Italo Svevo e la letteratura come pratica igienica

Franco Petroni

La «scoperta» di Svevo (questo era il parere di Gramsci) non è italiana. Egli fu scoperto da Joyce, suo amico personale, il quale fu il primo ad apprezzare Senilità e a dare un giudizio critico perfettamente calzante su La coscienza di Zeno. Tale giudizio, in anticipo di decenni sulle successive più importanti direzioni di ricerca (la lettera in cui viene espresso è datata 30-1-1924), è il seguente: «Per ora due cose m'interessano. Il tema: non avrei mai pensato che il fumo potesse dominare una persona in quel modo; secondo, il trattamento del tempo nel romanzo». Sembra ovvio, adesso, che il fumo (cioè la malattia di Zeno, e non la sua vita) costituisca il “tema” del romanzo;; eppure la critica psicoanalitica, in Italia, arriverà alla stessa conclusione solo negli anni Settanta. Ed anche quello del trattamento del tempo è un problema che verrà affrontato adeguatamente solo a partire dal '59-'60.

Fu Joyce, nel 1925, a segnalare ai critici francesi Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud La coscienza di Zeno, che, pubblicata a spese dell'autore due anni prima, aveva ripetuto il totale insuccesso dei due romanzi precedenti. L'eco di questa segnalazione arrivò in Italia e spinse Montale a chiedere al poeta e critico triestino Roberto Bazlen una copia delle opere di Svevo. Perciò Montale giunse alla scoperta di Svevo su sollecitazione della critica straniera. Non è senza significato il fatto che sia stato un grande scrittore europeo come Joyce a scoprire Svevo, poiché Svevo decisamente si colloca fuori della tradizione italiana, ed è quindi naturale che in Italia la sua opera non abbia avuto quell'eco che avrebbe meritato. Ed è pure significativo che il primo italiano che ha scritto su Svevo riconoscendone la grandezza sia stato Montale, il quale aveva circa trent'anni ed era lontano dalla notorietà che ha avuto in seguito e, soprattutto, non rappresentava certo l'establishment letterario dell'epoca.

Svevo parlò dei suoi rapporti con l'ambiente letterario italiano in termini quanto mai icastici: disse che i suoi romanzi «erano come un pezzo d'aglio nella cucina di persone che non possono soffrirlo4». Il sentore d'aglio, nei salotti delle patrie lettere, l'opera di Svevo continuò a emanarlo ben oltre il '25. Lo «scriver male», di cui egli fu accusato, non c'entra. Di famiglia ebraico-tedesca residente a Trieste, Svevo si esprimeva parlando in dialetto triestino, per cui l'italiano gli apparve sempre una lingua straniera; ma questa circostanza, costringendolo a una continua attenzione alla scrittura, favorì il carattere sperimentale ed anche il rigore formale della sua narrativa. La principale ragione dell'ostilità o dell'indifferenza della critica ufficiale del suo tempo sta però, più che negli occasionali errori di sintassi, del resto molto spesso giustificati da ragioni espressive, nel fatto che Svevo, sia per gli argomenti dei suoi romanzi che per le scelte formali, era lontano dalla tradizione italiana. Le esperienze culturali e specificamente letterarie cui egli si richiama si collocano per lo più fuori d'Italia, e a lui pervengono grazie alla particolare posizione geografica e politica di Trieste che, fino alla sua annessione all'Italia, a tutti gli effetti fece parte di quell'area d’incontri e di sperimentazioni che fu la Mitteleuropa. Ma all'origine dell'incompatibilità tra Svevo e l'ambiente letterario italiano c'è anche un altro fattore, e cioè il carattere ostentatamente “privato” della sua esperienza di scrittura.

