Educazione e Rivoluzione: Cenni di pedagogia marxista
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Sulla scorta dei presupposti filosofici del materialismo dialettico,
i cardini generali dell’orientamento pedagogico marxista possono
essere rinvenuti in un collegamento dinamico e dialettico tra
educazione e società e tra teoria/prassi pedagogica e
teoria/prassi rivoluzionaria, sia da un punto di vista analitico
(poiché ogni ideale formativo non può essere
considerato come svincolato nè dal sostrato socio-economico
su cui si articola, né dalle pressioni ideologiche della
classe dominante), che di prospettiva d’azione, organicamente
interconnessa all’emancipazione dell’uomo sul piano individuale e
sociale e, pertanto, ad una formazione “onnilaterale” e
integralmente umana che sia strumento rivoluzionario, di liberazione
rispetto a qualsivoglia forma di subalternità ed alienazione.
La centralità del lavoro all’interno della pedagogia
marxista, o più precisamente dell’unificazione tra lavoro
manuale ed intellettuale, abbatte la scissione patogena tra teoria e
prassi, trova i propri presupposti storico-filosofici nella
“divisione del lavoro” come fondamento della divisione della
società in classi (e quindi prepara il terreno per il
superamento di una tale società, e conseguentemente per
l’edificazione di un nuovo modello sociale, democratico e
organizzato in modo razionale, che permetta una reale e libera
espansione delle facoltà umane), e contribuisce ad una
formazione genuinamente integrale ed integrata di ogni individuo. Si
tratta anche di una pedagogia che rifiuta lo spontaneismo e il
naturalismo ingenuo, per abbracciare la dimensione della disciplina
come presupposto per la libera espressione dell’individuo e del
gruppo; come fondamento genuino di libertà basata
sull’eguaglianza e sulla cooperazione, non sulla prevaricazione
altrui.
Si tratta, in particolare, di una pedagogia prevalentemente
costruttivista (con enfasi posta sulla “costruzione attiva di
significato” da parte del soggetto, piuttosto che sulla sua
“scoperta”, a partire dalle basi materiali fornite dall’ambiente,
dalla realtà) che enfatizza l’atteggiamento critico,
collaborativo e co-costruttivo dell’individuo all’interno di una
dinamica tra apprendimento e insegnamento, e tra maestro e allievo,
che è centrata sul carattere attivo e sociale dello studente,
piuttosto che sull’assorbimento passivo di conoscenze. In ultima
analisi, è una pedagogia che si inserisce in un contesto
più ampio di trasformazione sociale e politica, e che quindi,
materialisticamente, non può superare da sola, in
virtù della sola teorizzazione pedagogica e della prassi
educativa, i vincoli imposti dalla società, proprio
perchè, per poter incidere compiutamente tanto sul piano
formativo quanto su quello sociale (ambiti intimamente interrelati),
deve collegarsi dialetticamente ad una prospettiva politica
rivoluzionaria di emancipazione umana.
II Internazionale
Se si eccettuano alcune voci critiche, come quella di Clara Zetkin,
che criticarono frontalmente l’educazione borghese per promuovere
istanze educative radicali accompagnate da un approccio politico
rivoluzionario (e che peraltro ebbero un ruolo centrale nella lotta
all’oppressione di genere, indicando correttamente, e in aperto
contrasto con le correnti femministe borghesi e con determinate
istanze in seno alla II Internazionale stessa, il legame
inscindibile tra patriarcato e proprietà privata, e la
necessità di condurre la lotta per la liberazione della donna
nell’alveo della lotta rivoluzionaria per l’emancipazione del
proletariato), la pedagogia della II Internazionale, in linea con le
istanze politiche riformiste che avanzò, spesso si
allontanò dal marxismo ed ebbe, tra i rappresentanti
più autorevoli in campo pedagogico, il massimo teorico
dell’austro-marxismo Max Adler (orientato a coniugare socialismo ed
etica kantiana) e, in Italia, il turatiano Rodolfo Mondolfo, che pur
all’interno di un impianto riformista, sottolinerò
l’importanza del lavoro nell’educazione dell’uomo e, pertanto, il
superamento della divisione del lavoro manuale da quello
intellettuale.
La rivoluzione d’Ottobre
Una sterzata radicale nell’elaborazione di una pedagogia
genuinamente rivoluzionaria, che si ponesse oltre ogni tentativo
interclassista e collaborazionista, si ebbe con gli orientamenti
della pedagogia sovietica, declinata in vario modo da Vladimir Lenin
e Lev Trotskij, da Anatolij Vassilievic Lunaciarskij, Alexandra
Kollontaj, e dalla moglie di Lenin, Nadesda Konstantinova Krupskaja,
così come dalla figura certamente originale di Anton S.
