1914-1945
Prima Guerra Mondiale
L'Italia del primo dopoguerra
Nascita, avvento e caduta del Fascismo
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LE CAUSE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Ad originare la Prima Guerra Mondiale, fu un forte contrasto sorto
per questioni legate al dominio economico mondiale da attuarsi
attraverso i possedimenti coloniali, che vedeva coinvolte le
maggiori potenze europee dell’epoca: da una parte la Germania e
dall’altra l’Impero Britannico e la Francia.
Dopo la vittoriosa conclusione della Guerra Franco-Prussiana nel
1870, avvenuta a seguito della sconfitta subita dai francesi a
Sedan, la Germania si era costituita in nazione capitalistica. A
seguito di questa vittoria, essa si annettè l’Alsazia e la
Lorena. Nel 1871, sotto il governo del cancelliere Otto Bismarck, i
land tedeschi, per la prima volta nella storia della Germania, si
unirono portando così alla formazione dell’Impero tedesco, il
cui primo sovrano fu Guglielmo I. Gli Stati tedeschi che lo
componevano erano presieduti da un governo centrale composto da
Bismarck, che svolgeva funzioni di capo del Governo, da Guglielmo I,
in quanto imperatore e dallo Stato Maggiore, che disponevano di
tutti i poteri, dato che il Parlamento non aveva la
possibilità di svolgere la propria funzione di controllo. Vi
era poi un Consiglio Federale, che era composto dai rappresentanti
dei diversi Stati, anch’esso con poteri piuttosto limitati.
Bismarck riuscì a realizzare un’intesa conservatrice tra le
due classi che in quel periodo dominavano in Germania:
l’aristocrazia agraria, gli Junker, che occupava posizioni di
rilievo nelle forze armate e nella pubblica amministrazione, e gli
industriali. Questa alleanza si era ulteriormente rafforzata dopo la
vittoria sulla Francia e il raggiungimento dell’unità
nazionale. Bismarck si dimostrò molto duro con le
rivendicazioni degli operai e con il Partito Socialdemocratico che
li rappresentava. Se da una parte egli fece in modo che non
venissero mai approvate leggi che permettessero la libertà di
stampa, di riunione ed altre libertà in genere, dall’altra
varò un sistema di previdenza sociale contro malattie,
infortuni sul lavoro e per la vecchiaia. Contrario al partito
cattolico, trovò poi il modo di fare con i suoi capi un
accordo in funzione antisocialista.
Nel 1864, il Cancelliere stipulò un’alleanza con l’Austria,
che le permise di attaccare la Danimarca, sottraendole i ducati
dello Schleswig e dell’Holstein, situati in una posizione strategica
a cavallo tra il Mar Baltico ed il Mare del Nord. Due anni
più tardi, nel 1866, non si fece scrupolo di attaccare
l’alleata Austria, costringendola poi a concedere l’autonomia
all’Ungheria e il Veneto all’Italia. A seguito di questi eventi,
l’Impero asburgico cambiò nome divenendo Impero
Austro-Ungarico, con due distinte capitali: Vienna e Budapest.
Nel 1873, Bismarck fu il promotore del Patto dei tre imperatori, che
però ebbe vita breve, visto i dissapori tra Austria e Russia
sulla situazione nei Balcani, dove lo zar avrebbe voluto un’egemonia
russa. Infatti alcuni territori di questa regione europea, per
liberarsi dalla secolare oppressione ottomana, chiesero l’aiuto
della Russia, la quale nel 1877 dichiarò guerra alla Turchia,
costringendola a riconoscere l’indipendenza o l’autonomia a quegli
Stati: Romania, Serbia, Montenegro, Bosnia, Erzegovina e Bulgaria,
riuscirono così ad affrancarsi da secoli di occupazione
turca.
Questo tipo di situazione non piacque affatto all’Austria che
minacciò di guerra la Russia. La guerra venne evitata dal
solito Bismarck, che nel 1878 convocò un congresso
internazionale a Berlino, nel corso del quale venne riconosciuta
l’indipendenza dei vari Stati balcanici; all’Austria venne concesso
il protettorato su Bosnia ed Erzegovina, mentre alla Russia, che
aveva sostenuto il peso del conflitto contro la Turchia, venne
assegnata la sola Bessarabia. Sempre nel corso del congresso,
l’Inghilterra ottenne il possesso dell’Isola di Cipro, situata in
posizione strategica, dalla quale si dominava l’accesso al
Mediterraneo Orientale. Questo comportamento ottenne il risultato di
avvicinare la Russia alla Francia, in funzione anti-tedesca e
anti-austriaca.
Nel 1908, l’Austria, approfittando di un colpo di Stato organizzato
in Turchia dal movimento dei Giovani Turchi, incluse in modo
definitivo al proprio territorio la Bosnia e l’Erzegovina. Il
riconoscimento di tale impresa da parte della Germania e
dell’Italia, provocò la nascita di un movimento irredentista
slavo, che nel 1914, con l’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono
d’Austria Francesco Ferdinando d’Asburgo, fornì ai due imperi
centrali un valido motivo per scatenare la Prima Guerra Mondiale.
Dopo Bismarck, il nuovo Kaiser Guglielmo II consapevole della
notevole espansione economica raggiunta dalla Germania, soprattutto
nei settori meccanico, chimico, tessile ed elettrico, sviluppo
raggiunto anche grazie allo sfruttamento dei giacimenti di ferro e
carbone dell’Alsazia e della Lorena, era intenzionato a creare in
Europa una vasta area dominata dall’Impero tedesco.
Da qui ebbe inizio l’espansionismo coloniale tedesco che, nei piani
dell’Imperatore avrebbe dovuto permettere alla Germania di
recuperare il tempo perduto, nei confronti delle altre grandi
potenze coloniali: la Francia e l’Inghilterra, che opposero una
forte resistenza a questo espansionismo in Africa, Asia e Medio
Oriente. Nonostante questo, tra il 1883 ed il 1885, i tedeschi
riuscirono ad occupare il Togo ed il Camerun nell’Africa
Occidentale, la Namibia, l’Uganda ed il Tanganika nell’Africa
sud-orientale, la Nuova Guinea e l’arcipelago delle isole Bismarck
nel Pacifico, le isole Marianne e Caroline acquistate dalla Spagna e
la baia di Kiao-Ciao, avuta dietro pagamento di un affitto dalla
Cina nel 1898. Guglielmo II provvide a fornire la Germania di una
potentissima flotta militare in grado di competere, se non
addiriturra di primeggiare su quella inglese, iniziando quell’azione
di riarmo che precedette la Prima Guerra Mondiale.
Durante il conflitto greco turco per il possesso dell’isola di
Creta, la Germania appoggiò la Turchia, ottenendo in cambio
la concessione per la costruzione della linea ferroviaria che doveva
collegare lo stretto del Bosforo al Golfo Persico, andando
così a minacciare gli interessi inglesi in India. Per tutta
la durata della Prima Guerra Mondiale, la Germania e la Turchia
rimasero alleate.
Nel 1893, la Francia, allarmata per quanto stava accadendo in casa
dello scomodo e potente vicino, e più che mai determinata a
recuperare l’Alsazia e la Lorena, le due regioni perdute nel
conflitto del 1870, stipulò un trattato di alleanza con la
Russia. Nel 1907, a questa alleanza aderì anche
l’Inghilterra; per via del numero delle potenze che vi
parteciparono, questa alleanza prese il nome di Triplice Intesa,
alla quale si opponeva la Triplice Alleanza composta da Germania,
Impero Austro-Ungarico e Italia. Nel 1904, la Francia e
l’Inghilterra sottoscrissero la Cordiale Intesa, che regolamentava i
rispettivi interessi coloniali in Africa, in modo tale da evitare
dei contenziosi che sarebbero potuti risultare nocivi in caso di una
guerra contro la Germania. Nel 1906, nel corso della Conferenza di
Algeciras, la Francia impose il proprio protettorato sul Marocco, ma
in cambio dovette riconoscere alla Germania alcuni territori in
Congo. Nel 1907, la Russia stipulò un accordo con
l’Inghilterra che regolamentava i rispettivi interessi in Persia, in
Afghanistan e nel Tibet.
Nel 1912-13, scoppiarono due guerre balcaniche, miranti
all’affrancamento dal dominio turco. La prima venne condotta dalla
Lega balcanica composta da Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia,
che vedrà la vittoria di questi paesi contro l’esercito
turco. La seconda vide la Bulgaria, appoggiata dall’Austria, contro
la Grecia, il Montenegro e la Serbia, alle quali si unirà
successivamente la Romania, per motivi di ripartizione dei territori
riconquistati. Dopo la sconfitta della Bulgaria, il territorio
appartenente alla Macedonia venne suddiviso tra la Grecia e la
Serbia, mentre la Romania ricevette dalla Bulgaria il sud della
Dobrugia. Da parte sua l’Austria, che era riuscita ad appoggiare con
successo l’indipendenza dell’Albania dai turchi, riuscì ad
imporre un principe tedesco a capo del governo di quel paese. A
causa dell’occupazione serba e greca della Macedonia e di Salonicco,
l’Austria dovette accantonare le sue mire espansionistiche verso il
Mar Egeo.
Si giunse quindi al fatale 28 giugno 1914,l’attentato di Sarajevo,
che segnò l’inizio della grave crisi che un mese più
tardi portò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
ITALIA: INTERVENTISTI E NEUTRALISTI
All’inizio delle ostilità, l’Italia dichiarò, la
propria neutralità, ma il Paese era diviso in due
schieramenti opposti: gli interventisti ed i neutralisti. Il primo
schieramento era diviso al suo interno in diverse correnti: a destra
vi erano i nazionalisti, che vedevano nella guerra l’unico modo per
fermare il dilagante socialismo; a sinistra i repubblicani, che
erano convinti che soltanto sconfiggendo l’impero austro -ungarico
si potesse creare un’Europa composta da Stati sovrani e
indipendenti, ed i socialisti riformisti che, con i sindacalisti
rivoluzionari, vedevano con sospetto il militarismo dell’impero
tedesco; in ultimo una corrente liberale, che riteneva fondamentale
riunire all’Italia Trieste e Trento, ed una corrente cattolica,
l’unica a ritenere che si dovesse intervenire a fianco dell’impero
asburgico, cattolico e conservatore. Un ruolo a parte l’ebbero
alcuni artisti, molti dei quali appartenenti al movimento Futurista.
Anche nello schieramento neutralista esistevano varie componenti: i
socialisti, che rappresentavano soprattutto la classe operaia del
Paese, i cattolici, radicati soprattutto nelle campagne, ed un’altra
corrente liberale facente capo a Giolitti, che rappresentava ampi
strati della borghesia, la quale temeva che una guerra avrebbe
potuto creare le condizioni per una rivoluzione. Mentre il Governo
guidato da Salandra prendeva accordi segreti con i rappresentanti di
Gran Bretagna, Francia e Russia, nelle piazze italiane, noti
personaggi interventisti tenevano i propri comizi. Con il loro
linguaggio acceso, che sfiorava in alcuni casi l’invettiva, essi
facevano leva sul nazionalismo e sul militarismo per conquistare ala
propria causa i piccolo-borghesi e gli studenti. In quest’opera di
convinzione, si distinse in modo particolare Gabriele D’Annunzio,
soprannominato il poeta-soldato.
Nell’aprile del 1915, l’Italia stipulò con le potenze della
Triplice Intesa gli Accordi di Londra, che prevedevano in caso di
vittoria, la consegna all’Italia delle città di Trento,
Trieste e Gorizia, dell’Istria, della Dalmazia Settentrionale, del
porto albanese di Valona in Albania, delle isole egee del Dodecaneso
e di alcune colonie tedesche in Africa. Come rappresentante di
maggior spicco della corrente neutralista in Parlamento, il 13
maggio del 1915, il capo del Governo, Salandra, presentò al
re le proprie dimissioni. Davanti alla nuova ondata di
manifestazioni di piazza organizzate dagli interventisti, che
presero poi il nome di radiose giornate di maggio, i neutralisti non
riuscirono a fornire una risposta adeguata; perfino Giolitti
rifiutò di assumere la carica di capo del Governo, tanto che
il re investì nuovamente della carica il dimissionario
Salandra.
Il 24 maggio, sull’onda dell’entusiasmo popolare, l’Italia diede
inizio alle ostilità contro l’Austria-Ungheria. Malgrado le
incertezze del Partito Socialista, che da un lato si dichiarava
contrario al conflitto, ma dall’altro non faceva nulla per
osteggiarlo, i militanti e la gran parte dei suoi dirigenti,
continuavano a rimanere ostili all’entrata in guerra dell’Italia.
L’ostilità al conflitto aumentava con l’aumento dei morti e
dei feriti da questo procurati e si manifestò in maniera
evidente nelle violente manifestazioni contro la guerra che si
ebbero a Torino nella seconda metà del 1917. Il papa,
Benedetto XV fu contrario al conflitto fin dall’inizio, e fino
all’ultimo tentò di ricondurre alla ragione i capi delle
potenze europee che si accingevano a risolvere con le armi le
proprie divergenze.
Quando il 24 ottobre 1917 l’esercito italiano subì lo
sfondamento del fronte nel settore di Caporetto, il generale Luigi
Cadorna, comandante in capo delle forze armate, non trovò di
meglio che scaricare la colpa del rovescio militare sulle spalle dei
socialisti e dei cattolici, responsabili secondo lui di aver diffuso
il disfsattismo tra le file dell’esercito e nel Paese, accusando i
soldati di viltà, senza tener conto che a causa dei suoi
errori, qurantamila soldati italiani erano morti nell’estremo
tentativo di arginare il nemico dilagante, mentre altri trecentomila
erano stati catturati.
Un nuovo governo che fece appello all’unità nazionale e la
sostituzione di Cadorna con il generale Armando Diaz, permisero
all’Italia, con il nemico ben dentro al territorio nazionale, di
trovare la necessaria coesione per poter affrontare nella giusta
maniera i successivi e vincenti sviluppi bellici. La fine del
conflitto, vide i due scheramenti degli interventisti e dei
neutralisti, ancora sulle loro posizioni, che sotto certi aspetti si
erano perfino più radicalizzate. Gli accordi di pace non
avevano dato all’Italia tutti i territori promessi, tanto che i
più accesi nazionalisti parlavano di pace mutilata.
I neutralisti definivano invece la guerra appena conclusa e che era
costata la perdita di circa dieci milioni di esseri umani, come
un’inutile strage, accusando gli interventisti di aver trascinato
l’Italia in un conflitto non voluto dalla maggior parte della
popolazione e del Parlamento. A questa accusa, gli interventisti
tacciavano gli avversari di disfattismo. In particolare due
personaggi dominarono la scena dalla parte interventista: Gabriele
d’Annunzio, il Vate e l’ex direttore del quotidiano socialista,
l’Avanti, Benito Mussolini.
CONSIDERAZIONI SULLA STRATEGIA MILITARE NEL PRIMO CONFLITTO
MONDIALE.
Una delle asserzioni più comuni per sintetizzare, o forse
meglio qualificare, gli aspetti militari della grande guerra,
è sempre stata la generica definizione di “guerra di
posizione o di trincea”.
Sul piano degli effetti concreti, osservando in linea di massima la
dinamica del conflitto, tale principio può essere considerato
indiscutibile. Ma è possibile porre alcune obiezioni da un
punto di vista dottrinale e considerare anche qualche limitata
accezione per taluni aspetti circostanziali.
Il primo conflitto mondiale inizia a tutti gli effetti come guerra
di movimento, ma finisce coll'essere una guerra di posizione. Questo
concetto può essere visto sotto molteplici aspetti. Nei primi
mesi di guerra, sul fronte occidentale, si ponevano a confronto due
diverse strategie: quella tedesca, prevalentemente di rapido
movimento, sulla base del piano Schlieffen, che risultava
però poco flessibile e rigidamente pianificata; quella
francese, più attendista e posizionale, basata sul concetto
semplicista di sfondamento del fronte centrale (piano XVII), ma
comunque più aperta e flessibile rispetto alla strategia
tedesca. Lo scenario sembrerebbe paragonabile a quanto successo
nella seconda guerra mondiale, quando i francesi opponevano alle
mobili divisioni panzer la linea Maginot sul fronte centrale. In
entrambe le situazioni, solo i tedeschi sono convinti della
possibilità di una guerra lampo, mentre i francesi, fino a
l'ultimo sperano invece in una possibile pace.
Pierre Renouvin (1934) avvalora questo convincimento sottolineando
quanto l'ambasciatore di Francia aveva scritto il 12 giugno1914 a
Berlino: “Sono lungi dal credere che in questo momento ci sia
nell'aria qualcosa che rappresenti per noi una minaccia; proprio al
contrario”. Poco prima dello scoppio delle ostilità e almeno
fino al 1915, tutti si erano però convinti, francesi
compresi, che la guerra sarebbe stata rapida. La maggior parte dei
generali immaginava ancora uno scenario come quello napoleonico, con
campagne militari fulminee e veloci cambiamenti di fronte, dove il
valore del comandante e la resistenza degli uomini erano forse gli
unici fattori determinanti per la vittoria.
In effetti, le prime operazioni sul fronte occidentale sembrarono
dare ragione ai teorici di strategia militare. La velocità di
movimento della fanteria era tale da non far assolutamente pensare
ad una guerra statica e di trincea. Le marce a tappe forzate
potevano arrivare anche a 40 km giornaliere. Pensiamo ad esempio
alla rapida avanzata in Belgio dei tedeschi fino alla Marna e al
rapido aggiramento delle truppe russe vicino a Tannemberg e ai laghi
Masuri.
In Italia,invece, la guerra di posizione era un dato di fatto
già in partenza, per via dell'ambiente montano che ci
divideva dagli austriaci. Sul fronte medio orientale, la guerra
portata avanti dagli inglesi prima si arresta sulle montagne della
Turchia (penisola di Gallipoli), poi, dopo il 1917, assumerà,
una rapida accelerazione, portando alla conquista di quasi tutto il
Medio Oriente e della Mesopotamia.
La svolta posizionale della guerra fu inizialmente determinata da
una serie di errori di valutazione. Tranne i pochi reduci della
campagne coloniali, nessuno aveva una esperienza diretta della
guerra moderna. Difatti, andavano ora considerati numerosi altri
fattori: la produzione industriale, in quanto le armi e i mezzi
erano molto più determinanti in battaglia, la propaganda e la
fiducia delle popolazioni, molto più colpite dalla guerra che
in passato, il sostegno sociale, la gestione delle materie prime, la
ricerca di crediti finanziari, le innovazioni scientifiche, ecc. E'
pur vero che le maggiori innovazioni tecnologiche arrivarono sul
campo da battaglia non prima del 1916, senza contare il tempo di
preparazione del personale e la messa a punto dei mezzi, e questo ha
sicuramente influito a rallentare gli effetti dinamici di una guerra
moderna, ma non ad escluderli.
La guerra di posizione diventa perciò una sorta di attesa,
data l'impotenza degli uomini a superare le barriere difensive
preparate dal nemico. Un primo tentativo in tal senso si concretizza
con lo sviluppo dell'artiglieria, che subisce anch'essa una
trasformazione, sulla base della diversa condotta della guerra: da
un concetto di guerra di movimento ad uno di guerra posizionale; per
poi tentare di adeguarsi ad una ripresa della guerra di movimento
con lo sviluppo dell'artiglieria semovente. All'inizio del
conflitto, infatti, la maggior parte delle artiglierie impiegate era
di tipo leggero e da accompagnamento. Con la guerra di trincea,
invece, l'artiglieria viene fondamentalmente impiegata nel
bombardamento delle postazioni nemiche. Questo comportò un
necessario aumento del loro calibro medio, che passò da 75 a
150 mm. Ogni corpo d'armata, in genere, era dotato di almeno 12
obici pesanti da 150mm. Questa concentrazione di mezzi di
artiglieria non si arrestò per tutto il resto del conflitto.
Uno dei più grossi concentramenti di artiglieria avvenne
durante la battaglia di Verdun, quando da parte tedesca vennero
schierati più di 800 cannoni, di cui 540 pesanti. Nel 1918,
su 20.000 cannoni in dotazione all'esercito tedesco circa 8000 erano
di grosso calibro. Ai grandi cannoni a postazione fissa, come il
grande Bertha tedesco, usato per il bombardamento di Parigi,
facevano da contraltare, sempre sul finire della guerra, i grossi
cannoni mobili su rotaia, come i 355 mm americani e i primi cannoni
semoventi, espressione di una ritrovata necessità di
movimento.
Verso la fine del 1917, gli spostamenti delle truppe alleate sono
già più rapidi e si comincia a dare alla guerra una
certa dinamicità.
Nel 1918, lo sfondamento delle linee austro tedesche venne
determinato dalla “stanchezza del soldato”, ma anche dal crescente
numero di armi meccaniche a disposizione degli eserciti alleati.
Con la diffusione dei veicoli ruotati a motore, la guerra assunse
una sua maggiore dinamicità. L'esercito italiano, che era
entrato in guerra con circa 5.000 autocarri, al 30 settembre del
1918, ne contava più di 36.000. Sul fronte italiano,
l'impiego in massa di mezzi automobilistici, nel maggio del 1916,
permise di far confluire i rinforzi necessari per arginare la
Strafexpedition. In quella occasione, il Comando italiano fece
giungere al fronte 120.000 uomini in soli 4 giorni con 1000
autocarri disponibili. Così pure, l'esercito francese,
durante l'offensiva di Verdun, portò i propri rinforzi fino
ad una decina di chilometri dalla base di smistamento per il fronte.
Anche l'impiego operativo dei carri armati fu alquanto tardivo. La
causa di questo ritardo è solo in parte imputabile alle
resistenze dei principali Stati Maggiori europei. Fin dal 1914,
infatti,quasi tutte le nazioni industrializzate, Russia compresa,
stavano cercando di portare avanti la sperimentazione nel campo dei
corazzati. La FIAT, ad esempio, stava collaudando il modello 2000.
La Gran Bretagna e la Francia erano comunque le nazioni più
avanti nella ricerca. Il colonnello Estienne, il 25 agosto del 1914,
aveva giustamente profetizzato che “la vittoria in questa guerra
apparterrà a quello dei due belligeranti che riuscirà
per primo a sistemare un cannone da 75 su una vettura capace di
muoversi su qualsiasi terreno”. A quella macchina ben presto venne
montata la corazza e nacque così il carro armato. Il primo
progetto francese, datato 11 dicembre 1915, diede i suoi primi
frutti nell'inverno del 1916 con il carro Schneider. I Tank inglesi
fecero la loro prima apparizione nello scontro di Flers, il 15
settembre 1915. In quella occasione, vennero impiegati solo 12
mezzi, ma nella successiva battaglia di Cambrai, il 20 novembre
1917, i nuovi modelli Mark IV vennero impiegati massicciamente,
ottenendo dei brillanti risultati e sfondando la linea Hindemburg
per una profondità di 8 km.
L'esercito inglese, non solo aveva meglio collaudato i propri mezzi,
ma risultava essere più attento nell'impiego dei corazzati in
una guerra di movimento. Questa organizzazione prendeva corpo, nel
giugno del 1917, per merito del neo costituito Royal Tank Corps.
I Tedeschi, in ritardo, impiegarono inizialmente i carri catturati
in combattimento, fino all'apparizione del loro primo modello A7V,
prodotto in soli 20 esemplari, pesante e poco maneggevole. Tuttavia,
dopo l'effetto sorpresa, i tedeschi impararono a sapersi difendere
dai giganti d'acciaio per mezzo dei loro primi cannoni anticarro.
Così, durante la controffensiva di Villers-Cotterets, quando
gli inglesi impiegarono in massa 350 carri armati, ne persero ben
245 in un solo giorno. Il giorno dopo ne rimanevano in efficienza
solo una quarantina. Altrettanto, dopo 4 giorni di combattimento ad
Amiens, su 430 carri inglesi impiegati ne restarono solo 38.
Le maggiori perdite erano certamente imputabili ai guasti meccanici,
ma ciò che importa è chi si dava inizio alla guerra di
movimento dei corazzati. Quanto avvenne durante la seconda guerra
mondiale, non fu quindi una novità, ma la semplice
possibilità di generalizzare la guerra corazzata.
Durante l'offensiva delle Somme, i carri impiegati in massa,
riuscirono di fatti ad avere successo sulla difesa tedesca; ma molto
spesso, una volta sfondate le linee nemiche, i carri restavano a
combattere affianco alla fanteria, perdendo il loro slancio
offensivo. La loro scarsa mobilità e la debole corazza ne
faceva poi dei facili bersagli da parte dell'artiglieria.
Questo però non può limitarci nell'estendere il
concetto di guerra di movimento già durante il primo
conflitto mondiale. Tali reticenze sopravvissero anche durante la
seconda guerra mondiale. L'idea di impiegare i mezzi corazzati in
piccoli gruppi insieme alla fanteria rimase infatti prerogativa
delle forze corazzate francesi, ma anche gli inglesi avevano ancora
alcuni dubbi e così anche loro continuarono a costruire i
loro carri armati Churchill, qualificati come carri per la fanteria
e adatti per il superamento delle trincee. Solo la difficile resa
tedesca del 1918, impedì quindi al primo conflitto mondiale
di trasformarsi nuovamente e definitivamente in guerra di movimento,
con l'invasione territoriale della Germania e dell'Austria. Questo
porterebbe a concludere che, in un certo qual modo, entrambi i
conflitti furono contemporaneamente guerra di movimento e guerra di
posizione, ma con tempi diversi.
Nella seconda guerra mondiale, i tedeschi, artefici del blitzkrieg,
si rifugiano alla fine in una nuova guerra di posizione, costruendo
una serie di fortificazione sui diversi fronti: i trinceramenti in
Unione Sovietica, la linea Siegfrid sul fronte francese, e
addirittura in Italia per ben tre volte dietro la Gustav, la Hitler
e la Gotica.
Epperò vero, che, a differenza della grande guerra, nel
secondo conflitto mondiale, i mezzi bellici a disposizione degli
eserciti consentivano un relativamente rapido sfondamento delle
linee posizionali, cosa che non fu semplice nella grande guerra,
quando la meccanizzazione corazzata e gli aerei non avevano ancora
assunto un ruolo così preponderante.
L'arrestarsi dei tedeschi sulla Manica dopo la sconfitta della
guerra aerea contro la Gran Bretagna, con la costruzione delle
postazioni difensive sulla costa della Normandia, non fu altro che
una nuova versione di una guerra di posizione, questa volta rivolta
contro gli inglesi.
Il rapido sfondamento del fronte tedesco, durante la seconda guerra
mondiale, è da addebitarsi in gran misura ai massicci
bombardamenti aerei e alle numerose armi da assalto e da
bombardamento a disposizione degli anglo americani. In altro modo,
la guerra di movimento iniziale si sarebbe trasformata in
posizionale, così come avvenuto nel primo conflitto mondiale.