Svevo pretende di ridurre la letteratura a un'operazione quotidiana, a una pratica igienica, togliendole quindi ogni “aura”. La letteratura rinuncia all'universalità e alla totalità per restringersi al privato e all'occasionale. Essa diventa un atto terapeutico che riguarda solo l'individuo: un «clistere», come si esprime il protagonista di uno degli ultimi racconti sveviani, Una burla riuscita. In altre parole, con Svevo la letteratura rinuncia alla sua funzione sociale di sublimazione e neutralizzazione dei conflitti per essere soltanto il canale attraverso il quale i conflitti si esprimono. Il luogo dove essa opera è la coscienza in crisi dell'uomo contemporaneo, nella quale lo spazio per ogni mediazione si restringe fino a scomparire, dato che nell'individuo rimane sempre un residuo di malattia inattaccabile da qualsiasi antibiotico. Questo carattere privato e terapeutico della narrativa sveviana diventa, per il critico e per il lettore medio italiani della prima metà del Novecento, un fattore di disturbo. La chiave ideologica è primaria nell'approccio all'opera di uno scrittore: ne facilita la comprensione e la sistemazione nel contesto dei valori costituiti. Senza una chiave ideologica riconoscibile, l'opera letteraria si presenta priva della sua funzione sociale, e quindi può acquistare, agli occhi di molti lettori, un carattere gratuito, irritante, insopportabilmente “privato”, se non addirittura “perturbante” in senso freudiano.

I presupposti per la scoperta di Svevo non esistevano, dal momento che le avanguardie letterarie attive in Italia, quella futurista e quella vociano-espressionista, sperimentavano in direzioni totalmente diverse dall'analismo sveviano, sia per gli argomenti trattati, sia per il tipo di ricerca formale. Per scrivere come Svevo bisognava essere liberi dalla convinzione che l’autore debba avere un ruolo privilegiato, in quanto coscienza e guida della società e propositore di valori. Svevo si attendeva dalla letteratura niente altro che una migliore conoscenza di sé, nel contesto, naturalmente, della realtà culturale e materiale del suo ambiente e della sua epoca: in altre parole, credeva nella letteratura  «analisi  di  contraddizioni» e  non  nella  letteratura  «forma  di  valori».  In relazione con il rifiuto della letteratura «forma di valori» era anche il suo «scriver male». Il «decoro» della scrittura era allora, come lo è ancora adesso, la forma che testimonia il legame dello scrittore con la tradizione, e quindi anche la continuità della funzione che egli svolge in quanto conservatore dei vecchi valori o propositore dei nuovi, per conto degli strati sociali dominanti. Al di là degli aspetti contingenti che la sua attività assume: per cui anche gli eversori futuristi potevano assai facilmente essere riconosciuti come a buon  diritto  inseribili  nella  tradizione;  e  di  fatto  lo  furono,  con  la  fine  della  fase «rivoluzionaria» del fascismo e la sua trasformazione in regime.

Dato che la letteratura per Svevo era «analisi di contraddizioni», il problema del decoro formale egli non se lo poneva, tanto è vero che anche le critiche, estremamente grossolane, che gli vennero mosse quando, dopo il 1926, iniziò la sua «fortuna», e che riguardavano il suo «scriver male», non lo toccavano molto: a questo tipo di critica egli non era sensibile. Mentre era estremamente sensibile alle critiche che toccavano il problema della struttura del romanzo, cioè della selezione e del montaggio della materia narrativa.

La scrittura, per Svevo, deve servire a una migliore conoscenza di sé. Questa esigenza si trasmette dallo scrittore al lettore, per cui anche la letteratura dalle motivazioni più private finisce col diventare un fatto rilevante pubblicamente: un fatto «politico». Alla funzione conoscitiva è strettamente collegata quella terapeutica: per Svevo, scrivere è un modo di mantenere il punto d’equilibrio tra il «principio di realtà» e il «principio di piacere». Dagli scritti autobiografici, per esempio da due appunti di diario (del 2-10-1899 e del 5-6-1927), è ricavabile una poetica che, sotto l'aspetto dimesso, cela un modo rivoluzionario d’intendere la letteratura: questa è considerata non un mezzo per dare espressione a miti collettivi, sublimando e celando attraverso la forma le contraddizioni che esistono in seno alla collettività, ma piuttosto uno strumento terapeutico individuale, che funziona mediante una continua e capillare presa di coscienza. In questo senso, la letteratura è uno strumento insostituibile di «igiene». La conoscenza che essa ci fornisce della nostra condizione ha quelle condizioni di flessibilità che sono indispensabili per registrare il continuo divenire della realtà psichica, la quale muta sotto l'occhio dell'osservatore anche in relazione all'atto stesso dell'osservare, che non la rispecchia nella sua immobilità, ma la trasforma. L'operazione letteraria nasce dalla casualità, che è ineliminabile dalla condizione umana, e tuttavia è guidata da un'esigenza di significato e quindi di strutturazione: solo in questo modo può avere un valore insieme conoscitivo e terapeutico.