Makarenko (in una prima fase legato alle istanze della “pedologia”,
poi ad essa apertamente ostile negli anni Trenta, in completa
sintonia con la degenerazione staliniana) e dallo psicologo e
pedagogista sovietico Lev S. Vygotskij, fondatore di quella corrente
storico-culturale che, protesa in avanti rispetto al proprio tempo,
venne marginalizzata e soffocata nel corso dell’arretramento
politico, ideologico, sociale e culturale avvenuto nel corso del
tradimento della rivoluzione d’Ottobre ad opera dello stalinismo.
L’approccio prevalente nel corso delle conquiste della rivoluzione,
in ambito pedagogico, si articolò attorno alla “pedologia”,
una sorta di attivismo pedagogico che in Russia spesso ebbe spesso
tratti originali simili al “Dalton Plan” di Helen Parkhurst (quindi,
con unità di studio da acquisire in tempi dilatati, con ampia
libertà d’esecuzione e organizzazione), con un abbandono dei
metodi tradizionali d’insegnamento “frontale” basati
sull’apprendimento di nozioni scollegate, “in compartimenti a tenuta
stagna”, e un approccio laboratoriale nel duplice significato di
abbattimento delle dinamiche d’insegnamento borghesi, tradizionali e
autoritarie, centrate sull’insegnante piuttosto che sullo studente,
e di commistione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Con echi
delle ricerche di Kerschensteiner, l’opera di Lenin, di Lunaciarskij
e della Krupskaja fu quindi tesa alla costruzione di una “scuola
unica del lavoro”, in cui cadesse il principio della divisione del
lavoro, e in cui il lavoro stesso, qui inteso non solo come
attività formativa (come nel laboratorio deweyano) ma anche
eminentemente produttiva nel senso sociale del termine, entrasse in
una scuola di cultura e dal carattere politecnico, pienamente in
linea con la concezione marxista di “uomo onnilaterale”, libero da
qualsivoglia forma di alienazione.
Si tratta di una forma di sperimentazione vivace e dialetticamente
connessa sia con istanze di rinnovamento nei confronti della
pedante, precaria e formale istituzione scolastica
pre-rivoluzionaria (quindi con l’abolizione dei contenuti religiosi
e nazionalistici all’interno dei programmi scolastici), che con le
prospettive di sviluppo rivoluzionario, e che pertanto diedero al
momento della disciplina e dell’impegno (spesso sottostimato da
altre correnti attivistiche, in particolare da quelle più
apertamente libertarie e borghesi), intesi come fondamento di
libertà e sviluppo individuale e collettivo, un’importanza
determinante, tanto da affidare anche ad istituzioni elette dagli
studenti stessi (come indicato dal giornalista americano William
Chamberlin in “The Revolution in Education and Culture” del ’29) un
ruolo in tal senso.
Vale la pena di trattare brevemente a questo punto, prima dei
modelli educativi predominanti nella Russia stalinista, il
contributo di Lev S. Vygotskij e di Antonio Gramsci.
Vygotskij: l’orientamento psicologico e pedagogico storico-culturale
Lev S. Vygotskij (1896-1934), psicologo e pedagogista rivoluzionario
teso alla formazione dell’”uomo nuovo”, mosse i primi passi nella
ricerca studiando le problematiche connesse all’handicap e ai
deficit di apprendimento scolastico, sottolineando come il gioco
fosse strumento, creativo e originale, in un percorso di superamento
delle condizioni date dallo sviluppo mentale del bambino, oltre che
allenamento allo sviluppo dell’immaginazione e al rispetto delle
regole. Il lavoro scolastico deve sfruttare tali strumenti e puntare
a spingere ad un livello superiore le capacità attuali del
soggetto, divenendo creativo e originale, e stimolandone lo
“sviluppo potenziale” soprattutto attraverso il lavoro sulle “zone
di sviluppo prossimale” e con i lavori di “tutoring” e
“scaffolding”, da parte dell’insegnante così come del gruppo
dei pari e dei compagni più grandi, più “avanzati”.