Così, il tentativo di Hitler di resistere contro i sovietici
difendendo il territorio “palmo a palmo”, fallisce di fronte alla
valanga di mezzi che l'Unione Sovietica ha potuto schierare dopo il
'43. La differenza tra le due guerre sarebbe quindi nulla se non
nella tempistica. Mentre nella prima guerra mondiale le operazioni
di movimento iniziali sono di durata più breve, nella seconda
si prolungano per più tempo, ma divengono comunque
posizionali quando i tedeschi si pongono sulla difensiva, con la
differenza che la durata della resistenza è più breve
a causa della effetti più distruttivi delle armi.
E' anche opportuno chiarire che, durante il primo conflitto
mondiale, non è mancato il concetto di strategia globale, ma
solo i mezzi necessari per superare il tatticismo posizionale. Il
concetto di grande guerra uguale guerra di posizione è
inoltre sempre stato considerato sotto il solo aspetto terrestre,
trascurando il fatto che si trattava, pur con i dovuti limiti
tecnologici, di una guerra tridimensionale, dove navi e aerei hanno
anche giocato un loro ruolo e impiegati con velleità
tutt'altro che posizionali. Non si tratta dunque di considerare la
guerra di posizione sotto un profilo esclusivamente
fisico-geografico, ovvero il controllo del confine territoriale, ma
di considerare la posizione come funzione tattica della guerra.
L'impiego della varie armi, cioè, non è mai stato
considerato nella sola funzione tattica ma pure in funzione
strategica e di movimento.
I tedeschi, già prima della guerra, avevano già ben
chiaro il concetto di bombardamento aereo strategico. La prima
aeronave Zeppelin aveva solcato i cieli della Germania fin dal 1900,
e nel 1914, tutti erano ormai convinti della grande
versatilità del dirigibile: bombardamento strategico,
osservazione aerea, trasporto. Con il perfezionamento dell'aereo, il
ruolo delle aeronavi ebbe un rapido declino, anche se il loro
impiego non cessò mai del tutto, e ciò nonostante la
nascita dei primi bombardieri. Alcuni modelli tedeschi, come il
Luftschiffe 70 o il Super Zeppelin avrebbero certamente potuto
continuare a giocare un ruolo rilevante nella strategia aerea
tedesca se messi in produzione in numero sufficiente, possedendo
doti non ancora eguagliate dagli aeroplani. La loro tangenza
operativa, infatti, gli avrebbe resi immuni dall'intercettazione, e,
potendo caricare grosse quantità di carburante, avrebbero
potuto sorvolare anche l'intera costa scozzese o raggiungere
l'Atlantico per appoggiare i sommergibili. Sfortunatamente per i
tedeschi, nonostante tali peculiarità, l'unico grande modello
70 prodotto venne abbattuto da un intercettore britannico sulle
coste di Norfolk.
D'altro canto, malgrado la massiccia diffusione degli aerei, ne
furono costruiti oltre 10.000 durante tutto il conflitto, il ruolo
strategico svolto dalla nuova arma fu di scarsa rilevanza. Ad un
significativo aumento del raggio di azione degli apparecchi, non
corrispose una adeguata capacità di carico bellico in grado
di creare significativi danni alle installazioni nemiche. I primi
bombardamenti strategici ebbero perciò più un effetto
psicologico che materiale, ma certamente contribuirono ad aprire un
nuovo scenario della guerra contemporanea.
Molto più efficace fu il loro utilizzo nella ricognizione. Le
macchine fotografiche in pellicola permettevano, infatti, di mappare
facilmente il fronte ed avere, così, utili informazioni sulla
posizione del nemico. Molto diffuso era pure l'impiego dell'aereo da
caccia, sia nell'attacco diretto a terra, con il mitragliamento
della fanteria nemica, sia in funzione di intercettazione. In questo
senso, possiamo affermare che l'aereo rimase relegato in un ruolo di
semplice appoggio alla fanteria.
In un bilancio complessivo, sarebbe comunque giusto tenere presente
che, durante il primo conflitto mondiale, si è andato
affermando l'uso dell'aereo militare secondo le più moderne
accezioni: intercettazione; attacco al suolo; ricognizione;
bombardamento; uso dell'aereo imbarcato.
Per quanto riguarda la guerra navale, gli eventi ci mostrano le
marine da guerra europee come ormai abbastanza mature per un guerra
moderna, eccezion fatta per l'aereo imbarcato ancora in via di
sperimentazione: ricordiamo per esempio in Italia la nave aerostiro
Europa. Nel decennio prima dello scoppio della guerra, tutte le
potenze europee erano state impegnate nel rinnovo e nel
potenziamento della propria flotta militare. Con l'entrata in scena
delle nuove navi da battaglia Dreadnought, le vecchie corazzate,
dotate di cannoni fissi, divennero ormai obsolete e inadeguate alla
nuova guerra navale d'alto mare. Veniva così abbandonato il
vecchio concetto dello speronamento, in cambio delle straordinarie
potenze di fuoco dei nuovi cannoni, capaci di colpire a distanze
notevoli. Nonostante questo impegno, durante il primo conflitto
mondiale, non ci furono grandi battaglie navali, a parte quella
dello Jutland. I tedeschi furono impegnati in una prima battaglia
nei pressi di Helgoland e poi in un solo scontro nel mare del Nord.
La battaglia dello Jutland può essere considerata come il
tentativo tedesco di forzare la guerra navale “posizionale” condotta
dagli alleati con il blocco continentale. La dinamica della
battaglia fu comunque un episodio degno di nota per il suo rapido
susseguirsi degli eventi. Durante la battaglia dello Jutland (31
maggio-1 giugno 1916), le forze navali inglesi andarono incontro
alla flotta tedesca, che aveva preso il largo per forzare il blocco
navale e distruggere con una sortita le navi da battaglia inglesi.
Questi riuscirono ad intercettare i messaggi radio germanici e ad
anticipare le mosse dei tedeschi. Nella prima fase della battaglia,
gli incrociatori corazzati del Reich, pur numericamente inferiori,
riuscirono ad affondare due unità britanniche e ad attirare
le rimanenti verso sud, dove era il grosso delle forze tedesche. Gli
inglesi, in fuga di fronte alla superiorità del nemico, si
fecero inseguire a nord, mettendo di fronte ai tedeschi le loro
corazzate e infliggendo gravi danni alla flotta germanica, che
riuscì tuttavia ad affondare un altro incrociatore. Il
passaggio da una guerra posizionale-navale ad una guerra di
movimento si avrà finalmente con l'impiego massiccio dei
sommergibili.
Nel 1914, tutte le nazioni belligeranti possedevano delle piccole
flottiglie di sottomarini. La Germania fu la nazione più
impegnata nello sviluppo di tale arma. I motivi di questo impegno
vanno cercati semplicemente in una scelta strategico-militare da
parte dei Comandi tedeschi, costretti in qualche modo a dover
colmare la differenza di tonnellaggio di superficie rispetto ai
paesi rivali. É altresì vero che se le nazioni alleate
avessero fatto altrettanto, costruendo anche loro un numero cospicuo
di sommergibili, esse non avrebbero avuto lo stesso risultato; non
avrebbero,cioè, avuto obbiettivi da colpire, in quanto le
navi tedesche, militari e mercantili, erano pressoché
bloccate nei porti per via del blocco.
L'offensiva sottomarina tedesca, volta a strangolare economicamente
la Gran Bretagna, può essere divisa in tre momenti diversi.
In una prima fase, si ebbero attacchi quasi esclusivamente contro
navi militari; in un secondo momento si moltiplicarono gli attacchi
contro navi civili e da carico; dopo il 1917, con una flotta
operativa di oltre 100 battelli, iniziò la guerra ai
convogli. Quest'ultimo frangente fu il più cruento, e la
perdita di mercantili alleati arrivò a una media di circa
630.000 tonnellate al mese.
Dopo il 1918, la produzione di navi da scorta da parte dei paesi
alleati aumentò considerevolmente, diminuendo
significativamente le perdite subite tra i mercantili e infliggendo
gravi perdite alla flotta sottomarina tedesca.
La guerra per il controllo dei traffici dell'atlantico, può
essere quindi considerata come una vera e propria trasformazione del
conflitto in mare, sostenendo la teoria del concetto di guerra di
movimento e non più quindi esclusivamente posizionale, come
era stato, in via concettuale, il blocco continentale. Considerando
tali osservazioni nel loro complesso, non sarebbe perciò
possibile dare un giudizio univoco alla prima guerra mondiale,
considerandola come esclusivamente guerra di posizione. Ciò
può essere vero solo su un piano quantitativo e complessivo
degli eventi, ma risulterebbe discutibile se considerata su un piano
prettamente dottrinale.
Massimiliano Italiano
LA SOCIETÀ ITALIANA NEL PRIMO DOPOGUERRA.
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, la situazione economica in
Italia era molto difficile a causa degli enormi debiti contratti
all’estero, ed in particolare quelli con gli Stati Uniti, oltre che
per la debolezza della lira, che si svalutava sempre più
rapidamente. Il mercato internazionale era soggetto ad una forte
contrazione a livello commerciale per diversi motivi: principalmente
a causa dell’uscita dell’Unione Sovietica, che limitò gli
accordi commerciali con i paesi occidentali per evitare
condizionamenti politici; quindi per le misure protezionistiche
adottati da alcuni Stati, ed infine a causa del Dollaro americano,
che si stava proponendo sui mercati come la nuova moneta forte,
soppiantando la sempre più debole Sterlina inglese.Tutto
questo si ripercuoteva negativamente su tutte le classi sociali
italiane, traducendosi con una maggiore pressione fiscale ed un
aumento del costo della vita e della disoccupazione, che raggiunse
limiti mai toccati prima di allora. Tutto ciò suonò
come un tradimento per i reduci che tornavano dal fronte: nessuna
delle promesse fatte per mantenerli buoni nelle trincee durante il
conflitto era stata infatti mantenuta. L’aumento della pressione
fiscale bloccava infatti gli investimenti, creando nuova
disoccupazione. Ma la cosa peggiore era costituita dal fatto che,
gli introiti derivanti dal gettito fiscale, servivano anche per
restituire, con i relativi interessi, i debiti che lo Stato aveva
contratto durante la guerra per coprire le spese militari. Questi
debiti derivavano dall’immissione sul mercato di Buoni del Tesoro,
acquistati da coloro che la guerra la vedevano solo sulle pagine dei
giornali e che ora reclamavano il frutto dei loro investimenti.
Anche gli operai dell’industria premevano per l’accoglimento di una
serie di rivendicazioni economiche, ed in particolare per la
giornata lavorativa ridotta a otto ore ed un controllo operaio sulla
produzione, oltre a rivendicazioni di ordine politico, come ad
esempio una partecipazione di rappresentanti delle forze operaie
nell’amministrazione dei comuni. Anche nelle campagne, i braccianti
ed i contadini si battevano per il possesso delle terre. Queste
agitazioni non potevano non impensierire gli industriali e i grandi
latifondisti che si sentivano fortemente minacciati da queste
agitazioni sociali, dai continui scioperi e dalle sempre più
frequenti occupazioni di fabbriche e terreni. In questo scenario, il
fossato che divideva interventisti e neutralisti, divenne ancor
più profondo. I contadini per esempio, pur partecipando alle
lotte sociali, si allontanarono sempre più dal partito che in
questo settore era più attivo: il Partito Socialista.
Quest’ultimo, continuava ad attaccare i politici e i militari che
avevano voluto la guerra senza poi preoccuparsi dei problemi di
quella parte della popolazione che l’aveva fatta: principalmente i
contadini appunto, dato che gli operai erano necessari nelle
fabbriche per alimentare la produzione bellica. Gli ex combattenti,
al loro ritorno dal fronte non trovarono le terre che erano state
loro promesse al momento della partenza e neppure un posto di
lavoro, occupato da quelli che essi definivano gli imboscati. Tra i
reduci vi erano anche centossessantamila ufficiali congedati, che
avevano grossi problemi di reinserimento nel mondo del lavoro. La
maggior parte di essi provenivano dalla media borghesia e nella vita
civile precedente la guerra avevano svolto lavori da impiegati,
commessi o piccoli professionisti. Durante la guerra essi si erano
abituati a comandare sui loro sottoposti e come ufficiali avevano
sempre avuto a disposizione una discreta quantità di denaro
da spendere. Per loro era quindi molto più difficile tornare
al ritmo della vita di tutti i giorni. Per questa ragione la maggior
parte di questi uomini entrò fin dal momento della sua
fondazione nel movimento fascista, dopotutto chi esaltava le doti
degli ufficiali e dei militari in genere, chi gettava benzina sul
fuoco del risentimento nazionale era la destra.
LE ELEZIONI POLITICHE DEL NOVEMBRE 1919
A causa dell'insuccesso ottenuto dalla delegazione italiana alla
Conferenza di Pace, il Governo presieduto da Orlando si dimise. Il
suo successore, Francesco Saverio Nittiinserì nel proprio
esecutivo molti ministri dell'area di Giolittisperando in tal modo
di poter continuare a sostenere il ruolo di arbitro della politica.
Ma la situazione economica dell'Italia era molto grave e
l'inflazione erodeva progressivamente le conquiste economiche
raggiunte a prezzo di dure lotte dai lavoratori. La politica
finanziaria adottata da Nitti per rallentare l'inflazione e risanare
il bilancio pubblico non ebbe l'effetto sperato : non convinse gli
imprenditori e scatenò l'ira popolare che si tradusse nelle
sommosse contro il carovita, che scoppiarono in diverse città
della penisola nel mese di Luglio. La crisi dello Stato liberale
venne sancita dalla nascita nel gennaio del 1919 del Partito
Popolare Italiano, fondato dal sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo.
Questo partito aggregava tutte le forze cattoliche del Paese
presenti in molti strati della popolazione, contendendo ai partiti
della destra una buona fetta degli elettori delle classi rurali. La
vecchia politica ricevette un forte scossone: fino a quel momento i
capi del Governo avevano sempre avuto a che fare con delle correnti,
più che con dei partiti veri e propri, per cui era
sufficiente contattare un singolo deputato per averne l'appoggio. In
questo caso però, il Partito Popolare si presentava
strutturato e compatto proprio come un partito moderno: esso era
infatti collegato al mondo dei lavoratori per mezzo di un sindacato
cattolico, laConfederazione Italiana dei Lavoratori ed era presente
in diversi organismi di grande importanza per la vita sociale ed
economica del Paese, quali le Casse Rurali e le cooperative, solo
per citare le più importanti. In base a ciò non era
più possibile stabilire alleanze o prendere decisioni con
incontri di corridoio, ma per fare accordi era ora necessario
conferire direttamente con la segreteria del nuovo partito. Prima
delle elezioni, accadderò due fatti estremamente importanti:
il 20 ed il 21 luglio, vi fu uno sciopero generale a sostegno delle
repubbliche di Russia e Ungheria e contro l'intervento delle
maggiori potenze in quell'area. Doveva trattarsi di un grande
sciopero a livello internazionale ma riuscì solo in Italia. A
seguito di questo evento, il 7 agosto, il governo presieduto da
Nitti richiamò in Patria il corpo di spedizione italiano
inviato in Russia. Il secondo grave fatto fu l'occupazione di Fiume
avvenuta il 12 settembre e compiuta da un corpo di spedizione
composto da volontari e guidato da Gabriele D'Annunzio. A seguito di
quell'azione, negli ambienti della destra si pensò che il
poeta fosse l'uomo giusto per mettere ordine nella politica
italiana. Ma nella realtà quest'impresa servì solo ad
entusiasmare qualche nazionalista convinto e una buona parte della
gioventù, ma la maggior parte della popolazione era ormai
stanca di gesti velleitari; in particolar modo essa non piacque alla
media e grande borghesia, che alle azioni clamorose avrebbero
preferito più ordine nel Paese e una maggiore
stabilità economica e politica. Fu in questo modo che si
iniziò a prendere in maggior considerazione la figura di
Mussolini, che pur appoggiando dalle colonne del Popolo d'Italia
l'impresa di D'Annunzio, non attaccava in modo aperto il governo.
Alle elezioni che si tennero a novembre, i Fasci di combattimento,
che si presentarono nell'unica lista di Milano, ottennero solo 4.795
voti, contro i 170.000 dei socialisti ed i 64.000 dei popolari della
stessa circoscrizione. I partiti tradizionali uscirono sconfitti
dalle elezioni perdendo molti seggi. Il risultato più
eclatante lo ottenne il Partito Popolare Italiano, che divenne il
secondo partito nazionale con il 20,5 % dei voti e 100 deputati. Ai
socialisti andò il 32,4% dei voti, il doppio rispetto al
risultato ottenuto nella tornata elettorale del 1913. Da queste
elezioni risultava chiaro che gli italiani avevano espresso la loro
fiducia ai partiti che rappresentavano le posizioni neutraliste.
LO SQUADRISMO FASCISTA TRA IL 1920 ED IL 1921.
La fine dell' occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920,
segnò l'inizio del progressivo declino del movimento operaio
e di un'aumento delle azioni delle squadre fasciste. Inizialmente
finanziate dai grandi proprietari terrieri, le camicie nere
trovarono negli industriali un nuovo e più cospicuo appoggio
finanziario; inoltre esse godevano di una larga tolleranza da parte
delle forze dell'ordine. Nel primo semestre del 1921 vennero
occupate, devastate, distrutte o date fiamme circa duecento Camere
del Lavoro, una ventina di tipografie e sedi di testate
giornalistiche, ed un certo numero diCase del Popolo cooperative; la
stessa sorte toccò a circa centocinquanta sezioni dei partiti
socialista e comunista, una trentina di sedi sindacali ed un
cospicuo numero di circoli culturali. Vennero anche dannegiate o
distrutte una decina di biblioteche e altrettanti teatri popolari,
oltre ad una cinquantina di circoli operai ed un elevato numero di
abitazioni private. Negli scontri fra le squadre fasciste ed i
socialisti i morti accertati furono 207, mentre più di 800
furono i feriti. Molto illuminante è anche il dato degli
arresti e dei denunciati: più di 1400 gli attivisti
socialisti arrestati dalle forze dell'ordine, contro poco più
di 400 fascisti; circa 620 socialisti vennero denunciati a piede
libero contro 878 fascisti. Innumerevoli furono i casi di non luogo
a procedere nei confronti degli squadristi fascisti.Per rendere
ancora più teso il clima, ebbero inizio una serie di
attentati contro obbiettivi civili:il più efferato fu senza
dubbio quello avvenuto il 23 marzo del 1921 contro il Teatro Diana a
Milano, nel quale persero la vita ventuno persone e quasi duecento
rimasero ferite. La stessa sera le squadre fasciste milanesi
partirono alla volta della sede del quotidiano socialista Avanti da
poco ricostruita e la distrussero nuovamente. Era il marzo del 1921
e le elezioni politiche erano previste per il 15 maggio successivo.
Il Partito Socialista stava attraversando un momento di profonda
crisi che si era concretizzata nel gennaio nel corso del congresso
di Livorno, durante il quale ci fu una scissione interna che
sancì la nascita del nuovo Partito Comunista Italiano, che si
riconosceva nella III Internazionale. Il capo del Governo Giolitti,
tentò di approfittare di questa momentanea debolezza della
sinistra ed inserì Mussolini ed i suoi collaboratori nelle
liste del Blocco Nazionale, un insieme di partiti che comprendeva
democratici, liberali e nazionalisti. Egli continuò a
lasciare mano libera alle camicie nere, i cui capi andavano
assumendo giorno dopo giorno sempre più fama: l'avvocato
Roberto Farinacci a Cremona, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e
Arpinati a Bologna. Alcuni tra loro erano lautamente stipendiati dai
grandi proprietari terrieri e tutti erano abbondantemente riforniti
di camion e armi sia dagli agrari che dai militari, godendo inoltre
di una certa immunità.Le elezioni di maggio videro una tenuta
della sinistra e una crescita del Partito Popolare. Il tentativo di
Giolitti di portare via voti ai socialisti e ai popolari con il suo
blocco nazionale, fallì miseramente. Questa sua mossa
avventata avvantaggiò i fascisti, che riuscirono a portare in
Parlamento ben 35 deputati. Mussolini era felicissimo per l'ottimo
risultato ottenuto: in aula occupò l'ultimo posto a destra, e
nel corso del suo primo discorso parlamentare, il 21 giugno,
precisò subito che la sua sarebbe stata una politica di
destra, enunciando quelli che poi sarebbero stati i punti base della
sua attività. Il nuovo governo formato da Giolitti
durò poco più di un mese e venne poi sostituito da un
governo di centrosinistra guidato da Ivanoe Bonomi. Anch'egli si
trovò con le mani legate nei confronti delle azioni condotte
dalle squadre fasciste, poichè era stato eletto nel blocco
nazionale e quindi anche con i voti dei fascisti. Nell'estate del
1921, per far fronte alle continue violenze delle camicie nere,
prese vita un movimento che assunse la denominazione di Arditi del
Popolo, che nelle intenzioni dei fondatori avrebbe dovuto arginare
la violenza delle squadre fasciste.Inizialmente essi vennero
appoggiati sia dai socialisti che dai comunisti, che in seguito
presero poi le distanze da questo movimento, che indebolito dalle
defezioni giunse a stringere una tregua ufficiale con i dirigenti
fascisti.
GLI SCIOPERI DEL 1920
Gli scioperi contro il costo della vita iniziati nel 1919,
continuarono anche per tutto il 1920. Tutte le categorie ne furono
coinvolte ed in tutte le regioni italiane. Il numero degli iscritti
alla Confederazione Generale del Lavoro, la CGL, in pochi anni si
quadruplicò, superando di larga misura il numero di un
milione e mezzo di adesioni. Per risolvere quello che per il Governo
rappresentava un grosso problema sotto tutti gli aspetti, il
Presidente del Consiglio Nitti, nell'aprile del 1920 varò una
iniziativa tra le più impopolari dalla fine della guerra: il
Governo decise infatti di tesserare la vendita di alcuni prodotti di
prima necessità quali il pane, la pasta, l'olio, il burro ed
i formaggi. Per rispondere alle agitazioni di piazza ormai sempre
più frequenti, Nitti decise di utilizzare il sistema del
bastone e della carota. Gli scontri fra le forze dell'ordine ed i
manifestanti furono molto aspri e alla fine si contarono circa 150
morti tra i lavoratori ed un numero infinitamente minore tra le
forze di polizia e dell'esecito.Alla Guardia Regia, istituita da
Nitti come forza di repressione, si affiancarono i fascisti, che
iniziarono in quel periodo le loro prime spedizioni punitive contro
gli avversari politici e contro alcune istituzioni: nel febbraio del
1920, una squadra fascista assaltò la sede della Camera del
lavoro di Bari devastandola. Lo sciopero non fu l'unica forma di
lotta adottata dai lavoratori, già dal primo semestre del
1920 si assistette alle prime occupazioni di fabbriche. La sinistra
appoggiava queste azioni, ma era spaccata al suo interno: mentre la
CGL desiderava mantenere la lotta nell'ambito delle rivendicazioni
sindacali, i socialisti insistevano sull'aspetto puramente politico,
senza tuttavia appoggiare uno sblocco rivoluzionario della
situazione, sostenuta invece da molti operai e da alcuni
intellettuali socialisti, che facevano sentire la propria voce per
mezzo di una rivista uscita a Torino il 1° maggio del 1919:
L'Ordine Nuovo, fondata da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto
Terracini e Palmiro Togliatti. Davanti ad una situazione che
precipitava di giorno in giorno, gli industriali fecero fronte
comune e nel marzo del 1920 nacque la Confederazione Generale
dell'Industria. La prima dimostrazione di forza del padronato
avvenne nelle Indistrie Metallurgiche a Torino: davanti alle
pressanti richieste normative e salariali rilanciate dal sindacato,
la proprietà decise il licenziamento di tre dei membri della
commissione interna e con la chiusura degli stabilimenti. A seguito
di ciò vi fu uno sciopero generale che coinvolse tutti i
lavoratori piemontesi. Nel frattempo, a causa dei continui
insuccessi e della sua ormai scarsa popolarità, Nitti fu
costretto a rassegnare le proprie dimissioni. Al suo posto fu
richiamato l'ormai anziano Giolitti, che non commise l'errore del
suo predecessore, e anzichè inviare la forza pubblica a
sedare le manifestazioni di piazza, cercò di sedare i
disordini con la trattativa: promise di colpire i profitti di
guerra, di rendere più trasparenti i titoli azionari con la
nominatività, di introdurre imposte sulle successioni e di
permettere lo sfruttamento delle terre incolte. In politica estera,
egli risolse con la diplomazia la questione di Fiume, lasciatale in
eredità dal precedente governo. Il 12 novembre del 1920, a
Rapallo venne siglato un accordo con la Jugoslavia che pevedeva
l'attribuzione all'Italia della città di Zara, mentre Fiume
sarebbe divenuta città libera. D'Annunzio, che non
accettò il trattato, venne fatto sgomberare dalla
città con la forza alla fine di dicembre. Per quanto
concerneva la politica interna, Giolitti continuò a giocare
la carta della trattativa e delle riforme, riuscendo in tal modo a
mantenere la situazione sotto controllo, anche se le lotte operaie
si estesero dal Piemonte a tutto il territorio nazionale. Ciò
avvenne nel mese di agosto, quando la Federazione degli Operai
Metalmeccanici, la FIOM, invitò tutti i lavoratori del
settore a scendere in campo per ottenere dei miglioramenti
salariali. Il 31 dello stesso mese, la Confindustria proclamò
la serrata di tutti gli stabilimenti, a cui fece seguito, nei giorni
seguenti, l'occupazione delle fabbriche ad opera dei lavoratori. La
produzione non subì rallentamenti, nonostante l'opera di
ostruzionismo messa in atto dalle banche e il boicottaggio delle
materie prime, ma venne condotta direttamente dagli operai. Anche in
questo caso Giolitti rimase fermo, nonostante il parere negativo
degli industriali, che avrebbero preferito l'uso della forza. Egli
riuscì invece a far dialogare i padroni ed i sindacati, che
raggiunsero un accordo sugli aumenti salariali e approvarono
congiuntamente un disegno di legge riguardante il controllo della
produzione da parte degli operai, disegno di legge che non giunse
mai all'attuazione effettiva. Se da una parte Giolitti indugiva
davanti agli scioperi e alle occupazioni della sinistra, dall'altra
egli temporeggiava anche nei confronti delle attività delle
squadre fasciste che, secondo i suoi piani, avrebbero potuto fargli
comodo in funzione antisocialista. Questa inattività del
Presidente del Consiglio, dava credito a certe voci secondo le
quali, a seguito del trattato di Rapallo, Mussolini avrebbe
rinunciato a sostenere la causa di D'Annunzio in cambio della
libertà d'azione delle camice nere. Gli episodi di violenza
erano ormai all'ordine del giorno, fino a giungere verso l'ultimo
quarto dell'anno ad una situazione di guerriglia quotidiana.