Al livello di poetica, l'originalità di Svevo nel panorama della letteratura tra fine Ottocento e inizio Novecento consiste nel fatto che egli unì, al bisogno di una spiegazione scientifica della realtà e al rifiuto di un programmatico irrazionalismo, un'apertura critica che gli permise di superare l'ideologia positivistica e di contribuire, per quanto era nella sua competenza di narratore, alla rivoluzione epistemologica che caratterizzò l'inizio del secolo. C'è sempre, nelle sue opere, in Una vita come in Senilità e ne La coscienza di Zeno, un riferimento a Darwin. L'interesse per l'evoluzionismo fu sempre  vivo  in  Svevo  a  causa  di  quello  che  André  Bouissy  chiama  «besoin  de causalité». Per questo bisogno di ipotizzare nessi causali tra i fatti (anche se l’ipotesi  è destinata a restare «aperta») Svevo si avvicinò anche a Freud.

La coscienza di Zeno è un romanzo psicoanalitico, nel senso che senza la psicoanalisi non sarebbe mai stato scritto. La teoria freudiana ne ha condizionato la concezione e la struttura. Esso appartiene a un determinato periodo della storia culturale europea, al quale bisogna fare riferimento se lo si vuole comprendere. Per lo Svevo autore dei due romanzi precedenti, Una vita e Senilità, determinanti erano stati Darwin, Schopenhauer e Marx: tre pensatori molto diversi tra loro, e tuttavia per Svevo accomunati dal «besoin de causalité». Un'esigenza di razionalità spinge Svevo ad accostarsi anche a Freud, il quale, particolarmente nelle sue prime opere, proponeva una spiegazione causale dell'origine delle nevrosi, e in genere dei comportamenti umani. Ma, accanto a questo primo Freud, di evidente marca positivistica, il quale teorizzava che la conoscenza, da parte dell'ammalato, della causa scatenante la sua nevrosi ha l'effetto di guarirla (è questa la cosiddetta teoria «catartica», che adesso è considerata il punto più debole della concezione freudiana), esiste il Freud più moderno: quello che ha descritto il linguaggio in cui l’inconscio si esprime e la complessità della relazione analitica. Per questo secondo Freud l'analisi è «interminabile». Essa infatti non è un rispecchiamento passivo di ciò che è dato oggettivamente, ma una «costruzione» che analista e analizzato compiono insieme. Questa parte della teoria di Freud, che Svevo ha avvertito come la più importante, sta alla base della concezione e della struttura de La coscienza di Zeno.

Uno dei maggiori critici sveviani, Mario Lavagetto, ha scritto che Svevo, rifiutando un'interpretazione positivistica della vicenda psicoanalitica di Zeno, rifiuta di fare di Freud «uno zelante maggiordomo della coscienza borghese». È chiaro cosa significa, fuori di metafora, questa espressione. Il positivismo pretende di spiegare razionalmente il comportamento umano identificando la ragione con la ragione «economica»: ogni individuo cerca di fare quello che è più conveniente per lui, e tale modo di agire, oltre che il più utile, sarebbe anche il più razionale. Questa ideologia è la più adatta alla borghesia del mondo cosiddetto sviluppato di fine Ottocento–inizi Novecento, la quale, presentandosi come la classe sociale che agisce utilitaristicamente, e quindi razionalmente, legittima il proprio dominio economico–politico sul proletariato e i paesi non sviluppati, ed anche la repressione che esercita al suo interno, sui giovani, che devono controllare i propri impulsi per esercitare il dominio. Dobbiamo riconoscere che Freud, specialmente in alcune sue opere, è rimasto assai legato a una simile concezione. Ma il messaggio freudiano va interpretato in tutta la sua complessità: solo in questo modo  esso  rivelerà le sue potenzialità rivoluzionarie. Svevo, precocemente e senza essere né uno psicologo né un filosofo, ha saputo farlo. Non si è ridotto, perciò, come tanti altri scrittori e intellettuali, ad essere un «maggiordomo» della borghesia: cioè un servo di particolare intelligenza, ma pur sempre un servo.

