pretende
che io mi uniformi alle sue idee, alle sue abitudini, è uno stolto
tiranno; ad ottenere ciò dovrebbe trasferirmi la sua sensibilità.
Or dunque, considerando questi veri come i punti di riscontro del
nostro avvenire, verremo traducendoli in pratica esponendo le
provvisioni che sul retto sentiero indirizzeranno la rivoluzione,
assicurando sin da' primi istanti il suo magnifico e semplicissimo
procedere.
1. Tutte le leggi, i decreti, le cariche, le incombenze, insomma
tutte le esistenti istituzioni sociali, rimangono da quest'istante
annullate.
a) Ogni contratto il quale non sussiste per la libera volontà delle
due parti contrattanti, è sciolto.
b) Le tasse ed ogni specie di gravezze imposta dal passato governo,
annullate. Non vi sarà che un'imposta unica sulla ricchezza, da un
congresso italiano ripartita sui Comuni, dai consigli comunali
ripartita sui cittadini.
Questa prima provvisione spezzando le ritorte [catene] da cui
eravamo avvinti, ridonaci la piena libertà delle membra,
indispensabile a sostenere la gran lotta in cui dovremo impegnarci,
né la vittoria sarà mai possibile, se combatteremo impastoiati fra
leggi ed istituzioni volte a sgagliardirci e toglierci qualunque
libertà d'operare. Né qui finiscono gli effetti di tali
provvedimenti: l'abolizione delle tasse ecc., produrrà, cosa
indubitata, un ribasso nel prezzo degli oggetti di prima necessità,
ed il minuto popolo sentirà, dal nuovo ordine di cose,
immediatamente sgravarsi delle tante imposizioni da cui era
oppresso; e quindi troverà cosa importantissima il difenderle ed
assicurarle in avvenire. In tal guisa con un semplice decreto avremo
ridonato al popolo tutta la sua forza, e creato il movente che,
unificandone eziandio la volontà, lo sospinge alla difesa della
patria.
Inoltre, se il concedere altrui il governo assoluto della cosa
pubblica ci ricaccia nella miseria e ci abbandona al dispotismo, il
disordine conduce parimente alle conseguenze stesse; e però alla
rivoluzione bisogna assegnare un fine cosí ampio ed incontrastabile
da esser certi che nessuno possa durar fatica a riconoscerlo, o
nessuno rinnegarlo. Quindi stabilire come punti di riscontro, come
limiti e guarentigie della libertà, le leggi inviolabili della
Natura, le quali daranno norma e determineranno tutte le provvisioni
volte ad organare e dirigere le forze della nazione al conseguimento
del fine prefisso. I due seguenti decreti basteranno per tradurre in
fatti le idee esposte.
2. Il fine che si propone la rivoluzione è quello di sgomberare
l'Italia da' stranieri, qualunque lingua essi parlano, e da tutto
ciò che viola l'indipendenza e la libertà individuale. La guerra
sarà menata di forza finché questo fine non sia compiutamente
conseguito.
I principî da noi espressi nel terzo capitolo di questo Saggio, resi
di pubblica ragione sin dai primi istanti della Rivoluzione,
verranno presentati in ogni Comune all'accettazione del popolo, che
riconoscendoli come base del nuovo patto sociale, dichiarerà reo di
lesa nazione chiunque attenterà di violarli. Se un tal decreto verrà
bandito dal popolo, la rivoluzione da quell'istante sarà assicurata,
la libertà e la grandezza d'Italia indubitata; se poi un solo di
questi principî è rigettato o ristretto, la rivoluzione non si
compirà, verrà conseguito qualche cangiamento di forme, ed il popolo
s'incamminerà, meritatamente, in un nuovo corso di miserie, di
dolori e di vizî.
Ridonata al popolo la sua piena libertà; creato il movente delle sue
imprese; determinato il fine da conseguirsi; stabiliti i limiti
all'autorità, le guarentigie ed i diritti del popolo, la
rivoluzione, senza tema d'esser tratta di passo, potrà procedere nel
suo corso, e poche e semplicissime provvisioni basteranno ad
assicurare il suo progresso energico ed ordinato.
1. Tutti i cittadini, qualunque ne sia il sesso e l'età, pongono se
medesimi e le loro sostanze a disposizione della patria, finché non
siasi ottenuta la piena vittoria sui nemici di essa.
2. Ogni Comune verrà amministrato da un consiglio comunale, formato
da un numero di consiglieri stabilito da' cittadini medesimi. I
consiglieri verranno eletti al suffragio universale, e saranno
revocabili dagli elettori e soggetti al loro sindacato. Il
consiglio, affinché i comandamenti del popolo siano mandati ad
effetto con la massima energia possibile, trasmetterà il proprio
mandato ad un solo individuo che eleggerà nel suo seno,
riserbandosi, in ogni tempo, il diritto di revoca, e del sindacato.
a) La potestà politica e la giudiziaria risiederanno nel popolo del
Comune. L'ultima potrà conferirsi ad un certo numero di cittadini
eletti dal popolo, che non cesserà di essere il supremo tribunale al
quale i giudicati potranno appellarsi.
b) La speciale incombenza del consiglio comunale è quella di
raccogliere ed apparecchiare nel Comune tutte le risorse materiali
richieste dal nazionale congresso.
3. Il congresso nazionale verrà eletto co' principî medesimi, cioè:
suffragio universale e diritto di revoca e di sindacato agli
elettori. Come i consigli comunali, questo congresso potrà
trasmettere il proprio mandato ad un solo eletto dal proprio seno,
riserbandosi sugli eletti i medesimi diritti accennati pei
consiglieri comunali.
a) Le incombenze di questo congresso saranno di rappresentare
l'Italia verso le Potenze straniere; potrà conchiudere trattati, ma
essi non avranno effetto senza prima ottenere l'approvazione del
popolo.
b) In forza de' principî stabiliti come base del patto sociale,
questo congresso non avrà sui Comuni altra autorità, che [quella di]
determinare ed esigere da essi la porzione contingente in uomini e
danari, con cui dovranno concorrere alla guerra, inviare queste
risorse ove l'esercito indicherà; accusare al cospetto della nazione
quel Comune, o quell'individuo, che violasse il patto espresso dalle
leggi di Natura.
4. L'esercito eleggerà i propri capi e sarà l'esecutore supremo de'
voleri della nazione.
Sono queste semplicissime provvisioni che potranno attuarsi da
qualunque città o borgo che sarà sgombero dal nemico. Il popolo di
questo borgo che darà cominciamento alla rivoluzione, annullerà
tutte le leggi esistenti, tutte le gravezze; bandirà i principî che
dovranno essere la base del nuovo patto sociale; eleggerà il
consiglio comunale, i deputati al congresso nazionale; e tutti i
cittadini, con le norme che daremo nel terzo [recte: quarto] saggio,
si formeranno in battaglioni e si eleggeranno i capi. In tal guisa
si procederà conforme al corso naturale degli eventi, e la nazione
da sé, senza crearsi padroni, senza concedere ad una città autorità
o ascendente piú delle altre, raccoglierà successivamente le proprie
forze e le adopererà al conseguimento del fine che si propone,
conservando la sua piena libertà.
Il popolo non avrà nulla a temere dagli errori in cui per ignoranza
o per intrigo d'altri potrà incorrere nell'eleggere questi diversi
maestrati; imperocché non sono inviolabili né irrevocabili, e non
dispongono di alcuna forza materiale. Essi non comandano, ma
propongono. Il popolo, con pochissima pena potrà francamente
eleggere coloro che desiderano tali incombenze, trattandosi di
crearsi servi e non padroni, quelli che volontariamente si offrono
saranno i migliori. Negare questa verità, ricorrere a ripieghi, è
negare la rivoluzione; è lo stesso che restringere l'utile
universale a quello d'una fazione, è una questione di semplice forma
che non vale il pregio d'esser discussa.
Durante la guerra, il congresso nazionale si occuperà a risolvere il
problema sociale e cercherà stabilire l'avvenire della nazione. Il
congresso terrà ai fittaiuoli il seguente discorso: - Il
provvedimento preso di sospendere il pagamento delle rendite vi ha
sostituito ai proprietarî, bene grandissimo per voi stessi e per la
società: voi, produttori per eccellenza, ritenete e godete
giustamente del frutto delle vostre fatiche, e la società si è
sgravata da quella classe di oziosi digeritori, che per sostenere il
loro lusso producevano l'incarimento dei viveri; ogni cittadino
soffriva per cagion loro, ad ogni poverello veniva tolto un pezzo
del suo pane per impinguare i cani ed i cavalli di questi
proprietarî; ed oltre di questi vantaggi evidenti, quegli oziosi,
costretti ora a lavorare per vivere, accrescono eziandio il prodotto
sociale. Ma fa d'uopo riflettere che, quali voi oggi siete, tali
essi furono, e l'esperienza, varie volte ripetuta, ha dimostrato
che, eziandio ripartendo ugualmente la terra, dopo qualche tempo vi
sarà tra voi chi per maggior forza, solerzia, o ingegno, ingrandirà
all'altrui spese, e cosí a poco a poco sorgerà di nuovo la classe
de' proprietarî che avete annientata. Inoltre, il medesimo diritto
che avete voi sulla terra, lo ha ognuno: la medesima ingiustizia che
voi pativate, la patiscono i vostri giornalieri, e voi usurpate ad
essi quel frutto dei loro lavori che i già proprietarî vi
usurpavano, e finalmente, rimanendo la vostra condizione tale quale
ora è, i principî da voi stessi banditi sarebbero violati; il patto
sociale sarebbe ingiusto come lo era prima, ed i vostri figli si
troverebbero in una società non diversa da quella che ora vogliamo
riformare. - La cagione di questi mali futuri è evidente; la
proprietà ha cangiato possessore ma è rimasta illesa, è dessa che
bisogna abbattere, è il principio che bisogna mutare, e perciò è
necessario occuparsi della soluzione del problema, di impedire che i
proprietarî rinascono: questo problema, unito agli altri che
riguardano l'industria ed il commercio, formeranno l'oggetto delle
nostre cure.