Nonostante tutto, nelle elezioni amministrative di novembre, i
socialisti mantennero gli stessi voti conquistati nelle precedenti
elezioni del 1919, riuscendo a conquistare più di duemila
Comuni, fra i quali Milano e Bologna.In Emilia, la vittoria della
sinistra fu schiacciante: vennero conquistati ben 233 Comuni su un
totale di 280. Questa travolgente vittoria, ottenne il risultato di
far aumentare in quella regione le azioni delle squadre d'azione
fasciste, sostenute finanziariamente dai grandi latifondisti locali
che non vedevano di buon occhio le amministrazioni di sinistra.
DALLA CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE ALLO SCIOPERO LEGALITARIO DEL
1° AGOSTO DEL 1922
Durante il primo conflitto mondiale la grande industria conobbe un
grandissimo sviluppo: per motivi bellici, lo Stato richiedeva
infatti di tutto, dal materiale bellico ai capi di vestiario e al
cibo riservato ai militari al fronte. Per rendere meglio l’idea
dello sforzo bellico delle industrie italiane, basti pensare che
l’Ansaldo, una delle maggiori operanti in Italia nel periodo, mentre
in tempo di pace dava lavoro a circa quattromila operai, durante la
guerra ne contava più di cinquantacinquemila. La stessa cosa
successe alla FIAT, che dai cinquemila operai del tempo di pace,
arrivò a contarne fino a cinquantamila. Per far fronte alle
esigenze belliche, nei quattro anni del conflitto, l’Ansaldo
produsse oltre undicimila cannoni, dieci milioni di proiettili,
circa quattromila aeroplani e un centinaio di navi militari di
diverso tipo. I grandi profitti derivanti da questa straordinaria
produzione, portarono il capitale sociale dell’azienda dai trenta
milioni di lire precedenti alla guerra a circa cinquecento milioni
al suo termine. Nel panorama economico-sociale del Paese, assunsero
sempre più importanza dei personaggi lontani dei vecchi
centri di potere: ai grandi proprietari terrieri, si sostituirono
gli industriali arricchiti dalla guerra, che si organizzarono nella
Confindustria. Al termine della guerra, in Italia come nel resto
d’Europa, si venne a creare il problema della conversione
dell’industria da bellica ad uso civile. Ma purtroppo in quel
periodo vi era una diffusa stagnazione dei mercati mondiali,
aggravata in Italia dalla scarsa competitività dei prodotti
industriali nazionali, dovuta in parte alla dissennata politica di
protezione doganale fino ad allora praticata dal governo italiano.
Mentre gli altri Paesi dettero inizio all’allargamento del mercato
interno, in Italia gli industriali preferirono mantenere bassi i
salari, precludendosi anche questa possibilità. All’estero
l’industria si attivò riuscendo a compiere la propria
conversione con i grandi profitti derivati dalla produzione bellica,
nel nostro Paese gli industriali attesero l’intervento dello Stato:
i governi Giolitti e Bonomi, non solo non intervennero in aiuto
all’industria, ma colpirono i profitti di guerra non reinvestiti. Le
grandi industrie cresciute a dismisura durante la guerra, iniziarono
a dare segni di cedimento, ed alcune di esse crollarono sul finire
del 1921. Fra esse l’Ansaldo e l’Ilva, che trascinarono nel loro
fallimento la Banca Italiana di Sconto, rovinando migliaia di
piccoli risparmiatori che vi avevano depositato i loro risparmi. Per
far si che lo Stato concedesse il proprio aiuto all’industria,
occorreva un nuovo governo non più legato ai vecchi
possidenti, ma bensì un governo che lasciasse alla nuova
classe dirigente libertà di azione. Fu da quel momento che
gli industriali iniziarono a vedere in Mussolini il possibile nuovo
capo del governo. Gli agrari, più conservatori, avrebbero
preferito il proseguimento dello Stato liberale, ma si accorsero che
ormai la cosa era improponibile. La guerra aveva definitivamente
emancipato gli operai ed i contadini, che nella vita terribile
passata nelle trincee fece conoscere ad individui, che se non fosse
stato per la guerra non sarebbero mai usciti dal luogo natio, cose
ed idee nuove. Il suffragio universale si abbattè come una
mannaia ed il nuovo sistema elettorale proporzionale, rese ancora
più difficile la manipolazione dei risultati elettorali.
L’alternativa ai fascisti era costituita dai socialisti, che
avrebbero attuato chissà quali riforme, mentre Mussolini
avrebbe probabilmente mantenuto l’inviolabilità della
proprietà privata. Il 2 febbraio del 1922, cadde il governo
Bonomi, preceduto da due fatti importanti per il mondo cattolico:
dal 20 al 23 novembre del 1921, si tenne a Venezia il congresso del
Partito Popolare Italiano, mentre il 22 gennaio del 1922 morì
papa Benedetto XV. Dal congresso dei popolari emersero le due anime
del partito: la destra che avrebbe voluto un’alleanza con i fascisti
e con i conservatori non cattolici, e la sinistra, che rappresentava
la maggioranza assoluta del partito, che avrebbe voluto intavolare
delle trattative con i socialisti, ma solo nel caso che questi
avessero tralasciato ogni velleità rivoluzionaria. Anche il
Partito Socialista era diviso al suo interno in Massimalisti,
ancorati saldamente alle idee di Marx, ed i socialisti di destra,
che essendo in minoranza, non erano in grado di imporre al partito
la loro volontà, che consisteva nella possibilità di
formare un nuovo governo con i cattolici. In questo clima si
inserì la Santa Sede, nella persona del nuovo papa Pio XI. In
quegli anni, lo Stato del Vaticano era in condizioni economiche
alquanto precarie, e già dai tempi di Pio IX, le offerte che
giungevano alle casse di San Pietro dai fedeli di tutto il mondo
cristiano, bastavano appena a coprire le necessità interne.
Le cose non migliorarono nè sotto il pontificato di Leone
XIII e neppure sotto quello di Pio X, che si vide addirittura
costretto a vendere i doni più preziosi ricevuti dai fedeli.
Quando iniziò la Prima Guerra Mondiale papa Benedetto XV vide
diminuire drasticamente i contributi all’Obolo di San Pietro da
parte di Francia e Belgio. Questi due Paesi continuarono a non
inviare contributi in Vaticano anche dopo la guerra, così
come pure la Germania e l’Austria. Gli unici introiti sicuri
provenivano quasi interamente dal Nord e dal Sud America. Ad
aggravare la situazione economica della Chiesa, intervenne la legge
varata da Giolitti nel 1920, che obbligava i possessori di titoli
sia pubblici che privati, a registrarli sotto il loro nome. I capi
delle organizzazioni delle associazioni e degli ordini religiosi che
possedevano questi titoli, erano infatti persone piuttosto anziane e
quindi, in caso di decesso, si sarebbero dovute pagare imposte di
successione molto alte che avrebbero fatto correre il rischio di
perdere la quasi totalità del capitale. A complicare le cose,
il Banco di Roma, nel quale erano depositati gran parte dei soldi
del Vaticano e di numerose altre organizzazioni cattoliche, era
sull’orlo del fallimento. I precedenti governi liberali non fecero
nulla per salvare la Banca Italiana di Sconto e a maggior ragione
non ci si attendeva nulla di buono dai socialisti. Ai motivi di
ordine finanziario si aggiunse anche il fatto che quando era
arcivescovo di Milano, Achille Ratti, ora papa Pio XI, era noto per
le sue idee conservatrici e nonostante la base del Partito Popolare
fosse nella sua stragrande maggioranza democratica, egli dalle
pagine dell’Osservatore Romano prese sempre posizioni più
vicine alla destra, boicottando in ogni modo un possibile
avvicinamento tra cattolici e socialisti. La ricerca di un
successore di Bonomi, non fu affatto facile. Occorreva infatti
formare un governo in grado di porre fine alla guerra civile in atto
e che riprendesse in mano le forze di polizia e dell’esercito. La
scelta cadde infine su Luigi Facta, considerato come succube di
Giolitti, che ricevette i voti dei liberali, dei conservatori, dei
popolari e dei fascisti. Le Camicie nere si erano intanto
impadronite della maggior parte dei comuni della Valle Padana, della
Toscana, dell’Umbria e della Puglia, dove imposero le dimissioni dei
sindaci regolarmente eletti e l’allontanamento dei prefetti non
graditi. Il 12 maggio esse occuparono Ferrara, il 30 Bologna e
quindi Rimini e Adria. Il 12 luglio del 1922 vennero assediate
Viterbo e Cremona. In quest’ultima città erano molto forti le
Leghe bianche, rappresentate in città dal deputato cattolico
Guido Miglioli. Le squadre di Farinaccioccuparono prima la
prefettura, quindi devastarono le sedi delle organizzazioni operaie
e per finire infierirono sull’abitazione del Miglioli. Il Fascismo,
appoggiato dai militari, agiva ormai come uno Stato nello Stato,
senza che il governo Facta intervenisse in alcun modo. Il 19 Luglio
il governo si dimise e si aprì una nuova lunga crisi. Mentre
Giolitti, Bonomi ed Orlando iniziarono ad intessere delle trame
segrete intese a traghettare i fascisti nel futuro governo, vi fu un
avvicinamento tra i socialisti e i cattolici, che fece subito
pensare ad un’alleanza in funzione antifascista. Ma la situazione
era ormai incontrollabile per le forze democratiche, soprattutto a
causa della forte compromissione dell’esercito con le azioni
commesse dalle squadre fasciste e dal veto posto da Giolitti circa
un’unione tra cattolici e socialisti. Nel frattempo i fascisti
continuarono ad occupare con la forza paesi e città: il 29
luglio fu la volta di Ravenna, dove vennero incendiate la sede
principale delle cooperative e un edificio storico che fu abitazione
di Byron. Una delle pochissime città che si ribellarono a
questa forma di occupazione fu Parma, nella quale gli Arditi del
Popolo, appoggiati dalla maggior parte della popolazione, si
scontrarono vittoriosamente con le squadre di Balbo e Farinacci,
riuscendo perfino ad ottenere la neutralità dell’esercito. In
questo clima, l’alleanza del Lavoro, organizzazione fondata dal
Sindacato dei ferrovieri, alla quale avevano dato la propria
adesione la Confederazione Generale del Lavoro, l’Unione Sindacale e
il Sindacato dei lavoratori Portuali, fissò per il primo di
agosto uno sciopero generale a carattere nazionale, definito
Legalitario, poichè tramite esso si intendeva chiedere il
ripristino della legalità e di misure atte a porre fine alle
violenze perpetrate dai fascisti. Diverse erano le speranze riposte
nella manifestazione dai sui promotori: gli anarchici ed i comunisti
speravano ancora in una rivoluzione, i moderati nell’indignazione
generale antifascista che rendesse possibile la formazione di un
governo democratico di sinistra. I Popolari, che non vennero
interpellati in merito, si schierarono per il no allo sciopero, lo
stesso Don Sturzo, era convinto che l’alleanza sindacale fosse stata
manipolata da agenti provocatori. I fascisti colsero l’occasione
mobilitandosi allo scopo di far fallire lo sciopero che essi
dichiararono illegale e annunciarono che se lo Stato non fosse
intervenuto entro quarantotto ore , i fascisti avrebbero agito in
sua vece. Lo scipero fu un fallimento e coinvolse solo una parte dei
lavoratori e della popolazione, ma malgrado ciò si
verificarono ugualmente gravi incidenti fra fascisti e manifestanti.
Alle 12 del 3 agosto, gli organizzatori dello sciopero ne
annunciarono la fine. La rappresaglia fascista non si fece
attendere: in pochi giorni vennero occupate decine di comuni e anche
Milano, roccaforte socialista venne presa d’assalto. La sede
dell’Avanti venne nuovamente distrutta. Le camicie nere entrarono a
Palazzo Marino, sede del comune, con il consenso del prefetto della
città. Queste azioni furono il preludio alla Marcia su Roma,
che sancirà la presa del governo da parte di Mussolini.
LE ORIGINI DEL FASCISMO
La parola “fascismo” deriva dal fascio di verghe che erano portate
nell’antica Roma da appositi addetti chiamati “littori”, (da qui la
denominazione “fascio littorio”). I fascis littorii erano le guardie
del corpo personali del magistrato e rappresentavano il potere che
avevano di uccidere il re. Tra le verghe del Fascio, o lateralmente,
vi era inserita una scure, che però in età
repubblicana veniva tolta quando si era all’interno della
città. Dopo la disfatta di Caporetto, il termine Fascio
cominciò ad essere legato alla necessità di un’unione
nazionale al di sopra degli interessi dei partiti. Come tale, ma
accompagnato da rivendicazioni rivoluzionarie, l’emblema romano
venne accolto da Benito Mussolini, divenendo il simbolo dei Fasci di
Combattimento e in seguito del Partito Nazionale Fascista, per
simboleggiare l’unione del popolo italiano e per volersi ispirare
alla potenza e alla grandezza del popolo romano. Per i giovani la
Prima Guerra Mondiale era stata un’avventura, un’esperienza vissuta
con l’esaltazione dell’eroismo e del coraggio, ma il disastro morale
sopraggiunse quando si scoprì che era una guerra nuova,
lunga, di logoramento. Così si accusò il Parlamento e
i partiti di disfare con vuote polemiche quello che i combattenti
conquistavano col sangue. Queste accuse, anche se prive di
fondamento, prepararono il terreno per i futuri semi dei movimenti
combattentistici; vale a dire: arditismo, futurismo politico,
fiumanesimo, fascismo. I movimenti combattentistici fecero della
partecipazione alla guerra l’origine, legittima, del loro diritto al
potere e alla guida del paese rinnovato. Dovevano, infatti, salvare
la patria dal nemico interno, come l’avevano salvata da quello
esterno, e rinnovarla, attraverso vari propositi: purificazione
morale, lotta all’analfabetismo, giustizia per tutti, riconoscimento
dei diritti delle donne, istituzione del divorzio, riforma del
costume. Il movimento non presentò solo quest’aspetto, in
alcuni nuclei di minoranza, dai quali sorse la prima classe
dirigente fascista, fu la premessa di un’ideologia sovversiva, che
voleva la distruzione degli istituti liberali e l’esaltazione del
ruolo avuto dalle aristocrazie guerriere, in particolare gli arditi.
Questi ultimi, che rifiutavano di riprendere un posto nel “sistema”
una volta finita la guerra, furono guardati con sospetto o
corteggiati, soprattutto dai partiti estremi, che tentarono di
accaparrare per sé quel capitale d’energie e d’individui
pronti a tutto, privi di scrupolo ed efficaci combattenti. Durante
la guerra gli arditi avevano goduto, in compenso del rischio,
particolari privilegi, senza dover subire la logorante vita di
trincea. Essi quindi avevano vissuto la guerra soltanto come
spettacolo del loro eroismo individuale, esibito sempre ai limiti
della morte. N’era derivato un gusto per il temerario, una
familiarità con la morte stessa, che diventava quasi un
desiderio d’apparire tanto coraggiosi e superiori alla massa comune,
da amare la morte e da assumerla a simbolo del loro valore. Gli
arditi erano convinti di aver acquisito valori e qualità che
li rendevano superiori alle masse. Sorsero così formazioni
d’arditismo, corpi scelti destinati alle azioni più
pericolose, con simboli che rispecchiavano il loro carattere e la
loro esaltata psicologia; simboli “strani” in cui tornava sempre il
colore, l’immagine, l’idea della morte (stendardi neri, teschi col
pugnale fra i denti). Gli arditi furono certamente fra i primi a
distinguere il combattentismo fra partecipazione attiva,
aristocratica e partecipazione di massa, passiva e incosciente.
L’istintiva neutralità delle masse era un fatto
indiscutibile, comune sia alla borghesia sia al proletariato, ma
dovuto più ad un naturale sentimento di evitare il peggio,
che ad una convinta adesione a teorie pacifiste. L’aspetto
più interessante della loro “ideologia”, fu l’esaltazione
della giovinezza e dell’azione, ideologia efficace nell’attrarre i
giovani, specialmente quelli che non avevano fatto la guerra. Al
contatto con futuristi e fascisti, gli arditi aspirarono a formulare
la loro dottrina sulla base dell’esperienza della guerra, dando vita
a una contestazione verso la società borghese, rivolta
soprattutto verso la sua mentalità, piuttosto che verso i
suoi fondamenti. Sul piano politico chiedevano l’annessione delle
terre italiane e delle terre necessarie alla grandezza della
nazione, la riforma elettorale, la Costituente, la rappresentanza
dei combattenti, la revisione dei contratti di guerra,
l’incriminazione dei profittatori e infine, l’espropriazione dei
capitali e nuove leggi sul lavoro. Attivismo, nazionalismo
(esaltazione dello stato nazionale, considerato come ente
indispensabile per la realizzazione delle aspirazioni sociali,
economiche e culturali di un popolo) e giovinezza sono caratteri
dell’arditismo che il fascismo fece suoi. Gli arditi fornirono alla
forza nascente del fascismo quadri attivi, armati, esperti nelle
azioni rapide, pronti alla violenza e allo scontro fisico, poco o
per nulla rispettosi delle idee altrui. Inoltre l’arditismo fu il
metodo di lotta del fascismo, che ne prese anche i simboli e lo
stile (la camicia nera). All’interno dell’estremismo combattentista,
l’unico gruppo che avesse un’ideologia, a cui attinsero arditi e
fascisti, era quello futurista. Nato come movimento artistico nel
1909, il futurismo fu la prima avanguardia del Novecento che, per la
sua polemica contro le radici dell’arte (no scuola classica, no
città monumentali) e della cultura tradizionale, investiva
tutto il mondo di valori, di abitudini, di istituzioni legato a
quello della cultura stessa (Filippo Tommaso Martinetti). Al centro
dell’ideologia futurista vi era la concezione della vita come
movimento verso il futuro e la libertà assoluta
dell’individuo come il valore fondamentale; perciò questa
ideologia non ammetteva né leggi, né religione,
né tradizioni. Per il futurismo parlare di solidarietà
e di uguaglianza, in senso assoluto, era in linguaggio passatista.
La lotta quotidiana, l’aggressività dei forti verso i deboli,
erano considerate norme valide sia per gli individui e sia per i
popoli, perché erano necessarie per eliminare gli elementi
decadenti, deboli e corrotti. Da queste premesse di darwinismo
sociale, i futuristi negarono la solidarietà fra gli esseri
umani e fra i popoli, ed esaltarono le virtù della
giovinezza, il coraggio, l’amore del rischio e dell’avventura, che
servivano appunto per selezionare gli uomini nuovi dalla massa dei
vecchi inerti. Anche la violenza era accettata, essendo vista come
manifestazione dell’esuberanza e dell’insofferenza dei giovani per
la politica delle parole e dei compromessi. I futuristi quindi
accolsero con viva approvazione la decisione di Mussolini di fondare
i Fasci di combattimento e ne furono i primi animatori ed
organizzatori. La data di nascita ufficiale del Fascismo viene
comunemente fatta coincidere con questa fondazione (23 marzo 1919).
Mussolini però intendeva dar vita ad un movimento più
che ad un partito, quest’ultimo, infatti, fu creato soltanto il 7
novembre 1921. Il tentativo di teorizzare il fascismo fu affrontato
nel giugno del 1932, con la pubblicazione del XIV volume
dell’Enciclopedia Italiana contenente la voce Fascismo a firma di
Benito Mussolini. Il saggio si divideva in due parti ben distinte:
le Idee fondamentali e la Dottrina politica e sociale; la prima, a
carattere teorico e dottrinale, fu scritta, in realtà, da
Giovanni Gentile (1875 – 1944), la seconda, più “politica” in
senso stretto, da Mussolini. I punti che il filosofo sviluppò
nel suo scritto sono: la coincidenza di prassi e pensiero, la
polemica antiliberale e la differenziazione dai nazionalisti. Nel
binomio pensiero e azione il filosofo siciliano vedeva, infatti, la
più netta e decisa presa di posizione contro la tradizione
italiana, di origine appunto rinascimentale, che mirava a separare
l’uomo di pensiero dai problemi della società, cioè
della politica. Nel suo testo Gentile analizza “che cos’è” il
fascismo e a quali concezioni politiche esso si oppone. Il fascismo
è prassi, in quanto è inserito in uno specifico
momento storico, ma è anche pensiero poiché contiene
in sé un ideale che lo eleva a formula di verità. E’
una concezione spiritualistica, ma non è scettica, né
agnostica, né pessimistica, né passivamente
ottimistica, come lo sono, in generale, le dottrine che pongono il
centro della vita fuori dell’uomo. Il fascismo vuole un individuo
attivo, che concepisca la vita come lotta e che capisca che solo lui
può conquistarsi l’esistenza che vuole. Per questo viene data
grandissima importanza alla cultura in tutte le sue forme (arte,
religione, scienza) e all’educazione. Esso è anche una
concezione religiosa, in cui l’uomo è visto in rapporto con
una Volontà superiore e obiettiva che lo eleva a membro
consapevole di una società spirituale. Inoltre è una
concezione storica, nella quale l’uomo “esiste” solo in rapporto con
la società, la famiglia, la nazione e la storia. Per questo
motivo viene dato gran peso alle tradizioni, ai costumi, alle
memorie e alle norme del vivere civile, contrariamente a quanto
professava il futurismo politico. Ha una concezione
antiindividualistica dello Stato, ed è quindi contro il
socialismo poiché non esistono né individui, né
partiti fuori dello Stato. Al tempo stesso però il fascismo
è contro la democrazia, che “ragguaglia il popolo al maggior
numero abbassandolo al livello dei più” (segue il darwinismo
sociale dei futuristi). Per Gentile, e quindi per Mussolini, non
è la nazione a generare lo Stato, ma il contrario,
perché esso dà al popolo, consapevole della propria
unità morale, una volontà e un’effettiva esistenza. Lo
Stato disciplina tutti gli individui, ispirando con i suoi principi
le personalità di ognuno; per questo il fascismo è
educatore e promotore di una vita spirituale, volendo rifare l’uomo
stesso, il suo carattere e la sua fede. La sua insegna è
perciò il fascio littorio, simbolo dell’unità, della
forza e della giustizia.
LA NASCITA DEL PARTITO NAZIONALE FASCISTA
Se nel 1919 e nel 1920 le spedizioni punitive delle camicie nere
furono quasi sempre a livello locale e piuttosto estemporanee,
dall’estate del 1921 vi fu un radicale cambiamento nel modus
operandi. Nelle squadre d’azione iniziarono infatti ad aver un peso
sempre maggiore i militari: ciò portò ad un
miglioramento nell’organizzazione e nella disciplina di questi
uomini e in una vera e propria programmazione delle azioni da
compiere. In questo modo ai fascisti fu possibile puntare a bersagli
che non erano più i singoli individui, ma bensì i
comuni retti dalle giunte socialiste. La tecnica più
utilizzata consisteva nel far convergere nel luogo scelto per
l’azione, migliaia di squadristi che potevano giungere anche da
molto lontano. Una volta completata l’adunata, aveva inizio l’opera
di devastazione della Camera del Lavoro locale, delle sedi delle
cooperative, dei circoli ricreativi operai e delle abitazioni degli
attivisti socialisti. Infine le squadre fasciste si ponevano alla
ricerca del Sindaco e dei membri della giunta e del consiglio
comunale, che una volta scovati venivano costretti con la forza a
rassegnare le proprie dimissioni. Avvenuto ciò giungeva il
Prefetto che provvedeva a nominare un commissario, che naturalmente
era una persona di provata fede fascista, che aveva il compito di
amministrare la località. Ma non tutte le città che
ebbero la sventura di essere liberate dalle squadre fasciste erano
amministrate dai socialisti. Uno degli esempi più illuminanti
in questo senso fu senza dubbio l’azione che, il 12 luglio del 1921,
portò alla cacciata da Treviso della giunta retta da membri
del Partito Popolare Italiano di Don Sturzo. Nel frattempo
all’interno del movimento fascista ebbero inizio i primi dissidi .
Con l’ingresso in Parlamento di un buon numero di deputati del
proprio schieramento, Mussolini tentava in ogni modo di dare una
parvenza di legalità al suo movimento ed in questo senso
accettò la mediazione dell’allora Presidente della Camera
Enrico De Nicola, che il 2 agosto del 1921, portò ad un patto
di pacificazione con i socialisti. Ma già il 16 agosto i
Fasci dell’Emilia Romagna, riuniti in congresso a Bologna,
ribadirono la non accettazione del patto da parte loro, seguiti
circa un mese più tardi da quelli della Toscana, e il 28
settembre da quelli dell’Umbria e a seguire da tutti gli altri. I
grandi capi dello squadrismo, come Roberto Farinacci il Ras di
Cremona, Dino Grandi,capo indiscusso del fascismo bolognese, Italo
Balbo, capo delle squadre ferraresi e il barese Caradonna, si
schierarono apertamente contro Mussolini. Essi continuarono le loro
azioni contro le giunte popolari e contro i comunisti, che non
avevano voluto scendere a patti con i fascisti. In questa occasione,
Mussolini ebbe modo di esprimere tutta la propria capacità
nel gestire la situazione che era venuta a crearsi e nel manovrare
gli uomini: con grande clamore egli si dimise dalla Commissione
esecutiva dei Fasci. In realtà, stava meditando di
trasformare il movimento dei Fasci di Combattimento in un partito
politico, mantenendo però operative sia le squadre d’azione
che i loro capi. Al Terzo congresso nazionale dei Fasci, che si
tenne a Roma dal 7 al 10 novembre del 1921 e che sancÌ la
nascita del Partito Nazionale Fascista, Mussolini fece il proprio
intervento senza più parlare di dimissioni e con tono
conciliante verso coloro che lo avevano criticato. L'abbraccio con
Grandi sancì l'avvenuta riappacificazione. Sempre nel corso
di quel congresso venne reso pubblico il programma del nuovo partito
che rispetto a quello del precedente movimento dei Fasci di
Combattimento prevedeva molti cambiamente sostanziali: vennero
rimossi tutti i punti considerati socialisteggianti e quelli
sfavorevoli al capitalismo; divenne inoltre palese l'avvicinamento
alla Confindustria tramite alcune dichiarazioni liberiste. Anche la
monarchia fu rassicurata circa il proprio futuro: venne infatti
rimosso dal programma ogni accenno alla repubblica.