Nel primo Novecento, lo psicoanalista, nonostante fosse una figura da poco comparsa sulla scena sociale, cominciava a godere di grande prestigio, perché era il «medico dell'anima»: quello che risolveva i conflitti provocati dall'irriducibilità della nevrosi all'ordine borghese, controllando l'equilibrio psichico e sociale turbato e ricomponendolo al livello più elevato della sublimazione. Ma Svevo non riconosceva questo ruolo dello psicoanalista, ormai accettato nell'alta e media borghesia. Per vicissitudini familiari (un suo parente curato da Freud si era ucciso) non aveva fiducia nella psicoanalisi come terapia; ma questo motivo biografico in fondo ha scarsa importanza.   È   importante   piuttosto   vedere   come   narrativamente   è   trattato   lo psicoanalista, il dottor S. (alcuni critici hanno voluto riconoscere in questa S l'iniziale di Sigmund Freud). La sua figura è caricaturizzata in modo così violento da rendere indubitabile la presa di distanza di Svevo dalla psicoanalisi volgarizzata e al suo tempo, per così dire, ufficiale; da quella psicoanalisi, cioè, che con ottimismo positivistico si proponeva di risolvere tutti i conflitti riconoscendone le cause nei «complessi», in particolare in quello edipico. Paradossalmente, Svevo mostra di avere appreso la vera lezione freudiana proprio perché mette il dottor S. in ridicolo e ogni sua parola in dubbio. La dissacrazione a cui egli sottopone la psicoanalisi ufficiale rende evidente come ogni spiegazione in chiave rigidamente causale è arbitraria, e come ogni vera analisi non può essere che «interminabile». Dalle opere più mature di Freud si ricava infatti che l'interpretazione è un'operazione sempre aleatoria: i sogni sono impenetrabili nel loro significato ultimo; della malattia possiamo solo tentare di decifrare i sintomi, che sono il linguaggio in cui essa si esprime; i ruoli dell'analista e dell'analizzato sono interscambiabili, dato che essi collaborano insieme all'analisi, la quale non è un adattamento a una realtà data, ma una «costruzione».

Le conseguenze che Svevo nella Coscienza trae dall'insegnamento freudiano, che si sovrappone, senza negarlo, a quello darwiniano, sono opposte e ambivalenti. Appare evidente l'equidistanza tra un relativismo pragmatico e il catastrofismo. Alla fine della narrazione Zeno sembra avere acquistato un suo equilibrio, fondato sulla consapevolezza che solo rinunciando a controllare «la vita orrida vera» possiamo raggiungere con questa un compromesso che la renda sopportabile, dato che essa premia coloro che non pretendono di fare i demiurghi, ma seguono gli avvenimenti traendone, all'occorrenza, vantaggi: come Zeno che, verificatesi le condizioni opportune, specula e fa soldi. Ma, nell'ultima pagina, proprio Zeno prefigura la distruzione dell'umanità a opera dell'umanità stessa. La vita è (così Zeno la definisce) «una malattia della materia», dalla quale evidentemente nessuno può guarire.

La coscienza di Zeno termina con l'affermazione del protagonista-narratore di avere personalmente conquistato la «salute», e insieme con la previsione catastrofica dell'estinzione dell'umanità a causa della follia dell'umanità stessa. Al lieto fine della vicenda individuale fa da contrappeso la previsione della conclusione infausta della vicenda collettiva. Ma appare evidente che il successo di Zeno è dovuto alla violenza che egli esercita sugli altri (la speculazione di guerra, che affama i più deboli, è una violenza tra le più ripugnanti); il successo individuale dell'«eroe» del romanzo si pone quindi sulla linea che inevitabilmente porta alla catastrofe dell'umanità. Lo psicoanalista che ha in cura Zeno, comunque, non crede nella sua guarigione, e il lettore una volta tanto può essere d'accordo con lui, ma per motivi diversi dai suoi, e che hanno a che fare con la psicoanalisi, ma non solo. La malattia di Zeno s'identifica con la malattia della civiltà. Su questo punto il messaggio che l'autore c’invia non è quello dell’inevitabile e anche positiva relatività dei punti di vista, ma è univoco nel suo proclamato pessimismo. In questa univocità sta la forza del romanzo alla sua conclusione. La vita, certo, «non è né bella né brutta: è originale», come dice Zeno; ma la civiltà attuale basata sul possesso degli «ordigni», cioè la civiltà dei capitali, delle Borse, degli immensi eserciti, della guerra  totale  e  degli  stermini  di  massa,  ha  imboccato  una  via  che  è  contraria  alla «natura», intesa darwinianamente come luogo della lotta per la sopravvivenza del più forte ma anche, rousseauianamente, come luogo dell'autenticità. La società dell'«occhialuto» uomo insieme «furbo» e «debole» è fondata sulla menzogna. Il linguaggio stesso in  cui  l'uomo  attuale si  esprime è doppio,  e di questa doppiezza, strutturale perché è doppia la realtà alla quale esso si riferisce, il romanzo ci fornisce continui esempi. La vicenda del «malato» Zeno, che converte la sua malattia in strumento per il successo, è bifronte, sotto l'aspetto dei valori che vengono a contrasto: il suo segno è positivo-negativo. Augusta è la migliore e la più amorevole e tuttavia la più stupidamente conformista e la più soffocante delle mogli; Zeno è il più fedele (perché rispetta il nido familiare, a differenza del suo rivale, il cognato Guido, che lo «infanga») e insieme il più fedifrago e il più ipocrita dei mariti. La vittoria sugli altri ottenuta dal protagonista con due delle modalità più tipiche della società fondata sul profitto, la speculazione di Borsa e quella sull’aumento dei prezzi in tempo di guerra, è emblematica di una civiltà che la perdita dell'autenticità condanna alla disgregazione e, in prospettiva, alla catastrofe.