Per riuscire nel nostro proponimento non basta seguire i
suggerimenti dell'istinto, che ci trarrebbero di passo, ma bensí
giovarci dell'esperienze che la storia registra. Le attinenze
degl'innumerevoli fatti consacrati nelle sue pagine han porto
materia a studio profondo, da cui è risultata una serie di
proposizioni che formano la filosofia civile, la quale, scienza
universale, con attenta osservazione, traendoci dalla fallace via
che il volgo per abitudine frequenta, in quella magistrale e
permanente della Natura ci conduce; questa scienza darà norma alle
nostre ricerche.
Inoltre, il nuovo patto sociale, che verrà stabilito dalla
costituente, non sarà, come le passate costituzioni, imposto agli
Italiani, ma proposto, e la costituente, non disponendo di veruna
forza materiale, non potrebbe operare diversamente; quindi il cuore,
la fede, le intenzioni di coloro che dovranno comporla, in questo
caso, non hanno importanza di sorta alcuna; queste qualità,
impossibili a ritrovarsi, perché mutabili secondo l'utile
individuale, queste qualità, sempre cercate e mai trovate dal
popolo, oggi non debbono tenersi in verun conto; l'ingegno e la
dottrina sono necessarie, eziandio i piú perversi saranno utili; ma
il popolo non potendo discernere queste qualità, la costituente sarà
nominata dal congresso nazionale, che ammetterà in essa tutti coloro
che volontariamente si offrono di farne parte. Questo sarà il campo
ove la scienza, non avendo altri limiti che le medesime leggi di
Natura da cui essa risulta, potrà elevarsi dalle inutili astrazioni
alla pratica, e stabilire la felicità della nazione.
Questo congresso di scienziati, dichiarato costituente, determinerà
e proporrà il nuovo patto sociale, le cui basi saranno que' principî
dal popolo dichiarati inviolabili, ed il fine quello di garentirne
l'inviolabilità per l'avvenire. Compito il lavoro, reso di pubblica
ragione, rimarrà esposto alla pubblica censura; e tutti i dubbî,
tutte le considerazioni espresse per mezzo della stampa, saranno
accuratamente raccolte da coloro che presiedono all'amministrazione
di ogni Comune ed inviate alla costituente, che, nel piú breve tempo
possibile, dovrà modificare o rispondere a tutte le osservazioni
fatte dal pubblico. Dopo questa prova, il patto, sottoposto in ogni
Comune alla finale approvazione del popolo, avrà effetto. Noi
adombreremo questo nuovo patto sociale senza presumere di aver
risoluto un problema che dovrà risolvere l'intera nazione; è stato
nostro proposito sgomberare il suolo e scavar le fondamenta, non già
riedificare.
I.
Le siepi e quanto serve di chiusura o limite ai poderi saranno
abbattute. Il suolo italiano verrà ripartito secondo le diverse
specie di coltura a cui mostrasi atto. Una porzione di terra
proporzionata alla popolazione verrà assegnata ad ogni Comune e
coltivata da coloro che si dedicano all'agricoltura, i quali
formeranno una società che stabilirà essa medesima la sua
costituzione, in caso che non volesse accettare quella che la
costituente proporrà. Ma questa Costituzione, dovendo esser conforme
a que' principî che formano la legge universale ed immutabile della
nazione, non potrà essere molto diversa dalla seguente: un
amministratore ed un direttore eletti, e soggetti al sindacato di un
consiglio amministrativo e di un consiglio di tecnologia dirigente.
Tutte le altre incumbenze distribuite secondo le inclinazioni e le
attitudini di ognuno. Il guadagno netto diviso egualmente fra tutti.
In tal guisa, con grandissimo ed universale vantaggio, la proprietà
fondiaria sarà distrutta.
Il compartimento del suolo determinato dal genere di coltura e non
dal caso; lo stimolo al lavoro, non già la fame ma un maggior
guadagno; una società di uomini agiati, tutti dediti, ognuno secondo
le proprie attitudini, ad un medesimo lavoro, dovranno
indubitatamente produrre un accrescimento grandissimo delle
ricchezze sociali. Sosterrebbero gli economisti, che l'agiatezza
degli agricoltori, la mancanza de' proprietarî che consumano senza
produrre, facessero languire o scemare la produzione? Sosterrebbero
che le facoltà d'una società numerosa ed agiata siano inferiori a
quelle d'una misera famiglia, capace a pena di quel lavoro che serve
a pagare il vistoso tributo al proprietario e comperare per sé un
affumicato pane? Tutto può sostenersi col sofisma, ma esso perde la
sua forza quando il minuto popolo non può piú sopportare i suoi mali
e rovescia la soma che soverchiamente lo grava. Queste proposte non
vengono fatte a congreghe di digeritori, di persone dedite all'usura
ed al monopolio, ovvero di proprietarî, di banchieri, di
trafficanti, ma ad una società in cui la forza ha già distrutta la
preponderanza di queste classi. Con la spada bisogna adeguare alle
moltitudini i piú sublimi: quindi la legge stabilisce l'ordine e
l'uguaglianza.
II.
Il capitale, come già dicemmo, essendo proprietà collettiva, non può
appartenere ad un uomo; l'appropriarsi il capitale è un'usurpazione,
non cosí manifesta, ma simile a quella della proprietà fondiaria;
tutti i capitali verranno dichiarati proprietà della nazione, il
denaro potrà in parte involarsi, ma le fabbriche, le macchine
rimarranno. Tutti gli impiegati, in ogni stabilimento d'industria,
comporranno una società, ai quali la nazione affida il capitale
tolto al capitalista, e questa società potrà reggersi con una
costituzione identica a quella stabilita per gli agricoltori.
Cosí trasformata e ricostituita l'agricoltura e l'industria, i
mercanti che vendono in grosso si rinverranno nei depositi delle
stesse società e saranno membri di esse; e socî a ciò espressamente
delegati saranno i merciaioli che vendono al minuto.
III.
I trafficanti, intermedî fra i produttori ed i consumatori, a cui la
miseria de' primi fa abilità a speculare a discapito del popolo,
verranno eziandio trasformati in società composte ognuna dal già
capitalista sino all'ultimo facchino, marinaio, carrettiere, che
trasporta le merci.
IV.
Tutti gli edifizî saranno dichiarati proprietà nazionale, e gli
edili eletti dal popolo, e soggetti al suo sindacato, destineranno,
ad ognuno secondo il bisogno, l'abitazione. In tal guisa piú non si
vedranno spaziosi appartamenti deserti e destinati a semplice lusso,
mentre a breve distanza dalle loro mura, in oscuri e malsani tugurî,
giacciono ammucchiate le famiglie dell'infelice proletario, con
danno manifesto della pubblica salute e del pudore.
V.
Il testamento, mostruoso diritto, che oltre l'epoca dalla Natura
stessa prescritta prolunga la volontà dell'uomo, abolito. I risparmî
accumulati da ognuno appartengono di diritto, dopo la sua morte,
alla società di cui esso faceva parte ed al Comune ove erasi
domiciliato, se il defunto esercitava una professione singolare,
come architetto, medico, od altro.
VI.
In ogni Comune vi sarà un banco di scambio, che porranno in
relazione i varî Comuni dello Stato ed i varî stabilimenti
d'industria, dirigeranno le derrate ove maggiore è il bisogno.
Questi banchi assorbiranno e faranno sparire i trafficanti.
VII.
Ogni cittadino il quale trovasi isolato e privo di lavoro, ha il
diritto di essere ammesso come socio in quella società di
agricoltura o d'industria che da lui medesimo verrà scelta. La forza
dell'intera nazione garentisce ad ogni Italiano un tale diritto,
diritto che rende impossibile la miseria e forma il cardine
principale del nuovo patto sociale.
VIII.
Stabilita la costituzione economica, la politica non offre alcuna
difficoltà; un consiglio in ogni Comune, un congresso per l'intera
nazione, eletti col suffragio universale, amministreranno il paese;
questo e quelli saranno sempre revocabili dagli elettori e soggetti
al sindacato del popolo. Il congresso stabilirà la relazione con le
altre Potenze, avrà cura degli affari stranieri, rappresenterà la
nazione; dovrà sopraindendere ai lavori, ai stabilimenti militari e
di pubblica educazione, alle milizie (e di queste discorreremo
minutamente nel terzo [recte: quarto] Saggio) in quella parte che
non riguarda direttamente ai Comuni. Determinerà le spese, e quindi
le gravezze le quali dovranno pagarsi dalla nazione, per questi varî
rami della pubblica amministrazione. Non avrà ingerenza alcuna nella
politica interna e polizia, questa e quella non avranno altra norma
che i principî da noi stabiliti come base del patto sociale; il
congresso denunzierà alla nazione quel Comune, quel magistrato, quel
cittadino, che violerà o tenterà di violare questi principî.
Questi consigli ed il congresso potranno, pel pronto spaccio degli
affari, delegare o distribuire i loro poteri a persone elette dal
proprio seno, che saranno sempre da essi revocabili e soggette al
loro sindacato.
IX.
Tutti i pubblici magistrati saranno eletti dal popolo, saranno
revocabili dal popolo e soggetti al suo sindacato. Niuno percepirà
stipendio, ma l'associazione di cui esso faceva parte sarà obbligata
a considerarlo e retribuirlo come socio presente. Lo stesso dicasi
dei consiglieri comunali e de' deputati al congresso.
X.
L'unica gravezza sarà un'imposta progressiva sulla rendita netta di
ogni associazione.
Adombrato il nuovo patto sociale, ci faremo ad esaminarne gli
effetti, onde conoscere se i mali, i quali ora minacciano di
annientare la presente società, spariranno.