LA NASCITA DEI FASCI DI COMBATTIMENTO
Il 23 marzo del 1919, in Piazza San Sepolcro, Benito Mussolini
fondò i Fasci di combattimento, che rappresentavano
l'evoluzione dei precedenti Fasci di azione rivoluzionaria. Fra i
circa cento presenti nella sala dell'Alleanza industriale e
commerciale, spiccavano i nomi di alcuni noti personaggi: Michele
Bianchi, Ferruccio Vecchi, Filippo Tommaso Marinetti e altri. Il
programma di questo nuovo movimento rappresentava un misto di
nazionalismo, antisocialismo e anticapitalismo; un movimento quindi
buono un pò per tutti. Nelle sue file militavano infatti ex
combattenti, studenti, contadini, rappresentanti della piccola
borghesia e industriali. I punti del programma, vennero raggrupati
da Mussolini in quattro grandi problemi: la politica, il problema
sociale, quello militare e il problema finanziario. Sotto il
problema politico, era indicato un punto dedicato ai giovani e che
riguardava l'abbassamento a 18 anni per gli elettori e a 25 anni per
poter essere eletti deputati. Veniva quindi una proposta di
abolizione del Senato, i cui membri venivano nominati direttamente
dal re e una politica estera più dinamica, che contrastasse
quella vigente, che secondo Mussolini tendeva a stabilizzare
l'egemonia delle vecchie potenze plutocratiche. Il problema sociale
era poi particolarmente sentito, e ad esso vennero dedicati ben 10
punti del programma: per quanto riguardava la classe operaia,
venivano accolte le giuste rivendicazione per una diminuzione delle
ore lavorative, che avrebbero dovuto essere portate a otto; per una
partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico delle
industrie; per un'affidamento ai sindacati della gestione delle
industrie stesse e dei servizi pubblici, ed infine un riordino dei
trasporti e la modifica dell'età pensionabile, che sarebbe
stata vincolata all'usura dovuta al tipo di lavoro svolto. Anche i
contadini ed i reduci erano citati in questa parte del programma:
veniva infatti previsto l'obbligo ai proprietari di coltivare le
terre, precisando che i terreni incolti sarebbero stati espropriati
e ceduti alle cooperative contadine, favorendo soprattutto i reduci
di guerra; veniva inoltre previsto un intervento contributivo dello
Stato per la costruzione di case coloniche. Per quanto riguardava la
scuola, era previsto che lo Stato avrebbe dovuto inserire nel
proprio bilancio, i fondi necessari a coprire le spese per garantire
l'istruzione scolastica obbligatoria. Riguardo alla burocrazia, la
riforma prevedeva il decentramente del personale e una sana
epurazione che avrebbe garantito l'ingresso di elementi più
idonei e produttivi. La questione militare comprendeva un unico
punto nel quale, facendo riferimento alla politica estera futura, si
sosteneva la necessità di periodi di breve durata ma
frequenti, di addestramento militare, in modo tale da poter fare
dell'Italia una Nazione pronta a sostenere eventuali conflitti nel
modo più idoneo possibile. La parte del programma riguardante
la finanza, risultava senza dubbio la più provocatoria; nei
suoi punti si citavano fra l'altro: una forte imposta straordinaria
sul capitale, che avrebbe dovuto avere un carattere progressivo, una
vera e propria espropriazione parziale di tutte le ricchezze; il
sequestro dei beni appartenenti alle congregazioni religiose e la
chiusura delle mense vescovili, viste come una grande fonte di
passività per la Nazione e un privilegio a favore di pochi;
una revisione di tutti i contratti sulle forniture di guerra, ed il
sequestro dei 3/4 dei profitti di guerra. I punti del programma non
furono dei principi assoluti, anzi, essi venivano, a seconda delle
necessità del momento, o in base alla platea alla quale
Mussolini si rivolgeva, ribaditi o elusi, in modo tale da aggregare
al movimento sempre più larghi strati della popolazione. Il
vero volto dei Sansepolcristi, si rivelò in tutta la sua
drammaticità il 15 aprile 1919 a Milano, dove una squadra di
fascisti, attaccò violentemente un gruppo di lavoratori in
sciopero che si stavano recando all'Arena. Nello stesso momento, un
altra squadra assaltò la sede del quotidiano socialista
Avanti distruggendone gli impianti e gli uffici.
IL PRIMO GOVERNO MUSSOLINI
Con le sue sole forze alla camera dei Deputati, Benito Mussolini non
avrebbe mai potuto formare un proprio governo. Ma grazie ai contatti
e alle trattative che egli condusse per tutto il mese di ottobre, le
bastò inserire qualche esponente liberale, democratico e
popolare nella compagine governativa e tra i sottosegretari, per
raggiungere il proprio scopo. Il 19 novembre del 1922, la Camera
votò con larga maggioranza la fiducia al Governo Mussolini.
Fra coloro che votarono a favore, figuravano nomi importanti del
panorama politico italiano: Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi,
Orlando, e anche due personaggi destinati a divenire molto
importanti nel futuro: Gronchi, futuro presidente della Repubblica
Italiana nel dopoguerra, e Alcide De Gasperi, futuro Presidente del
Consiglio nell’immediato dopoguerra. Qusti voti vennero dati a
Mussolini, nonostante egli, in occasione della presentazione alla
Camera del nuovo esecutivo, avesse minacciato i deputati presenti,
facendo loro presente che se solo avesse voluto, avrebbe potuto
facilmente ottenere con la forza la fiducia del Parlamento. Tutto
ciò avvenne senza che l’allora Presidente della Camera dei
Deputati Enrico De Nicola, che diverrà in seguito il primo
Presidente della neonata Repubblica Italiana, intervenisse, anzi,
egli diede il proprio voto al nuovo Governo. A fine novembre, anche
il Senato accordò la fiducia al Governo Mussolini, che non
ancora soddisfatto, il 24 novembre chiese ed ottenne dal Parlamento
i pieni poteri per un anno. I suoi primi decreti legge vennero
accolti come un ringraziamento da quanti lo avevano sostenuto nella
sua scalata al potere: industriali e ricchi possidenti terrieri.
Venne infatti abolita la nominatività dei titoli azionari,
alla quale fecero seguito le privatizzazioni e la soppressione della
tassa di successione familiare. Vennero quindi ridotte l’imposta
sugli immobili, e sulla ricchezza mobile, estesa anche agli stipendi
dei lavoratori pubblici e parastatali. I possidenti terrieri vennero
invece premiati con lo sblocco dei fitti e con il blocco di ogni
progetto di riforma agraria: a subirne le conseguenze furono i
contadini ed i mezzadri, gravati di una nuova imposta. A subire le
maggiori ritorsioni furono i ferrovieri, che con la loro lotta erano
stati un esempio per tutte le altre categorie di lavoratori: molti
di loro vennero licenziati con la scusa di un esubero di personale o
con altre motivazioni. la festività del 1° Maggio venne
abolita e al suo posto venne inventato il Natale di Roma, che cadeva
il 21 aprile. Nel corso di quel periodo nel quale Mussolini ebbe i
pieni poteri, venne costituito un esecutivo che divenne
successivamente organo costituzionale: il Gran Consiglio del
Fascismo. Il Vaticano ricevette rassicurazioni circa il salvataggio
del Banco di Roma; il costo dell’operazione ricadde poi sulle spalle
dello Stato e di conseguenza degli italiani. Per ingraziarsi
ulteriormente le gerachie vaticane, venne resa obbligatoria la
presenza del crocifisso in tutti gli edifici e uffici statali, e
verranno concessi aumenti di rendite ai parrocci e ai vescovi.
Inoltre seminaristi e sacerdoti vennero esentati dagli obblighi
militari. Il 14 gennaio 1923venne costituita la Milizia Volontaria
di Sicurezza Nazionale, nella quale affluirono le fedeli camicie
nere, che giuravano fedeltà a Mussolini ma non al re. Questo
corpo paramilitare svolgeva compiti di polizia territoriale ed era
stipendiata dallo Stato. Per entare a far parte di questi reparti,
occorreva essere iscritti al Partito Nazionale Fascista. Tutti
coloro che in precedenza erano a capo delle squadre fasciste, che in
precedenza si erano macchiate dei più svariati crimini,
divennero ufficiali della M.V.S.N. il cui primo console, grado
corrispondente a quello di colonnello, fu Piero Brandimarte, che si
era messo in evidenza a Torino dove rivestiva la carica di capo del
Fascio. Fra il 18 ed il 22 dicembre 1922 a causa dell’uccisione di
un fascista, vennero assassinati 22 attivisti di sinistra, mentre
due riuscirono miracolasamente a fuggire mettendosi in salvo.
Gennaro Gramsci, scambiato per il più famoso fratello Antonio
Gramsci, venne assalito e preso a bastonate, mentre tutti i
giornalisti del quotidiano Ordine Nuovo vennero duramente
perseguiti. In quei giorni a Torino venne incendiata la locale
Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri ed altri centri di
aggregazione appartenenti ad organizzazioni di sinistra, o legate al
movimento operaio. Nelle contempo, nelle altre città italiane
imperversavano bastonate ed olio di ricino. Tutti questi fatti
vennero denunciati dal deputato socialista Giacomo Matteotti. Tra il
1° novembre 1922 ed il 31 marzo 1923, secondo alcune fonti
ufficiali, i fascisti commisero più di 100 omicidi, per i
quali nessuno venne mai condannato.
LA MARCIA SU ROMA
Fra l’agosto ed il settembre 1922, le azioni di violenza da parte
delle squadre fasciste non cessarono, facendo registrare decine di
omicidi, pestaggi e danneggiamenti di vario genere ai danni di
abitazioni private e edifici appartenenti alle associazioni
politiche di sinistra, o comunque non favorevoli al fascismo. Nel
frattempo Facta, il cui Governo era stato sfiduciato il 19 luglio,
ottenne alla Camera dei Deputati la fiducia per il nuovo esecutivo,
che nell’insieme risultò essere più debole del
precedente. Il 20 settembre apparve sulle pagine del Corriere della
Sera, una lettera che alcuni deputati del Partito Popolare avevano
inviato a Don Sturzo, per metterlo in guardia circa la
posibilità di stringere alleanze con il Partito Socialista.
La paura di un’alleanza di quel genere, crebbe ulteriormente dopo la
fine del congresso dei socialisti, tenutosi a Roma dal 1° al 3
di ottobre, nel corso del quale, la corrente di destra del partito
si staccò dal movimento creando un nuovo partito politico: il
Partito Socialista Unitario, alla cui segreteria venne designato
Giacomo Matteotti. Si formò così alla Camera un gruppo
di socialisti disposti ad appoggiare un governo di centrosinistra e
a farne parte integrante. Questa situazione non fece piacere al
Vaticano e neppure ai cattolici conservatori. Altri esponenti
politici, appoggiati dai grandi industriali e dai latifondisti,
speravano ancora di poter riportare il Fascismo ad una parvenza di
legalità per potersene servire per i propri scopi e per
difendere i propri interessi, minacciati dalle leggi proposte dal
nuovo governo di centrosinistra, che sarebbero state molto dannose
per i loro patrimoni. Mussolini nel frattempo si preparava a
compiere un’azione di forza, mantenendo comunque ancora aperte delle
trattative con i più importanti esponenti politici dell’epoca
quali Giolitti, Nitti, Orlando e Facta. Il 16 ottobre si tenne a
Milano una importante riunione alla quale presero parte i principali
capi delle camicie nere e perfino dei generali dell’esercito in
pensione. Fu in quell’occasione che venne creato il Quadrumvirato
formato da Italo Balbo, Emilio De Bono, De Vecchi e Bianchi;
quest’ultimo era il segretario del Partito Nazionale Fascista. A
questo Quadrumvirato venne assegnato come compito principale
l’organizzazione della mobilitazione e della strategia militare da
adottare. La decisione di anticipare i tempi per l’azione di forza,
venne presa il 4 novembre nel corso del congresso del PNF a Napoli,
e venne ufficialmente annunciata il 27 di ottobre. Il quartier
generale venne stabilito a Perugia. Mussolini non era presente,
infatti, al termine del congresso si recò a Milano, dove
attese l’evolversi degli eventi. La sera del 27 ottobre, il re
Vittorio Emanuele III,che si trovava nella residenza di San Rossore,
rientrò precipitosamente a Roma, e nel corso della
nottata,tutti i prefetti ricevettero l’ordine di passare i propri
poteri alle autorità militari. Purtroppo, salvo rare
eccezioni,queste confinarono i propri reparti nelle caserme,
lasciando che i fascisti occupassero tranquillamente i punti
strategici quali gli uffici telefonici e telegrafici, le stazioni
ferroviarie, i ponti e le sedi dei quotidiani, ma soprattutto i
depositi di armi e munizioni. Questi ultimi furono molto importanti,
poichè pochi fascisti disponevano di armi da fuoco regolari.
Il numero esatto dei componenti di questo esercito improvvisato non
si conoscono a tutt’oggi: l’unica cosa certa e che essi erano ancora
fuori da Roma il 28 ottobre, mentre Facta si recava dal re per farle
firmare il decreto per lo stato d’assedio. In quelle ore Vittorio
Emanuele III aveva ascoltato i consigli e le pressioni che le
giungevano da parte di una serie di importanti personalità in
massima parte arroccate su posizioni filofasciste: l’ammiraglio
Thaon de Revel, il generale Armando Diaz, il generale Cittadini,
aiutante di campo del sovrano, ed il rappresentante dei nazionalisti
Federzoni. Quando a corte giunse la voce che il duca d’Aosta
Emanuele Filiberto, cugino di Vittorio Emanuele III, si era
incontrato con i capi fascisti ed in quel momento si trovava nei
pressi di Perugia, al re parve subito chiaro che si era già
trovato il suo sostituto, e si rifiutò di firmare il decreto
dello stato d’assedio. Appena si sparse la notizia, migliaia di
fascisti si riversarono nelle strade: prendendo d’assalto i treni
essi marciarono su Roma inneggiando a Mussolini, ponendo in questo
modo una seria ipoteca sul candidato che i militari ed i
nazionalisti avevano proposto al re, ovvero Salandra, che comunque
non sarebbe riuscito ad ottenere la fiducia. Infatti la
Confindustria fece sapere che avrebbe gradito come Presidente del
Consiglio solo Mussolini. Non firmando lo stato d’assedio, Vittorio
Emanuele III si precluse anche la possibilità di poter
scegliere in nuovo Premier. Il 29 ottobre inviò un telegramma
a Mussolini, che si trovava ancora a Milano, invitandolo a Roma.
Questi raggiunse il re il giorno successivo in treno. In quel
momento la preoccupazione maggiore era generata dall’esercito di
camicie nere accampato alle porte della capitale. Per risolvere il
problema senza generare incidenti, vennero messi a disposizione
delle squadre fasciste che ancora dovevano raggiungere Roma, dei
treni e altri mezzi di locomozione, alfine di consentire loro di
raggiungere il punto di adunata senza creare problemi. Per quelli
che invece erano già giunti nei pressi della capitale,
vennero trovati degli alloggi di fortuna e serviti dei pasti caldi,
in attesa che giungessero gli altri. Finalmente, nel pomeriggio del
31 ottobre, i primi fascisti mobilitatisi per l’impresa, con le
altre migliaia di camicie nere che giunsero successivamente,
entrarono trionfanti a Roma. La Marcia su Roma segnò l’inizio
dell’era fascista e la fine della democrazia in Italia.
LA RIFORMA ELETTORALE DEL 17 LUGLIO 1923
Raggiunta la presidenza del Consiglio dei Ministri, Mussolini, non
ancora soddisfatto del fatto che il Partito Nazionale Fascista non
avesse la maggioranza assoluta in parlamento, decise che era giunto
il momento di riformare la legge elettorale. Fino a quel momento
l’Italia era suddivisa in ampi collegi elettorali, in ognuno dei
quali ciascun partito otteneva un numero di deputati proporzionato
al numero dei voti conquistati dalla propria lista. Il progetto di
legge presentato in aula dal sottosegretario fascista agli Interni
Giacomo Acerbo prevedeva la somma dei voti raccolti nei vari
collegi, ed il partito che fosse riuscito ad ottenere il risultato
migliore, con un tetto minimo posto al 25%, avrebbe ottenuto
automaticamente due terzi dei seggi in tutti i collegi elettorali,
ottenendo in tal modo la maggioranza assoluta in Parlamento. Anche
se al termine del loro congresso, i popolari si erano schierati per
il mantenimento del sistema proporzionale, essi cercarono un
compromesso, che venne esposto dall’Onorevole Alcide De Gasperi alla
Commissione della Camera riunita per discutere la riforma della
legge elettorale. Questi propose che il partito che avesse raggiunto
il 40% dei voti avrebbe ottenuto il 60% dei seggi; naturalmente la
proposta venne sdegnosamente rifiutata dai fascisti, che non si
discostarono dalle loro posizioni iniziali. Essi misero in atto una
campagna intimidatoria nei confronti dei popolari e degli altri
oppositori, sia per mezzo della stampa, oppure con il supporto della
Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, che ormai svolgeva
attività di presidio costante a Montecitorio. Il 10 luglio la
legge venne infine portata in Parlamento per essere illustrata e
votata. Il giorno successivo, Don Sturzo diede le proprie dimissioni
dalla segreteria del Partito Popolare Italiano. Il fatto ebbe molto
rilievo sulla stampa nazionale dell’epoca: la dirigenza fascista,
aveva infatti informato il Vaticano di non poter più
garantire l’incolumità di Don Sturzo e dei sacerdoti in
genere. Fu quindi il Vaticano stesso che convinse il segretario dei
popolari a dimettersi. Queste dimissioni furono il risultato di un
incontro che Mussolini aveva avuto poco tempo prima con il Cardinale
Gasparri: nel corso dell’incontro Mussolini assicurò all’alto
prelato, che si sarebbe attivato per salvare il Banco di Roma,
chiedendo in cambio del favore le dimissioni di Don Sturzo. Nel
frattempo, la riforma scolastica presentata dal Ministro della
Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, introdusse l’Esame di Stato,
mentre le scuole private e religiose ottennero le stesse condizioni
delle scuole pubbliche. Subito dopo le dimissioni di Don Sturzo, vi
fu una vera escalation di azioni violente perpetrate dalle squadre
fasciste e rivolte soprattutto contro le sedi delle varie
organizzazioni cattoliche: queste azioni avevano come obbiettivo,
quello di far capire ai più recalcitranti, che era meglio
sottomettersi al nuovo stato di cose, sia dentro che fuori dal
Parlamento. Anche alcuni sacerdoti caddero vittime della cieca
violenza fascista: il caso più eclatante fu l’assassinio ad
Argenta(FE) di Don Giovanni Minzoni, parroco della cittadina e
organizzatore della gioventù cattolica locale. Il povero
sacerdote venne assassinato la notte del 23 agosto da tre uomini,
che pare fossero stati inviati da Italo Balbo, per zittire un
personaggio scomodo. Il 15 luglio la camera dei Deputati votò
a larga maggioranza la fiducia al Governo. Il 17 luglio toccò
alla legge elettorale. Nei quattro giorni durante i quali la legge
restò all’esame del Parlamento, i popolari tentarono ancora,
ma invano, di trovare un compromesso che accontentasse le parti.
Solo due giorni prima, Mussolini, in un discorso conciliante rivolto
a tutta l’assemblea parlamentare, fece intendere che se la legge
Acerbo fosse stata approvata, le violenze e gli omicidi sarebbero
terminati, poichè sarebbe venuto a mancare l’oggetto del
contendere.Naturalmente la legge venne approvata, e Vittorio
Emanuele III, quello stesso giorno, firmò il decreto. Il 13
novembre anche il Senato diede la sua approvazione alla riforma
della legge elettorale. Il 1923 volgeva al termine, ed il 1924 si
presentava come foriero di imminenti sventure.
DALLE ELEZIONI DEL 6 APRILE 1924 AL DELITTO MATTEOTTI
La campagna elettorale fascista causò un incremento delle
violenze commesse dalle squadre di camicie nere. Ai candidati dei
partiti antifascisti fu praticamente impedito di tenere i propri
comizi elettorali: gli unici manifesti elettorali visibili sui muri
delle città italiane erano quelli del Partito Nazionale
Fascista. La polizia trasse in arresto centinaia di oppositori della
nascente dittatura. Antonio Piccininicandidato nel collegio
elettorale di Reggio Emilia per il Partito Socialista massimalista,
venne assassinato. Ogni partito si presentò alle elezioni con
una propria lista, mentre Benito Mussolini presentò un
listone composto da 135 candidati fra fascisti, che erano in netta
maggioranza rispetto agli alleati, liberali, democratici,
socialdemocratici, cattolici e altri. Una buona parte di questi
uomini, erano dei politici di vecchia data, che portarono alla lista
di Mussolini il proprio prestigio, ma soprattutto i loro colleghi di
partito. Fra questi personaggi, i più famosi erano Vittorio
Emanuele Orlando e Antonio Salandra, entrambi ex Presidenti del
Consiglio, ed Enrico De Nicola ex Presidente della Camera e primo
Presidente della Repubblica nel dopoguerra. Ques’ultimo
ritirò la propria candidatura poco prima del voto, ma non
venne mai perseguitato dal fascismo:Mussolini anni dopo lo
nominò senatore. Nel corso di questa campagna elettorale, i
fascisti utilizzarono per la prima volta la Radio come mezzo
propagandistico. Mussolini capì fin dall’inizio la
potenzialità di questo mezzo di comunicazione, in grado di
far giungere in tutto il territorio nazionale il suo messaggio
politico. La mattina del 6 aprile vennero aperti i seggi elettorali,
che quasi ovunque erano presidiati da picchetti di fascisti armati.
Numerosi furono i casi di violenza a danno di cittadini chesi
recavano alle urne. Le irregolarità furono innumerevoli, al
punto che in alcuni seggi votarono perfino delle persone decedute. I
fascisti ottennero la maggioranza assoluta nell’Italia del sud,
mentre nelle città del Nord i partiti antifascisti ottennero
numerosi successi. Avendo comunque ottenuto il 66% dei voti totali,
il listone proposto da Mussolini si aggiudicò 374 deputati,
la maggioranza assoluta, in virtù della Legge Acerbo.
Particolarmente penalizzati furono i democratico-liberali che
passarono dai precedenti 210 seggi agli agli attuali 45, quindi il
Partito Popolare che da 106 passò a 39 seggi; infine i
socialisti delle varie correnti, che dai 122 seggi che avevano prima
delle elezioni si ritrovarono con 46. Aumentarono i propri deputati
il Partito Repubblicano, 7 seggi, il Partito Comunista, 19 seggi e
la lista Amendola con 8 seggi. In totale, l’opposizione poteva
contare in aula su 159 deputati, divisi fra diversi partiti spesso
in lotta tra loro. Gli imbrogli e le intimidazioni messe in atto dai
fascisti durante le elezioni del 6 aprile, vennero denunciate il 30
maggio del 1924 in Parlamento, dal deputato dei socialisti unitari
Giacomo Matteotti. In un discorso avvincente, fece i nomi e diede il
dettaglio dei fatti più incresciosi accaduti in quelle ore,
interrotto continuamente dalle ingiurie e dalle grida provenienti
dai banchi occupati dai fascisti. Matteotti terminò il
proprio intervento dicendo che quele elezioni non potevano essere
ritenute valide, sancendo in tal modo la propria condanna a morte. I
brogli elettorali furono solo l’ultimo anello di una catena
costituita da interrogazioni parlamentari, discorsi e scritti, nei
quali egli ebbe il coraggio di denunciare la corruzzione vigente tra
i gerarchi e all’interno dei componenti del governo di Mussolini. In
effetti, appena arrivati al potere, molti fascisti approfittarono
della propria posizione per arricchirsi o per favorire persone a
loro vicine. Matteotti denunciò il traffico dei residuati
bellici, che costituì una vera e propria truffa ai danni
dello Stato; l’acquisto di aziende economicamente dissestate; le
tangenti pagate dagli imprenditori in cambio di appalti o favori,
concessi senza che venisse presentata una qualsiasi garanzia. Il
pomeriggio del 10 giugno, Matteotti venne agredito e rapito da
cinque uomini in Lungotevere Arnaldo da Brescia. Il suo corpo venne
rinvenuto solo il 16 agosto, maldestramente sepolto nella macchia
della Quartarella, situata a nord di Roma. Già il giorno
successivo al rapimento, gli italiani reagirono con sdegno: in tutta
Italia vennero organizzati degli scioperi spontanei, manifestazioni
e cortei. Il 13 giugno i deputati dell’opposizione decisero per
protesta di astenersi dai lavori parlamentari.Mentre la gente, senza
essere minacciata continuava a portare fiori sul luogo del
rapimento, la stampa iniziò ad occuparsi dettagliatamente del
delitto. I fatti iniziarono ad apparire anche sui grandi quotidiani
a tiratura nazionale, nelle pagine dei quali si facevano anche i
nomi dei mandanti: Giovanni Marinelli, tesoriere del Partito
Nazionale Fascista, Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa di
Mussolini, ed infine Mussolini stesso. Durante quel breve periodo di
libertà di stampa, i giornali pubblicarono anche i resoconti
di tutte le violenze delle quali i fascisti si erano macchiati
precedentemente e sempre taciute all’opinione pubblica. Per le
strade le camicie nere diradarono la loro presenza e molti ferventi
fascisti stracciarono per protesta la tessera del partito.
Nonostante tutto ciò, il 26 giugno il Senato espresse la
propria fiducia al Governo Mussolini a grande maggioranza. Nel
frattempo, a seguito delle segnalazioni di un testimone oculare che
aveva annotato il numero di targa sulla quale venne caricato a forza
Matteotti, vennero arestati i componenti del commando che aveva
prelevato e successivamente assassinato il deputato socialista:
Amerigo Dumini, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e
Albino Volpi.Emilio De Bono, che in qualità di direttore
generale della Pubblica Sicurezza tentò tentò di
insabbiare le prove contro Dumini, venne rimosso dal suo incarico e
sostituito da Federzoni. I comunisti cercarono di convincere gli
altri partiti antifascisti ad abbandonare la cosiddetta protesta
dell’Aventino per formare un controparlamento da opporre ai
fascisti. Non essendo riusciti nell’impresa decisero di rientrare da
soli nell’aula parlamentare. Gli altri partiti, speravano con la
loro assenza di bloccare i lavori parlamentari e confidavano in un
intervento del re, che loro speravano avrebbe sciolto la camera,
visto che il Primo Ministro era coinvolto nell'omicidio Matteotti:
ma Vittorio Emanuele III non fece nulla. Mentre gli aventiniani
attendevano lo sviluppo degli eventi disertando il Parlamento, i
fascisti, che nel frattempo si erano ripresi dallo scossone loro
inferto dal grave fatto di sangue, ricominciarono con le loro
violenze e Mussolini, nonostante le richieste da parte dei suoi
sostenitori più moderati di evitare certi atteggiamenti,
riprese i suoi comizi pubblici, nei quali tenne discorsi
estremamenti violenti contro i suoi oppositori. Negli ultimi giorni
dell’anno, le strade di Firenze rimasero in balia della violenza
delle squadre fasciste: la rabbia delle camicie nere si
scaricò in modo particolare contro il Nuovo Giornale, la cui
sede venne data alle fiamme; anche il Circolo di Cultura e il
circolo dei reduci e del loro periodico vennero devastati. Molti
danni subirono anche le abitazioni private di deputati
dell’opposizione. Chiunque venne a trovarsi sulla strada delle
squadre fasciste venne percosso senza motivo. Nei giorni successivi,
le stesse imprese si ripeterono in altre città della Toscana,
dell'Emilia e della Lombardia.
I MEZZI DI REPRESSIONE DEL FASCISMO. IL CONFINO DI POLIZIA
Autore: Michele Strazza
Nel 1926, nell’Italia Fascista, viene approvato il nuovo Testo Unico
delle Leggi di Pubblica Sicurezza ( R.D. n.1848 del 06.11.26).