La coscienza di Zeno si presenta come una memoria inviata da Zeno allo psicoanalista che lo ha in cura, il dottor S. Costui non ha trovato di meglio che indurre il paziente a scrivere una storia della sua malattia, e se ne scusa nel brevissimo capitolo iniziale intitolato Prefazione («gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità»); egli spera che una simile attività sia «un buon preludio alla psico-analisi», ma viene deluso da Zeno, il quale abbandona il trattamento. In conseguenza di ciò, questo strano psicoanalista promette di pubblicare la memoria del paziente «per vendetta».

A parte questo capitolo iniziale, scritto per mano dello psicoanalista, di tutta la restante narrazione il protagonista e narratore è Zeno, il quale è responsabile della verità di quello che racconta, oltre che dei giudizi che esprime. Ma Zeno è un nevrotico (non per niente è in cura psicoanalitica), e tutti sanno che nel nevrotico opera  in modo particolarmente forte la rimozione, ovverosia l'allontanamento dalla coscienza degli eventi per lui più traumatizzanti, che vengono sepolti nell'inconscio, dal quale riemergono mascherati nel linguaggio criptico dei sintomi, dei lapsus, dei sogni. Il nevrotico non potrà mai essere un testimone attendibile dei fatti in relazione con la sua nevrosi; pertanto, il lettore della Coscienza non potrà mai prendere per buone le ricostruzioni e le interpretazioni effettuate da Zeno.

Ma, se Zeno è un giudice di se stesso del tutto inattendibile, altrettanto inattendibile è lo psicoanalista che lo ha in cura. Ne sono prova la sua scarsa, anzi nulla ortodossia freudiana, il suo esibito carattere vendicativo, il suo dichiarato interesse economico, il ricatto a cui sottopone il paziente («Le pubblico [le memorie di Zeno] per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura»). Svevo, che aveva tradotto il saggio freudiano sul sogno e aveva scritto Soggiorno londinese, nel quale si fanno dei riferimenti assai pertinenti alla teoria freudiana, non poteva non sapere in cosa consiste un corretto metodo analitico; è evidente quindi che il dottor S. è un deliberato rovesciamento ironico della figura tradizionale dello psicoanalista.

Tale rovesciamento ha la funzione di proporre al lettore due opposti punti di vista, quello di Zeno e quello del dottor S.; ambedue screditati. Se l'esposizione dei fatti e la loro interpretazione proposte dai due narratori sono inattendibili, e se l'autore non interviene in prima persona a proporre una versione plausibile degli eventi narrati, al lettore non resta che avanzare lui delle ipotesi interpretative. La narrazione è quindi organizzata in modo da richiedere una continua collaborazione del lettore stesso alla ricostruzione del significato di quanto sta leggendo. La coscienza di Zeno appare come un   esempio   emblematico   di   quella   che   Umberto   Eco   designerà   come   «opera aperta»: un'opera, cioè, il cui significato è, secondo le intenzioni esplicite dell'autore, plurivoco, e il cui lettore è pertanto invitato a collaborare alla costruzione del senso.