È un fatto dimostrato ad evidenza che la concorrenza, le macchine, e
la divisione del lavoro, mentre accrescono immensamente il prodotto,
accrescono eziandio il numero de' miseri ed avviliscono l'operaio,
peggiorandone la condizione. Esaminiamo se col nuovo patto sociale
[si] produrrebbero i medesimi effetti.
Concorrenza. Supponiamo due stabilimenti d'industria in concorrenza,
uno composto da numerosa e cospicua associazione, l'altro meschino,
questo sarà costretto a smettere, non potendo sostenere la
concorrenza con quello, e gli operai, come accade oggigiorno,
rimarranno privi di lavoro; ma siccome la nazione guarentisce loro
il diritto di essere ammessi in una società a loro scelta, questi
operai, naturalmente, sceglieranno e dovranno essere ammessi come
socî in quella società da cui sono stati soperchiati, e però questa,
se distruggesse tutte le sue rivali, sarebbe sopraccaricata da un
numero esorbitante di operai. Per evitare il male, troverà il suo
conto associandosi, piuttosto che distruggendo le sue rivali. In tal
guisa, la concorrenza, che nella presente società arricchisce uno a
discapito di molti, col nuovo patto sociale promuoverebbe
l'associazione e spanderebbe egualmente il profitto sugli operai
dell'arte medesima.
Con le macchine e la divisione del lavoro ottenendosi il prodotto
medesimo con un numero assai minore di operai, nei quali non
richiedendosi alcuna speciale attitudine, si ribassano i salarî, e
ne risulta la miseria. Col nuovo patto sociale, il numero degli
operai non è quello che semplicemente è necessario all'arte, ma [di]
quanti se ne rinvengono nel Comune, nella città, nella nazione, che
si dedicano a tale lavoro; il salario non è proporzionato alla loro
abilità, ma al prodotto, quindi le macchine e la divisione del
lavoro saranno la vittoria dell'ingegno umano sulla materia, e gli
operai, giovandosi di tali ritrovati, in poche ore di facile lavoro,
guadagneranno moltissimo. Inoltre, come conferma della giustissima
legge dell'uguaglianza di salario, le diverse incumbenze si andranno
pareggiando.
Inoltre, siccome, crescendo il numero delle persone dedite alla
medesima arte scema il guadagno, ne risulta che il diritto
riconosciuto e garentito ad ognuno, di essere messo come socio in
uno stabilimento di sua scelta, è la legge la quale stabilisce
l'equilibrio fra le diverse diramazioni dell'industria nazionale.
Le ardite intraprese, l'esattezza del lavoro, la varietà, il buon
mercato che si richieggono in un'arte, sono qualità che non possono
sperarsi dai piccioli capitali, i quali s'impiegano con la speranza
di ottenere utili immediati e grossi; solo dai vistosi capitoli, che
anticipano le spese e con picciolo profitto sull'unità della merce
guadagnano sul grande numero di esse unità, possono ottenersi tali
risultamenti. D'altra parte, i grandi capitali formandosi con
accumulare in poche mani le ricchezze sociali, ne risulta, come
legge inesorabile, nella presente società, che il perfezionamento
dell'industria s'ottiene a prezzo della quasi universale miseria,
laddove, col nuovo patto sociale, la formazione dei grandi capitali
s'effettuerà non già con la distruzione de' piccioli ma con
l'associazione, che sarà la legge regolatrice della pubblica
economia, come ora è la concorrenza.
Il bisogno che hanno i produttori di smaltire al piú presto
possibile la loro merce, la mancanza del danaro necessario alle
spese di deposito e di trasporto, han fatto sorgere l'avida classe
de' trafficanti, i quali lucrano ed arricchiscono a spese de'
produttori e dei consumatori. Questo bisogno del produttore di
vender subito, fa abilità a costoro d'esercitare il monopolio, di
affamare una città e procacciarsi vistosi lucri sul pane che i
poverelli comprano col sudore della fronte. La concorrenza è quella
che piú d'ogni altra cosa favorisce l'incettatore, l'associazione
l'uccide. Col nuovo ordine di cose le diverse società produttrici
facoltosissime, non han bisogno di vendere prontamente le merci, e
potranno avere magazzini, vascelli, e giovarsi di ogni sorta di
veicolo onde da se medesime, o col solo mezzo del banco di scambio,
provvedere allo spaccio dei loro prodotti; e cosí, con vantaggio
grandissimo della società, spariranno i trafficanti, e con essi il
monopolio.
Nella presente società, gli incettatori comprano il grano ove
abbonda e lo spediscono ove scarseggia, quindi in quel mercato ove
essi han comprato, crescendo il prezzo del grano, il pane per
conseguenza incarisce; questo fatto protesta contro la libertà del
commercio. Ma, vi rispondono i propugnatori del libero scambio:
s'introiterà maggior danaro, l'agricoltore che ha guadagnato avrà
molto danaro da spendere: il che torna in vantaggio dell'industria,
nonché di qualunque altro prodotto; né qui finiscono i vantaggi: gli
operai, se pagheranno piú caro il pane, prosperando l'industria
crescerà il loro guadagno, e spenderanno pochissimo per l'acquisto
di altri generi di cui fanno uso. Cosí gli economisti, con raffinata
ipocrisia, fanno generali alcuni vantaggi che si restringono a
pochissimi: non è l'agricoltore che ricava profitto dal caro del
grano, ma gl'incettatori, i quali accrescono i loro capitali volti
ad affamare le città; non è l'operaio che sente il vantaggio della
prosperità dell'industria, ma il capitalista; e quelle derrate, i
cui prezzi per la libertà del commercio scemeranno, sono oggetti di
lusso che non usano né il povero contadino né l'operaio, quindi il
libero commercio, come tutte le altre leggi e tutti gli altri
ritrovati che aumentano il prodotto sociale, altro non fa che
vantaggiare i ricchissimi con danno manifesto de' poverelli. Per
contro, rimessa la società secondo le leggi di Natura, i vantaggi
del libero commercio saranno evidenti per tutti; il monopolio reso
impossibile, sarà l'agricoltore che goderà del guadagno, il quale,
come ora diremo, troverà maggior vantaggio nello spendere i suoi
danari che nel conservarli: quindi prosperità dell'industria, di cui
goderanno tutti gli operai sui quali egualmente è distribuito il
lucro; ed infine, contadini ed operai, vivendo agiatamente, faranno
uso di molti generi di cui ora neppur conoscono i nomi, e sentiranno
il vantaggio di acquistarli a pochissimo prezzo.
Non è il solo aumento del prodotto che accresce la prosperità, ma
questo, per riuscire veramente utile, deve accompagnarsi con
l'aumento de' consumatori; nella società presente cresce
continuamente il prodotto, ma il numero de' consumatori, per la
crescente miseria, scema; pochissimi possessori di sterminate
ricchezze fra le miriadi di affamati è il fine verso il quale
inesorabilmente ci avviciniamo. Abolite la proprietà, supponete che
la società abbia subito le proposte riforme, ed il crescere delle
ricchezze, ugualmente sparse su tutti, crescerà per conseguenza il
numero de' consumatori.
In ultimo, poniamo il caso che un capitalista coi suoi milioni venga
nel mezzo di una nazione cosí costituita, ed esaminiamo in che modo
possa impiegare il suo danaro. Non potrà acquistar terre, perché la
nazione è la sola padrona, ed essa non vende e non riconosce il
diritto di proprietà; fabbricare palazzi nemmeno, perché la nazione,
padrona di tutti gli edifizî se ne impadronirebbe; affidare i suoi
capitali ad una delle tante società in cui è ripartita la nazione
sarebbe perderli, perché i capitali di esse sono proprietà nazionali
ed egli non potrebbe sperare altro guadagno che quello di essere
ammesso come semplice socio ed aver la sua parte al lavoro ed al
lucro, come tutti gli altri operai; stabilire un lavoro, un negozio
per proprio conto nol può, perché non troverebbe operai in uno Stato
ove tutti fanno parte di società come sovrani; potrebbe forse
giovarsi di operai stranieri, e cosí col suo stabilimento far
concorrenza alle arti nazionali? ma, appena comincerebbe il suo
lavoro, il governo interviene, riunisce gli operai e dice loro: Voi,
per le leggi dello Stato, avete facoltà di amministrare e reggervi
come meglio credete, tutti avete uguale diritto al godimento del
guadagno, il capitale non può appartenere a nessuno, ma allo Stato,
e voi ne sarete gli usufruttuarî, ed il capitalista con voi, se gli
conviene; una tale sentenza, senza esservi il bisogno
dell'intervento del fisco e dei birri, gli operai medesimi la
porrebbero in atto. Dunque in una società costituita nel modo
indicato, chi riuscisse ad accumulare vistose somme, non potendo
impiegarle in modo alcuno, non potendo disporne dopo la sua morte,
troverà il suo miglior partito spendendole e godendosele e, cosí il
nuovo patto sociale, non solo abolisce la miseria e la rende
impossibile, ma sbandisce eziandio l'avarizia e mantiene il danaro
in una continua circolazione.
A coloro i quali riconoscendo i vantaggi di un tal sistema,
oppugnassero la rivoluzione, asserendo che la società senza scossa
veruna ma con un successivo progresso potrà trasformarsi, noi
risponderemo che eglino disconoscono gli effetti inevitabili delle
leggi di economia pubblica applicate alle presenti condizioni dei
popoli, che eglino disconoscono i fatti che ogni giorno si compiono
sotto i loro occhi. Le numerose associazioni di operai che
spontaneamente sorgono, mostrano la tendenza della società verso un
avvenire che comincia a presentirsi, ma non migliorano per ciò le
loro condizioni; a queste associazioni si opporranno quelle dei
capitalisti e quelle, con maggiori danni, dovranno soccumbere nella
concorrenza: pretendere che potessero sussistere e prosperare
istituzioni di utile universale, in una società costituita da forze
tra loro riluttanti, che vicendevolmente si distruggono, ed il cui
sistema è volto a favorire l'utile individuale a danno del pubblico,
è pretendere una cosa impossibile, è pretendere che un picciolo
rigagnolo seguisse il corso medesimo di un torrente senza venir
travolto e confuso tra le sue onde. La condizione del proletario,
senza una completa e violenta rivoluzione, non solo non può
cangiarsi ma neppure migliorarsi, anzi è forza che essa
continuamente peggiori.