L’emanazione era stata preceduta, pochi mesi prima, dalla nomina a
Capo della Pubblica Sicurezza del Prefetto Arturo Bocchini che
grande parte ebbe nella riorganizzazione dell’apparato repressivo
del Regime.
Il T.U.L.P.S. dedicava molto spazio alle misure di prevenzione,
strutturate come semplici fattispecie di sospetto, funzionali alla
repressione del dissenso politico e dotate di maggiore
effettività rispetto alla disciplina repressiva della Legge
Penale, sancendo l’ampia applicazione, in nuova forma, di un
istituto giuridico già presente nell’Ordinamento: il Confino.
Secondo l’art 185 del T.U. il confino di polizia si estendeva da uno
a cinque anni e si scontava, con l’obbligo del lavoro, in una
colonia o in un comune del Regno diverso dalla residenza del
confinato.
Il “domicilio coatto” era stato applicato, dopo l’Unità
d’Italia, per la prima volta all’interno della legislazione del 1863
sul Brigantaggio (Legge n.1409 del 1863 c.d. Legge Pica ), come
provvedimento provvisorio e di emergenza, ma non aveva dato grossi
risultati. L’istituto giuridico, tuttavia, venne introdotto
stabilmente nella legislazione ordinaria nel 1865, come
completamento logico dell’ammonizione, con l’emanazione del primo
Testo Unico di Pubblica Sicurezza ed esteso, inizialmente, ai
vagabondi recidivi, agli oziosi ed ai sospetti di alcuni reati.
In seguito, con la legge 294 del 1871, vennero coinvolti tutti gli
ammoniti. La misura non poteva essere inferiore a 6 mesi e
oltrepassare i 5 anni. La competenza ad emettere il provvedimento
era attribuita al Ministero dell’Interno e, successivamente ed entro
certi limiti, anche ai Prefetti.
Con il nuovo Testo Unico di P.S. del 1889 (Regio Decreto n.6144 del
del 1889) l’ammonizione fu estesa anche ai “diffamati” sottoposti a
procedimento penale ed assolti. I “diffamati” erano le persone
indicate come colpevoli di certi reati dalla “voce pubblica”. Il
domicilio coatto, invece, venne comminato agli ammoniti dopo due
contravvenzioni all’ammonizione oppure dopo due condanne, sempre
sussistendo la condizione della pericolosità per la sicurezza
pubblica.
Nel 1894, infine, Crispi, per combattere le agitazioni contadine ed
operaie, introdusse nuove disposizioni “eccezionali” sul domicilio
coatto. La misura diveniva, cioè, applicabile nei confronti
di chiunque fosse stato processato per delitti contro l’ordine
pubblico o contro l’incolumità pubblica, nonché nei
confronti dei promotori delle associazioni contro gli ordinamenti
sociali.
Tale misura di Polizia, pur conservando certe regole del vecchio
sistema, nel 1926 venne estesa ben oltre una generica area di
emarginazione sociale, diventando uno strumento cardine del
controllo poliziesco del Fascismo. Nel solo periodo
novembre-dicembre 1926 vi furono ben 900 assegnazioni al confino.
Rispetto alla precedente disciplina rimase il duplice scopo di
tutelare lo Stato contro i pericoli di turbamento della sicurezza
pubblica, allontanando dal loro ambiente abituale persone che, per i
loro precedenti e la loro condotta, dimostravano persistente
tendenza a delinquere. La nuova misura, tuttavia, aveva una netta
differenza con il “domicilio coatto” che andava a sostituire. A
differenza di quest’ultimo, infatti, poteva essere applicato
immediatamente e non solo a seguito di una trasgressione alle
prescrizioni dell’Autorità di P.S.
Il confino, se era diretto a colpire le persone pericolose alla
sicurezza pubblica, non poteva applicarsi che agli ammoniti, in
quanto il provvedimento già adottato non si ravvisasse
efficace o sufficiente a impedire attentati all’ordine pubblico; se
invece si aveva riguardo all’ordine pubblico poteva applicarsi a
chiunque avesse commesso o manifestato il deliberato proposito di
commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti
nazionali, sociali ed economici costituiti nello Stato o a menomarne
la sicurezza ovvero a contrastare od ostacolare l’azione dei poteri
dello Stato, in modo da recare comunque nocumento agli interessi
nazionali, in relazione alla situazione interna o internazionale
dello Stato (Art. 184 del R.D. 06.11.1926 n.1848). Secondo Barile
veniva cioè introdotta la “pena per un reato rimasto nella
sfera del pensiero”.
A differenza delle sanzioni penali vere e proprie, il confino non
richiedeva una responsabilità giudizialmente accertata per
fatti considerati dalla Legge come reati, ma soltanto una condotta
tale da produrre un pericolo effettivo alla sicurezza pubblica ed
all’ordine politico, tanto da indurre l’Autorità a togliere
il soggetto pericoloso dal luogo di residenza e sottoporlo a
particolare vigilanza per un periodo di tempo che poteva variare da
uno a cinque anni. Spesso, però, il limite massimo dei cinque
anni non veniva affatto rispettato, nel senso che si procedeva ad
una nuova riassegnazione ad altri cinque anni nei confronti di
soggetti ritenuti particolarmente pericolosi per non aver modificato
le proprie convinzioni sovversive.
Tale misura di Polizia completava, pertanto, la funzione punitiva
dello Stato, non lasciando la società indifesa contro coloro
che, pur non incorrendo in specifiche condanne per reati,
presentavano, in sommo grado, una pericolosità spesso
più grave e più nociva di quella derivante dalla
consumazione di reati scoperti e puniti. Per tale motivo, venne
impiegata indiscriminatamente contro tutti coloro che non sarebbe
stato possibile perseguire con i metodi propri della giustizia
ordinaria a causa della loro non provata reità.
Alcune volte, addirittura, essa venne usata per evitare la
celebrazione di processi, per reati di pertinenza della magistratura
ordinaria, a carico di persone note o iscritte al Partito Fascista,
onde evitare le inevitabili ripercussioni sull’opinione pubblica.
Il provvedimento era affidato alla facoltà discrezionale
della stessa Commissione Provinciale che emetteva le ordinanze di
ammonizione, composta dal Prefetto che la convocava e presiedeva,
dal Procuratore del Re, dal Questore, dal Comandante Provinciale
dell’Arma dei Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia
Fascista, designato dal comandante di zona; svolgeva le funzioni di
segretario un funzionario di Pubblica Sicurezza (Artt. 186 e 168).
Non erano prescritte speciali formalità. La proposta di
confino veniva formulata dal Questore competente per territorio,
sulla base delle risultanze di polizia, mentre era del tutto
inesistente il diritto di difesa. La situazione della persona
proposta per il confino era, da questo punto di vista, totalmente
paradossale anche rispetto agli imputati davanti al Tribunale
Speciale che usufruivano, invece, della presenza dell’avvocato
difensore. L’ordinanza emessa dalla Commissione Provinciale per
l’assegnazione al confino veniva poi trasmessa al Ministero
dell’Interno per la designazione del luogo, diverso dalla residenza
del confinato (Art.187 R.D. 06.11.26 n.1848).
Era anche previsto un ricorso, nel termine di 10 giorni dalla
notifica dell’ordinanza, alla Commissione di Appello, istituita
presso il Ministero dell’Interno, composta dal Sottosegretario di
Stato all’Interno, che la convocava e presiedeva, dall’Avvocato
Generale presso la Corte di Appello di Roma, dal Capo della Polizia,
da un Ufficiale Generale dell’Arma dei Reali Carabinieri a da un
Ufficiale Generale della Milizia, designati dai rispettivi comandi
generali. Qualora il confinato si fosse allontanato dal luogo di
confino, sarebbe stato punito con l’arresto da tre mesi a un anno
(art. 193), mentre in caso di buona condotta era prevista la
liberazione condizionale (art. 191).
Il 25 novembre 1926, con la Legge n.2008 (“Provvedimenti per la
Difesa dello Stato”), emanata come legge di emergenza dopo
l’attentato Zaniboni a Mussolini, veniva istituito il Tribunale
Speciale per la Difesa dello Stato, composto da un presidente scelto
tra gli ufficiali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e
della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dalla quale
provenivano altri cinque giudici, ed un relatore scelto tra il
personale della Giustizia Militare (Art.7 L. 2008/1926 e decreti di
attuazione R.D. 12.12.26 n.2062, R.D. 13.03.27 n.313 e R.D. 03.10.29
n.1759).
Il Tribunale, il quale aveva competenza sui reati politici
introdotti dalla nuova normativa e per quelli contro la sicurezza
dello Stato, era, in definitiva, un vero e proprio organo di
giustizia politica che giudicava secondo la procedura penale in
tempo di guerra, con un rito inquisitorio e ridotte garanzia
difensive: una fase istruttoria segreta senza patrocinio
dell’avvocato, una fase predibattimentale con possibile segretazione
degli atti processuali, obbligo del mandato di cattura,
impossibilità della libertà provvisoria, non
ricorribilità in Cassazione per le sentenze, inesistenza di
altri mezzi di impugnazione, ad eccezione della revisione.
Quest’ultima, peraltro, era affidata ad un Consiglio di Revisione
composto anch’esso da membri scelti tra gli ufficiali dell’esercito
e della milizia fascista e presieduto dallo stesso presidente del
collegio di primo grado.
Con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931 (R.D. 18
giugno 1931 n.773, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.146 del
26.06.1931) la disciplina delle misure di prevenzione resta
sostanzialmente immutata rispetto al 1926, ma viene resa ancora
più esplicita la possibilità di ammonire gli avversari
politici e destinarli al confino.
Nel luglio del 1931 entra in vigore il nuovo codice penale preparato
da Alfredo Rocco e quello di procedura penale. La contemporanea
riforma carceraria (R.D. 18.06.1931 n.787) porta altresì ad
un notevole inasprimento punitivo. L’apparato legislativo repressivo
del Regime ha ormai assunto una forma definitiva ed il confino
è diventato il migliore strumento per la lotta gli avversari
politici. La genericità delle norme, basate sulla prevalenza
dei momenti soggettivi e sganciate da una concreta
pericolosità sociale, consentirà un controllo del
dissenso molto più penetrante del ricorso ai delitti politici
codificati.
Le nuove leggi di P.S. permetteranno, inoltre, un forte collegamento
tra misure custodiali e misure di prevenzione grazie alla
possibilità dell’arresto immediato delle persone proposte per
l’assegnazione al confino ed alla prassi di trattenere in carcere
gli imputati prosciolti del Tribunale Speciale, in attesa della
valutazione, da parte dell’Autorità di P.S., di adottare o no
provvedimenti di Polizia.
Fu proprio il potere di arresto concesso alle Commissioni
Provinciali ad amplificare l’efficacia repressiva del confino. Le
vittime venivano tenute a lungo in carcere prima che il loro destino
fosse deciso. Ugualmente, i prosciolti e assolti per insufficienza
di prove che si trovavano in stato di custodia cautelare spesso
passavano dalla galera fascista direttamente al confino.
Con la nuova misura, dunque, ai vecchi confinati comuni
(delinquenti, prostitute, mafiosi, ecc.) si aggiungono ora tutti
coloro che in qualche modo deviano dal “comune sentire” fascista,
dimostrando, anche solo vagamente, la loro dissonanza con i valori
della Nazione e con i suoi simboli. Antifascisti veri o presunti,
semplici mormoratori, sospetti, tutti incappano nelle maglie di
questa sanzione che, per l’agilità della procedura e l’ampia
discrezionalità di irrogazione, diventa il mezzo più
veloce per eliminare soggetti pericolosi o soltanto fastidiosi. A
questi si aggiungeranno, con l’abbraccio mortale della Germania e
l’entrata in Guerra, gli ebrei, gli zingari, gli irredentisti slavi
e tutti i nuovi oppositori politici.
In realtà il confino verrà utilizzato moltissimo anche
per casi “marginali”, per soggetti cioè tutt’altro che
pericolosi, colpevoli soltanto di aver commesso piccoli gesti di
intolleranza, spesso perpetrati in stato di ubriachezza, nei
confronti dei simboli del Regime. Saranno, infatti, numerosi coloro
che verranno giudicati dalle Commissioni Provinciali soltanto per
aver usato parole irriguardose nei confronti del Governo, per aver
“maltrattato” il ritratto del Duce o per aver raccontato barzellette
su Mussolini. Altre volte si tratterà di soggetti, giudicati
sovversivi” soltanto per aver inneggiato in pubblico al Comunismo ed
alla Russia oppure per aver cantato “bandiera rossa”.
Anche la distinzione tradizionale tra confinati politici e comuni
non sarà mai troppo netta. L’ampia discrezionalità
nell’irrogazione della misura di Polizia porterà spesso ad
una confusione di tipologie, per cui semplici truffatori verranno
ritenuti pericolosi per gli interessi economici dello Stato ed
inviati al confino come “politici”.
Sotto l’implacabile scure del confino passò un numero
altissimo di italiani. Con nomi noti o sconosciuti, dal fior fiore
dell’antifascismo militante fino a semplici sfortunati solo per aver
pronunciato, in un momento d’ira, invettive contro il Duce, tutti
furono prima arrestati e poi inviati in zone dove dovevano perdere
il contatto con il proprio retroterra, affinché fossero messi
in condizioni di non nuocere. Si trattò veramente di una
migrazione interna di vaste proporzioni che aveva come unico
obiettivo quello di ridurre al silenzio quanti si opponevano
all’unicità di pensiero del capo. Una vera e propria
“persecuzione di popolo”, dunque, ma, come ogni persecuzione, essa
fu anche la culla, per coloro che continuarono a tenere duro, nella
quale crebbe il senso della democrazia e della tolleranza.
IL FASCISMO DI MUSSOLINI
Autore: Giuseppe Di Summa
Sommario
Capitolo 1 “I fuochi d’artificio“
Capitolo 2 “Fuori il palo e fuori la corda“
Capitolo 3 “La filosofia dei tempi“
Capitolo 4 “Un tratto di fine arte politica“
Capitolo 5 “Vincere e vinceremo!“
Capitolo 6 “Credere, obbedire, combattere“
Capitolo 7 “Capitolazione o resistenza?“
Capitolo 8 “L’impossibilità di continuare“
Capitolo 9 “Mirate al cuore“.
I fuochi d'artificio
In un caldo pomeriggio del 29 luglio 1883, alle due di pomeriggio,
nasce a Dovia, piccola frazione di Predappio, Benito Mussolini.
Questo paesino in pieno Appennino non distante da Forlì
rimane famoso per avere dato i natali ad uno dei protagonisti
indiscussi della vita italiana della prima metà del
novecento.
Come molti giovani contestatori trovò casa nel socialismo
anche se di stampo “rivoluzionario“ e sin da giovane si
distanziò dalla linea moderata del partito negando
legittimità all’istituzione parlamentare ed esaltando la
rivoluzione.
Qualche anno dopo passata la giovinezza affermerà: “Ho sempre
sputacchiato il buon senso dai greci la pazzia era ritenuta
d’origine divina, e le rivoluzioni sono le rivincite della follia
sul buon senso“.
Anche da socialista comincia a manifestare tendenze ad un suo
movimento autonomo con idee che vedono proporsi la creazione di
nuovi simboli che esaltino un tempo vissuto nella povertà
nell’avvicinarsi di una prossima futura prima guerra mondiale.
Inizia a prendere nette posizioni antimilitaristiche e si allarga
anche con intemperanze giovanili in forti affermazioni di carattere
ateo definendo Dio come “Un mostruoso parto dell’ignoranza umana“.
Nell’autunno del 1904 fu espulso dalla Svizzera perché
renitente alla leva. Il suo ritorno in Italia evitando problemi con
la legge fu possibile solo grazie ad una amnistia per festeggiare la
nascita del principe ereditario Umberto di Savoia.
Al rientro fu comunque costretto a sostenere il servizio militare.
Mentre era sotto le armi le sue convinzioni antimilitaristiche si
placarono e cominciò a farsi anche delle simpatie.
Dopo la leva sembrò lasciarsi tutto alle spalle e
ritornò ad essere quello che era prima.
Nel febbraio 1909 fu a Trento dove gli fu affidata la direzione del
Giornale “L’Avvenire del Lavoratore“ e la segreteria della Camera
del Lavoro.
Risvegliò il giornale col suo dinamismo tanto che Cesare
Battisti lo volle come redattore capo al “Popolo“.
In Trentino nella sua breve permanenza ebbe diversi scontri con
Alcide De Gasperi giovane leader dei cattolici definendolo con tutta
la sua arroganza del tempo in vari modi tipo “pennivendolo“, “uomo
senza coraggio“, “intellettivamente stitico“. De Gasperi non gli
riservò molto tranne un chiaro “Cannibale Antireligioso“.
Dal Trentino si spostò a Forlì dove nel 1910
diventò segretario della locale Federazione Socialista con
posizioni sempre antimilitaristiche anche nei confronti della guerra
di Libia definita con sue parole “la nuova avventura africanista“.
Questo fu un momento di consensi tanto che George Sorel di lui
disse: “è un condottiero del XV secolo un giorno lo vedrete
alla testa di un battaglione sacro“.
In breve tempo portò la tiratura del giornale socialista
Avanti! da 28 mila a 100 mila copie.
Nel 1913 si presentò alle elezioni politiche nel collegio di
Forlì e ne uscì sconfitto.
Si rifece l’anno dopo venendo eletto consigliere comunale a Milano.
Ormai si avvicinava il primo conflitto mondiale ( 1915-1918 )
è la posizione del nostro Governo fu come tutti sanno
dapprima neutralista e su queste posizioni si mantenne anche
Mussolini scrivendo anche un articolo dal titolo “Abbasso la
Guerra!“ e iniziò dopo alcune riserve una neutralità
attiva ed operante.
La sua posizione era comunque destinata a cambiare e senza grandi
indugi passo lentamente ma con costanza ad essere favorevole ad un
intervento nel conflitto che lo costrinsero ad abbandonare la
direzione del giornale socialista.
Il partito mal sopportava le sue posizioni e dopo avere fondato un
nuovo giornale "Il Popolo D'Italia" abbandonò le file
prendendosi anche i complimenti di uno come Prezzolini che gli
scrisse via telegramma “Partito Socialista ti espelle Italia ti
accoglie“.
Gli interventisti riuscirono nel loro intento e Salandra il 24
Maggio 1915 proclamò guerra all’Austria.
Quando la nostra nazione entrò nel conflitto la guerra vedeva
Austria e Germania vincenti.
Nel 1917 col ritiro della Russia tutto sembrava perduto tanto
è vero che gli Austro-ungarici riuscirono ad entrare in
Italia vincendo la battaglia di Caporetto.
La situazione fu salvata dall’intervento degli americani e l’Italia
si riscattò sconfiggendo definitivamente gli austro-ungarici
nella battaglia di Vittorio Veneto.
Nel Novembre 1918, Austria, Ungheria, Germania, Bulgaria ed, impero
ottomano furono costretti alla resa. La conferenza di Versailles
segnò una serie di umiliazioni per il nostro capo del governo
Orlando da far definire da D’Annunzio la vittoria “mutilata“.
Orlando fu sfiduciato dalle Camere e dovette cedere il posto a
Nitti.
Dopo la prima guerra mondiale il potere politico andava dalla parte
dei lavoratori che dopo avere combattuto non erano più
disposti ad essere sfruttati e si vedevano come i protagonisti della
scena politica, volevano contare di più.
Le rivendicazioni della classe proletaria si possono evincere dalle
dichiarazioni programmatiche del partito socialista nel 1918.
1- socializzazione dei mezzi della produzione
2- distribuzione dei prodotti fatta esclusivamente dalla
collettività
3- abolizione della coscrizione militare e disarmo universale, in
seguito alla unione di tutte le repubbliche proletari
internazionali.
La posizione di Mussolini in questo momento insieme ai suoi primi
collaboratori è quella di un esasperato patriottismo di tipo
nazionalistico manifestato in maniera confusa in diversi settori
(sindacale, giornalistico, politico). Questa confusione portò
comunque alla costituzione dei Fasci di combattimento creati nel
1919 che ebbero scarsa incidenza nella vita politica visto che
cercarono uno scontro forzoso con i movimenti operai cattolici e
socialisti.
I Fasci animarono diversi scontri anche danneggiando sedi e persone
che Mussolini motivò in questa maniera: “Il popolo lavoratore
avrà il buon senso e la forza di non lasciarsi traviare da
coloro i quali mirano a trascinarli alla rovina Viva l’Italia! La
nostra patria forte in pace come lo fu in guerra.“
Per i fascisti questi scontri erano giustificati dallo eccessivo uso
degli scioperi Carlo Dalcroix scriveva a proposito (Un uomo un
popolo) “lo sciopero era diventato una malattia epidemica ed aveva
assunto forme croniche e deliranti. Senza vera necessità,
spesso con un pretesto, si abbandonavano le fucine ed i campi,
trascendendo ad atti vandalici, si facevano spegnere le fornaci; si
danneggiavano gli impianti, si lasciavano morire le messi nei
solchi, si faceva morire il bestiame nelle stalle. Si videro gli
infermieri abbandonare i malati e perfino i becchini rifiutarsi di
seppellire i morti; si ebbe anche un comizio di protesta degli
accattoni per l’aumento delle elemosine. Salariati ed impiegati di
stato davano esempio ed i servizi più vitali erano sottoposti
ad un’alternativa di ostruzionismo e di scioperi, le navi ferme nei
porti, i treni abbandonati nelle stazioni le città al buio,
le folle minacciose e le truppe accampate via; fu questo uno
spettacolo durato per anni.“
Dalcroix esasperava da vero sostenitore una situazione in maniera
enfatica e polemica ma queste erano in quel periodo le idee di
Propaganda di Benito Mussolini.
Nel 1921 Mussolini affermò: “Il movimento operaio deve
assumere nuove forme diverse da quelle vecchie e superate del
partito socialista : il fascismo sarà la sintesi tra le tesi
indistruttibili dell’economia liberale e queste nuove forme del
movimento operaio“.
In questo periodo il fascismo inizia a diffondersi soprattutto nelle
città dell’Italia Settentrionale e Centrale arrivando ai
310.000 iscritti.
La crisi dei sindacati e del movimento socialista, la delusione e lo
smarrimento che ormai serpeggiavano nelle masse fecero intravedere
la possibilità di una soluzione autoritaria.
La classe politica italiana era disposta ad accettare la rivoluzione
fascista dello stato.
Comuni in molti uomini politici era la convinzione che il fascismo
per il suo carattere più emotivo che politico, avesse avuto
vita breve Giolitti infatti no dava molta importanza ai fasci e di
Mussolini diceva “Sono fuochi d’artificio che fanno molto rumore ma
poi si spengono rapidamente“.
Nell’attesa che si spegnessero li si poteva utilizzare. Anche
Mussolini sapeva che il suo movimento non godeva d9i grande forza e
che vi era il bisogno di dare ai fasci una facciata più
rispettabile depurandoli dagli elementi estremisti.
Condusse nel 1921 all’interno del Partito una vittoriosa battaglia
contro le correnti di sinistra e si guadagnò la fiducia degli
industriali con un programma economico liberista e fece un passo
avanti verso la chiesa. Pio XI , eletto nel ’22 non darà
l’appoggio della chiesa ai popolari di Don Sturzo contribuendo alla
vittoria definitiva del fascismo. Il fascismo si rendeva agli occhi
dell’opinione pubblica più rispettabile e molti uomini
politici del vecchio stato liberale o gettarono la spugna o
passarono dalla parte fascista.
Fuori il palo e fuori la corda
Il partito fascista riusciva ad entrare in Parlamento grazie alle
elezioni del 1921 anche se con una rappresentanza tale da non potere
determinare gli indirizzi politici.
Le forze maggiori erano il partito socialista e il partito popolare.
Ma nel clima politico italiano l’unica novità erano Mussolini
e i suoi. Il parlamento non dava segnali di attività; i
popolari si videro negare l’appoggio del Vaticano e nel gruppo
socialista vi furono grosse divisioni.
Non potendo contare su grandi numeri Mussolini era più
invogliato ad utilizzare le folle e nei suoi discorsi iniziò
a ricattare apertamente la monarchia; era pronto a guidare
un’insurrezione popolare e dalle parole passò ai fatti con
una iniziativa che prese il nome di marcia su Roma.
La marcia su Roma fu sicuramente un azione che non richiese grande
sforzo bellico e prese il via il 24 ottobre 1922.
L’appuntamento era a Napoli perché proprio in quella
città era già da tempo in programma la riunione del
consiglio nazionale del partito fascista.
Quando Mussolini arrivò la città era piena di camicie
nere ve ne erano circa 60 mila.
Il duce impartì le sue direttive : le squadre dovevano essere
pronte per il 26. Il 27 sarebbe iniziata la mobilitazione. Dopo
avere impartito i suoi ordini ripartì per Milano. Due
gerarchi De Vecchi e Costanzo Ciano si recarono da Salandra e
reclamarono le dimissioni del presidente del Consiglio Luigi Facta ,
gli venne risposto di no, esso era convinto che Mussolini bluffasse.
La mattina del 28 il presidente del consiglio venne svegliato da un
fascio di telegrammi in cui i prefetti segnalavano che i fascisti
erano già in marcia. Facta convocò il consiglio dei
ministri che decise di proclamare lo stato d’assedio. La sorpresa
per Facta, che non avrebbe mai potuto prevederla , fu che il re si
rifiutò di fermare il decreto.
“Queste decisioni– disse - spettano a me………..dopo lo stato d’assedio
non c’è la guerra civile…….”
Facta fu così costretto a rassegnare le dimissioni . In un
primo momento il re pensò di affidare al Governo a Salandra
ma informato telefonicamente Musssolini commentò “non ho
fatto quello che ho fatto per provocare la resurrezione di Don
Antonio Salandra”
Il re dunque aveva a disposizione un solo nome quello di Mussolini e
proprio a capo dei fascisti affidò al nuovo Governo.
La marcia delle camicie nere avvenne ma il suo valore fu simbolico
il risultato prefisso era stato ottenuto senza sforzo militare era
bastata la minaccia. Il duce arrivò a Roma il 30 Ottobre e
dopo avere deposto il suo bagaglio in albergo si presentò in
camicia nera al quirinale: “maestà – disse- vi porto l’Italia
di Vittorio Veneto“
Formò un Governo composto, oltre che da fascisti da
nazionalisti, da liberali.
Il duce tenne per sé i dicasteri degli esteri e degli
interni. Mussolini si presentò il 16 novembre alle camere per
ottenere la fiducia. Nel suo primo discorso, al Parlamento,
affermava con tranquillità: “Le libertà statutarie non
saranno vulnerate e la legge sarà fatta rispettare a
qualunque costo“.