Le teorie pedagogiche di Vygotskij sono basate su una visione
marxista delle relazioni tra la coscienza umana e il mondo
materiale. Ciò implica che lo sviluppo del pensiero umano
è determinato dall’attività dell’uomo nell’ambiente, e
che pertanto tutta l’istruzione ha un carattere sociale. In
“Psicologia dell’educazione” del 1926, Vygotskij, pienamente in
linea con il materialismo dialettico, concepisce la relazione
educativa come composta da uno studente attivo, da un insegnante
attivo, e in ultima analisi da un ambiente sociale attivo
all’interno del quale si svolga, dialetticamente, il dinamismo
formativo; l’insegnante non ha un ruolo diretto nell’agire sullo
studente per “cambiarlo”, ma garantisce le possibilità per
un’auto-educazione dell’individuo, all’interno di un’ambiente
sociale (d’altronde, da sempre i processi formativi nella storia si
sono sempre svolti in ambito sociale). Ecco che, nella didattica, il
fattore più importante risiede nell’interesse degli studenti
nei confronti delle materie oggetto di studio, che deve essere
valorizzato e facilitato attraverso una connessione dei vari saperi
tra di loro, in forma reticolarmente orientata
all’interdisciplinarietà e al collegamento delle varie
discipline con l’esperienza pregressa dell’allievo e con la vita
quotidiana, oltre che attraverso l’abbandono di forme d’insegnamento
ripetitive, in favore di spiegazioni inizialmente tese a
sottolineare i legami più semplici e intuitivi, e
gradualmente più specifiche e complesse.
Manca in Vygotskij la concezione stadiale presente in Piaget, e anzi
vi è un superamento di essa in virtù di un’analisi
della mente del bambino che è sì logica, ma prima
ancora inventiva e immaginativa. In “Pensiero e Linguaggio” del
1934, le ricerche condotte dallo psicologo russo sull’interrelazione
tra il pensiero e il linguaggio consistono nell’aver indicato come i
significati delle parole siano oggetto di evoluzione durante la
fanciullezza; nell’aver indicato lo sviluppo dei concetti
scientifici nel bambino, in relazione con quelli spontanei;
nell’aver dimostrato la natura psicologica specifica e la funzione
linguistica del linguaggio scritto, nella sua relazione con il
pensiero; e nell’aver chiarito la relazione tra il linguaggio
“privato” (quel linguaggio “egocentrico” che è funzione e
passaggio della comunicazione sociale a quella interiore) e la sua
relazione con il pensiero. Il legame tra il pensiero e la parola ha
un carattere sociale e uno sviluppo storico, non è un
concetto aprioristicamente determinato bensì si evolve esso
stesso, nella dinamica dello sviluppo.
Antonio Gramsci e l’intellettuale organico
Al di là di ogni interpretazione tesa a “normalizzare” il
pensiero del rivoluzionario marxista italiano, in un’ottica avulsa
dal materialismo dialettico e conciliazionista, buona “tanto a
destra quanto a sinistra”, il pensiero politico e pedagogico di
Gramsci si inserisce a pieno titolo nell’alveo della III
Internazionale. Tale pensiero è stato riletto nel tempo sia
dalla storiografia riformista, con l’intento di epurarne qualsiasi
contenuto rivoluzionario, che da quella stalinista (di Togliatti in
particolare) per attribuirsi un contenuto rivoluzionario che non
aveva. In particolare, è presente, a tutti livelli, la
tendenza a considerare il pensiero di Gramsci come esclusivamente
limitato ai Quaderni del Carcere, che pur essendo un importante
contributo politico, sono stati scritti in condizioni estremamente
instabili e precarie, da un punto di vista fisico e psicologico, ma
anche perchè Gramsci in carcere non poteva materialmente
avere una visione completa della realtà, degli sviluppi
sociali e politici del tempo.
Un’analisi complessiva del pensiero di Gramsci non può
prescindere dal periodo che approssimativamente va dal ’19 al ’27,
ovvero il periodo in cui si spese in modo attivo e consapevole a
livello politico, nel Psi prima e nel PCd’I poi, in particolare
grazie all’Ordine Nuovo, identificato dagli operai torinesi come il
giornale dei consigli di fabbrica. Nel suo sforzo teso
all’applicazione del metodo leninista all’Italia degli anni ’20,
Gramsci ha sempre dimostrato di essere un rivoluzionario, un
marxista, un militante della terza internazionale: il concetto di
“intellettuale organico” non subordina la struttura alla
sovrastruttura, non concepisce la lotta politica come anzitutto
risolvibile nell’egemonia culturale da ottenere grazie alla figura
dell’intellettuale, ma ribadisce un concetto basilare del marxismo:
ovvero la necessità di una formazione politica e teorica dei
militanti, una formazione collettiva e democratica, orientata
all’azione puntuale e consapevole all’interno del conflitto di
classe, in cui il momento strutturale resta in ultima istanza
determinante. E’ l’intellettuale “organico alla classe”, non alla
burocrazia di partito; è elemento vivo di un partito
rivoluzionario democraticamente organizzato, il “Partito Nuovo” che,
all’interno di un’ampia lotta rivoluzionaria, si pone tra gli
obiettivi quello di una lotta ideologica, dell”egemonia culturale”.