Non ci restano ora che due altri punti, i quali bisogna prendere in
considerazione; uno è di esaminare se manca lo stimolo al lavoro,
l'altro di vedere se mai siavi nel sistema il nocivo intervento del
governo.
Il lavoro non è attraente come asserisce Fourier, ma nemmeno
riluttante; senza necessità non lavorasi, ma esistendo la necessità
ed armonizzando il lavoro con le proprie inclinazioni, tutto ciò che
in esso è penoso sparisce. Quale lavoro sarà piú proficuo, quello
del proletario che ha il solo stimolo della fame, il cui salario è
invariabile, e le cui forze son logorate dalla miseria; o pure
quello di un agiato cittadino, che ha scelto il lavoro secondo la
propria inclinazione, ed il cui guadagno cresce al crescere del
prodotto? Gli infingardi esistono, ma essi riconosciuti come tali
della società di cui fanno parte, verrebbero assoggettati ad una
multa all'epoca della divisione dei lucri.
Il governo interviene nel solo caso, che osserva la violazione di
quei principî stabiliti come base del nuovo patto sociale. Prima che
la nazione sia costituita egli dice agli oziosi proprietarî: voi non
avete diritto alcuno sulla terra, se volete vivere, lavorate; ai
contadini: la Natura non ha concesso a nessuno la proprietà della
terra, tutti sono padroni di coltivarla e la nazione garantisce loro
il frutto de' lavori; per fare ciò con ordine, associatevi. Si
rivolge al capitalista e gli dice: tu non sei che un usurpatore
delle altrui fatiche, il capitale è proprietà nazionale, a te altro
non spetta che una porzione uguale a quella degli operai, e devi,
secondo le tue attitudini, lavorare come essi lavorano. Il governo
non farà che bandire leggi semplicissime e chiarissime, che nessuno
avrà bisogno di aiuto per comprendere; e lascerà ai contadini ed
agli operai la cura di porle in atto. Proporrà la costituzione delle
varie società, che la costituente, congresso di scienziati, avrà
compilato, rimanendo ai cittadini piena libertà di respingerla o
modificarla, basta che rimangano inviolati i principî. Queste leggi,
questi consigli verranno pubblicati dal governo, non già quando la
mente è ottenebrata ed il senso comune pervertito dai pregiudizî, ma
quando la spada della rivoluzione ha già rimosso gli ostacoli,
quando i contadini e gli operai avranno rotto l'incanto che [li]
mantiene tra i fragili ceppi del proprietario e del capitalista; il
governo non dovrà sospingere a fare, cosa impossibile ai governi, ma
frenare alquanto, indirizzare, dirigere le passioni, che la
rivoluzione ha sfrenate.
Fin qui della parte economica. Ora faremo un'osservazione che
riguarda la politica. Il governo rappresentativo è discreditato in
Europa; l'assemblea eletta a rappresentare i diritti del popolo ad
altro non serve che a convalidare e vestire con una maschera di
legalità e di giustizia le usurpazioni della tirannide. Non havvi
principe, dittatore o ministro, il quale non faccia decidere secondo
le proprie intenzioni il congresso che la nazione ha eletto a
guarentigia de' proprî diritti; queste assemblee, sovente sono
d'impaccio al pronto operare, senza mai essere di ostacolo al male;
nascono dalla corruttela, e vivono finché la forza crede dover
subire il loro importuno garrito; odiose al tiranno, comecché
accarezzate, sono sprezzate dalla nazione. Questo tristo fatto, che
sembra conseguenza di loro natura, è l'effetto del modo come oggi
sono regolati i rapporti sociali: l'utile privato essendo in
opposizione col pubblico, produce una diversità di mire, di
desiderî, di speranze, e quindi la irriconciliabile discordia delle
idee e delle opinioni; e di piú, il potere che ha il principe, il
dittatore, il ministro, di concedere cariche, distribuire oro ed
onori, fan sí che le tante opinioni riluttanti, trovando l'utile su
di una via comune, si accordano nel vendersi ad un padrone e
cospirano verso il fine che da esso gli viene indicato. Invece, se
il governo non avrà doni da distribuire, né pene da infliggere, se
l'utile d'un cittadino dipende dal guadagno della società di cui fa
parte, e la prosperità di questa dalla prosperità dell'intera
nazione, vi sarà in tutti unità di mire, di desiderî, di speranze, e
quindi concordia nelle idee e nelle opinioni. Ma quantunque il nuovo
patto sociale ridona all'assemblea quella forza, di cui ora manca,
pure egli è cosa interessante di non perdere di mira una verità che
dalla stessa natura umana risulta. Le assemblee, capacissime nel
sindacare, sono incapaci di concepire e di eseguire, quindi, per
conservare la necessaria energia nelle intraprese del governo,
bisognerà sempre (adattando alle circostanze il principio) affidare
ad un solo l'incarico di concepire il disegno e di effettuarlo,
quindi unità ed energia nell'azione, riserbandosi l'assemblea un
perpetuo ed illimitato sindacato. Non altrimenti governavasi il
Senato di Roma; e finché nella repubblica non vi furono poveri per
vendersi e ricchi per comprarli ed ogni cittadino era soldato, la
libertà non corse mai rischio veruno. Per contro, nei Stati moderni
non v'è potere, limitato che sia, il quale non tenti e non riesca ad
usurpare; ciò dipende dalla condizione economica della società, ed
ogni rimedio, finché non cangia il patto, è vano.
Molti osserveranno che, per attuare una simile trasformazione, sarà
necessario far violenza ai proprietarî ed ai capitalisti; e noi
risponderemo che sí; e in forza di quel diritto medesimo che hanno
gli oppressi di abbattere la tirannide, che ha la società presente
contro i ladri.
Finalmente, se in cotesta trasformazione, certo meno violenta di
quello che molti si vanno immaginando, molti interessi privati
soffriranno, e moltissimi cadranno nella lotta, noi risponderemo che
le rivoluzioni in cui tutti si salvano, esistono solo nella mente
dei dottrinanti e degli utopisti; la rivoluzione è sempre una lotta
di oppressi contro una classe di oppressori, quindi se vi sarà
vittoria, vi sarà eziandio disfatta; scacciare un re dal trono non è
rivoluzione: la rivoluzione si compie quando le istituzioni, gli
interessi, su cui quel trono poggiava, son cangiati.
Conchiudiamo, ripetendo agli economisti le medesime loro parole:
«Non si giunge senza perdite sulla breccia. Né possiamo tener conto
delle vittime che il carro del progresso schiaccia nel suo corso».
Ed usando il medesimo linguaggio di Malthus diremo: «La Natura ha
prescritto all'uomo di lavorare per vivere, l'ozioso non ha piazza
nel banchetto della vita; la Natura gli comanda d'andarsene, né
tarderà dare ella medesima esecuzione alla sua sentenza».
XIX. La filosofia della storia prova ad evidenza che l'umano
istinto, come è sua natura, considerando la sola apparenza e
l'effetto immediato delle cose, senza riflettere sulle conseguenze
che ne risultano, va soggetto ad un continuo errare; quindi la
pubblica educazione, che ferma l'attenzione e sviluppa il pensiero,
non solo è dovuta di diritto ad ognuno, ma è il cardine principale
della libertà.
Il Filangieri, col suo naturale splendore, lungamente ha ragionato
di ciò, ma suo malgrado, soggiacque ai pregiudizî ed alle opinioni
dell'epoca. Egli richiede la prosperità universale come una
condizione indispensabile alla felicità di uno Stato «che può dirsi
ricco e felice, egli scrive, solo quando ogni cittadino, con un
lavoro discreto di alcune ore, può comodamente supplire ai suoi
bisogni ed a quelli della sua famiglia». Nell'epoca in cui visse
l'Autore, l'accrescimento continuo del prodotto faceva credere come
cosa possibile che la prosperità potesse un giorno non ugualmente ma
equamente spandersi su tutti; non ancora l'esperienza avea
dimostrato il contrario e disingannato gli illusi; non ancora la
ragione avea sentenziato che l'universale miseria e l'opulenza di
pochissimi è il risultamento inevitabile del presente patto sociale.
Il Filangieri adattò il suo sistema d'educazione ad una società
composta di due classi, ricchi e non ricchi; destinava i primi a
servire la società con la mente, i secondi con le braccia, e quindi
due metodi diversi di educazione. Per impedire che sorgessero un
gran numero di semi-dotti, che ora si vedono, i quali senza utile
della scienza privano il lavoro di braccia, fece in modo che la
dottrina fosse accessibile, per le spese che richiedeva, ai soli
ricchi. Ma cotesta base, sulla quale poggiano le diverse parti del
suo sistema, egregie tutte, è erronea.
La diversità delle incumbenze, cioè: servire la società con la mente
o con le braccia, dal sistema del Filangieri era resa ereditaria, ed
il popolo sarebbe stato diviso in due classi, non solo separate dal
caso distributore delle ricchezze, ma dalle leggi, che non per
diritto, ma di fatto accordavano ai soli ricchi il monopolio della
scienza. Né il vendere a caro prezzo la dottrina avrebbe minorato il
numero de' semi-dotti, anzi ciò l'avrebbe accresciuto oltre misura.
