1914-1945

Prima Guerra Mondiale

L'Italia del primo dopoguerra

Nascita, avvento e caduta del Fascismo

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LE CAUSE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Ad originare la Prima Guerra Mondiale, fu un forte contrasto sorto per questioni legate al dominio economico mondiale da attuarsi attraverso i possedimenti coloniali, che vedeva coinvolte le maggiori potenze europee dell’epoca: da una parte la Germania e dall’altra l’Impero Britannico e la Francia.

Dopo la vittoriosa conclusione della Guerra Franco-Prussiana nel 1870, avvenuta a seguito della sconfitta subita dai francesi a Sedan, la Germania si era costituita in nazione capitalistica. A seguito di questa vittoria, essa si annettè l’Alsazia e la Lorena. Nel 1871, sotto il governo del cancelliere Otto Bismarck, i land tedeschi, per la prima volta nella storia della Germania, si unirono portando così alla formazione dell’Impero tedesco, il cui primo sovrano fu Guglielmo I. Gli Stati tedeschi che lo componevano erano presieduti da un governo centrale composto da Bismarck, che svolgeva funzioni di capo del Governo, da Guglielmo I, in quanto imperatore e dallo Stato Maggiore, che disponevano di tutti i poteri, dato che il Parlamento non aveva la possibilità di svolgere la propria funzione di controllo. Vi era poi un Consiglio Federale, che era composto dai rappresentanti dei diversi Stati, anch’esso con poteri piuttosto limitati.

Bismarck riuscì a realizzare un’intesa conservatrice tra le due classi che in quel periodo dominavano in Germania: l’aristocrazia agraria, gli Junker, che occupava posizioni di rilievo nelle forze armate e nella pubblica amministrazione, e gli industriali. Questa alleanza si era ulteriormente rafforzata dopo la vittoria sulla Francia e il raggiungimento dell’unità nazionale. Bismarck si dimostrò molto duro con le rivendicazioni degli operai e con il Partito Socialdemocratico che li rappresentava. Se da una parte egli fece in modo che non venissero mai approvate leggi che permettessero la libertà di stampa, di riunione ed altre libertà in genere, dall’altra varò un sistema di previdenza sociale contro malattie, infortuni sul lavoro e per la vecchiaia. Contrario al partito cattolico, trovò poi il modo di fare con i suoi capi un accordo in funzione antisocialista.

Nel 1864, il Cancelliere stipulò un’alleanza con l’Austria, che le permise di attaccare la Danimarca, sottraendole i ducati dello Schleswig e dell’Holstein, situati in una posizione strategica a cavallo tra il Mar Baltico ed il Mare del Nord. Due anni più tardi, nel 1866, non si fece scrupolo di attaccare l’alleata Austria, costringendola poi a concedere l’autonomia all’Ungheria e il Veneto all’Italia. A seguito di questi eventi, l’Impero asburgico cambiò nome divenendo Impero Austro-Ungarico, con due distinte capitali: Vienna e Budapest.

Nel 1873, Bismarck fu il promotore del Patto dei tre imperatori, che però ebbe vita breve, visto i dissapori tra Austria e Russia sulla situazione nei Balcani, dove lo zar avrebbe voluto un’egemonia russa. Infatti alcuni territori di questa regione europea, per liberarsi dalla secolare oppressione ottomana, chiesero l’aiuto della Russia, la quale nel 1877 dichiarò guerra alla Turchia, costringendola a riconoscere l’indipendenza o l’autonomia a quegli Stati: Romania, Serbia, Montenegro, Bosnia, Erzegovina e Bulgaria, riuscirono così ad affrancarsi da secoli di occupazione turca.

Questo tipo di situazione non piacque affatto all’Austria che minacciò di guerra la Russia. La guerra venne evitata dal solito Bismarck, che nel 1878 convocò un congresso internazionale a Berlino, nel corso del quale venne riconosciuta l’indipendenza dei vari Stati balcanici; all’Austria venne concesso il protettorato su Bosnia ed Erzegovina, mentre alla Russia, che aveva sostenuto il peso del conflitto contro la Turchia, venne assegnata la sola Bessarabia. Sempre nel corso del congresso, l’Inghilterra ottenne il possesso dell’Isola di Cipro, situata in posizione strategica, dalla quale si dominava l’accesso al Mediterraneo Orientale. Questo comportamento ottenne il risultato di avvicinare la Russia alla Francia, in funzione anti-tedesca e anti-austriaca.

Nel 1908, l’Austria, approfittando di un colpo di Stato organizzato in Turchia dal movimento dei Giovani Turchi, incluse in modo definitivo al proprio territorio la Bosnia e l’Erzegovina. Il riconoscimento di tale impresa da parte della Germania e dell’Italia, provocò la nascita di un movimento irredentista slavo, che nel 1914, con l’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando d’Asburgo, fornì ai due imperi centrali un valido motivo per scatenare la Prima Guerra Mondiale.