Una tale egemonia si caratterizza per la com-partecipazione di molte
istituzioni educative, dalla “scuola unica” senza latino fino ai 14
anni, dal carattere critico, storico e scientifico che miri alla
formazione dell’uomo onnilaterale, e che fornisca gli strumenti per
strappare l’individuo al folklore e a concezioni religiose e
idealistiche del mondo; fino ad arrivare alla stampa, all’editoria,
al teatro, e in ultima istanza al partito stesso come educatore
collettivo, all’interno del conflitto di classe. E’ una pedagogia,
quella gramsciana, che, in linea con gli orientamenti generali della
pedagogia marxista, si caratterizza per l’impegno e la disciplina
(quella che Gramsci stesso definì “conformazione dinamica”),
contro ogni forma di spontaneismo ingenuo, risultando intimamente
connessa con una prospettiva rivoluzionaria di emancipazione
dell’uomo.
Makarenko e la pedagogia del collettivo
La degenerazione della rivoluzione d’Ottobre e lo stalinismo
recarono con sé un profondo mutamento anche delle istanze
educative in seno alla società sovietica, con un ritorno in
auge del momento culturale a discapito del lavoro all’interno dei
programmi formativi, una riorganizzazione tradizionale degli assetti
scolastici, un ripudio della “pedologia” e di qualsivoglia forma di
attivismo, e il ritorno in auge della centralità della
famiglia e della patria. Nacque una sorta di “Pedagogia senza
fanciullo”, intellettualistica e conformistica, che risultò
predominante nell’Unione Sovietica di Stalin.
In questo contesto ebbe una grande fortuna (a discapito delle idee
di Vygotskij, che furono marginalizzate e combattute, per poi
emergere solo in un periodo successivo) l’approccio pedagogico
peculiare di Anton S. Makarenko (1888 – 1939), dapprima legato alle
medesime istanze di rinnovamento espresse, tra gli altri, anche da
Lenin e Lunaciarskij, e quindi alla “pedologia”, e che poi
mutò radicalmente negli anni Trenta con un deciso rifiuto di
tale prospettive, pur cercando di mantenere stabile un legame tra
l’esperienza rivoluzionaria dell’ottobre e alcune istanze delle
“scuole nuove”, in un contesto di profondi cambiamenti sociali. Il
pensiero pedagogico di Makarenko muove da basi sperimentali e ha un
carattere tutt’altro che dogmatico (mancano principi pedagogici
assoluti, e in particolare vi è nel pedagogista sovietico una
critica serrata a tre grandi errori della teoria pedagogica, ovvero
il “giudizio deduttivo”, il “feticismo etico” e “L’esaltazione di
strumenti isolati”), poiché è stato elaborato
all’interno di concrete esperienze educative, in particolare
all’interno dell colonia Gorkij; e, soprattutto, si impernia attorno
al “collettivo”, un vero e proprio organismo sociale che è
mezzo e fine dell’educazione al contempo, e in cui ogni individuo
assume compiti e responsabilità, in base a norme disciplinari
di cui egli stesso è garante, e collegando il collettivo alla
più vasta realtà sociale (in una certa fase della
teorizzazione pedagogica e della prassi educativa di Makarenko
infatti, è presente il ruolo fondamentale del lavoro
produttivo e socialmente rilevante).
La disciplina ricopre un ruolo rilevante all’interno del collettivo,
che arriva per fasi ad una regolazione sempre più autonoma e
socialmente connotata delle norme interne tanto ai collettivi “di
base” (caratterizzati da rapporti più intimi e da
collaborazione più assidua) quanto al complesso dei
collettivi, che pur dando un’importanza determinante
all’organizzazione sociale, attraverso la cosiddetta “azione
pedagogica parallela” fa in modo che ogni studente abbia coscienza
di essere un uomo “vivo” all’interno di un processo formativo, e non
un semplice “fenomeno” pedagogico. Parallelamente alla disciplina,
rilevanza è attribuita agli aspetti “sostanziali” di
un’estetica militare che rafforzi l’identità e l’ordine del
collettivo, oltre che la precisione e la “regolatezza”, che penetri
anche nell’organizzazione dei collettivi e nel loro funzionamento.