Vi furono in quel discorso alcuni passi ormai diventati cavalli di
battaglia antifascista:
"Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti………sono qui per
difendere e potenziare al massimo grado , la rivoluzione delle
camicie nere , inserendola intimamente come forza di sviluppo di
progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Mi sono
rifiutato di stravincere e potevo stravincere . Mi sono imposto dei
limiti; mi sono detto che la migliore saggezza è quella che
non si abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati
di tutto punto decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio
ordine io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e
tentato di infangare il fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e
grigia un bivacco di manipoli“.
Ad un interruzione di Modigliani che disse “Viva il Parlamento!“
Mussolini rispose: “Potevo sprangare il Parlamento e costituire un
Governo di soli fascisti“.
Il Governo otteneva 306 si e 116 no.
Durante i primi mesi di Governo prevalse il Mussolini legalitario.
La prima impronta del regime si ebbe nel 1923 con l’istituzione di
due nuovi organi : la milizia fascista e il gran consiglio del
fascismo. La prima era il riconoscimento legale delle squadre
d’azione; il secondo era il massimo organo del partito fascista.
Nell’Aprile, sempre più privi dell’appoggio della chiesa, i
popolari abbandonarono il Governo.
I successivi mesi portarono l’Italia verso la dittatura. Dittatura
che Mussolini realizzò tramite la legge Acerbo che fu la
risposta alla possibilità di essere tolto di mezzo dopo
l’omicidio Matteotti.
La legge Acerbo aveva il compito di agevolare la creazione di un
partito unico (quello fascista naturalmente). La commissione che si
occupò di questa legge era composta da: Giolitti ( presidente
), Orlando , Salandra, Bonomi, De Gasperi, Turati e una nutrita
rappresentanza di deputati fascisti.
Il regime sentì il bisogno di questa legge perché pur
essendo di fatto padrone del paese aveva alla Camera una
rappresentanza assai inferiore dei consensi conquistati era dunque
ovvio che il duce mirasse a sciogliere anticipatamente la camera ed
a indire nuove elezioni. In questa prospettiva, il Governo, fra il
luglio e il novembre 1923, fece approvare dalla Camera e dal Senato
la nuova legge elettorale , detta appunto Acerbo dal nome del
proponente, che prevedeva un larghissimo premio maggioranza (2/3 dei
seggi) per la lista che avrebbe raggiunto la maggioranza relativa
dei consensi.
Se nessuna lista avrebbe raggiunto il livello prescritto le elezioni
si sarebbero ripetute con il sistema proporzionale.
Non è tanto la bontà della legge ma il periodo in cui
fu approvata a farcene vedere il mezzo per consentire a Mussolini la
dittatura.
Dittatura non instaurata tramite la forza militare , anche se un
contributo lo diede anche quest’ultima , ma tramite un’azione
politica agevolata dalla mancanza di pesi a difesa della democrazia.
Nel gennaio 1924 la camera fu sciolta e le elezioni vennero indette
per il 6 aprile.
Nel “listone“ fascista entrarono uomini come Salandra, De Nicola,
Vittorio Emanuele Orlando.
Ai fascisti si contrapponevano i socialisti del P.S.I e del P.S.U, i
comunisti, i popolari, i liberali democratici, i repubblicani e
altri gruppi minori, uno dei quali capeggiato da Giolitti.
Non fu una campagna elettorale, come era prevedile dal clima
instauratosi nel paese, tranquilla e vi furono numerosi scontri ed
accuse di intimidazione.
I risultati finali furono favorevoli ai fascisti che ottennero
più del 60% dei voti.
Il clima si fece sempre più rovente ed in Parlamento il
deputato socialista Giacomo Matteotti elencò le violenze dei
fascisti nel periodo preelettorale; l’uccisione del candidato del
P.S.I Antonio Piccinni, i bandi imposti ai candidati
dell’opposizione, le urne affidate in custodia alla milizia
fascista.
Questo discorso tenuto il 20 maggio 1924 provocò violente
reazioni nelle file fasciste tanto che il 10 giugno Matteotti fu
aggredito a Roma, da quattro squadristi, rapito in automobile e
trucidato.
Il suo cadavere fu ritrovato solo il 16 Agosto. Mussolini
cercò di controllare l’emozione nel paese facendo arrestare
gli esecutori materiali del delitto : Dumini, Volpi , Poveromo ,
questi i loro nomi.
Nel processo iniziato solo nel marzo 1926 i tre sicari furono
condannati a solo 6 anni di carcere. Ma presto furono scarcerati
grazie ad un amnistia nel 1947 il processo subì una revisione
e gli assassini furono condannati al carcere a vita. L’onda emotiva
che attraversò il paese fu fortissima e in quel momento il
duce avrebbe potuto perdere tutto. Gramsci in sua lettera descrive
così quei giorni:
“Ho vissuto giornate indimenticabili e continuo a viverle. Dai
giornali è impossibile farsi una impressione esatta di
ciò che sta avvenendo in Italia. Camminavamo sopra un vulcano
in ebolizione; di colpo, quando nessuno se l’aspettava, specialmente
i fascisti arcisicuri del proprio potere infinito, il vulcano
è scoppiato, sprigionando una immensa fiumana di lava ardente
che ha invaso tutto il paese, travolgendo tutto e tutti del
fascismo. Gli avvenimenti si sviluppano con una rapidità
fulminea, inaudita ; di giorno in giorno , di ora in ora la
situazione cambiava, il regime era investito da tutte le parti, il
fascismo veniva isolato nel paese e sentiva il suo isolamento nel
panico dei suoi capi, nella fuga dei suoi gregari“.
Il Governo fu duramente attaccato alla Camera dove tutte le
opposizioni, tranne i comunisti, abbandonarono il Parlamento in
segno di protesta.
Questa ritirata fu detta dell’Aventino e s’ispirava all’ipotesi che
travolto dalla squalifica morale e magari per l’intervento del re,
il Governo dovesse dimettersi. Mussolini doveva in quel momento
decidere se sfidare l’opposizione o abbandonare il campo. Aiutato da
Vittorio Emanuele III che gli confermò la fiducia il duce
decise di sfidare i partiti. Rispose alle opposizioni ritirate
sull’Aventino nel gennaio 1925 con un discorso in Parlamento dai
più definito “Il Battesimo della dittatura mussoliniana“. Il
duce nel suo discorso riassunse l’azione del Governo in campo
economico e nella politica internazionale. Mettendo l’accento
sull’annessione di Fiume dalla Jugoslavia si dichiarò
amareggiato che nessuna forza politica volesse partecipare al bagno
di giovinezza che aveva rinvigorito l’Italia. Perché tanta
ostilità? Perché negare legittimità ad un
partito che aveva milioni di consensi? Secondo Mussolini la regola
parlamentare era stata rispettata anche se taluni residui di
violenza e di illegalità resistevano, ma questo non poteva
bastare a mettere sotto accusa un’intera classe dirigente, ecco
alcuni passi del suo discorso nel quale praticamente Mussolini si
assume la responsabilità del delitto Matteotti.
“Ebbene, dichiarò qui, al cospetto di questa assemblea e al
cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la
responsabilità politica, morale e storica di quanto è
avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per
impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda.
Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e
non invece una passione superba della migliore gioventù
italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato una
associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione a
delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato di un
determinato clima politico e morale.
Ebbene a me la responsabilità di questo clima storico
politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va
dall’intervento ad oggi. Io ho voluto deliberatamente che le cose
giungessero a quel determinato punto estremo e ricco della mia
esperienza di vita in questi sei mesi ho foggiato il partito (……)
Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo
castigavo e poi avevo la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi
la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a
scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di
questo perché il Governo è abbastanza forte per
stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino.
L’Italia o Signori vuole la pace, vuole la tranquillità,
vuole la calma laboriosa, gliela daremo con l’amore, se è
possibile, e con la forza, se sarà necessario. State certi
che nelle quarantotto ore successive a questo mio discorso, la
situazione sarà chiarita su tutta l’area.“
Non passarano infatti più di quarantott'ore perché le
sedute della Camera fossero sospese. Nello stesso arco di tempo ai
prefetti fu ordinato di provvedere allo “scioglimento di tutte le
organizzazioni che sotto qualsiasi pretesto possono raccogliere
elementi turbolenti o che comunque tendano a sovvertire; i poteri
dello Stato“.
I partiti in pratica venivano chiusi. Mussolini che aveva già
la maggioranza in Parlamento era riuscito a trovare il modo di fare
tacere le opposizioni. Il discorso del Gennaio del ’25 dava inizio
alla dittatura e di conseguenza tutti i settori vitali dello stato,
giustizia, economia, cultura furono interessati dalla nuova
organizzazione voluta dal regime.
La filosofia dei tempi
Nel corso del ’25 e sino alla fine del ’26 furono varate le
cosiddette “leggi fascistissime“ opera di una coppia di ex
nazionalisti: Luigi Federzoni, Ministro dell’Interno ed il giurista
Rocco, Ministro Guardasiggilli.
La stampa italiana aveva visto la nascita dell’Unità (12
febbraio 1924) ad opera di Antonio Gramsci che sulla rivista Ordine
Nuovo scriveva di Mussolini “Conosciamo quel viso: conosciamo quel
roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la
loro feroce meccanica, fare venire i vermi alla borghesia e oggi al
proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia.
Conosciamo tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa
impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole
borghesi: esso è veramente impressionante anche visto da
vicino fa stupire: Ma egli è il capo? Il tipo concretato del
piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impastato di tutti i
detriti lasciati dal suolo nazionale da vari secoli di dominazione
degli stranieri e dei preti: non poteva diventare il capo del
proletariato, divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce
feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe
operaia lo stesso terrore che esso sentiva per quel roteare degli
occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia“.
A seguito degli avvenimenti del ’25 anche questo tipo di stampa
poteva essere un elemento turbolento teso a sovvertire i poteri
dello stato e dunque nello stesso anno la libertà di stampa
venne soppressa. La giustizia, che doveva occuparsi non solo dei
normali reati ma anche di quelli politici, fu interessata da una
serie di provvedimenti che andarono dall’introduzione della pena di
morte alla istituzione del “Tribunale speciale per la difesa dello
Stato“.
Con questo organismo si aboliva la tradizione liberale e democratica
che aveva affermato il principio della libertà d’opinione, il
regime fascista riprendeva modelli inquisitoriali per colpire la
“cospirazione“.
Durante tutta la sua attività che durò dal ’26 alla
caduta di Mussolini, il tribunale speciale emise 2319 sentenza (tra
di esse 42 condanne a morte). Le sue vittime furono uomini
appartenenti per lo più alle classi subalterne del
centro–nord.
Diverse furono le personalità che incapparono nel tribunale.
Riportiamo una sentenza del ’29 che riguarda il futuro Presidente
della Repubblica Sandro Pertini:
Processo a carico di Pertini Alessandro
Avvocato socialista unitario
Già condannato e poi amnistiato nel ’25 per incitamento
all’odio di classe.
Già assegnato al confine di polizia nel 1926, espatriò
con Filippo Turati il 12.12.26 in Francia dove svolse, con scritti e
conferenze, attività e propaganda sovversiva ed antifascista.
Nell’ottobre 1928 impiantò persino in Nizza una stazione
radio telegrafica con al quale riuscì a propagare false
notizie ai danni dell’Italia.
In occasione del procedimento penale che per tale fatto subì
in Francia cercò di trasformare il dibattimento in comizio
antifascista.
Chiamando a testimoni del “barbaro dominio“ i più noti
fuoriusciti.
Nel marzo u.s si allontanò dalla Francia ed attraversò
la Svizzera con passaporto falso, rientrò in Italia.
Venne riconosciuto ed arrestato a Pisa il 14 aprile.
Antifascista fegatoso e spavaldo in udienza ha ammesso ai fatti e
dopo la sentenza ha gridato “Viva il Socialismo“.
Condannato a dieci anni e nove mesi di reclusione.
I nostri diplomatici all’estero ricevettero da Mussolini in persona
l’ordine di togliere a Nitti la cittadinanza italiana. Nitti era in
quel periodo il simbolo dei fuoriusciti (successivamente gli altri
fuoriusciti si vedranno levare cittadinanza e beni) ed era sempre
stato seguito con una attenzione del duce. Tutto questo avveniva nel
giugno del ’25.
Qualche settimana dopo vennero uccisi due fieri oppositori del
regime Amendola e Gobetti.
Dopo il ’25 anche l’atteggiamento dei fascisti, verso i comunisti,
subì un cambiamento. In un primo momento il duce li aveva
esaltati come il “pericolo bolscevico“ tanto temuto dalla borghesia
italiana, successivamente però con la nuova situazione
creatasi con l’aventino anche l’opposizione comunista venne
soppressa.
Ad accorgersi del nuovo orientamento fu Antonio Gramsci che l’8
settembre 1926 venne trasportato in manette a Regina Coeli. Ecco
come descrive quei giorni: “Arrestato l’8 di sera alle 10 e 30 e
condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino
prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è
stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di
isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima”.
Trasferito a Milano nel carcere di San Vittore deve aspettare che
l’istruttoria del processo sia ultimata.
Il dibattimento dura dieci giorni e al Presidente che gli dice:
“Siete imputato di attività cospirativa, di istigazione alla
guerra civile, di apologia di reato e di incitamento all’odio di
classe“, Gramsci risponde: “Sono comunista e la mia attività
politica è nota per averla esplicata pubblicamente come
deputato e come scrittore dell’Unità. Non ho svolto
attività clandestina di sorta perché ove avessi
voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho
sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di
accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così,
mai lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu
esercitata nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la
mia migliore difesa (……..)Se d’altronde l’essere comunista importa
responsabilità l’accetto“.
Il risultato del processo fu la condanna a venti anni da scontare a
Portolongone ma una visita medica accertò che il detenuto era
affetto da uricemia cronica e lieve esaurimento nervoso e quindi per
scontare la pena (che durò sino al 24 aprile 1937) venne
scelta la casa penale speciale di Turi di Bari.
Assieme a Gramsci vennero condannati quasi tutti i dirigenti di
primo piano del P.C.I. tra cui Terracini, Scoccimarro, Roveda,
Riboldi.
La nuova legislazione si occupò anche: della soppressione
della massoneria; di concedere al governo amplissime facoltà
di emanare decreti di legge; di riformare i codici; di fascistizzare
la burocrazia e di sopprimere ogni autonomia delle amministrazioni
comunali. Iniziarono a nascere in questo periodo i movimenti
organizzati dei fuoriusciti.
La prima organizzazione antifascista nacque attorno a Bruno Buozzi,
il quale ricostruì, in esilio la rappresentanza del movimento
sindacale italiano. Intorno a lui si riunirono il deputato
socialista Felice Quaglino, Pallante, Rugginenti, Giuseppe Bensi,
Giuseppe Sardelli, i quali erano stati investiti in Italia della
rappresentanza del movimento sindacale. Buozzi iniziò le
pubblicazioni del giornale “L’operaio Italiano“, organo della
Confederazione Generale del Lavoro.
All’estero oltre a Buozzi vi furono Luigi Campolonghi e Alceste De
Ambris che formarono la “concentrazione antifascista“. De Ambris era
stato uno dei fascisti della prima ora, lasciò il movimento e
si spostò in Francia dove poco dopo, iniziò la sua
attività antifascista. Secondo Campolonghi la concentrazione
avrebbe dovuto raccogliere maggiori adesioni individuali fra gli
iscritti ai vari partiti di sinistra. Ci fu una contropoposta di
Modigliani che voleva una intesa fra gruppi e partiti
sufficientemente affini (era lo schema dei futuri comitati di
liberazione). Alla concentrazione aderirono le due fazioni
socialiste (la massimalista e la socialdemocratica), il partito
repubblicano, la lega dei diritti dell’uomo e la confederazione del
lavoro di Buozzi. Non aderirono i comunisti che volevano continuare
con i loro piani insurrezionali . Le prime iniziative furono la
pubblicazione di un settimanale, “La libertà“ il cui
direttore fu Carlo Treves. Il primo numero uscì il 1°
maggio 1927, con un articolo di Turati intitolato “Il primo maggio
dei vinti“.
Questo settimanale si poneva naturalmente in una posizione di
critica verso il regime. La concentrazione rimase unità
finchè Treves fu direttore della “Libertà“. Quando se
ne andò nel 1933 essa si sciolse.
Dopo l’esperienza della “Libertà“ Facchinetti e Pacciardi
fondarono la “Voce Repubblicana“; la confederazione del lavoro si
limitò a spingere gli operai verso la organizzazione
sindacale francese. Buozzi fece uscire “L’operaio Italiano“ nel
1934. Iniziarono poco dopo le pubblicazioni di un settimanale
“Giustizia e Libertà“ diretto fino a quando fu assassinato
dai fascisti da Rosselli.
È accertato un collegamento dei fuoriusciti con
l’internazionale socialista probabilmente alcuni di essi volevano un
rovesciamento del regime fascista e l’instaurazione di una
repubblica bolscevica.
Per controllare la cospirazione contro il regime venne costituita e
affidata alla direzione del Prefetto Bocchini l’OVRA (Organizzazione
Vigilanza Reati Antifascisti). Questa organizzazione iniziò
la sua attività partendo da Milano ma successivamente di
diffuse su tutto il territorio nazionale. Ciascuna zona aveva i suoi
informatori sconosciuti anche agli ispettori centrali.
In seguito ad un attrito fra Bocchini e l’allora segretario del
partito Starace quest’ultimo creò una propria polizia
politica l’UPI.
Chi veniva denunciato veniva mandato via dall’Italia anche se era
sempre Mussolini a dire l’ultima parola.
L’opera di riorganizzazione non si fermava qui. Al fascismo
bisognava dare una ideologia. Seguaci del regime fascista furono nel
mondo culturale i futuristi (in prima fila Marinetti) i Dannunziani
e tutti gli intellettuali nazionalisti.
Nel 1925 non furono certo pochi gli scrittori che firmarono “il
manifesto degli intellettuali fascisti“ redatto da Giovanni Gentile.
Assieme al Croce il Gentile collaborò alla “critica“ spinto
dalla convinzione che il filosofo non potesse isolarsi ma dovesse
partecipare e in prima persona alla vita politica della nazione.
Lo stato corporativistico, secondo Gentile, trionfava su quello
liberale. Lo stato ora doveva essere inteso come centro degli
interessi della collettività. C’è da sottolineare che
Gentile non fu sempre in sintonia con il regime ed intervenne per
censurarne alcune esagerazioni.
Nel mondo culturale del tempo si muovevano altre due figure di
grandissimo spessore Giuseppe Prezzolini e Benedetto Croce.
Prezzolini fondò nel 1908 “La Voce“ con l’intenzione di
combattere la cultura del positivismo e di diffondere il pensiero e
la sensibilità intuzionistica e idealistica e fu in un certo
modo vicino al fascismo anche se in una lettera al direttore del
Corriere della Sera, il 18 Giugno 1981 Prezzolini scrive:
“Non ho mai avuto alcun incarico da un’organizzazione fascista, non
ho mai avuto nemmeno un biglietto di tranvai gratis dal fascismo
(….), quanto ai miei auguri a Mussolini nel 1922, dopo la marcia su
Roma, chi non glieli faceva? Ma i miei auguri furono chiariti quando
pubblicai presso l’israelita Formiggini e per sua richiesta la forse
prima biografia di Mussolini nel 1924 che terminava: “tocca al paese
offrirgli gli uomini per un compito superiore quale sarà il
ritorno alla vita dei paesi più progrediti, civili e legali“.
Per mia richiesta alla biografia di Mussolini fece seguito una
biografia di Giovanni Amendola che terminava: “Giovanni Amendola ha
affrontato con serietà , tenacia e coraggio – fino al rischio
della vita – l’impopolarità dei compatrioti e
l’ostilità del partito avversario. Queste profonde
qualità gli avrebbero valso soltanto la stima di una
minoranza di italiani e non quella simpatia più vasta che gli
è stata regalata dalla persecuzione fascista“.
Il Croce partecipò attivamente alla vita politica come
Senatore e Ministro e per alcuni anni manifestò simpatia e
comprensione per il movimento, simpatia e comprensione al
liberalismo. Votò a favore del Governo fascista e
conservò fiducia in esso anche dopo l’omicidio Matteotti.
Le leggi eccezzionali del 1925 e la politica culturale del regime
spinsero Croce alla opposizione e alla stesura di una “Protesta“
contro il “Manifesto“ degli intellettuali fascisti, la quale fu
pubblicata il 1 maggio 1925 e raccolse ampi consensi.
Dopo tale presa di posizione il Croce mantenne un fermo
atteggiamento di condanna del regime, che fu costretto a concedergli
un certo margine di libertà anche per la notorietà
internazionale da lui raggiunta, in un'opera del 1940 “il carattere
della filosofia moderna“, il Croce scriveva:
“Senza dubbio, vi sono tempi nei quali tra la vita pratica, sociale
e politica si osserva una sorta di rispondenza (…….) tempi
singolarmente felici nei quali un medesimo fervore morale genera
quasi gemelli i modi della filosofia e i modi della vita. Ma
c’è ne sono altri, travagliati e dolorosi nei quali il
pensatore stà solitario e con poca compagnia (…) guai al
filosofo se egli per isfuggire la solitudine e per altri assai meno
nobili sentimenti si piega e adegua la sua filosofia alla “filosofia
dei tempi“ e in qualche modo la seconda! Che per contrario, allora
tanto più stretto e più urgente è il dovere suo
di rammentare agli uomini mercè dei concetti speculativi e
dei giudizi storici quella che è la vera e compiuta
umanità tanto più che egli deve essere allora rigido
verso gli altri e verso se stesso , perché, se il sale si
insipido chi potrà mai salarlo? il suo regno è ben di
questo mondo, ma non già dell’istante che passa.“
Un tratto di fine arte politica
Prima la giustizia , poi la cultura , ora bisognava occuparsi dei
rapporti con la chiesa , dell’economia e della politica estera ed il
duce non si tirò indietro.
Un successo di Mussolini fu il ripristino dei rapporti con la Santa
Sede che si erano incrinati dal 1870 quando l’unità era stata
ottenuta sacrificando lo Stato Pontificio.
La politica dello stato liberale fu una politica laica di netta
separazione dei rapporti tra stato e chiesa. Mussolini non aveva
pregiudizi liberali capiva che era fondamentale avere la chiesa
dallapropria parte.
Per fare un’accordo bisognava essere almeno in due e alla
volontà di Mussolini si associò quella del Pontefice
che nel fascismo vedeva l’antagonista del comunismo ateo.
I primi contatti iniziarono nel 1926 e vennero portati a buon fine
l’11 Febbraio 1929 con la firma tra Mussolini e il Cardinale Pietro
Gasparri.
Vennero stipulati tre atti diplomatici; un trattato che sanciva
l’accordo intervenuto fra l’Italia e la Santa Sede costituita in
Città del Vaticano; un concordato che riconosceva alla chiesa
determinati privilegi sulle altre confessioni e religioni, una
convenzione finanziaria in forza della quale lo Stato Italiano si
impegnava a pagare una somma determinata alla Santa Sede.
Qui riportiamo una parte del discorso in Parlamento di Benedetto
Croce, laico per eccellenza, con il quale il filosofo motivò
il suo voto contrario al concordato “Al nostro rifiuto taluni
obiettano che quel che si è eseguito mercè il
concordato sia un tratto di fine arte politica, da giudicare, non
secondo le ingenue idealità etiche , ma come politica, giusto
il trito detto che Parigi val bene una messa, né io nego la
mia ammirazione all’arte politica, né ignoro che quel trito
detto si suole attribuire, leggendariamente, a un grand’uomo, a un
eroe della storia della Francia (Enrico IV), del quale si credette
così di interpretare il riposto pensiero; quantunque forse
gli si fece torto, perché sta di fatto che egli non
pronunciò mai quelle parole. Come che sia, accanto o di
fronte agli uomini che stimano Parigi val bene una messa è
una cosa che vale infinitamente più di Parigi perché
è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia
umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero
mancati o le mancassero! E’ il nostro voto comunque per altri
rispetti si voglia giudicarlo, ci è imposto dalla nostra
intima coscienza , alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza
che ci domanda“.
Nello stesso anno del Concordato, il 1929, si svolsero le elezioni.
Il fascismo (unica lista presente) portò a casa 8 milioni di
voti contro 136 mila contrari.
L’accordo Stato-Chiesa contribuì in quel momento a rafforzare
il regime. Nel 1929 sull’economia italiana si abbattè
l’uragano della crisi economica scatenata dall'impennata dei prezzi
dei cereali che misero in grave difficoltà gli agricoltori
statunitensi.
Il 24 ottobre ( giovedì nero ) la borsa di Wall-Street
crollò le azioni persero circa 1/3 del valore e la tendenza
al ribasso continuò sino al Luglio del 1932.
Per cercare di risanare l’economia il nuovo Presidente Americano
Roosvelt propose agli americani il New Deal ( Nuovo Patto ) con il
quale venne seppellita per sempre la tesi del liberalismo puro e si
introdusse la politica dello Stato assistenziale.
Il fascismo che era andato al Governo proprio per risollevare
l’Italia dalla crisi in cui era entrata nel dopoguerra nella quale
uno dei settori vitali per la sua esistenza , nel quale avrebbe
dovuto dimostrare di avere delle capacità, in uno stato
vicino al tracollo poiché l’economia faceva fatica.
Ma come fu amministrata questa fatica dal regime?
Per tre o quattro anni dal 22’ al 25’ vi fu una politica economica
liberale o quasi liberistica.
Prima che si diffondesse il motto “tutto per lo stato, tutto nello
stato“, il liberismo fu applicato da Alberto De Stefani il quale fu
nominato Ministro delle Finanze da Mussolini il 31 Ottobre 1922.
De Stefani diverrà l’anno seguente anche Ministro del Tesoro,
la sua politica favorì le esportazioni e quindi di
conseguenza la ripresa della produzione industriale, realizzò
una fiscalità propizia agli investimenti ed ai profitti fino
ad arrivare a raddrizzare il bilancio dello Stato.
L’alta tariffa doganale del 1921 venne abbassata, ridotti furono gli
interventi pubblici nell’economia, mentre la spesa pubblica scendeva
in poco tempo dal 35 al 13 per cento del reddito nazionale.
Mussolini che nel ’22 aveva gridato “Basta con lo stato ferroviere,
lo stato postino e lo stato assicuratore“ mutò
progressivamente opinione.
La Confindustria poi dopo avere salutato con gioia questi
provvedimenti cominciò a rammaricarsi che l’economia non
fosse in mano ad un ministro di sua completa fiducia. De Stefani era
troppo autonomo, occorreva un uomo dell'industria e della finanza
come era il Conte Giuseppe Volpi di Misurata.
Il Volpi iniziò una politica di difesa ad oltranza della lira
cercando di diminuire le importazioni di grano, minerali, petrolio
ed incentivando la cerealicoltura, diede vita alla famosa “battaglia
del grano“.
Questa battaglia fu combattuta tramite una legge del 1932 con la
quale furono istituiti dei consorzi agrari che raccoglievano i
prodotti agricoli, soprattutto i cereali, offrendo agli agricoltori
anticipi sulle vendite e assicurando la collocazione delle derrate
sul mercato.