Dopo Bismarck, il nuovo Kaiser Guglielmo II consapevole della notevole espansione economica raggiunta dalla Germania, soprattutto nei settori meccanico, chimico, tessile ed elettrico, sviluppo raggiunto anche grazie allo sfruttamento dei giacimenti di ferro e carbone dell’Alsazia e della Lorena, era intenzionato a creare in Europa una vasta area dominata dall’Impero tedesco.

Da qui ebbe inizio l’espansionismo coloniale tedesco che, nei piani dell’Imperatore avrebbe dovuto permettere alla Germania di recuperare il tempo perduto, nei confronti delle altre grandi potenze coloniali: la Francia e l’Inghilterra, che opposero una forte resistenza a questo espansionismo in Africa, Asia e Medio Oriente. Nonostante questo, tra il 1883 ed il 1885, i tedeschi riuscirono ad occupare il Togo ed il Camerun nell’Africa Occidentale, la Namibia, l’Uganda ed il Tanganika nell’Africa sud-orientale, la Nuova Guinea e l’arcipelago delle isole Bismarck nel Pacifico, le isole Marianne e Caroline acquistate dalla Spagna e la baia di Kiao-Ciao, avuta dietro pagamento di un affitto dalla Cina nel 1898. Guglielmo II provvide a fornire la Germania di una potentissima flotta militare in grado di competere, se non addiriturra di primeggiare su quella inglese, iniziando quell’azione di riarmo che precedette la Prima Guerra Mondiale.

Durante il conflitto greco turco per il possesso dell’isola di Creta, la Germania appoggiò la Turchia, ottenendo in cambio la concessione per la costruzione della linea ferroviaria che doveva collegare lo stretto del Bosforo al Golfo Persico, andando così a minacciare gli interessi inglesi in India. Per tutta la durata della Prima Guerra Mondiale, la Germania e la Turchia rimasero alleate.

Nel 1893, la Francia, allarmata per quanto stava accadendo in casa dello scomodo e potente vicino, e più che mai determinata a recuperare l’Alsazia e la Lorena, le due regioni perdute nel conflitto del 1870, stipulò un trattato di alleanza con la Russia. Nel 1907, a questa alleanza aderì anche l’Inghilterra; per via del numero delle potenze che vi parteciparono, questa alleanza prese il nome di Triplice Intesa, alla quale si opponeva la Triplice Alleanza composta da Germania, Impero Austro-Ungarico e Italia. Nel 1904, la Francia e l’Inghilterra sottoscrissero la Cordiale Intesa, che regolamentava i rispettivi interessi coloniali in Africa, in modo tale da evitare dei contenziosi che sarebbero potuti risultare nocivi in caso di una guerra contro la Germania. Nel 1906, nel corso della Conferenza di Algeciras, la Francia impose il proprio protettorato sul Marocco, ma in cambio dovette riconoscere alla Germania alcuni territori in Congo. Nel 1907, la Russia stipulò un accordo con l’Inghilterra che regolamentava i rispettivi interessi in Persia, in Afghanistan e nel Tibet.

Nel 1912-13, scoppiarono due guerre balcaniche, miranti all’affrancamento dal dominio turco. La prima venne condotta dalla Lega balcanica composta da Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia, che vedrà la vittoria di questi paesi contro l’esercito turco. La seconda vide la Bulgaria, appoggiata dall’Austria, contro la Grecia, il Montenegro e la Serbia, alle quali si unirà successivamente la Romania, per motivi di ripartizione dei territori riconquistati. Dopo la sconfitta della Bulgaria, il territorio appartenente alla Macedonia venne suddiviso tra la Grecia e la Serbia, mentre la Romania ricevette dalla Bulgaria il sud della Dobrugia. Da parte sua l’Austria, che era riuscita ad appoggiare con successo l’indipendenza dell’Albania dai turchi, riuscì ad imporre un principe tedesco a capo del governo di quel paese. A causa dell’occupazione serba e greca della Macedonia e di Salonicco, l’Austria dovette accantonare le sue mire espansionistiche verso il Mar Egeo.