La vera dottrina è raggiunta solo da quelli che la Natura predispone
a ciò, concedendo loro le necessarie facoltà per conseguirla, ed a
questa predisposizione, che sola non basta, fa d'uopo che si
aggiungano de' gagliardi moventi, che gli avvenimenti, a cui la
società va soggetta, creano; e tanto l'una, come gli altri
difficilmente si riscontrano, raramente operano fra il giro
ristrettissimo dei ricchi, a cui l'abbondanza, il lusso
inflaccidiscono le fibre, e piú all'ozio che alla solerzia li
predispongono; i ricchi non sarebbero che semi-dotti, e divenuta la
dottrina un privilegio da ottenersi a prezzo d'oro, i semi-ricchi,
per far comprendere i loro figli fra coloro che debbono servire lo
Stato con la mente, ovvero comandare, farebbero qualunque
sacrifizio, ed il numero dei semi-dotti verrebbe accresciuto in
immenso; inoltre ne seguirebbe lo scadimento, l'avvilimento del
lavoro, e di coloro che i ristretti mezzi condannerebbero a servire
la patria con le braccia. Cosí ogni legge, che per impedire un male
qualunque, pregiudica la libertà e l'uguaglianza, produrrà sempre un
effetto diverso da quello che si propone il legislatore.
Gli uomini sono naturalmente inclinati al lavoro delle braccia, si
giovano delle facoltà mentali per agevolare il lavoro di quelle; la
dottrina, l'astrazione non è naturale all'uomo. Ma i governi d'oggi,
che per intervenire in ogni cosa creano un numero strabocchevole di
salariati; la farragine di leggi oscure e contradditorie d'onde
pullulano a sciami i curiali come dalla putredine gli insetti, e
salariati e curiali impinguandosi a spese di coloro che lavorano,
hanno diviso la società in scorticatori e scorticati, ed avvilito il
lavoro. Ognuno, se sa leggere, potendo farsi comprendere fra i
primi, crede avvilirsi se adopera la vanga o conduce l'aratro. Ma,
allorché sarà data al lavoro la considerazione che merita, nessuno
l'abbandonerà per una semi-dottrina che non potrà fruttargli né
considerazione né lucro. Lasciamo a tutti aperta la via che mena
alla scienza, ed essa sarà percorsa, volontariamente, solo da coloro
che Natura ha destinato a sublimarsi in essa. Questo è il principio
generale sul quale bisogna basare il sistema d'educazione, nei
particolari egregiamente svolto dal Filangieri; e però noi [non
faremo che] accennare poche idee senza dilungarci su di un argomento
ampiamente trattato da grandissimi ingegni.
Sino all'età dei sette anni, le cure materne sono indispensabili ai
fanciulli, sono prescritte dalla Natura: raggiunta questa età lo
sviluppo fisico è pienamente assicurato, l'educazione del fanciullo
verrà affidata allo Stato.
Ogni Comune avrebbe il suo ginnasio ove si troverebbero tutti i
mezzi necessarî allo sviluppo completo delle facoltà fisiche e
morali. Né dovrebbe trascurarsi la sublime idea del Campanella di
adornare le pareti con dipinti che tutte le scienze
rappresentassero.
Non dovrebbero i convittori vivere in comune, imperocché per
ottenere l'unità nazionale bisogna riserbare integra ogni
individualità, ed il vivere sempre insieme forma sette, quindi i
giovanetti sarebbero tutti alunni esterni.
L'educazione in questi ginnasi durerebbe sino all'età di quindici
anni, nel qual tempo ogni alunno apprenderebbe un'arte di suo
gradimento. Dai quindici ai sedici tutti sarebbero obbligati di
assistere ad un corso di filosofia civile ed origine di tutti i
culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e potesse
garentirsi dalla superstizione. Ai sedici anni le naturali
inclinazioni son pienamente sviluppate, ogni giovane dichiara la sua
volontà, e sceglie l'arte o la professione alla quale vuol
dedicarsi. Lo Stato gli accorda altri due anni d'istruzione nella
specialità da esso prescelta, e queste scuole di tecnologia si
troverebbero nelle principali città d'Italia. A diciotto anni la
tutela della nazione cessa, ed il giovane, avendo il diritto di
entrare in un'associazione di sua scelta, è dichiarato cittadino e
milite, e deve da sé procacciarsi da vivere.
Ragioneremo ora dell'educazione delle donne e di ciò che ad esse
riguarda, con la brevità medesima che ci siamo imposti in questo
ramo della costituzione sociale. Sarebbe stata una lacuna troppo
significante, tacendo della piú bella parte del genere umano,
depositaria dei piú vivi ed ardenti piaceri. La Natura ha dato loro
fibre piú delicate e piú sensibili delle nostre, e però le loro
sensazioni vivissime non possono essere che fugaci; elleno non
possono sopportare lungamente l'impero d'una passione, che deve in
loro ammorzarsi con la rapidità medesima che si desta. Capaci di
quelle azioni ove il decidersi e l'eseguire succedonsi rapidamente,
son poi incapaci di sopportar a lungo dolori, e mirare al
conseguimento di un fine con attenzione profonda e prolungata:
brillano sí, ma non grandeggiano.
L'amore nelle donne ha un carattere diverso che nell'uomo; l'uomo
s'accende delle bellezze della donna e desidera fortemente, la donna
invece è presa dall'amore che inspira, non desidera, ma brama di
essere desiderata. Dante parlando di Francesca, ha espresso questa
idea:
Amor che a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer sí forte
di quinci il pudore, che accresce in altri il desiderio. Epperò [la]
preponderanza dell'amore sulle altre passioni, aggiunte alle cure ed
agli incomodi di dovere esser madre, la rendono inabile al governo
ed alla milizia, quindi non potrebbero aver voto nelle cose
pubbliche. Ma, d'altra parte, la Natura, avendole create abili a
procacciarsi come vivere, le ha dichiarate, perciò, indipendenti e
libere, e tale dovrà essere la loro condizione sociale. Esse saranno
educate come gli uomini, con i riguardi e le modifiche nel metodo,
che si debbono alla gentilezza del sesso; al pari degli uomini, con
uguali diritti, dovranno essere ammesse in quelle società che
prescelgono. Probabilmente i lavori da sarto, da crestai, le belle
arti, da donne sarebbero tutte esercitate.
Tutte le leggi sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e
l'ignoranza stabilí fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio
risultò dai ratti che i piú forti fecero delle piú belle, e se ne
usurparono il godimento. La Natura, per contro, sottopone l'unione
dei due sessi alla sola legge dell'amore, e se un'altra regola,
qualunque siasi, interviene, l'unione cangiasi in contratto, in
prostituzione. La meretrice che senza amore vende il suo corpo, la
donna che senza amore sottoscrive ad un contratto matrimoniale si
prostituiscono egualmente. La prima vi è costretta dal bisogno e
vendesi per breve tempo, l'altra è piú spregevole, perché, senza
bisogno, vendesi per sempre; quella non promette amore né si obbliga
a rinunziarvi, questa lo promette per sempre quasi premeditando lo
spergiuro. L'amore adunque nel nostro patto sociale sarà la sola
condizione richiesta che tende legittimo il congiugnimento de' due
sessi; se manca l'amore, la volontà, la libertà diventa
prostituzione.
La comunanza delle donne non è naturale, l'amore è esclusivo, quasi
tutti gli animali non si accoppiano che con una sola femmina; le
varie coppie si formeranno da sé, l'unione durerà finché dura
l'amore, cessato questo l'unione è sciolta di fatto.
L'uomo deve provvedere alla sussistenza della sua compagna finché i
doveri di madre gl'impediscono di lavorare.
I figli rimarranno con la madre, alla quale per legge di Natura
appartengono. Sino ai sette anni essa provvederà, con l'aiuto del
padre, che dovrà concorrere alle spese necessarie per essi con una
somma proporzionata ai suoi lucri. Dai sette anni ai diciotto la
Nazione ne assume la tutela e l'educazione; ai diciotto sono liberi
affatto e provvedono a loro medesimi.
Non essendovi testamenti, né le altre mostruose leggi che vorrebbero
rendere ereditario finanche il merito, il formarsi e lo sciogliersi
delle coppie non ha ostacoli né impaccio di sorte alcuna.
Qui fo fine ed avendo misurate le vele col vento ed il timone con
l'onde, non mi sono imposto l'obbligo di risolvere il problema
sociale; il mio proposito è stato di mostrare la profondità delle
piaghe, e l'inefficacia d'ogni rimedio, finché non venga estirpato
il diritto di proprietà e le sue conseguenze, e questo proposito
credo d'averlo compito; spetta all'intera nazione di stabilire, dopo
aver tolto gli ostacoli che ho additati, la sua nuova costituzione,
e se ho cercato d'indicarne i punti principali, l'ho fatto solo per
rintuzzare la stupida risposta: è impossibile vivere altrimenti. Il
rinvenire in questo cenno degl'incovenienti non sarà difficile, ma
saranno, certamente, molto minori de' mali sotto cui l'umanità geme
oppressa, mali che fatalmente, senza tregua, ingrandiscono; mali,
che la prepotente forza dell'abito fa credere inevitabili, e perciò
vengono, con pazienza, sofferti.
Nella ricerca della nuova costituzione sociale ho seguito il metodo
semplicissimo, che il corso naturale degli avvenimenti additavami:
distruggere il presente, e creare il nuovo patto sociale, basandolo
su' principî che le leggi magistrali della Natura c'insegnano. Ho
svolto poi i vantaggi del sistema dimostrando che le tendenze
funeste della presente società vengono completamente a cangiarsi.
Conchiudo con rammentare a' conservatori che la rivoluzione sociale
non sarebbe affrettata neppur di un'ora, eziandio se tutto il mondo
riconoscesse attuabile un nuovo ordinamento sociale; questa crisi
della società dipende da cagioni assai piú terribili e fatali; essa
dipende dalle tendenze che inesorabilmente, in progressione
geometrica, si manifestano. Potete voi, non già estirpare la
miseria, ma evitare che cresca? potete voi negare che la forza
materiale è dalla parte di coloro che soffrono? e se le tradizioni e
l'inerzia formano il solo fascino per cui la società presente non
crolla, in un istante impreveduto può rompersi l'incanto.