L'effetto di demistificazione d’ogni più assodata opinione sui vari aspetti della vita Svevo lo raggiunge mediante un'operazione formale: non tanto con la narrazione di una vicenda, quanto con la scelta del modo in cui narrarla. Già abbiamo detto che l'autore non pronuncia il suo giudizio sui fatti narrati, né direttamente né, indirettamente, attraverso i suoi personaggi-narratori, Zeno e il dottor S., dato che essi sono ambedue squalificati dall'essere, l'uno, un nevrotico, e quindi per definizione inattendibile riguardo alla sua malattia, l'altro uno psicoanalista macroscopicamente inaffidabile per vizi intellettuali e caratteriali. Dobbiamo aggiungere che Svevo non ricorre nemmeno all'«impersonalità» degli scrittori veristi. Anche il racconto «oggettivo» rivela in fondo una soggettività di visione, nel modo in cui i fatti vengono esposti secondo una scala di maggiore o minore importanza, e in cui essi vengono messi in relazione di reciproca dipendenza («montati», si potrebbe dire ricorrendo alla terminologia del cinema). Ne La coscienza di Zeno, non sappiamo mai se un fatto è rilevante o irrilevante, e se esso è da mettersi o no in rapporto causale coi fatti precedenti e seguenti: la catena delle cause e degli effetti, con  le connesse responsabilità, appare dubbia, improbabile se non fantasmatica, e comunque del tutto ipotetica. Tutto ciò che dicono Zeno e il suo psicoanalista va preso non nella sua letteralità, ma come documento da decifrare. Il lettore è chiamato a tale decifrazione.

La coscienza di Zeno, abbiamo visto, non è il racconto della vita del protagonista, bensì la narrazione di una sua malattia, la nevrosi: Zeno, nella memoria destinata allo psicoanalista, cerca di ricostruire come questa nevrosi è nata e si è manifestata. Il lettore si aspetterebbe che il livello di consapevolezza dello Zeno che scrive fosse più alto di quello dello Zeno di cui egli scrive. Una caratteristica dell’autobiografia è il dislivello di consapevolezza tra l'io narrante e l'io narrato, dal momento che la legittimazione a raccontare il proprio passato è data dalla maggiore capacità di giudizio acquisita. Prima dell’avvento della psicoanalisi, l'estensore di un racconto autobiografico di solito non dubitava della propria capacità di giudicare il suo passato: capacità che era la principale legittimazione dell'operazione stessa dello scrivere. L'autorità dell’io narrante non veniva pertanto messa in dubbio nel corso della narrazione. Il nevrotico Zeno, viceversa, manca di qualsiasi certezza, e quindi di qualsiasi criterio per giudicare il presente e il passato. Di ciò è intimamente consapevole, anche quando ricaccia questa consapevolezza sotto il livello della coscienza, ad esempio proclamando, nelle ultime pagine della sua memoria, che è finalmente arrivato alla «sanità» (affermazione che lo psicoanalista s’incarica di contestare). Il rapporto tra l'io narrante e l'io narrato non è quindi, per così dire, gerarchico, nel senso che l'io narrante è istituzionalmente superiore, per la sua maggiore consapevolezza, all'io narrato. Ne La coscienza di Zeno, l’io narrante deve continuamente conquistare la propria legittimazione, dato che continuamente dubita, ed anche quando con decisione afferma, intimamente avverte che questa sicurezza è infondata.

L'insicurezza dell'io narrante produce un’ininterrotta serie di dubbi. Pertanto Zeno non può condurre ordinatamente la narrazione, seguendo il tempo cosiddetto «oggettivo»: quello che veniva seguito nei romanzi dell'Ottocento, quando il narratore non dubitava della propria legittimazione a narrare, essendo fiducioso nella propria capacità di comprendere il meccanismo dei fatti umani. Nell'ultimo romanzo di Svevo il tempo della narrazione è il tempo interiore della coscienza: un tempo che è stato definito «impuro» e «misto», poiché gli avvenimenti narrati sono sempre alterati dal desiderio del narratore. Zeno, rievocando il passato, lo modifica, quando addirittura non lo crea ex novo, dato che la parola è essa stessa un avvenimento che determina la realtà. L’iniziale progetto di narrare ordinatamente le sue esperienze è subito sconvolto dall'irruzione nel presente del passato: l’immagine di una locomotiva che sbuffa su una salita, trascinando innumerevoli vagoni, devia la sua ricerca (egli scoprirà poi che quel rumore gli ricorda l'ansare affannoso del padre morente).