Si giunse quindi al fatale 28 giugno 1914,l’attentato di Sarajevo, che segnò l’inizio della grave crisi che un mese più tardi portò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

ITALIA: INTERVENTISTI E NEUTRALISTI

All’inizio delle ostilità, l’Italia dichiarò, la propria neutralità, ma il Paese era diviso in due schieramenti opposti: gli interventisti ed i neutralisti. Il primo schieramento era diviso al suo interno in diverse correnti: a destra vi erano i nazionalisti, che vedevano nella guerra l’unico modo per fermare il dilagante socialismo; a sinistra i repubblicani, che erano convinti che soltanto sconfiggendo l’impero austro -ungarico si potesse creare un’Europa composta da Stati sovrani e indipendenti, ed i socialisti riformisti che, con i sindacalisti rivoluzionari, vedevano con sospetto il militarismo dell’impero tedesco; in ultimo una corrente liberale, che riteneva fondamentale riunire all’Italia Trieste e Trento, ed una corrente cattolica, l’unica a ritenere che si dovesse intervenire a fianco dell’impero asburgico, cattolico e conservatore. Un ruolo a parte l’ebbero alcuni artisti, molti dei quali appartenenti al movimento Futurista.

Anche nello schieramento neutralista esistevano varie componenti: i socialisti, che rappresentavano soprattutto la classe operaia del Paese, i cattolici, radicati soprattutto nelle campagne, ed un’altra corrente liberale facente capo a Giolitti, che rappresentava ampi strati della borghesia, la quale temeva che una guerra avrebbe potuto creare le condizioni per una rivoluzione. Mentre il Governo guidato da Salandra prendeva accordi segreti con i rappresentanti di Gran Bretagna, Francia e Russia, nelle piazze italiane, noti personaggi interventisti tenevano i propri comizi. Con il loro linguaggio acceso, che sfiorava in alcuni casi l’invettiva, essi facevano leva sul nazionalismo e sul militarismo per conquistare ala propria causa i piccolo-borghesi e gli studenti. In quest’opera di convinzione, si distinse in modo particolare Gabriele D’Annunzio, soprannominato il poeta-soldato.

Nell’aprile del 1915, l’Italia stipulò con le potenze della Triplice Intesa gli Accordi di Londra, che prevedevano in caso di vittoria, la consegna all’Italia delle città di Trento, Trieste e Gorizia, dell’Istria, della Dalmazia Settentrionale, del porto albanese di Valona in Albania, delle isole egee del Dodecaneso e di alcune colonie tedesche in Africa. Come rappresentante di maggior spicco della corrente neutralista in Parlamento, il 13 maggio del 1915, il capo del Governo, Salandra, presentò al re le proprie dimissioni. Davanti alla nuova ondata di manifestazioni di piazza organizzate dagli interventisti, che presero poi il nome di radiose giornate di maggio, i neutralisti non riuscirono a fornire una risposta adeguata; perfino Giolitti rifiutò di assumere la carica di capo del Governo, tanto che il re investì nuovamente della carica il dimissionario Salandra.

Il 24 maggio, sull’onda dell’entusiasmo popolare, l’Italia diede inizio alle ostilità contro l’Austria-Ungheria. Malgrado le incertezze del Partito Socialista, che da un lato si dichiarava contrario al conflitto, ma dall’altro non faceva nulla per osteggiarlo, i militanti e la gran parte dei suoi dirigenti, continuavano a rimanere ostili all’entrata in guerra dell’Italia. L’ostilità al conflitto aumentava con l’aumento dei morti e dei feriti da questo procurati e si manifestò in maniera evidente nelle violente manifestazioni contro la guerra che si ebbero a Torino nella seconda metà del 1917. Il papa, Benedetto XV fu contrario al conflitto fin dall’inizio, e fino all’ultimo tentò di ricondurre alla ragione i capi delle potenze europee che si accingevano a risolvere con le armi le proprie divergenze.

Quando il 24 ottobre 1917 l’esercito italiano subì lo sfondamento del fronte nel settore di Caporetto, il generale Luigi Cadorna, comandante in capo delle forze armate, non trovò di meglio che scaricare la colpa del rovescio militare sulle spalle dei socialisti e dei cattolici, responsabili secondo lui di aver diffuso il disfsattismo tra le file dell’esercito e nel Paese, accusando i soldati di viltà, senza tener conto che a causa dei suoi errori, qurantamila soldati italiani erano morti nell’estremo tentativo di arginare il nemico dilagante, mentre altri trecentomila erano stati catturati.

Un nuovo governo che fece appello all’unità nazionale e la sostituzione di Cadorna con il generale Armando Diaz, permisero all’Italia, con il nemico ben dentro al territorio nazionale, di trovare la necessaria coesione per poter affrontare nella giusta maniera i successivi e vincenti sviluppi bellici. La fine del conflitto, vide i due scheramenti degli interventisti e dei neutralisti, ancora sulle loro posizioni, che sotto certi aspetti si erano perfino più radicalizzate. Gli accordi di pace non avevano dato all’Italia tutti i territori promessi, tanto che i più accesi nazionalisti parlavano di pace mutilata.