La produzione subì un reale incremento: mentre nel 1923 si
producevano in Italia circa 59 milioni di quintali di frumento, nel
1933 se ne produssero 79 milioni di quintali.
In questo periodo si iniziarono anche iniziative di bonifica di
terreni incolti e malarici di una superficie di oltre 4 milioni e
mezzo di ettari.
Venne dato notevole impulso ai lavori pubblici ma tutte le
iniziative avevano come vizio d’origine l’essere il mezzo per
realizzare una politica protezionista.
Questa politica si spiegava con le tendenze imperialistiche del
nostro governo che intensificò di molto la spesa per gli
armamenti e sempre in questa ottica perseguì una politica di
incremento delle nascite.
Questa politica fu realizzata tramite l’imposta sul celibato,
facilitazioni fiscali per le famiglie numerose, condizioni di favore
riservate ai coniugati, premiazione delle madri prolifiche.
Come gli altri paesi europei anche l’Italia aveva subito il
contraccolpo della grande crisi del 1929 e non aveva senso investire
in soldi rimasti in armi.
Ma nel clima di recessione il 3 Ottobre 1935 l’esercito Italiano
oltrepassa il Mareb dando inizio alla Guerra contro l’Etiopia.
La Campagna d’Africa aveva un significato soprattutto simbolico
poiché nel nostro esercito bruciava la delusione per la
sconfitta di Adua nel 1896. Io osservo oggi come scrivente le
emozioni di tale evento e si volevano proprio scannare per
stanchezza. Bisogna sottolineare che il prestigio internazionale, si
era rivali in questi primati, si misurava ancora in base alla
grandezza del proprio territorio.
La Storia degli Italiani in Africa non era agli inizi, un posto dove
siamo stati per anni, nel 1885 un gruppo di 1.500 Bersaglieri
occuparono Massaua in Eritrea. Nel 1892 si acquisirono i
protettorati su Somalia ed Etiopia e nel 1912 vi fu la conquista
della Libia.
L’idea dell'Africa quindi non era certo nuova e Mussolini cercando
di mostrare al popolo Italiano e al consesso internazionale di
essere forte, ci provava in continuazione ogni giorno per preparare
questa missione militare, decise di ritentare la via del continente
nero.
Ma perché venne scelta proprio l’Etiopia?
Alla questione in maniera attendibile si risolve sostenendo che non
interessava a nessun paese colonizzatore.
Le armate Italiane al Comando di Rodolfo Graziani dopo una serie di
facili vittorie occuparono il 5 Maggio 1936 Addis Abeba.
Nelle piazze apparvero grandi carte geografiche dell’Africa
Orientale dove giornalmente, la gente poteva seguire i progressi
delle truppe italiane; lo stesso avvenne in ogni classe delle scuole
e la parola d’ordine “Noi tireremo diritto“ apparve sui muri, nei
manifesti e nei cartelli delle dimostrazioni a favore del fascismo e
della guerra;
avanzerei seri dubbi su quello a cui essa serva come sempre.
Il Comando della Compagnia d’Africa passò nelle mani di
Badoglio e si concluse rapidamente grazie alla superiorità
soprattutto organizzativa e numerica del nostro esercito.
Alla campagna etiopica ora viene, giustamente, data poca importanza
ed a distanza di anni la scelta di sostenerla pare illogica ed
è sicuramente sbagliata.
L’obiettivo era quello di distogliere gli Italiani dalla crisi
economica ed unirli in nome del comune patriottismo era un’obiettivo
propagandistico perché non risolveva nessun problema, anzi li
aggravava e dunque come poteva l’Italia occuparsi di un altro Stato
quando non riusciva ad occuparsi di se stessa?
L’aggressione Italiana fu condannata dalla società delle
Nazioni.
Ma le sanzioni decise vennero applicate blandamente e la reazione
tutt’altro che decisa aprì le porte alla Germania che
comprese la scarsa unità Internazionale per la sua politica
e, capita l’ostilità anglo- francese il regime dovette aprire
una forte collaborazione con la Germania.
Da quel momento il Fascismo iniziò a perdere consensi ed
è saggio scriverlo adesso.
"Vincere e vinceremo"
La situazione internazionale spinse l’Italia a stringere accordi di
alleanza con la Germania anche se i rapporti tra Mussolini ed Hitler
non erano sempre stati idilliaci. Si incrinarono per l’appoggio dato
dalla Italia al progetto semi-dittatoriale di Dolfuss in Austria e
per la collaborazione offerta alle forze austriache per scongiurare
il tentativo di colpo di stato nazista del 1934, si riavvicinarono
per la guerra di Abissinia e soprattutto per la guerra civile
spagnola.
Per uniformarsi al totalitarismo tedesco Mussolini dovette condurre
nel 1938 una campagna di riorganizzazione dello Stato Fascista per
alimentare la propaganda vennero mobilitati radio e giornali che
iniziarono a trasmettere messaggi di stampo nazionalista e fascista.
L’obiettivo che si poneva il regime era di cancellare completamente
ogni traccia del carattere “borghese“ degli italiani; si dovevano
modificare cultura e stili di vita ed il primo passo fu
l’introduzione del voi o meglio ancora del tu contro l’uso del lei.
La rivista di Bottai “Critica Fascista“ scrisse “Si ristabilisca il
tu, espressione dell’universale romano e cristiano, e il voi, segno
di rispetto e di gerarchia“.
I cambiamenti non interessarono solo il modo di parlare degli
italiani, anzi dei camerati, venne imposto anche un nuovo modo di
marciare “il passo romano“ creato dal Duce per evidenziare il
carattere guerriero del popolo italiano.
Nel Giugno del 1938 si proibì in tutti i luoghi pubblici la
stretta di mano, bastava il saluto romano.
La mossa che rese più evidente il tentativo di allinearsi
sulle posizioni tedesche fu l’introduzione della legislazione
razziale ispirata ad un documento che venne pubblicato il 14 Luglio
1938 ad opera di ignoti, patrocinati dal Ministro della Cultura,
sotto il titolo “Manifesto della razza“ ecco alcune delle tesi
esposte nel Manifesto:
“Il carattere di razza è puramente biologico (………..) Alla
base delle differenze di popolo e di nazione stanno le differenze di
razza. La popolazione dell’Italia attuale è ariana. Esiste
oramai una pura razza italiana. Questo concetto è basato
(…..) sulla purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di
oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. E’ tempo
che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera
che finora ha fatto il regime in Italia è in fondo del
razzismo (……..) La questione del razzismo in Italia deve essere
trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni
filosofiche o religiose.
Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. I caratteri fisici e
psicologici puramente europei degli italiani non devono essere
alterati in nessun modo“.
A seguito del dibattito instauratosi nel paese vennero adottati tra
il 1938 ed il 1939 una serie di provvedimenti.
Nel Settembre del 1938 le scuole italiane eliminarono dal loro
interno alunni, insegnanti e testi ebrei.
Nel Novembre 1938 è vietato il matrimonio tra italiani di
razza ariana e di altra razza: si limitano fortemente i diritti di
proprietà immobiliare degli ebrei e si impedisce agli
imprenditori di possedere aziende con più di 100 dipendenti.
Ai giovani di religione ebraica vengono interdetti lo svolgimento
del servizio di leva e l’inserimento nella pubblica amministrazione
e proibita agli ebrei l’iscrizione alle organizzazioni fasciste. Nel
Giugno del 1939 i professionisti ebrei vengono raggruppati in un
albo separato da quello ufficiale, la loro libertà di
esercizio della professione è ristretta alla sola cerchia di
persone della stessa razza.
La “Dichiarazione sulla razza“ approvata dal Gran Consiglio del
Fascismo il 6 ottobre del 1938 stabilisce in ogni caso che i
provvedimenti sopra descritti non vengano applicati nei confronti di
persone che nel corso del secolo abbiano acquisito particolari
benemerenze nelle guerre combattute dall'Italia, o siano stati
iscritti, prima del 1922, al partito Fascista.
Un altro dei provvedimenti del regime fu l’istituzione del “Sabato
fascista“: non si lavorava negli uffici e nelle scuole si svolgevano
solo ore di ginnastica.
Allo sport il regime fu sempre attento perché attraverso lo
sport si potevano esaltare le masse e i successi italiani nelle
competizioni internazionali potevano essere presentati e vissuti
come vittorie della intera Italia fascista e le vittorie non
mancarono, infatti, nel 1938 il purosangue Nearco vinse il
prestigioso Grand Prix de Paris; la nazionale di calcio si
aggiudicò per la seconda volta consecutiva la coppa Rimet;
Bartali dominò il Tour de France.
Questi provvedimenti di riorganizzazione dello stato furono seguiti
da una politica diplomatica molto attiva a livello internazionale e
che, come politica, era di pieno appoggio alla Germania nazista.
I primi risultati tangibili si ebbero nella Conferenza di Monaco che
doveva decidere della annessione dei Sudati, ossia dei territori
Cecoslovacchi dove era massiccia la presenza etnica dei Tedeschi, il
Duce appoggiò in quella occasione la Germania, che li
rivendicava, nella lotta con la Francia e l’Inghilterra che
proteggevano la Cecoslovacchia.
Il risultato della Conferenza fu che i Sudeti furono occupati dai
Tedeschi che successivamente senza rispettare gli impegni occuparono
anche il resto della Cecoslovacchia.
La nascente alleanza Italo-Tedesca aveva però dei problemi,
era duro il Duce, poiché Mussolini era irritato dal fatto che
Hitler lo informava solo a fatto compiuto ed il capo del Fascismo
voleva essere trattato alla pari.
Mussolini anticipando per una volta Hitler decise di annunziare il 6
Maggio 1939 in occasione di una visita del Ministro Von Ribbentrop,
l’imminente firma di una alleanza italo-tedesca.
Il trattato venne firmato a Berlino il 22 Maggio e venne denominato
“Patto d’Acciaio“. Le parti con questo patto si impegnavano a
tenersi in contatto e nell' articolo 3 troviamo il punto più
importante: ”Se malgrado i desideri e le speranze delle parti
contraenti dovesse accadere che una di esse venisse a essere
impegnata in complicazioni belliche con un’altra o con altre
potenze, l’altra parte contraente si porrà immediatamente
come alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue
forze militari“….
Il trattato prevedeva agli articolo 4 e 5 “La collaborazione nel
campo della economia di guerra e la non conclusione in caso di
conflitto, di amnistia e di pace se non in pieno accordo tra di
loro“.
Nell’accordo la consultazione fra le due parti era molto teorica e
soprattutto non vi era nessuna clausola che fissasse la
volontà italiana di preservare la pace per almeno tre anni.
L’Italia non poteva entrare in guerra e quando fu evidente che la
Germania non avrebbe aspettato, Mussolini inviò un messaggio
a Hitler nel quale sottolineava due punti:
1- Se la Germania attacca la Polonia ed il conflitto rimane
localizzato, l’Italia darà alla Germania ogni forma di aiuto
pratico ed economico che sarà richiesto.
2- Se la Germania attacca la Polonia e gli alleati di questa
contrattaccano la Germania, l’Italia non prenderà iniziative
di operazioni belliche date le attuali condizioni della nostra
preparazione militare, regolarmente e tempestivamente segnalate al
Fùhrer e a Von Ribbentrop. L’Italia non può che
affrettare la sua preparazione militare e la sollecitudine del suo
intervento sarà in relazione ai mezzi bellici e materie
prime. Il Duce resta in attesa di conoscere il giudizio del
Fùhrer su tutto quanto precede.
Nel paese le reazioni all’accordo con la Germania non furono molto
favorevoli il Re Vittorio Emanale III non aveva avuto mai grande
simpatia per i nazisti ed era decisamente contrario ad un
coinvolgimento dell'Italia in guerra.
L’antipatia del re verso i tedeschi era contraccambiata da Hitler
che definiva il sovrano “Imbecille“ e faceva riferimento solo a
Mussolini.
Contrari alla alleanza erano anche il Papa e lo stesso Galeazzo
Ciano che pubblicamente, il 16 Dicembre 1939, in un discorso alla
Camera espresse il suo scetticismo verso l’alleato tedesco.
Sembra che proprio in quel momento Ciano potesse subentrare a
Mussolini, infatti, una nota della segreteria vaticana riferisce:
“C (Ciano) un mese fa era in predicato di succedere a M (Mussolini)
e ciò poteva avvenire da un momento all’altro“; ma il Re
preferì, non trovando il coraggio, tenersi Mussolini che il 5
Gennaio 1940 in una lettera a Hitler sosteneva che “Il nemico numero
uno era l’Urss; sconfiggere completamente Gran Bretagna e Francia
era impossibile, perché gli Usa sarebbero intervenuti a
difesa delle democrazie; era opportuno non attaccare in Occidente ed
arrivare ad un compromesso………”.
Hitler rispose il 10 Marzo invitando l’Italia ad entrare in Guerra e
Mussolini sembrava convincersi sempre più ed in un promemoria
segretissimo il duce scriveva: L’Italia non può rimanere
neutrale per tutta la durata della guerra……senza squalificarsi…il
problema non è quindi sapere se l’Italia entrerà in
guerra; si tratta soltanto di sapere quando e come; si tratta di
ritardare il più a lungo possibile compatibilmente con
l’onore e la dignità, la nostra entrata in guerra, per
prepararsi in modo tale che il nostro intervento determini la
decisione; perché l’Italia non può fare guerra
lunga”….
Quando la Germania travolse e conquistò la Francia e
l’intervento italiano non era più tanto un fatto militare
quanto una necessità politica il duce si decise: aveva
infatti bisogno, "di alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo
della pace quale belligerante“ e temeva che la Germania vittoriosa
avrebbe fatto pagare caro all' Italia il suo non intervento.
Il 10 Giugno 1940 Ciano consegnò la Dichiarazione di Guerra
all’Ambasciatore di Francia che commentò “E’ un colpo di
pugnale ad un uomo a terra…….I tedeschi sono padroni duri e ve ne
accorgerete anche voi“ questo avveniva e non certo il regime voleva
essere innocente in una guerra già partita da anni.
Nello stesso giorno, infatti, alle ore 18.00 a Piazza Venezia a
Roma, dal famoso balcone il Duce comunicò alla Nazione
l’entrata in guerra. La gente avrebbe capito visto che nell'
ascoltarlo si erano riuniti non solo lì ma anche vicino alla
radio messa a disposizione nelle sedi di partito, ed ecco alcuni dei
passaggi del discorso pronunciato da Mussolini in quella occasione:
Combattenti di terra, di mare e dell’aria!
Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!
Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania!
Ascoltate
Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria.
L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra e già stata consegnata agli
ambasciatori di Gran Bretagna e Francia.
Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie
dell’occidente che in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e
spesso insidiato l’esperienza medesima del popolo italiano (………..)
Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo
logico della nostra rivoluzione; è lotta dei popoli poveri e
numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente
il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra;
è lotta tra due secoli e due idee (……….) L’Italia proletaria
e fascista è per la terza volta in piedi, forte, fiera e
compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola,
categorica ed impegnativa per tutti.
Essa trasvola ed accende i cuori dalle alpi all’Oceano Indiano:
Vincere! e vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace
con la giustizia all’Italia, all’Europa ed al mondo.
Popolo Italiano
Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore!
Non si può perdere il brivido dunque della entrata in guerra
della Italia.
Il duce aveva aspettato il momento propizio e secondo lui lo aveva
trovato ma la decisione di entrare in guerra non fu certo un buon
affare per la nostra nazione visto che di un affare si trattava
perché l’Italia era animata dall’interesse di avere dalla
Germania un trattamento da alleato fedele ed utile e non dà
un interesse di difesa della propria identità nazionale.
Questa scelta non si poteva interrompere o evitare ed era nella
logica del Patto d’acciaio e dello avvicinamento all’alleato tedesco
ed a nulla poteva servire la dichiarazione di non belligeranza
perché l’Italia senza combattere sarebbe diventata una
colonia tedesca.
Non furono tanto i sogni imperialistici ma la necessità di
fare sentire la propria voce a spingere Mussolini verso il conflitto
ma per noi l’alleanza con la Germania non faceva certo sentire uno
Stato sicuro ma in assenza di questa alleanza l’entrata in guerra ci
avrebbe riguardato lo stesso ma su questi argomenti si era aperta
una discussione nella quale i contrari a questa alleanza
rappresentati dal Re, dal Pontefice ed alcuni importanti gerarchi
fascisti continuavamo a manifestare l’idea che nulla sarebbe andato
bene con questo accordo.
Ma al momento Mussolini rimaneva delle sue idee e cambiare la scelta
di allearsi con i tedeschi sembrava impossibile.
Se nella Prima Guerra Mondiale l’Italia era entrata impreparata,
nella Seconda Guerra Mondiale entrò ancora più
impreparata o come potrei scrivere “vicinissima a forti perdite
umane“ che non poteva non essere noto a tutti.
L’esercito italiano disponeva di armamenti decisamente mediocri, non
sappiamo come ne erano convinti i soldati o i gerarchi: aveva una
artiglieria artigianale risalente alla Guerra del 1915-1918.
La guerra nella quale Mussolini ci faceva entrare non si faceva con
le baionette e neppure con il fucile ’91 in dotazione all’esercito
sin dai tempi della guerra d’Africa.
Per combattere occorrevano carri armati e noi non ne avevamo
più di 1.400 diciamo piccolini; occorrevano munizioni e ve ne
erano solo per combattere per una sessantina di giorni di guerra.
Anche la tanto esaltata aeronautica “arma fascistissima“ voluta
dallo stesso Mussolini, nel 1923 non era poi in condizioni tanto
eccellenti: al momento dell’entrata in guerra contava 1322
bombardieri (di cui 900 efficienti e solo 600 relativamente moderni)
e 1.100 tra caccia e assaltatori (di cui 700 impiegabili e solo
pochi moderni).
L’arma che godeva della salute migliore era la marina, ma anche qui
vi erano grossi problemi poiché mancavano le basi d’appoggio
e una adeguata protezione aerea e per questo le nostre navi
sarebbero facilmente diventate affondabili.
A conti fatti come si legge non si poteva tranquillizzare nessuno
degli oppositori al conflitto perché a conti fatti la nostra
forza bellica era inconsistente per il conflitto che si andava a
combattere, che era già pieno di forti rischi per i nostri
soldati.
“Credere, obbedire, combattere“
La guerra italiana, poco elegantemente, iniziò con
l’offensiva contro la Francia che era una nazione a quel tempo che
era stata messa completamente a terra dalla Germania e dunque ci si
aspettava una rapida soluzione del nostro impegno.
I nostri soldati erano guidati dal Principe Umberto ed erano
equipaggiati con divise estive mentre sul fronte di guerra
imperversavano temperature gelide. Oltre alle difficoltà
organizzative c’era l’incapacità dei nostri di fronteggiare
le truppe alpine francesi che conoscevano il terreno ed erano
più addestrate rispetto ai nostri.
Nella guerra che ci doveva vedere facilmente vittoriosi contro i
moribondi francesi al momento dell'armistizio potevamo vantare la
sola occupazione di Mentone sulla costa e di alcuni villaggi
montani. Questi risultati erano ottenuti con un prezzo alto anzi
altissimo: 1300 tra morti e dispersi, 3000 feriti e 2125 congelati.
I giorni che ci aspettavano erano tutt'altro che rosei.
Come reagì, il paese a questi primi risultati?
Il regime da quello a cui siamo a conoscenza fu molto attento ad
alimentare la sua attività propagandistica che mirava a
nascondere tutto ciò che era possibile ed aveva come
obiettivo il testimone di una guerra che ci vedeva vincere e per
questo si ricorreva al metodo dei motti che ossessionavano la
popolazione che doveva affrontare questa civiltà, quella di
“Credere, obbedire, combattere“; “Battere il nemico ovunque “; “Un
popolo di soldati con un esercito di cittadini“;
Riconoscere questo nuovo popolo non convinceva comunque totalmente
l’uomo italico che però sapeva che la guerra non si fermava
in Francia, doveva continuare da qualche parte e sperava di capirne
il bilancio, poiché era l’Inghilterra il prossimo obiettivo.
Alla Italia venne affidata la responsabilità del Mediterraneo
sia per la posizione geografica, sia per i nostri interessi in
Nordafrica.
Le nostre mansioni non si sa se è un sospetto di
inefficienza, erano ritenute poco importanti dal Fuhrer che non era
interessato né al Mediterraneo né ai paesi africani.
Lasciate senza l’aiuto tedesco le nostre navi nel Mediterraneo erano
bersaglio facile degli Inglesi.
Le nostre difficoltà navali davano problemi per la mancanza
di rifornimenti alle truppe di stanza in Nordafrica.
Il nostro anno nero fu il 1941.
Occorre prima di iniziare a trattare il proseguimento della guerra,
aprire una parentesi: vero è che il Duce forse non avrebbe
potuto evitare l’entrata nel conflitto ma altrettanto vero è
che il modo in cui condusse la nostra presenza nel conflitto fu
disastroso.
La parola d’ordine per i nostri alti comandi era attaccare per
potersi mettere alla pari dell’alleato tedesco, ma rispetto ai
tedeschi noi eravamo lontani anni luce e questa differenza
risultò evidente nel 1941.
L’Italia in quell’anno risultava impegnata nel continente africano.
In Africa orientale tra Eritrea, Etiopia e Somalia aveva concentrato
290.000 uomini che rispetto ai nostri avversari, gli Inglesi, erano
molti di più ma non bastava la superiorità numerica,
ed il nostro esercito aveva sempre lo stesso difetto: essere male
organizzato e male attrezzato e non era poco.
Per i primi mesi di guerra la superiorità numerica fu
sufficiente per i primi mesi di guerra e gli italiani riuscirono a
prendere la Somalia britannica.
Una vittoria che strategicamente non fu un granchè visto che
gli Inglesi abbandonarono il campo contenendo le perdite al minimo.
Sul finire del 1940 la situazione in Africa Orientale si
aggravò: gli Inglesi avevano ricevuto numerosi rinforzi sia
umani che tecnici e, sul territorio, i guerriglieri etiopici
iniziarono ad infastidire i nostri.
La nostra strategia difensiva ebbe come risultato il concentramento
delle forze nel centro della colonia.
Ma le sconfitte iniziarono a farsi pesanti: gli Inglesi si ripresero
facilmente la Somalia e conquistarono l’Eritrea. In seguito a queste
sconfitte Amedeo d’Aosta il 19 Maggio 1941 si arrese agli Inglesi.
Anche in Africa Orientale la nostra forza era solo sulla carta ed a
comandare le operazioni c’era uno dei gerarchi più in vista
del regime, Italo Balbo, che però venne abbattuto per errore
dalla nostra contraerea.
Il 28 Giugno 1941 a sostituirlo fu inviato il Generale Graziani.
Mussolini che aveva urgenza di successi ordinò l’offensiva
contro l’Egitto che non fu possibile perché l’esercito rimase
bloccato per la mancanza di rifornimenti a Sidi Barrani.
Questa sosta permise agli Inglesi di rafforzarsi e di sferrare
un’attacco che sbaragliò i nostri. Graziani rassegnò
le dimissioni e venne sostituito da Rommel; i tedeschi erano venuti
a salvarci.
Rapidamente la situazione in Africa fu riequilibrata con una serie
di vittoriose battaglie me la guerra era destinata a concludersi con
la chiusura del conflitto mondiale grazie allo sbarco degli
americani in Marocco.
A rendere evidente la dipendenza dell’Italia rispetto alla Germania
ed a spazzare via ogni velleità di Mussolini in qualsiasi
tavolo di pace, fu la guerra contro la Grecia che fu il vero
fallimento della nostra nazione.
La nostra avventura in Grecia era iniziata nel 1940 e non procedeva
bene anzi, andava malissimo e le perdite per il nostro esercito
furono ingenti.
L’intera campagna ci costerà 13.755 morti, 50 mila feriti, 12
mila congelati, 25 mila dispersi. A salvarci dovettero intervenire i
tedeschi che in soli 15 giorni fecero sventolare la svastica su
Atene.
I nostri guai non erano finiti.
Il Duce c’è l’aveva sempre avuta con quelli che oggi sono i
russi e ieri l’URSS e più volte aveva espresso al Fuhrer il
desiderio di essere presente ad un eventuale attacco ai sovietici e
l’occasione non mancò.
Furono preparati per l’impresa 62 mila uomini.
I nostri furono costretti a combattere tra la neve e l’esercito
russo non scherzava già era forte sul terreno normale
immaginiamoci sulla nave a casa propria.
Una novità fu che non uscimmo sconfitti solo noi ma anche i
tedeschi e qui si inizio a capire che anche la Germania avrebbe
potuto perdere la guerra.
Il popolo italiano cominciò a capire come andavano veramente
le cose, sino a quel momento coperte dalla propaganda fascista,
grazie ai primi bombardamenti sulle loro teste e ai racconti dei
reduci ma soprattutto dalle notizie di morte dei loro cari per mano
degli avversari che non ci facevano portare a termine quello che
avremmo voluto fare.
Capitolazione o resistenza?
Le sconfitte per l’asse iniziarono a farsi pesanti ed oramai i
tedeschi e gli italiani erano sconfitti su ogni fronte grazie
soprattutto all'entrata nel conflitto degli americani.
L’azione degli alleati, dopo la presa dell' Africa Settentrionale,
prevedeva l’accerchiamento della Germania e lo sbarco in Italia,
precisamente in Sicilia, ritenuta il punto debole dell’asse.
Dopo le sconfitte sul territorio straniero stavano per arrivare
quelle sul territorio nazionale.
La situazione interna nel 1943 vedeva il Duce oggetto di diversi
malumori e soprattutto iniziavano a maturare vere e proprie
congiure.
L’equilibrio si ruppe con lo sbarco degli alleati in Sicilia nel
quale, furono impiegati 160.000 uomini con 2.800 navi, 600 carri
armati e 100 cannoni.
Uno sforzo bellico di grandi proporzioni che aveva l’obiettivo non
solo di conquistare l’isola ma di farlo rapidamente e così
fu. A seguito di questo avvenimento gli oppositori del regime
iniziarono a farsi vivi e moltiplicarsi.
Mussolini si era già trovato a dovere fronteggiare oppositori
ma erano oppositori appartenenti ad altri partiti che il Duce aveva
liquidato con l’esilio o con l’isolamento. Adesso il gioco era
più duro, sia perché egli non era a conoscenza di chi
lo avversava, sia perché chi ne voleva decretare la fine
aveva consentito al Duce di prendere il potere e consolidarlo: erano
oppositori del regime appartenenti al regime.
Primo fra tutti vi era il Re che aveva capito che piano si andava
verso il fondo ma che doveva pur sempre organizzare la caduta del
regime con tutti i rischi che questo poteva portare.
Il Re poteva contare sull’appoggio di molti degli alti comandi
militari e anche di alcuni gerarchi fascisti e bisognava contattarli
e muoversi.
Del complotto militare erano responsabili soprattutto due uomini che
erano il Generale Ambrosio ed il suo ufficiale addetto Generale
Castellano.