Dal momento che il tempo non è più una realtà oggettiva, ma una continua creazione della «coscienza», all'ordinato susseguirsi degli avvenimenti secondo una disposizione lineare subentra un loro continuo intersecarsi secondo diversi piani temporali: il presente s’insinua nel passato, il passato nel presente. Al sovvertimento della dimensione tradizionale del tempo corrisponde il sovvertimento della gerarchia tradizionale dei fatti: anche l’annaspare di una mosca ferita può catalizzare l'attenzione di Zeno. In genere i fatti minimi che si presentano come sintomi di malattia interessano morbosamente Zeno, il quale si accanisce in un'interpretazione di essi razionalizzatrice e allegorizzante che, se da un lato lo porta lontano dal comprendere l'origine della sua nevrosi, dall'altro gli dà l'occasione di esporre una concezione della vita in apparenza relativistica e ironica, nella sostanza di un organico e radicale pessimismo.

Ne La coscienza di Zeno, da considerarsi esempio paradigmatico di «opera aperta», è programmata dall'autore l'assenza non solo di un giudizio sulla vicenda narrata, ma anche di una concezione generale della vita. «La vita non è né bella né brutta: è originale»: questa frase, messa in bocca al personaggio Zeno, vuol significare l'impossibilità di qualunque giudizio e di qualunque ideologia. La coscienza di Zeno è un romanzo che respinge l'ideologia: e questo grazie alla sua stessa struttura formale, che non le lascia spazio.

Naturalmente il deliberato rifiuto d’ogni ideologia è esso stesso ideologia: ideologia conservatrice, perché il non mettere in discussione l'ideologia dominante significa di fatto confermarla. Ma Svevo, borghese intelligente e perfettamente consapevole della crisi culturale e morale della sua classe, mette in scena l'ambiguità di questo rifiuto: sia con l'invenzione su cui è fondato il romanzo, di due narratori destituiti entrambi di legittimità e quindi inattendibili, sia con la demistificazione del linguaggio, ottenuta mediante l'uso sistematico della figura dell'ossimoro: mediante l'accostamento, cioè, e la pacifica convivenza di parole di significato opposto, che secondo l'opinione comune dovrebbero invece confliggere, o comunque attraverso una carica ironica presente in quasi ogni parola o frase, che rende il suo significato doppio. Per esempio, la salute psichica della moglie Augusta, che è una tipica moglie della borghesia medio-alta, viene definita da Zeno «atroce», tanto che egli, scrivendone, comincia a dubitare «se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire»; la sigaretta che Zeno vuole fumare deve sempre essere l'«ultima», come pure deve essere sempre l'«ultimo» l'abbraccio dell'amante Carla (dove si vede che ad essere doppio è lo stesso desiderio di Zeno, e l’aggettivo «ultimo», macroscopicamente improprio in questo caso, non fa altro che rilevare tale doppiezza).

La soluzione che, con La coscienza di Zeno, Svevo ha dato al problema di creare una scrittura narrativa che rappresenti la complessità e l'ambiguità di un mondo in cui tutte le tradizionali certezze sono cadute, è valida nel determinato momento storico-culturale in cui il romanzo è stato scritto. È, questo, il momento in cui la psicoanalisi faceva la scoperta rivoluzionaria dell'inconscio e del linguaggio in cui esso si esprime, e tuttavia ancora restava legata alle sue origini positivistiche. Svevo, con La coscienza di Zeno, ha mostrato la grandezza e insieme la miseria di questa nuova scienza e, in generale, della scienza moderna, che, mentre pretende di mutare le vecchie strutture sia del sapere che della società, resta, senza avvedersene, condizionata da esse e anzi contribuisce a perpetuarle. La struttura di questo  romanzo è pertanto un unicum non trasferibile a tentativi analoghi che non vogliano essere pedisseque imitazioni. Svevo non ha accompagnato i suoi esperimenti di scrittura con una retorica dell'arte d'avanguardia: è per questo che non ha avuto imitatori (è significativo che dal suo nome non si sia formato un aggettivo: non esiste uno «svevismo» come esiste, viceversa, un «pirandellismo»). Ed è per questo, anche, che la sua grandezza è stata riconosciuta tanto in ritardo.