I neutralisti definivano invece la guerra appena conclusa e che era costata la perdita di circa dieci milioni di esseri umani, come un’inutile strage, accusando gli interventisti di aver trascinato l’Italia in un conflitto non voluto dalla maggior parte della popolazione e del Parlamento. A questa accusa, gli interventisti tacciavano gli avversari di disfattismo. In particolare due personaggi dominarono la scena dalla parte interventista: Gabriele d’Annunzio, il Vate e l’ex direttore del quotidiano socialista, l’Avanti, Benito Mussolini.

CONSIDERAZIONI SULLA STRATEGIA MILITARE NEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE.

Una delle asserzioni più comuni per sintetizzare, o forse meglio qualificare, gli aspetti militari della grande guerra, è sempre stata la generica definizione di “guerra di posizione o di trincea”.
Sul piano degli effetti concreti, osservando in linea di massima la dinamica del conflitto, tale principio può essere considerato indiscutibile. Ma è possibile porre alcune obiezioni da un punto di vista dottrinale e considerare anche qualche limitata accezione per taluni aspetti circostanziali.
Il primo conflitto mondiale inizia a tutti gli effetti come guerra di movimento, ma finisce coll'essere una guerra di posizione. Questo concetto può essere visto sotto molteplici aspetti. Nei primi mesi di guerra, sul fronte occidentale, si ponevano a confronto due diverse strategie: quella tedesca, prevalentemente di rapido movimento, sulla base del piano Schlieffen, che risultava però poco flessibile e rigidamente pianificata; quella francese, più attendista e posizionale, basata sul concetto semplicista di sfondamento del fronte centrale (piano XVII), ma comunque più aperta e flessibile rispetto alla strategia tedesca. Lo scenario sembrerebbe paragonabile a quanto successo nella seconda guerra mondiale, quando i francesi opponevano alle mobili divisioni panzer la linea Maginot sul fronte centrale. In entrambe le situazioni, solo i tedeschi sono convinti della possibilità di una guerra lampo, mentre i francesi, fino a l'ultimo sperano invece in una possibile pace.
Pierre Renouvin (1934) avvalora questo convincimento sottolineando quanto l'ambasciatore di Francia aveva scritto il 12 giugno1914 a Berlino: “Sono lungi dal credere che in questo momento ci sia nell'aria qualcosa che rappresenti per noi una minaccia; proprio al contrario”. Poco prima dello scoppio delle ostilità e almeno fino al 1915, tutti si erano però convinti, francesi compresi, che la guerra sarebbe stata rapida. La maggior parte dei generali immaginava ancora uno scenario come quello napoleonico, con campagne militari fulminee e veloci cambiamenti di fronte, dove il valore del comandante e la resistenza degli uomini erano forse gli unici fattori determinanti per la vittoria.
In effetti, le prime operazioni sul fronte occidentale sembrarono dare ragione ai teorici di strategia militare. La velocità di movimento della fanteria era tale da non far assolutamente pensare ad una guerra statica e di trincea. Le marce a tappe forzate potevano arrivare anche a 40 km giornaliere. Pensiamo ad esempio alla rapida avanzata in Belgio dei tedeschi fino alla Marna e al rapido aggiramento delle truppe russe vicino a Tannemberg e ai laghi Masuri.
In Italia,invece, la guerra di posizione era un dato di fatto già in partenza, per via dell'ambiente montano che ci divideva dagli austriaci. Sul fronte medio orientale, la guerra portata avanti dagli inglesi prima si arresta sulle montagne della Turchia (penisola di Gallipoli), poi, dopo il 1917, assumerà, una rapida accelerazione, portando alla conquista di quasi tutto il Medio Oriente e della Mesopotamia.
La svolta posizionale della guerra fu inizialmente determinata da una serie di errori di valutazione. Tranne i pochi reduci della campagne coloniali, nessuno aveva una esperienza diretta della guerra moderna. Difatti, andavano ora considerati numerosi altri fattori: la produzione industriale, in quanto le armi e i mezzi erano molto più determinanti in battaglia, la propaganda e la fiducia delle popolazioni, molto più colpite dalla guerra che in passato, il sostegno sociale, la gestione delle materie prime, la ricerca di crediti finanziari, le innovazioni scientifiche, ecc. E' pur vero che le maggiori innovazioni tecnologiche arrivarono sul campo da battaglia non prima del 1916, senza contare il tempo di preparazione del personale e la messa a punto dei mezzi, e questo ha sicuramente influito a rallentare gli effetti dinamici di una guerra moderna, ma non ad escluderli.