XX. Senza accordare importanza soverchia a' colori d'una bandiera ed
alla formola scritta su di essa, esporremo la nostra opinione su di
ciò, poiché trattasi di cosa che richiede pochissima fatica;
opinione di cui ci faremmo i propugnatori in un'assemblea, se mai
potesse capitarne l'occasione.
Fintanto che la nazione non sarà perfettamente libera, ed avrà
completamente debellati i suoi nemici, non bisogna né discutere, né
porre in dubbio, quale dovrà essere la bandiera che ci condurrà alla
battaglia. Il vessillo tricolore è da tutti riconosciuto, e ciò
basta: ove sventola e rannoda de' guerrieri intorno a sé, questi
guerrieri combattono pel trionfo della rivoluzione italiana, e
nessun rivoluzionario può astenersi dal seguirli; ma se su tale
bandiera scorgesi un simbolo od una formola, allora ognuno ha il
diritto di dire: quella causa non è causa che mi riguarda, e per la
quale io combatto; proporre formole è un dissolvere, e dissolvere
per puerile soddisfazione personale.
Terminata la guerra, ricostituita l'Italia, conserverà essa il
tricolore vessillo, o adotterà un'altra bandiera? pare che le
opinioni potrebbero dividersi su tale argomento; alcuni
sosterrebbero con ragione che la nuova costituzione sociale, non
ammettendo divisione di potere, ma le leggi, la loro esecuzione, il
loro sindacato, tutto trovandosi nel popolo, la pluralità de'
colori, che precisamente accenna è assurda, quindi diranno: sia qual
si voglia il colore della bandiera, ma sia un solo. Altri invece
potranno sostenere che il vessillo tricolore, intorno a cui si
saranno vinte tante battaglie, è troppo caro, è troppo ricco di
gloriose reminiscenze, per abbandonarlo, perché non trovasi
perfettamente d'accordo con la logica: noi saremmo tra questi
ultimi, proponendo solo che il berretto frigio ne sormonti l'asta,
escludendo ogn'altro simbolo d'autorità e di conquista, e che nel
mezzo di esso, l'archipendolo indichi come l'uguaglianza sia il
patto fondamentale di nostra costituzione.
Rimane ora a discutere quale sarà la formola che adotterà la
nazione, noi trascriveremo il ragionamento sensatissimo, che
troviamo nell'opera di Ausonio Franchi, La Religione del secolo XIX,
in cui si fa paragone tra la formola francese, Libertà, Eguaglianza,
Fratellanza e la formola di Mazzini, Dio e Popolo:
«Esaminiamo le differenze radicali, finora poco avvertite, e
nondimeno importanti, che Mazzini scorge fra una formola e l'altra.
"La Francese è essenzialmente storica; ricapitola in certo modo la
vita dell'umanità nel passato, accennando poco definitivamente al
futuro". Questo giudizio, né quanto al passato, né quanto al futuro,
non parmi esatto. La formola: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, non
può dirsi che recapitoli la vita reale dell'umanità nel passato;
perché non può ricapitolarsi quello che non è ancora esistito, e
Mazzini per fermo non saprebbe indicarci nessun'epoca della storia
in cui già regnasse la libertà, l'eguaglianza e la fratellanza
universale. Onde egli stesso, tracciando l'ordine e lo sviluppo con
cui si vennero elaborando i tre elementi della formola, parla sempre
dell'idea, non mai del fatto. E però, se la formola teoricamente è
la ricapitolazione del passato, praticamente è la legge del futuro;
legge, non poco definita, ma cosí chiara, che non ha mestieri
d'alcuna spiegazione; cosí vasta, che abbraccia tutte le condizioni
private e pubbliche della vita; cosí progressiva, che nemmeno col
pensiero si può oltrepassare la perfezione, che prefigge qual meta
alla carriera dell'umanità.
"La formola italiana (cosí appella Mazzini la sua) è invece
radicalmente filosofica; accettando le conquiste del passato, guarda
risolutamente al futuro, e tende a definire il metodo piú opportuno
allo svolgimento progressivo delle facoltà umane". Confesso che
tutto questo periodo è per me un enigma. In qual senso può mai
chiamarsi filosofica l'espressione: Dio e il Popolo? Nessuno di
questi due termini ha qualche relazione particolare con la
filosofia: non Dio, perché è concetto religioso anziché scientifico;
non il Popolo, perché è concetto empirico anziché scientifico
razionale. E come può dirsi che quella formola accetti le conquiste
del passato? Né Dio né il Popolo sono principî che l'umanità abbia
conquistato: ma l'uno è il simbolo di un sentimento connaturale allo
spirito umano, e l'altro per sé non è che un fatto materiale. Come
può dunque guardare al futuro? Come tendere a definire un metodo
qualsiasi per lo svolgimento delle umane facoltà? Ho un bel ripetere
a me stesso: Dio e il Popolo; io non ritrovo in queste parole né
passato, né futuro; non ci veggo né definizione, né metodo di sorta;
non ci sento né progresso, né svolgimento di nessuna facoltà:
scientificamente non ci trovo nulla; perché Dio è un'incognita, e il
Popolo è un fenomeno di storia naturale.
"La prima esprime compendiato un grande fatto: la seconda scrive su
la bandiera un principio. La prima definisce, afferma il progresso
compiuto: la seconda costituisce lo strumento del progresso, il
mezzo, il modo, per cui deve compirsi". A me sembra tutto il
contrario. La formola francese non esprime un fatto, ma un
principio; perché i suoi elementi sono idee, sono verità che hanno
ancora da incarnarsi e realizzarsi nella storia. Essa adunque
afferma bensí un progresso compiuto nell'ordine del pensiero, ma
determina insieme la legge del progresso da compiersi nell'ordine
dell'azione. All'incontro, la formola di Mazzini non significa né il
progresso compiuto, né quello da compirsi; né la verità d'un
principio, né la legge d'un fatto; e l'ingegno il piú acuto ed
analitico del mondo non arriverà giammai a scoprire in quelle due
voci la costituzione di uno strumento, di un mezzo, di un modo quale
che sia di progresso.
Ben ve lo scorge Mazzini, lo so; ma ve lo scorge mediante un
commento che dà ai due termini un senso tutto suo proprio. Egli
continua infatti: "Una formola filosofico-politica, per aver dritto
e potenza d'avviar normalmente i lavori umani, deve racchiudere due
sommi termini: la surgente, la sanzione morale del progresso: la
legge e l'interprete della legge".
Questa nozione della formola politica, a mio avviso, è falsa. Una
formola scientifica non è altro, che l'espressione chiara e concisa,
e quasi la riduzione a' minimi termini di una legge. Ora che cosa
sono, nel linguaggio filosofico, le leggi? Sono i rapporti naturali
e necessarî degli esseri. Ma per determinare questi rapporti non fa
d'uopo di assegnarne la surgente; e nessuna legge fisica,
matematica, metafisica e morale si fa dipendere in alcuna guisa dal
concetto della sua causa. Dunque il primo termine, che Mazzini
prescrive alla formola, non le appartiene. E non le appartiene
neppur il secondo, che è, giusta la sua dottrina, la sanzione o
l'interpretazione della legge. In primo luogo, perché la sanzione
d'una legge non ha che fare con la sua interpretazione: identificare
l'una con l'altra, è distruggerle entrambe. In secondo luogo, perché
la formola d'una legge è affatto diversa ed indipendente dalla sua
interpretazione e dalla sua sanzione: le sono quistioni d'ordine e
di natura al tutto differente: confonderle in una è renderle
insolubili tutte.
La formula politica adunque non deve esprimere altro che la legge
sociale, ossia i rapporti naturali e necessarî de' cittadini verso
la nazione, e delle nazioni verso l'umanità. La surgente poi e la
sanzione di questa legge sono due problemi a parte, gravissimi e
importantissimi quanto si voglia, ma indipendenti dalla formola.
Dunque allorché Mazzini soggiunge: "Questi due termini mancano alla
formola francese, costituiscono l'italiana", pronuncia
senz'accorgersene il piú grande elogio di quella e la piú severa
condanna della sua.
"La surgente, la sanzione morale della legge sta in Dio, cioè in una
sfera inviolabile, eterna, suprema, su tutta quanta l'umanità, e
indipendente dall'arbitrio, dall'errore, dalla forza cieca e di
breve durata. Piú esattamente Dio e legge sono termini identici".
Con questo commento, lungi dallo spiegare la sua formola, Mazzini
l'immerge in un pelago di nuove difficoltà e di nuovi misteri. Se
Dio e legge sono termini identici, la sua tesi, che la surgente, la
sanzione della legge sta in Dio, equivale precisamente a
quest'altre: la surgente della legge è la legge: - la sanzione della
legge è la legge; - la surgente di Dio è Dio; - la sanzione di Dio è
Dio; - la legge è la legge, - Dio è Dio. - E che senso daremo noi a
questo gergo? Inoltre se la legge è Dio, convien dunque sapere che
cos'è Dio per conoscere che cosa sia la legge. E il Dio di Mazzini
qual è? Ecco il nodo della questione. L'accennare, come egli fa, ad
una sfera inviolabile, eterna, suprema, non è definire; poiché a
tutte quante le religioni e le sette possono appropriarsi quelle
belle parole; ma son parole! Avanti d'accettare la sua formola,
dobbiamo chiedergli che ci dica una buona volta, senza ambagi e
senza tropi, che cos'è Dio? Ovvero fra i varî Dei presentemente noti
in Europa, qual è il suo? Teologicamente noi possiamo annoverarne
quattro, assai diversi fra loro: il Dio degli ebrei, il Dio de'
cattolici, il Dio de' maomettani, e il Dio de' protestanti.