Cenni: Guerra Fredda, ’68 e pedagogia
All’interno del clima della guerra fredda, ad ovest la pedagogia si
configurò come strenuo baluardo del capitalismo e della
democrazia liberale, mentre ad est si sviluppò
progressivamente una pedagogia di Stato, spesso dogmatica ma
sottoposta, nella pratica, anche a sensibili trasformazioni. In
Italia, paese di frontiera in quel contesto, vi fu un pluralismo
ideologico che vide dibattere il frastagliato fronte cattolico,
quello laico-progressista di Codignola e Borghi, e infine il fronte
marxista, legato prevalentemente al PCI (si pensi ad Alicata e
Manacorda, oppure a Gianni Rodari), che oltre a produrre una critica
acuta nei confronti delle altre posizioni, difese una
specificità marxista dell’educazione (unificazione di cultura
umanistica e scientifica, centralità del lavoro, rapporto
dialettico tra scuola e società, priorità data alla
trasformazione sociale rispetto alla scuola). Dopo la seconda guerra
mondiale, vi fu in URSS un parziale ritorno ad istanze più
prettamente marxiste in ambito educativo, con la reintroduzione del
lavoro manuale accanto a quello intellettuale, oltre che
l’elaborazione di modelli pedagogici in altri paesi quali la Cina di
Mao e la Cuba di Fidel Castro.
Bogdan Suchodolski (1907-1993), nel tentativo di rinsaldare
tradizione marxista ed etica cristiana (fortemente sentita nel suo
paese, la Polonia), provò una sintesi in un “umanesimo
socialista” in cui la formazione di un “uomo nuovo”, caratterizzato
da una personalità poliedrica e aperta alla cooperazione, si
ricomponga all’interno della società e sia proteso, in senso
progressista e rivoluzionario, al futuro. Infine, in “Ideologia e
Apparati Ideologici di Stato” del ’70, Louis Althusser indica nella
scuola il nucleo fondamentale di riproduzione della forza lavoro e
delle sue divisioni interne, sia dell’ideologia, ovvero di quella
“visione del mondo” capace di interpretare le istanze della classe
dominante; una volta preso atto di una tale contraddizione insita
nella pedagogia, per Althusser e Broccoli non resta altro che
rinsaldare sempre di più gli orizzonti formativi con la
praxis rivoluzionaria, radicalizzando le proprie istanze tanto
educative quanto socialmente orientate al cambiamento.
I movimenti politici, studenteschi, operai e culturali sorti nel ’68
e profondamente interrelati, furono anche una fucina di
teorizzazione pedagogica, che andò ad affiancarsi ad istanze
politiche di emancipazione estremamente variegate. “L’uomo a una
dimensione” di Marcuse aveva sottoposto a una revisione critica il
sapere e la vita sociale così come si organizzava nelle
società neocapitalistiche, mentre in Germania Wilhelm Reich
operò una sintesi tra psicoanalisi e marxismo. Tema
fondamentale del ’68, come già ricordato, fu il carattere
ideologico (di falsa coscienza) della pedagogia, che essendo un
sapere sempre schierato, deve scegliere di schierarsi per
l’emancipazione dell’uomo. Lapassade articola una pedagogia
dell’infanzia intesa come incompiutezza autonoma e creativa, da
salvaguardare nei confronti della pedagogia istituzionale e che
porta alla realizzazione dell’autogestione pedagogica come unica
forma disvelatrice nei confronti dell’ideologia dominante, e
pertanto emancipatrice. I teorici della descolarizzazione
(d’impronta prevalentemente libertaria e anarchica), tra cui Ivan
Illich, indicarono nell’abbattimento delle organizzazioni formative
tradizionali il fulcro di un rinnovamento pedagogico, di cui si
sarebbe dovuto fare carico l’intera società in modo spontaneo
ed informale, senza istituzionalizzarlo. La “pedagogia degli
oppressi” di Paulo Freire si pone dall parte degli ultimi, dei
poveri, e supera i processi di mera alfabetizzazione per mirare ad
una “coscientizzazione” che porti ad una conquista del linguaggio e
dei significati sociali, per portare ad una partecipazione alla vita
civile da parte delle classi oppresse.
Più in generale, il ’68 ha richiamato la pedagogia in un
confronto aperto con il proprio carattere sociopolitico, con il
proprio retaggio ideologico da superare in senso critico, dialettico
e, in ultima istanza, rivoluzionario; infine, con modelli formativi
e antropologici che guardano a una condizione dis-alienata, creativa
e spesso apertamente libertaria.