La guerra di posizione diventa perciò una sorta di attesa, data l'impotenza degli uomini a superare le barriere difensive preparate dal nemico. Un primo tentativo in tal senso si concretizza con lo sviluppo dell'artiglieria, che subisce anch'essa una trasformazione, sulla base della diversa condotta della guerra: da un concetto di guerra di movimento ad uno di guerra posizionale; per poi tentare di adeguarsi ad una ripresa della guerra di movimento con lo sviluppo dell'artiglieria semovente. All'inizio del conflitto, infatti, la maggior parte delle artiglierie impiegate era di tipo leggero e da accompagnamento. Con la guerra di trincea, invece, l'artiglieria viene fondamentalmente impiegata nel bombardamento delle postazioni nemiche. Questo comportò un necessario aumento del loro calibro medio, che passò da 75 a 150 mm. Ogni corpo d'armata, in genere, era dotato di almeno 12 obici pesanti da 150mm. Questa concentrazione di mezzi di artiglieria non si arrestò per tutto il resto del conflitto. Uno dei più grossi concentramenti di artiglieria avvenne durante la battaglia di Verdun, quando da parte tedesca vennero schierati più di 800 cannoni, di cui 540 pesanti. Nel 1918, su 20.000 cannoni in dotazione all'esercito tedesco circa 8000 erano di grosso calibro. Ai grandi cannoni a postazione fissa, come il grande Bertha tedesco, usato per il bombardamento di Parigi, facevano da contraltare, sempre sul finire della guerra, i grossi cannoni mobili su rotaia, come i 355 mm americani e i primi cannoni semoventi, espressione di una ritrovata necessità di movimento.
Verso la fine del 1917, gli spostamenti delle truppe alleate sono già più rapidi e si comincia a dare alla guerra una certa dinamicità.
Nel 1918, lo sfondamento delle linee austro tedesche venne determinato dalla “stanchezza del soldato”, ma anche dal crescente numero di armi meccaniche a disposizione degli eserciti alleati.
Con la diffusione dei veicoli ruotati a motore, la guerra assunse una sua maggiore dinamicità. L'esercito italiano, che era entrato in guerra con circa 5.000 autocarri, al 30 settembre del 1918, ne contava più di 36.000. Sul fronte italiano, l'impiego in massa di mezzi automobilistici, nel maggio del 1916, permise di far confluire i rinforzi necessari per arginare la Strafexpedition. In quella occasione, il Comando italiano fece giungere al fronte 120.000 uomini in soli 4 giorni con 1000 autocarri disponibili. Così pure, l'esercito francese, durante l'offensiva di Verdun, portò i propri rinforzi fino ad una decina di chilometri dalla base di smistamento per il fronte.
Anche l'impiego operativo dei carri armati fu alquanto tardivo. La causa di questo ritardo è solo in parte imputabile alle resistenze dei principali Stati Maggiori europei. Fin dal 1914, infatti,quasi tutte le nazioni industrializzate, Russia compresa, stavano cercando di portare avanti la sperimentazione nel campo dei corazzati. La FIAT, ad esempio, stava collaudando il modello 2000. La Gran Bretagna e la Francia erano comunque le nazioni più avanti nella ricerca. Il colonnello Estienne, il 25 agosto del 1914, aveva giustamente profetizzato che “la vittoria in questa guerra apparterrà a quello dei due belligeranti che riuscirà per primo a sistemare un cannone da 75 su una vettura capace di muoversi su qualsiasi terreno”. A quella macchina ben presto venne montata la corazza e nacque così il carro armato. Il primo progetto francese, datato 11 dicembre 1915, diede i suoi primi frutti nell'inverno del 1916 con il carro Schneider. I Tank inglesi fecero la loro prima apparizione nello scontro di Flers, il 15 settembre 1915. In quella occasione, vennero impiegati solo 12 mezzi, ma nella successiva battaglia di Cambrai, il 20 novembre 1917, i nuovi modelli Mark IV vennero impiegati massicciamente, ottenendo dei brillanti risultati e sfondando la linea Hindemburg per una profondità di 8 km.
L'esercito inglese, non solo aveva meglio collaudato i propri mezzi, ma risultava essere più attento nell'impiego dei corazzati in una guerra di movimento. Questa organizzazione prendeva corpo, nel giugno del 1917, per merito del neo costituito Royal Tank Corps.
I Tedeschi, in ritardo, impiegarono inizialmente i carri catturati in combattimento, fino all'apparizione del loro primo modello A7V, prodotto in soli 20 esemplari, pesante e poco maneggevole. Tuttavia, dopo l'effetto sorpresa, i tedeschi impararono a sapersi difendere dai giganti d'acciaio per mezzo dei loro primi cannoni anticarro. Così, durante la controffensiva di Villers-Cotterets, quando gli inglesi impiegarono in massa 350 carri armati, ne persero ben 245 in un solo giorno. Il giorno dopo ne rimanevano in efficienza solo una quarantina. Altrettanto, dopo 4 giorni di combattimento ad Amiens, su 430 carri inglesi impiegati ne restarono solo 38.
Le maggiori perdite erano certamente imputabili ai guasti meccanici, ma ciò che importa è chi si dava inizio alla guerra di movimento dei corazzati. Quanto avvenne durante la seconda guerra mondiale, non fu quindi una novità, ma la semplice possibilità di generalizzare la guerra corazzata.
Durante l'offensiva delle Somme, i carri impiegati in massa, riuscirono di fatti ad avere successo sulla difesa tedesca; ma molto spesso, una volta sfondate le linee nemiche, i carri restavano a combattere affianco alla fanteria, perdendo il loro slancio offensivo. La loro scarsa mobilità e la debole corazza ne faceva poi dei facili bersagli da parte dell'artiglieria.