Ambrosio era animato da una grande avversione per i tedeschi ed era
un fedelissimo della monarchia aveva capito che la guerra era
perduta e vedeva l’alleanza con Hitler come un pericolo.
Il generale aveva sperato che a mettere fine alla Alleanza con la
Germania potesse essere lo stesso Mussolini ma un incontro nel
Luglio del 1943 tra i due dittatori aveva dimostrato ancora una
volta che il duce era subalterno al fuhrer e incapace di opporsi in
qualsiasi modo, nonostante stimolato dai suoi, al volere nazista.
Venne quindi messo a punto da Castellano un piano per eliminare il
duce.
Il piano passò per le mani di D’Ambrosio ed arrivò
tramite Acquarone, Ministro della real casa, al Re, il monarca non
aspettava altro.
Castellano sapendo di poter rischiare portò a conoscenza del
piano anche Galeazzo Ciano.
I contatti affidati al Re ed Acquarone proseguirono, ed in pochi
giorni il Ministro della real casa incontrò Ivanoe Bonomi, ex
Presidente del Consiglio e Marcello Soleri, Ministro del Governo
Facta spazzato via dalla Marcia su Roma. A seguito di questi
contatti vi fu un incontro tra il Re e Bonomi, nel quale il Bonomi
espose il piano da applicare dopo la rimozione di Mussolini: il
Governo ad un militare e scioglimento del patto d’acciaio con i
tedeschi.
I contatti di Vittorio Emanuele III continuarono e le cose per
Mussolini si fecero serie quando anche il Presidente della Camera
dei Fasci Dino Grandi, in un incontro il 3 Giugno del ’43,
manifestò l’intenzione di liquidare Mussolini.
L’invasione della Sicilia da parte degli alleati rese più
veloce il complotto.
Oltre al Re anche il Vaticano portava avanti il progetto di
eliminare Mussolini e, sembra da recenti indagini (Novembre 96)
compiute dalla ricercatrice Albertina Vittoria che tre mesi prima
del 25 luglio 1943, insieme agli Stati Uniti, il Pontefice Pio XII
avesse preparato un piano che comportava la sostituzione di
Mussolini con Luigi Federzoni, Ministro degli Interni e delle
Colonie e poi Presidente del Senato, che godeva della fiducia del
Pontefice per essere stato uno dei protagonisti della trattativa per
la firma, nel 1929, dei patti lateranensi.
Questo progetto non venne mai attuato.
Le prime contestazioni pubbliche Mussolini le ricevette il 16 Luglio
in una riunione dei gerarchi che dovevano preparare alcuni raduni
propagandistici in varie città.
Il duce accettò la proposta di Grandi che era assente a
quella riunione, di convocare il Gran Consiglio del Fascismo.
Prima di esso il Duce andò dal Fuhrer per un ennesimo
vertice.
Fu l’ulteriore dimostrazione di impotenza che ne indebolì
ancora di più l’immagine.
Il 21 Luglio Scorza telefonò a tutti i membri del Gran
Consiglio per convocarli a Palazzo Venezia. L’appuntamento era per
le 17.00 del 24 Luglio nella sala del Pappagallo. Nella stanza erano
disposti a ferro di cavallo 28 tavoli uno dei quali, innalzato
leggermente rispetto agli altri, era assegnato a Mussolini.
Il Gran Consiglio comprendeva i membri vitalizi, i membri divenuti
tali per le cariche che ricoprivano i membri cooptati per fini
speciali.
Ad un invito del commesso Navarra tutti si sistemarono ai loro
posti, quindi entrò – erano le 17.15 – Mussolini, che non
rivolse la parola a nessuno. Iniziò il suo intervento
ammettendo che la guerra era in una fase critica ma continuò
proclamando la sua fedeltà alla alleanza con la Germania.
Egli disse “E’ giunto il momento di stringere le fila e di assumere
le responsabilità necessarie“ poi pose il dilemma guerra o
pace? Capitolazione o resistenza?
Il discorso del Duce, si dilungò per due ore, fu debole, poco
incisivo e non convinse nessuno. Dopo Mussolini, erano le 21 circa,
era il turno di Dino Grandi che presentò l’ordine del giorno
e lo illustrò dopo aver proclamato la sua fedeltà al
Duce. Grandi concluse il suo discorso citando una frase pronunciata
nel ’24 da Mussolini stesso “Periscano tutte le fazioni anche la
nostra, purchè si salvi la patria“.
Dopo Grandi fu il turno di Galeazzo Ciano. Il conte doveva tutto a
Mussolini e ne aveva sposato la figlia, ma il suo tono non era
affatto benevolo e il Duce incominciò a manifestare un certo
malumore.
Quando Ciano ricordò che la Germania nel ’39 s’era buttata in
guerra dopo avere assicurato che non l’avrebbe fatto se non molto
dopo, Mussolini mormorò “Verissimo“ erano passate le 23,
Galbiati suggerì qualcosa a Scorza che dopo passò un
biglietto a Mussolini “Alcuni camerati data l’ora tarda e il
prolungamento della seduta – disse il Duce – né propongono il
rinvio a domani“. Grandi insorse: “Per la carta del lavoro ci
tenesti qui sette ore adesso che si tratta della salvezza della
patria possiamo rimanere a discutere per tutto il tempo necessario“.
Senza scomporsi il Duce accettò l’obiezione “Va bene –disse–
sospendiamo per mezza ora“.
La seduta riprese dopo quarantacinque minuti e andò avanti
blandamente fino a quando intervenne il Capo di Stato Maggiore della
milizia fascista Galbiati che si lanciò in veementi, per i
dissidenti minacciose, affermazioni di fede fascista.
In quel momento Mussolini dovette avere la sensazione che fosse
possibile domare la rivolta e finalmente parlò con efficacia.
“Chi chiede la fine della dittatura – disse –sa di volere la fine
del fascismo. Io ho sessant’anni e so che cosa vogliono dire certe
cose del resto la mia meravigliosa ventura è gia durata
vent’anni“.
Ribadì la sua sicurezza della vittoria finale e ammonì
che se il Re avesse liquidato lui, avrebbe anche liquidato insieme
con lui, tutti i presenti che l’avevano sollecitato ad agire.
Lo sviluppo del dibattito aveva oramai fatto capire che l’ordine del
giorno Grandi era una sfida per il Duce. Si ebbero le prime
defezioni: Cianetti espresse alcune perplessità che gli
salvarono la vita nel processo di Verona. Il Presidente del Senato
Suardo ritirò la firma già apposta e propose una
fusione tra il testo di Grandi ed il testo di Scorza, idea questa
che trovò consenziente Ciano.
Mussolini non propose un’ordine del giorno proprio e alle 2.30 diede
inizio alla votazione. Cominciarono dall’ordine del giorno Grandi ed
i Si furono 19 i no 8 e gli astenuti 1 (Suardo).
Votare gli altri documenti era oramai superfluo.
"Chi porterà al Re questo ordine del giorno?" Domandò
Mussolini raccogliendo le sue carte.
“Tu“ rispose Grandi.
“Signori – Sentenziò Mussolini – voi avete aperto la crisi
del regime“
Ancora per una quindicina di minuti Mussolini si trattenne a Palazzo
Venezia e ricevette alcuni componenti del Gran Consiglio che si
dichiararono fedeli, uno di loro propose di arrestare i 19.
“Arrestarli?“ disse ironicamente Mussolini e sottolineò che
fra i rivoltosi c’erano i più alti rappresentanti del regime.
Grandi una volta uscito da Palazzo Venezia si incontrò con
Acquarone che aspettava con ansia accanto a Montecitorio, e dopo si
recò da Vittorio Emanuele III.
I due prepararono il Decreto che nominava Badoglio Capo del Governo.
Nella notte in cui si preparava tutto ciò Mussolini
riuscì a riposare un po’ e alle sette del mattino era
già in piedi.
Nonostante la brevità del riposo chi si era concesso apparve
pieno di energia al suo segretario De Cesare.
Incontrando un giornalista tedesco, De Cesare disse che nessun
comunicato sulla seduta del Gran Consiglio era previsto, egli,
evidentemente in buona fede dichiarò “La seduta è
stata lunga, ma non interessante né importante“.
Stranamente Mussolini non prese i provvedimenti che la logica della
Dittatura avrebbe suggerito, si preoccupò solo di fissare una
udienza con il Re il pomeriggio alle ore 17.00.
In quel colloquio Mussolini tentò di spiegare i suoi progetti
politici e militari. Ma il Re non ne volle sapere e non gli diede il
tempo di farlo dicendo al Duce “Io vi voglio bene, ve l’ho
dimostrato più volte difendendovi da ogni attacco, ma questa
volta devo pregarvi di lasciarmi libero di lasciare ad altri il
Governo. Rispondo con la mia testa della vostra sicurezza personale,
statene certo.“
Al nome di Badoglio, Mussolini esclamò “Allora tutto è
finito“
“Mi spiace, mi spiace“ ripeteva il Re.
Quando Mussolini, giunto alla uscita, si avviò verso la
macchina, il capitano Pigneri gli si fece incontro dicendo “Sua
Maestà mi prega di proteggervi e vi prego di seguirmi“.
Fu caricato su un'autoambulanza e trasportato in una caserma all'una
di notte. Il Duce ricevette una lettera di Badoglio in cui gli si
diceva che lo si era trattato in quel modo nel suo “personale
interesse“.
In meno di 24 ore Benito Mussolini da capo del Governo e Duce del
Fascismo passava ad essere un prigioniero ingombrante e pericoloso.
L’impossibilità di continuare
Mussolini era dunque fuori gioco e il Re come concordato con Bonomi
affidò il Governo ad un militare il Maresciallo Pietro
Badoglio.
Per niente nuovo alla scena, il maresciallo era infatti uno degli
eroi di guerra del nostro paese ma non aveva mai ricoperto incarichi
di così alta responsabilità politica.
Si potrebbe dire di lui che era un uomo che nell'ordinaria
amministrazione funzionava bene ma che nell'emergenza perdeva la
testa. Era il migliore generale italiano ma in un esercito come
quello tedesco al massimo sarebbe stato colonnello.
I giorni del suo Governo non furono certo un esempio di buon
governo, per non usare termini più pesanti, e forse per
alleviarne le responsabilità si può dire che non era
certo circondato da geni.
Combattuto tra le preoccupazioni del Re e tra quelle dei partiti
antifascisti non volle scontentare né gli uni e né gli
altri non prendendo quelle grandi decisioni che la gravità
del momento richiedeva.
I suoi primi provvedimenti furono l’emanazione di un proclama in cui
si annunciava che la guerra continuava e il divieto di assemblee e
riunioni.
Il partito fascista venne sciolto ma non fu permessa la costituzione
di altri partiti. I prigionieri politici vennero liberati , ma
vennero mantenuti ai loro posti anche militari e funzionari di fede
tedesca.
Badoglio prometteva che la vita politica sarebbe ripresa dopo le
elezioni. Per ora la nazione doveva aver fiducia nel Governo.
Questa però si mostrava assai poco degno della fiducia che
richiedeva.
Mentre il Fuhrer decideva di far affluire truppe nel nostro
territorio, Badoglio diceva no a Grandi che voleva un immediato
rovesciamento delle alleanze. Il maresciallo voleva guadagnare tempo
ma di tempo non c’è ne era e gli eventi lo travolsero,
infatti, dall' Ottobre 1942 all'Agosto del 1943 diverse città
italiane, le più importanti del Nord Italia, furono
bombardate dagli alleati. Milano fu sicuramente la città
più colpita: 1500 milanesi morirono ed i monumenti più
importanti furono danneggiati.
Il Governo era con l’acqua alla gola ma lottava ancora per una pace
onorevole. Gli alleati risposero di essere disposti a concedergli
una resa incondizionata e qui c’era poco di onorevole ma quella
proposta non si poteva rifiutare.
Il Governo con il suo comportamento iniziava a scontentare tutti :
- I tedeschi oramai sicuri del tradimento
- Gli alleati che ci guardavano con grande diffidenza
- Gli italiani che vedevano arrivare la guerra nelle loro case
Badoglio e il Re volevano l’impossibile e cioè far uscire il
paese dal conflitto con il consenso dei tedeschi e dopo avere
ottenuto una pace favorevole dagli alleati.
L’Italia non aveva nessun potere per ottenere questo.
Le trattative di pace con gli alleati furono affidate al Generale
Castellano ma da trattare c’era ben poco: infatti gli alleati
volevano un si o un no deciso. Il 3 Settembre 1943 a Cassibile, uno
sperduto villaggio siciliano, l’armistizio fu firmato.
Il Governo Badoglio riuscì però ad ottenere che
l’annuncio dell’armistizio fosse dilazionato fino a che le truppe
alleate fossero sbarcate nell’Italia Meridionale. Sbarco che avrebbe
dovuto essere accompagnato da un lancio di paracadutisti su Roma.
Gli alleati constatarono che il Progetto lancio era impossibile
perché i tedeschi controllavano orami gli aeroporti della
capitale. Quindi il lancio di paracadutisti non si poteva
effettuare.
Badoglio tentava di rimandare l’annuncio e il Re era addirittura
pronto a disconoscerlo ma il Generale Eisenhower due ore dopo che
Radio Londra ne aveva dato la notizia, trasmise una dichiarazione di
Badoglio nella quale si annunciava l’armistizio: era l’8 Settembre
1943.
Badoglio nel proclama che fu emanato dopo l’annuncio dichiarava alla
Nazione:
"Il Governo italiano riconosciuta l’impossibilità di
continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza
avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi
sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al Generale
Eisenhower comandante in capo delle forze alleate Angloamericane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze
angloamericane deve cessare da parte delle Forze Italiane, in ogni
luogo esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi
altra provenienza“.
Naturalmente i tedeschi non restarono con le mani in mano. Hitler
aveva sempre ribadito che l’alleanza con l’Italia c’era
perché c’era Mussolini, e già all’indomani della
seduta del Gran Consiglio aveva preparato un suo piano d’azione che
prevedeva quattro punti:
1- La liberazione di Mussolini
2- L’occupazione di Roma
3- L’occupazione militare di tutta l’Italia
4- La cattura o la distruzione della flotta italiana
Per attuare i suoi propositi il Fuhrer spostò sul fronte
italiano 6 divisioni di fanteria, 2 corazzate, 1 di paracadutisti, 1
brigata da montagna, oltre a unità varie delle tre forze
armate. Altre 4 divisioni di fanteria erano in Austria a ridosso
della frontiera italiana.
Appena dopo l’annuncio dell’armistizio i tedeschi presero Roma dove
incontrarono la flebile resistenza di troppe mescolate a civili
antifascisti.
Ma che fine aveva fatto il Re, di Mussolini che ne era stato?
Come e con chi si erano mossi?
Il Re il 10 Settembre assieme ai suoi più stretti
collaboratori lasciò Roma per Pescara da dove con una
corvetta raggiunse Brindisi, anche Badoglio era con lui.
L’esercito fu lasciato allo sbando privo di ordini e con il terrore
della deportazione nei campi di concentramento.
Mussolini, invece, si trovava sul Gran Sasso sa dove il 26 Luglio
aveva indirizzato una rassicurante lettera a Badoglio che
evidenziava la sua voglia di capire l’atmosfera e di tirarsi fuori
da eventuali ritorni al Governo.
"Desidero, scriveva, assicurare al Maresciallo Badoglio, anche del
ricordo del lavoro in comune svolto in altri tempi, che da parte mia
non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma che
le sarà data ogni possibile collaborazione. Faccio voti che
il successo (dove vedi il rischio della fucilata della Bomba o della
esplosione per dirla con Carlo Rossella noto giornalista) coroni il
grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine
e per nome di sua maestà il Re, del quale durante ventuno
anni è stato leale servitore, e tale ora rimane.
Cambiò tutto ed anche il rischio quando un gruppo di
paracadutisti liberò il Duce dalla prigionia, forse sarebbe
meglio dire dall' esilio in cui si trovava e tra qualche
tentennamento lo accompagnò a Monaco di Baviera dove
ritrovò moglie e figli e alcuni gerarchi rifugiatesi in
Germania dopo il Gran Consiglio (Farinacei, Pavolini, Ricci,
Preziosi).
L’obiettivo dei tedeschi era il ristabilimento di un Governo
fascista e il 15 Settembre 1943 le agenzie di stampa diramarono un
comunicato:
"Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo
in Italia.
In questo comunicato c’erano anche cinque ordini del giorno del
Duce, le cui decisioni erano comunque più che influenzate dai
tedeschi, si nominava Alessandro Pavolini segretario provvisorio del
partito, che assumeva il nome di partito fascista repubblicano, si
ordinava a tutte le autorità e ai funzionari destituiti da
Badoglio di riprendere il loro posto e di appoggiare attivamente
l’alleato tedesco, si ricostituiva la milizia fascista con a capo
Renato Ricci e si scioglievano gli ufficiali delle forze armate dal
giuramento prestato al Re.
Il 18 Settembre Mussolini parlò anche agli italiani da Radio
Monaco annunciando la nascita della Repubblica Sociale Italiana con
sede a Salò sul lago di Garda.
Il testo fondamentale della nuova repubblica venne approvato nel
corso del primo congresso del partito fascista repubblicano svoltosi
a Verona dal 14 al 16 Novembre 1943.
Erano stati preparati 18 punti che proponevano riforma della
organizzazione dello stato grazie alla convocazione di un’assemblea
costituente che sancisse la fine della monarchia e portasse alla
elezione del Presidente della Repubblica ogni cinque anni.
Vi erano poi altre tesi di carattere prettamente sociale che
riguardavano i lavoratori.
Per combattere la Guerra la RSI aveva bisogno di un esercito il cui
comando fu affidato a Rodolfo Graziani che chiamò alla leva
le classi 24-25 ma alla chiamata rispose solo il 40% del totale.
Il duce da Campo Imperatore aveva manifestato a Badoglio di non
volere essere d’ostacolo ma il Fuhrer riuscì a ritirarlo
dentro.
Perché accettò?
1a Ipotesi: Mussolini aveva voglia di riabilitarsi, la sua uscita di
scena non era stata poi tanto gloriosa.
2a Ipotesi: Mussolini aveva paura per la propria vita minacciata sia
dagli alleati e in caso di rifiuto anche dai tedeschi che comunque
non è che non imposero niente.
Una volta assuntosi la responsabilità di guidare la RSI
Mussolini dovette accettare la volontà tedesca senza potere
dire la sua e quando la doveva dire era in ritardo.
Raccontare in queste righe con precisione la sua nuova dialettica,
il ricorso al reportage, il tentativo di cancellare i fallimenti,
tutte cose che vengono fuori quando ci si aspetta di chiudere con i
problemi e di vincere, ma tutto ciò era impossibile
poiché nell’aria della RSI c’è stata sempre la
sconfitta ed il regolamento di conti con il passato: niente è
andato bene.
La Germania voleva che tutti i traditori del regime venissero
puniti.
Molti di loro, vedi Grandi, erano fuggiti all’estero; altri, vedi
Ciano, si erano consegnati ai tedeschi direttamente o non
nascondendosi come la logica avrebbe voluto.
Il Consiglio dei Ministri del 28 Ottobre 1943 riunito a Gargnano
nella villa Feltrinelli decise l’istituzione di un tribunale
speciale straordinario destinato a giudicare i componenti del Gran
Consiglio rei di tradimento.
Alla Presidenza fu designato Aldo Secchioni, Avvocato, pubblico
accusatore Andrea Fortunato, i giudici Celso Riva, Franz Pagliani,
Enrico Vezzalini, Otello Gaddi, Giovanni Raggio, Renzo Montagna.
Giudice Istruttore l’avvocato Vincenzo Cersosimo.
Ricostruiamo il Processo di Verona grazie ad un articolo del
Corriere della Sera del 29-7-1993 firmato da F.Felicetti che si
occupava dell’argomento alla luce dei documenti comparsi.
Di quello che era successo a Verona, luogo in cui si svolse il
processo, sino a ieri c’era soltanto qualche fotografia. Oggi da un
angolo remoto dell’archivio di stato è stato ritrovato un
filmato della fucilazione di Galeazzo Ciano e di quattro traditori
del 25 luglio.
Quella mattina d’inverno, accanto al plotone, c’era un cineoperatore
ufficiale italiano o forse tedesco, con il compito di alimentare la
macchina della propaganda e di far vedere agli altri quanto fosse
inflessibile il fascismo di Salò.
La pellicola venne sviluppata in Germania tutto è
documentato.
11 Gennaio 1944 9.15-9.30 di mattina.
Non è molto freddo, niente nebbia.
Lo scenario è il poligono di tiro di San Procolo poco fuori
Verona: un vasto spazio erboso, un terrapieno dove venivano piazzate
le sagome e un muro di cinta non alto e tutto uguale.
Il plotone d’esecuzione è composto da venticinque miliziani,
una fila in ginocchio e una in piedi.
I condannati erano Emilio De Bono vecchio ed esausto che non
c’è la fa a camminare.
Ciano il più osservato, il genero di Mussolini che Hitler
vuole morto.
Impermeabile chiaro, cappello, le mani in tasca si guarda intorno
senza paura sembra avere fretta di chiudere una recita già
scritta.
Gli altri sono: Gottardi, Pareschi e Marinelli svenuto alla lettura
della sentenza.
I condannati sono seduti a cavalcioni su delle seggiole ed offrono
la schiena al plotone.
Prima di sedersi Ciano compie un gesto istintivo si tira su
leggermente i pantaloni per stare più comodo, come se non
andasse a morire. Partono i colpi, il plotone non aveva una grande
mira in un rapporto delle SS si legge:
“……..gli uomini che giacevano a terra erano stati colpiti
così male che si contorcevano e gridavano. Dopo una breve
pausa pochi altri colpi furono sparati….
La pellicola si sofferma su Ciano, la sua faccia è la
più insanguinata.
Nello stesso archivio di Stato sono stati trovati anche degli
spezzoni che raccontano il processo di Verona.
L’aula di Castelvecchio, era buia, un gran fascio lettorio e in
fondo un lungo tavolo con i nove conponenti del tribunale speciale.
Tra di essi vi erano fanatici squadristi in cerca di vendetta come
Celso Riva, Renzo Montagna, Franz Pagliani.
Gli imputati sono l’ombra di loro stessi. Vi è un pubblico
assai selezionato. I giornalisti prendono appunti ma scriveranno
solo quello che sarà detto loro dal Ministro Mezzasoma“.
I tedeschi, secondo il loro stile, avevano avuto vendetta ma il
Processo di Verona segna un precedente importante quella della
fucilazione di uomini del nostro stato per propaganda politica Ciano
e gli altri furono i primi a loro seguirà proprio Mussolini.
Mirate al cuore
La situazione nel nostro paese incominciava ad essere difficile,
parte del territorio in mano ai tedeschi e parte agli alleati, gli
italiani non contavano più niente.
Non contava Mussolini, assoggettato alla volontà di Hitler,
ma non contava neanche Vittorio Emanuele III che gli alleati
tenevano ancora in gioco per non creare ulteriore confusione ma che
ormai non aveva nessuna voce in capitolo anzi, gli alleati erano
già pronti, spinti dai fascisti ed antifascisti a
sostituirlo, era già nell’aria il progetto del referendum per
scegliere tra monarchia e repubblica.
Con il paese diviso in due iniziarono a dividersi anche parenti ed
amici e lo spettro della fame e della morte invase la vita degli
italiani.
I partiti antifascisti si erano riuniti nel CLN (Comitato di
Liberazione Nazionale). Il primo congresso del CLN si tenne a Bari
nel Gennaio del 1944 ed avanzò la proposta di abdicazione del
Re e la proposta di una Assemblea Costituente alla fine della
guerra.
Il Governo ed i partiti raggiunsero un accordo voluto soprattutto
dal PCI che vide l’impegno nel Governo delle componenti
Antifasciste.
Il compromesso ebbe come conseguenza l’uscita di scena da parte di
Vittorio Emanuele III che venne sostituito dal figlio Umberto.
Questi erano problemi politici che avevano comunque poco peso sulla
guerra che ancora si combatteva, e che vedeva il popolo intento a
sopravvivere ai bombardamenti, ai rastrellamenti, ai razionamenti di
cibo e di conseguenza l’attenzione verso il Re, il Governo e i
Partiti era molto bassa e parlandoci chiaro c’era un completo e
giustificato disinteresse.
Mentre al Sud si assisteva al tentativo di riorganizzazione dello
Stato, al Nord chi non combatteva nella RSI gioco forza anche per
salvarsi la pelle doveva combattere contro.
Nacquero così i partigiani.
Le bande partigiane agirono inizialmente soprattutto in montagna e
nelle campagne dove i controlli erano minori.
Lo sviluppo dei partigiani e l’incremento della loro forza si
accompagnò all’avanzamento degli alleati.
Il ruolo svolto dai partigiani è oggetto di diverse
interpretazioni: c’è chi attribuisce loro un ruolo decisivo e
chi invece uno marginale.
Alle brigate partigiane può senza dubbio riconoscersi il non
trascurabile merito di aver svegliato gli italiani, poiché in
Italia si combatteva una guerra che era la loro, quella degli
italiani appunto.
Nel Giugno del ’44 le truppe alleate entrarono in Roma, a seguito di
questa operazione Badoglio abbandonò e lasciò a Bonomi
la presidenza.
Nell’Agosto venne liberata anche Firenze.
L’avanzata alleata ad un certo punto si bloccò sulla
così detta Linea Gotica ed in quel momento iniziarono le
difficoltà per i partigiani, oggetto di rastrellamenti, e per
la popolazione civile, che divenne bersaglio delle varie esecuzioni
e deportazioni decise dai nazifascisti.
La vita cominciò ad essere veramente dura: è di questo
periodo la maggior parte dei 40.000 morti della guerra di
liberazione.
La situazione si sbloccò nell’Aprile del 1945 quando gli
alleati riuscirono ad entrare nel Nord Italia. Il crollo tedesco era
oramai evidente non solo nel nostro paese ma sull’intero fronte di
guerra e con la caduta del Fuhrer si chiudeva anche l’avventura
della RSI ora restava a Mussolini solo la fuga.
Il 25 Aprile viene festeggiato ancora oggi come festa della
liberazione.
I corpi del Duce, della Petacci e di altri gerarchi vennero esposti
a Milano il 29 Aprile. Prima di essere fucilato ebbe la forza di
esclamare “Mirate al cuore“….
Bibliografia.
G. Fiori “Processo a Gramsci“, Newton, pagina 17
Camera / Fabietti “1948 ai giorni nostri“, Zanichelli
Guglielmetti “I dittatori“, C.e.n – Roma
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Procacci “Storia degli italiani“, Laterza
Getto /Solari “Novecento“, Minerva Italica
Cervi / Montanelli “L’Italia della disfatta“, Rizzoli
G.Carocci “Storia del fascismo“, Newton
U.Cerroni “Il pensiero politico del novecento“, Newton.
Grazie ai quotidiani: Il Giornale e l’Unità.