Filosoficamente, poi, li Dei possono contarsi a centinaia. Ciascuno
de' molti sistemi di panteismo, di materialismo, di spiritualismo,
d'idealismo, ecc., ha un suo Dio particolare, che è sempre la
negazione del Dio di ciascun altro. Or bene: fra questa turba di
Dei, qual è il Dio che Mazzini adora e che vuol farci adorare? Da'
suoi scritti non mi venne mai fatto di raccapezzarlo; poiché ci sono
frasi per tutti: ce n'è per il Dio del papa, per quello di Lutero,
per quello di Maometto, per quello di Socino, per quello di
Rousseau, per quello di Spinoza… Non è dunque possibile che la sua
formola abbia un valore, finché il primo e massimo elemento non è
ben definito.
"L'interpret[azione] della legge fu problema continuo all'umanità. -
La formola italiana affida l'interpretazione della legge al popolo,
cioè alla Nazione, all'Umanità collettiva, all'associazione di tutte
le facoltà, di tutte le forze, coordinate ad un patto". Qui abbiamo
una certa definizione; ma siccome è arbitraria, cosí non vale a
costituire né legge né formola veruna. Chi abbia già del Popolo la
sublime idea che a Mazzini venne inspirata dal suo nobile cuore,
dirà come lui, certamente: ma i termini d'una formula, di una legge
sociale, devono portare in se stessi il loro valore, e non ritrarlo
dall'arbitrio e dall'intenzione dello scrittore. Fra i due termini
Dio e il Popolo, non è espresso alcun rapporto; dunque o bisogna
supporre che l'unico rapporto possibile sia quello di Mazzini; o
altrimenti la sua formula non significa nulla perché non determina
nulla. Il primo caso non è ammessibile, dacché ripugna egualmente
alla logica ed alla storia; dunque sta il secondo.
"La formola italiana, intesa a dovere, sopprime dunque per sempre
ogni casta, ogni interprete privilegiato, ogni intermediario per
diritto proprio tra Dio, padre e inspiratore dell'umanità, e
l'umanità stessa". Ma perché possa produrre tanti bei frutti la
formola va intesa a dovere, cioè nel senso di Mazzini; chè,
altrimenti, preso ciascun termine come suona, non ha senso alcuno
determinato. E questa clausola sola non prova abbastanza la completa
nullità della formula mazziniana? La francese all'incontro sopprime
ogni casta, ogni interprete privilegiato, senza bisogno di chiose
che ne la facciano intendere a dovere; ma semplicemente in virtú del
senso naturale, ordinario e vulgarissimo delle parole. Dovunque sia
libertà, eguaglianza e fratellanza, ivi è impossibile fino il
concetto di casta e di privilegio; laddove Dio e il Popolo son
dappertutto, e pure dappertutto regna il privilegio e la casta.
"La formula italiana, generalizzata da una nazione all'associazione
delle nazioni, dichiara fondamento d'una teoria della vita: Dio è
Dio, e l'umanità è suo profeta". Non so capire come un apostolo del
progresso abbia potuto tenere questo linguaggio che odora cosí forte
di musulmano. Oh! Mazzini dovea lasciarlo a quei devoti e fanatici
settarî, i quali credono tanto piú fermamente una cosa, quanto piú è
incomprensibile ed assurda; ma egli parla ad uomini civili del
secolo XIX, e sa meglio di me che costoro non sono disposti a
credere se non quello che intendono. O spera forse d'aver loro tolto
ogni dubbio e chiarita ogni difficultà con quella strana
definizione: Dio è Dio? E quando avranno imparato che Dio è Dio,
conosceran poi davvero che cos'è Dio? Quando pure gli concedano che
l'Umanità è profeta di Dio, potranno persuadersi d'aver trovato il
fondamento d'una teoria della vita? Una teoria non può assumere per
fondamento se non un principio certo ed evidente; e Mazzini vuol
fondare la teoria della vita sopra d'un giuoco di parole, sopra di
un'incognita?
"La formula italiana è dunque essenzialmente, inevitabilmente,
esclusivamente repubblicana; non può uscire che da una credenza
repubblicana; non può inaugurare che repubblica". Ed anche questa
conclusione è fallace. La formula Dio e il Popolo non è, e non può
dirsi né esclusivamente, né inevitabilmente repubblicana, poiché è
essenzialmente indeterminata, ossia nulla. Essa riceve il suo
significato dal carattere di chi la proclama; ed è repubblicana
sulla bandiera di Mazzini, come sarebbe teocratica su quella di Pio
IX.
"La formula francese, non accennando alla surgente eterna della
legge, ha potere per difendere con la forza, co 'l terrore, non con
l'educazione, alla quale manca la base, le conquiste del passato; è
muta, incerta, mal ferma su l'avvenire". V'ha qui un gruppo di
metafore, in cui non veggo lume da nessuna parte. Accusare una
formula di non potersi difendere! Mescolare insieme formula e forza;
formula e terrore, formula ed educazione! O che? la formula
dev'essere dunque un esercito o una fortezza, una scuola o
un'accademia? E la formula di Mazzini ha dunque il potere di
educare? A crederlo però aspetteremo di vederla salire in bigoncia,
e di ascoltare le sue pedagogiche lezioni!… Del resto che la
francese non accenni alla surgente della legge, è appunto il suo
pregio e il suo merito principale; e che sia muta, incerta, mal
ferma su l'avvenire, non può sostenerlo, se non chi ignori o voglia
affatto dimenticare il senso piú ovvio delle parole libertà,
eguaglianza, fratellanza.
Il rimanente del suo discorso dovrei dire, se non si trattasse di
Giuseppe Mazzini, che offende troppo il senso comune: "La formola
francese non definendo l'interprete della legge, lascia schiuso il
varco agl'interpreti privilegiati, papi, monarchi o soldati. Quella
formola poté nascere dagl'ultimi aneliti d'una monarchia: sussistere
ipocritamente in una repubblica che strozzava la libertà
repubblicana di Roma: soccombere sotto il nepote di Napoleone, che
dichiarava: io sono il migliore interprete della legge, io sarò
tutore alla libertà, all'eguaglianza, alla fratellanza de' milioni".
Come! Mazzini trova modo di associare insieme questi concetti:
libertà e privilegio, eguaglianza e papa, fraternità e monarca o
soldato! Ma se questi non sono concetti rigorosamente,
evidentemente, palpabilmente contraddittori, c'insegni un po' che
cosa sia ripugnanza e contraddizione; giacché, se mi permette di
ragionare con la sua logica, io gli convertirò tutti gli assurdi in
altrettanti assiomi. Inoltre, quel rimprovero che esso rivolge alla
formola francese, mi fa nuovamente dubitare ch'egli esiga proprio
dalle formole l'officio degli schioppi, dei cannoni e delle bombe.
Ma non è una stranezza, a dir poco, l'imputare ad una formola le
iniquità di un governo? Quelle iniquità erano forse una conseguenza
legittima e necessaria di quella formola? Questo governo era forse
fedele al suo principio? A chi mai farà credere Mazzini che se in
luogo delle parole: liberté, égalité, fraternité, fosse stato
scritto in fronte a' pubblici monumenti: Dio e il Popolo,
l'assemblea francese non avrebbe decretato la spedizione di Roma, né
il Bonaparte avrebbe fatto il colpo di stato? Le parole: Dio e il
Popolo ben erano scritte sulle bandiere di Roma; e perché non fecero
il miracolo di salvarla? Perché Mazzini non isconfisse i battaglioni
francesi, non disperse le artiglierie tedesche, non mantenne saldi
ed incolumi i bastioni italiani co 'l suo magico grido: Dio e il
Popolo? - In verità, io arrossisco di dover discutere argumenti cosí
stravaganti. No, Napoleone non commise la follia di dichiararsi
tutore della libertà, dell'uguaglianza, e della fratellanza dei
milioni. Egli fu assai piú consentaneo a se stesso: "giú la libertà,
egli disse, giú l'eguaglianza e la fratellanza! Io sono il vincitore
e comando: il popolo è vinto e obbedisca". E quella povera formula,
che Mazzini stima conciliabile di fatto col dispotismo, Napoleone
non la giudicò compatibile, né pur di solo nome, co 'l suo potere:
la cancellò dapertutto! Ma invece quale è la formula che trovò bella
e fatta per lui? È quella di Mazzini: in nome di Dio e del Popolo
(par la grace de Dieu et la volonté nationale)…
Ed è la storia, non io, che dà una smentita cosí fresca e solenne a
quell'altra singolare asserzione: "Né papa né re potrebbero assumere
co' repubblicani italiani linguaggio siffatto. La formola
inesorabile gli direbbe: non conosciamo interpreti intermediarî,
privilegiati tra Dio e il popolo; scendi ne' suoi ranghi, ed
abdica". Sí, Bonaparte ha assunto linguaggio siffatto co'
repubblicani; e la formola di Mazzini si mostrò, non mica
inesorabile, ma la piú compiacente e pieghevole creatura del mondo.
Essa non solamente stette cheta e si tacque; ma fece assai piú, ed
assai peggio. Si presentò lesta lesta al Bonaparte e gli disse: "Tu
cerchi un'insegna per la tua bandiera ed un'iscrizione pe' tuoi
decreti: eccomi qua, nata, fatta per te. Grida sempre: Dio e Popolo,
e fa quel che vuoi: tu avrai sempre ragione". Oh! Mazzini è tornato
in mal punto a celebrare la sua formola. Doveva almeno purgarla dal
fango, di cui l'ha contaminata Bonaparte! e assolverla dall'infamia,
onde l'hanno coperta i bonapartisti!…»
Ho cominciato a trascrivere questa splendida confutazione della
formula mazziniana, col proposito di sceverarla de' periodi meno
interessanti; ma, fatta eccezione di alcune parole, nel principio ed
alla fine, le une che servono di legame con quello di cui
precedentemente ragiona l'A. e le altre che riguardano lui
personalmente, non ho trovato nulla che ridondi, che non interessi,
che non piaccia, perciò interamente e fedelmente l'ho trascritta.