Questo però non può limitarci nell'estendere il concetto di guerra di movimento già durante il primo conflitto mondiale. Tali reticenze sopravvissero anche durante la seconda guerra mondiale. L'idea di impiegare i mezzi corazzati in piccoli gruppi insieme alla fanteria rimase infatti prerogativa delle forze corazzate francesi, ma anche gli inglesi avevano ancora alcuni dubbi e così anche loro continuarono a costruire i loro carri armati Churchill, qualificati come carri per la fanteria e adatti per il superamento delle trincee. Solo la difficile resa tedesca del 1918, impedì quindi al primo conflitto mondiale di trasformarsi nuovamente e definitivamente in guerra di movimento, con l'invasione territoriale della Germania e dell'Austria. Questo porterebbe a concludere che, in un certo qual modo, entrambi i conflitti furono contemporaneamente guerra di movimento e guerra di posizione, ma con tempi diversi.
Nella seconda guerra mondiale, i tedeschi, artefici del blitzkrieg, si rifugiano alla fine in una nuova guerra di posizione, costruendo una serie di fortificazione sui diversi fronti: i trinceramenti in Unione Sovietica, la linea Siegfrid sul fronte francese, e addirittura in Italia per ben tre volte dietro la Gustav, la Hitler e la Gotica.
Epperò vero, che, a differenza della grande guerra, nel secondo conflitto mondiale, i mezzi bellici a disposizione degli eserciti consentivano un relativamente rapido sfondamento delle linee posizionali, cosa che non fu semplice nella grande guerra, quando la meccanizzazione corazzata e gli aerei non avevano ancora assunto un ruolo così preponderante.
L'arrestarsi dei tedeschi sulla Manica dopo la sconfitta della guerra aerea contro la Gran Bretagna, con la costruzione delle postazioni difensive sulla costa della Normandia, non fu altro che una nuova versione di una guerra di posizione, questa volta rivolta contro gli inglesi.
Il rapido sfondamento del fronte tedesco, durante la seconda guerra mondiale, è da addebitarsi in gran misura ai massicci bombardamenti aerei e alle numerose armi da assalto e da bombardamento a disposizione degli anglo americani. In altro modo, la guerra di movimento iniziale si sarebbe trasformata in posizionale, così come avvenuto nel primo conflitto mondiale. Così, il tentativo di Hitler di resistere contro i sovietici difendendo il territorio “palmo a palmo”, fallisce di fronte alla valanga di mezzi che l'Unione Sovietica ha potuto schierare dopo il '43. La differenza tra le due guerre sarebbe quindi nulla se non nella tempistica. Mentre nella prima guerra mondiale le operazioni di movimento iniziali sono di durata più breve, nella seconda si prolungano per più tempo, ma divengono comunque posizionali quando i tedeschi si pongono sulla difensiva, con la differenza che la durata della resistenza è più breve a causa della effetti più distruttivi delle armi.
E' anche opportuno chiarire che, durante il primo conflitto mondiale, non è mancato il concetto di strategia globale, ma solo i mezzi necessari per superare il tatticismo posizionale. Il concetto di grande guerra uguale guerra di posizione è inoltre sempre stato considerato sotto il solo aspetto terrestre, trascurando il fatto che si trattava, pur con i dovuti limiti tecnologici, di una guerra tridimensionale, dove navi e aerei hanno anche giocato un loro ruolo e impiegati con velleità tutt'altro che posizionali. Non si tratta dunque di considerare la guerra di posizione sotto un profilo esclusivamente fisico-geografico, ovvero il controllo del confine territoriale, ma di considerare la posizione come funzione tattica della guerra. L'impiego della varie armi, cioè, non è mai stato considerato nella sola funzione tattica ma pure in funzione strategica e di movimento.
I tedeschi, già prima della guerra, avevano già ben chiaro il concetto di bombardamento aereo strategico. La prima aeronave Zeppelin aveva solcato i cieli della Germania fin dal 1900, e nel 1914, tutti erano ormai convinti della grande versatilità del dirigibile: bombardamento strategico, osservazione aerea, trasporto. Con il perfezionamento dell'aereo, il ruolo delle aeronavi ebbe un rapido declino, anche se il loro impiego non cessò mai del tutto, e ciò nonostante la nascita dei primi bombardieri. Alcuni modelli tedeschi, come il Luftschiffe 70 o il Super Zeppelin avrebbero certamente potuto continuare a giocare un ruolo rilevante nella strategia aerea tedesca se messi in produzione in numero sufficiente, possedendo doti non ancora eguagliate dagli aeroplani. La loro tangenza operativa, infatti, gli avrebbe resi immuni dall'intercettazione, e, potendo caricare grosse quantità di carburante, avrebbero potuto sorvolare anche l'intera costa scozzese o raggiungere l'Atlantico per appoggiare i sommergibili. Sfortunatamente per i tedeschi, nonostante tali peculiarità, l'unico grande modello 70 prodotto venne abbattuto da un intercettore britannico sulle coste di Norfolk.
D'altro canto, malgrado la massiccia diffusione degli aerei, ne furono costruiti oltre 10.000 durante tutto il conflitto, il ruolo strategico svolto dalla nuova arma fu di scarsa rilevanza. Ad un significativo aumento del raggio di azione degli apparecchi, non corrispose una adeguata capacità di carico bellico in grado di creare significativi danni alle installazioni nemiche. I primi bombardamenti strategici ebbero perciò più un effetto psicologico che materiale, ma certamente contribuirono ad aprire un nuovo scenario della guerra contemporanea.
Molto più efficace fu il loro utilizzo nella ricognizione. Le macchine fotografiche in pellicola permettevano, infatti, di mappare facilmente il fronte ed avere, così, utili informazioni sulla posizione del nemico. Molto diffuso era pure l'impiego dell'aereo da caccia, sia nell'attacco diretto a terra, con il mitragliamento della fanteria nemica, sia in funzione di intercettazione. In questo senso, possiamo affermare che l'aereo rimase relegato in un ruolo di semplice appoggio alla fanteria.
In un bilancio complessivo, sarebbe comunque giusto tenere presente che, durante il primo conflitto mondiale, si è andato affermando l'uso dell'aereo militare secondo le più moderne accezioni: intercettazione; attacco al suolo; ricognizione; bombardamento; uso dell'aereo imbarcato.
Per quanto riguarda la guerra navale, gli eventi ci mostrano le marine da guerra europee come ormai abbastanza mature per un guerra moderna, eccezion fatta per l'aereo imbarcato ancora in via di sperimentazione: ricordiamo per esempio in Italia la nave aerostiro Europa. Nel decennio prima dello scoppio della guerra, tutte le potenze europee erano state impegnate nel rinnovo e nel potenziamento della propria flotta militare. Con l'entrata in scena delle nuove navi da battaglia Dreadnought, le vecchie corazzate, dotate di cannoni fissi, divennero ormai obsolete e inadeguate alla nuova guerra navale d'alto mare. Veniva così abbandonato il vecchio concetto dello speronamento, in cambio delle straordinarie potenze di fuoco dei nuovi cannoni, capaci di colpire a distanze notevoli. Nonostante questo impegno, durante il primo conflitto mondiale, non ci furono grandi battaglie navali, a parte quella dello Jutland. I tedeschi furono impegnati in una prima battaglia nei pressi di Helgoland e poi in un solo scontro nel mare del Nord.
La battaglia dello Jutland può essere considerata come il tentativo tedesco di forzare la guerra navale “posizionale” condotta dagli alleati con il blocco continentale. La dinamica della battaglia fu comunque un episodio degno di nota per il suo rapido susseguirsi degli eventi. Durante la battaglia dello Jutland (31 maggio-1 giugno 1916), le forze navali inglesi andarono incontro alla flotta tedesca, che aveva preso il largo per forzare il blocco navale e distruggere con una sortita le navi da battaglia inglesi. Questi riuscirono ad intercettare i messaggi radio germanici e ad anticipare le mosse dei tedeschi. Nella prima fase della battaglia, gli incrociatori corazzati del Reich, pur numericamente inferiori, riuscirono ad affondare due unità britanniche e ad attirare le rimanenti verso sud, dove era il grosso delle forze tedesche. Gli inglesi, in fuga di fronte alla superiorità del nemico, si fecero inseguire a nord, mettendo di fronte ai tedeschi le loro corazzate e infliggendo gravi danni alla flotta germanica, che riuscì tuttavia ad affondare un altro incrociatore. Il passaggio da una guerra posizionale-navale ad una guerra di movimento si avrà finalmente con l'impiego massiccio dei sommergibili.
Nel 1914, tutte le nazioni belligeranti possedevano delle piccole flottiglie di sottomarini. La Germania fu la nazione più impegnata nello sviluppo di tale arma. I motivi di questo impegno vanno cercati semplicemente in una scelta strategico-militare da parte dei Comandi tedeschi, costretti in qualche modo a dover colmare la differenza di tonnellaggio di superficie rispetto ai paesi rivali. É altresì vero che se le nazioni alleate avessero fatto altrettanto, costruendo anche loro un numero cospicuo di sommergibili, esse non avrebbero avuto lo stesso risultato; non avrebbero,cioè, avuto obbiettivi da colpire, in quanto le navi tedesche, militari e mercantili, erano pressoché bloccate nei porti per via del blocco.
L'offensiva sottomarina tedesca, volta a strangolare economicamente la Gran Bretagna, può essere divisa in tre momenti diversi. In una prima fase, si ebbero attacchi quasi esclusivamente contro navi militari; in un secondo momento si moltiplicarono gli attacchi contro navi civili e da carico; dopo il 1917, con una flotta operativa di oltre 100 battelli, iniziò la guerra ai convogli. Quest'ultimo frangente fu il più cruento, e la perdita di mercantili alleati arrivò a una media di circa 630.000 tonnellate al mese.
Dopo il 1918, la produzione di navi da scorta da parte dei paesi alleati aumentò considerevolmente, diminuendo significativamente le perdite subite tra i mercantili e infliggendo gravi perdite alla flotta sottomarina tedesca.
La guerra per il controllo dei traffici dell'atlantico, può essere quindi considerata come una vera e propria trasformazione del conflitto in mare, sostenendo la teoria del concetto di guerra di movimento e non più quindi esclusivamente posizionale, come era stato, in via concettuale, il blocco continentale. Considerando tali osservazioni nel loro complesso, non sarebbe perciò possibile dare un giudizio univoco alla prima guerra mondiale, considerandola come esclusivamente guerra di posizione. Ciò può essere vero solo su un piano quantitativo e complessivo degli eventi, ma risulterebbe discutibile se considerata su un piano prettamente dottrinale.