Aggiungo ora le mie osservazioni.
Le condizioni alle quali debba soddisfare una formola politica,
attenendoci alle opinioni medesime del Mazzini e del Franchi, sono
che: deve esprimere la verità d'un principio, la legge d'un fatto;
un principio che, base del patto sociale, determini i rapporti de'
cittadini fra loro e con la società, ed accenni eziandio la legge
che darà norma al progresso futuro. E tutto ciò, leggendo la
formola, deve presentarsi chiaro, immediato, concreto alla mente
d'ognuno, senza aver bisogno d'interpreti o di commenti.
A me pare che la formola francese non soddisfi a queste condizioni.
Il suo merito altro non è che non contraddirle. Libertà non può
esistere senza eguaglianza; quindi una di queste due parole ridonda;
se tutti sono eguali non potranno essere che liberi, né potranno
dirsi liberi i cittadini fra cui non siavi eguaglianza; e la
fratellanza poi, come che accenni il fine a cui tende la nazione, il
patto che lega i cittadini è un'ipocrisia perché non esiste in
natura; e se i cittadini vivranno come fratelli perché tali li
rendono gl'interessi tutti cospiranti al bene pubblico, non perciò
saranno tali; inoltre da questa parola viene l'odore del
cristianesmo a mille miglia.
Non comprendo come sia sfuggita alla mente di tutti la formola
semplicissima e chiarissima, già titolo d'un savio giornaletto che
pubblicavasi in Genova:
LIBERTÀ ED ASSOCIAZIONE.
Questa formola, evidente per se medesima, non ha bisogno né
d'interpreti, né di commenti; essa è un principio, ed è quello
appunto su cui deve basarsi il patto sociale: la libertà esprime il
diritto d'ogni Italiano, l'associazione la sola legge a cui si
sottopongono, il solo patto che li unisce, l'unico rapporto sociale;
e sotto questa unica legge, eziandio, deve svilupparsi l'indefinito
progresso sociale.
Come Ausonio Franchi, dico che per noi deve essere «nostrale ogni
verità, straniero ogni errore»: ma in parità di circostanze
preferisco ciò ch'è italiano a ciò ch'è straniero. E quando ad una
formola adottata da un'altra nazione io trovo da sostituirne altra
uguale o migliore, non dubito un istante, perché l'imitazione mai è
scompagnata da qualche cosa di servile. Sono umanitario, ma
innanzitutto italiano, e come in una nazione non può costituirsi il
nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed
intera la sua individualità, cosí non vi sarà fratellanza, o meglio
associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua
completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che
ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che
dobbiamo fare noi Italiani, onde avviarci alla soluzione del
problema umanitario, è quello di sentirci e di costituirci
esclusivamente italiani. Come dalla libera manifestazione del
pensiero d'ognuno risulta il vasto concetto nazionale; cosí dalla
libertà ed esistenza propria ed assoluta d'ogni nazione può
risultarne il patto umanitario; chi ammette supremazia di nazione,
astri e satelliti, nega la rivoluzione verso cui aspiriamo.
[Testamento politico]
Genova, 24 giugno 1857.
Nel momento d'avventurarmi in una intrapresa risicata, voglio
manifestare al paese la mia opinione per combattere la critica del
volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire ai
vinti.
I miei principî politici sono sufficientemente conosciuti; io credo
al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai sistemi francesi,
tutti piú o meno fondati sull'idea monarchica e dispotica, che
prevale nella nazione: esso è l'avvenire inevitabile e prossimo
dell'Italia e fors'anche dell'Europa intiera. Il socialismo, di cui
parlo, può definirsi in queste due parole: libertà e associazione.
Questa opinione fu da me sviluppata in due volumi, che ho composto,
frutto di quasi sei anni di studi, ai quali per mancanza di tempo
non ho potuto dedicare le ultime cure che richiedono lo stile e la
dizione. Se qualcheduno fra [i] miei amici volesse surrogarmi e
pubblicare questi due volumi, io gliene sarei riconoscentissimo.
Io sono convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le
macchine, i miglioramenti dell'industria, tutto ciò finalmente che
sviluppa e facilita il commercio, è da una legge fatale destinato ad
impoverire le masse fino a che il riparto dei benefizi sia fatto
dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma li
accumolano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto
vantato progresso termina per non esser altro che decadenza. Se tali
pretesi miglioramenti si considerano come un progresso, questo sarà
nel senso di aumentar la miseria del povero per spingerlo
infallibilmente a una terribile rivoluzione, la quale cambiando
l'ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a
profitto di alcuni.
Io sono convinto che l'Italia sarà grande per la libertà o sarà
schiava: io sono convinto che i rimedî temperati, come il regime
costituzionale del Piemonte e le migliorie progressive accordate
alla Lombardia, ben lungi dal far avanzare il risorgimento d'Italia,
non possono che ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io non farei il
piú piccolo sacrifizio per cambiare un ministero o per ottenere una
costituzione, neppure per scacciare gli Austriaci dalla Lombardia e
riunire questa provincia al regno di Sardegna. Per mio avviso la
dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa
d'Austria sono precisamente la stessa cosa. Io credo pure che il
regime costituzionale del Piemonte è piú nocivo all'Italia di quello
che lo sia la tirannia di Ferdinando II. Io credo fermamente che se
il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che lo furono
gli altri Stati italiani, la rivoluzione d'Italia sarebbe a
quest'ora compiuta.
Questa opinione pronunciatissima deriva in me dalla profonda mia
convinzione di essere la propagazione dell'idea una chimera e
l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non
questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto,
ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero. La sola cosa, che può
fare un cittadino per essere utile al suo paese, è di attendere
pazientemente il giorno, in cui potrà cooperare ad una rivoluzione
materiale: le cospirazioni, i complotti, i tentativi di insurrezione
sono, secondo me, la serie dei fatti per mezzo dei quali l'Italia
s'incammina verso il suo scopo, l'unità, L'intervento della
baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto piú efficace
che mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del
nostro paese e del mondo intiero.
Vi sono delle persone che dicono: la rivoluzione dev'esser fatta dal
paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e
se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza
prepararla colla cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai.
Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione deve farsi dal paese
e siccome io sono parte infinitesimale del paese, cosí ho io pure la
mia parte infinitesimale di dovere da adempiere, e l'adempisse, la
rivoluzione sarebbe fatta immediatamente e riuscirebbe invincibile
perché immensa. Si può non esser d'accordo sulla forma di una
cospirazione, sul luogo e sul tempo in cui una cospirazione debba
compiersi: ma non essere d'accordo sul principio è un'assurdità,
un'ipocrisia, un modo di celare il piú basso egoismo.
Io stimo colui che approva la cospirazione ed egli stesso non
cospira: ma non sento che disprezzo per coloro, che non solo non
voglion far niente ma che si compiacciono nel biasimare e nel
maledire gli uomini d'azione. Secondo i miei principî avrei creduto
di mancare ad un sacro dovere se vedendo la possibilità di tentare
un colpo di mano su d'un punto bene scelto ed in circostanze
favorevoli, non avessi spiegato tutta la mia energia per eseguirlo e
farlo riuscire a buon fine.
Io non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per
giustificare se stessi, di essere il salvatore della patria. No: ma
io sono convinto che nel mezzogiorno dell'Italia la rivoluzione
morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a
tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si sono
diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quello
impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel
Principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo
personale, dovessi pure lasciar la vita sul palco. Semplice
individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di
uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo faccio. Il resto
dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia vita da
sacrificare per quello scopo ed in questo sacrifizio non esito
punto.
Io sono persuaso, se l'impresa riesce, otterrò gli applausi
generali: se soccombo, il pubblico mi biasimerà. Sarò detto pazzo,
ambizioso, turbolento, e quelli, che nulla mai facendo passano la
loro vita nel criticare gli altri, esamineranno minuziosamente il
tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi accuseranno di
non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e di energia...
Tutti questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo
incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma anche di concepirne
l'idea. A quelli che diranno che l'impresa era d'impossibile
riuscita io rispondo che se prima di combinare di tali imprese si
dovesse ottenerne l'approvazione nel mondo bisognerebbe rinunziarvi.
Il mondo non approva in prevenzione che i disegni volgari. Fu detto
un pazzo colui che fece in America l'esperimento del primo battello
a vapore, e si è piú tardi dimostrata l'impossibilità di traversare
l'Atlantico con tali battelli. Era un pazzo il nostro Colombo prima
di aver scoperto l'America, e l'uomo volgare avrebbe trattato di
pazzi e d'imbecilli Annibale e Napoleone se avessero avuto a
soccombere quello alla Trebbia, questo a Marengo.
Io non pretendo
paragonare la mia impresa con quelle di questi grandi uomini. Essa
per altro loro rassomiglia in una parte: perché sarà l'oggetto
dell'universale disapprovazione se fallisco, e dell'ammirazione di
tutti se riesco. Se Napoleone prima di abbandonare l'isola d'Elba
per sbarcare a Fréjus con cinquanta granatieri avesse domandato dei
consigli, il suo progetto sarebbe stato biasimato all'unanimità.
Napoleone aveva ciò ch'io non ho, il prestigio del suo nome, ma io
unisco alla mia bandiera tutte le affezioni e tutte le speranze
della rivoluzione italiana. Combatteranno con me tutti i dolori e
tutte le miserie d'Italia.
Io piú non aggiungo che una parola: se non riesco disprezzo
profondamente l'uomo ignobile e volgare che mi condannerà: se riesco
apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa io la
troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e
generosi amici, che mi hanno recato il loro concorso ed hanno diviso
i battiti del mio cuore e le mie speranze: che se il nostro
sacrifizio non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria
per essa l'aver prodotto dei figli che vollero immolarsi al suo
avvenire.
Sottoscritto
CARLO PISACANE