Massimiliano Italiano

LA SOCIETÀ ITALIANA NEL PRIMO DOPOGUERRA.

Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, la situazione economica in Italia era molto difficile a causa degli enormi debiti contratti all’estero, ed in particolare quelli con gli Stati Uniti, oltre che per la debolezza della lira, che si svalutava sempre più rapidamente. Il mercato internazionale era soggetto ad una forte contrazione a livello commerciale per diversi motivi: principalmente a causa dell’uscita dell’Unione Sovietica, che limitò gli accordi commerciali con i paesi occidentali per evitare condizionamenti politici; quindi per le misure protezionistiche adottati da alcuni Stati, ed infine a causa del Dollaro americano, che si stava proponendo sui mercati come la nuova moneta forte, soppiantando la sempre più debole Sterlina inglese.Tutto questo si ripercuoteva negativamente su tutte le classi sociali italiane, traducendosi con una maggiore pressione fiscale ed un aumento del costo della vita e della disoccupazione, che raggiunse limiti mai toccati prima di allora. Tutto ciò suonò come un tradimento per i reduci che tornavano dal fronte: nessuna delle promesse fatte per mantenerli buoni nelle trincee durante il conflitto era stata infatti mantenuta. L’aumento della pressione fiscale bloccava infatti gli investimenti, creando nuova disoccupazione. Ma la cosa peggiore era costituita dal fatto che, gli introiti derivanti dal gettito fiscale, servivano anche per restituire, con i relativi interessi, i debiti che lo Stato aveva contratto durante la guerra per coprire le spese militari. Questi debiti derivavano dall’immissione sul mercato di Buoni del Tesoro, acquistati da coloro che la guerra la vedevano solo sulle pagine dei giornali e che ora reclamavano il frutto dei loro investimenti. Anche gli operai dell’industria premevano per l’accoglimento di una serie di rivendicazioni economiche, ed in particolare per la giornata lavorativa ridotta a otto ore ed un controllo operaio sulla produzione, oltre a rivendicazioni di ordine politico, come ad esempio una partecipazione di rappresentanti delle forze operaie nell’amministrazione dei comuni. Anche nelle campagne, i braccianti ed i contadini si battevano per il possesso delle terre. Queste agitazioni non potevano non impensierire gli industriali e i grandi latifondisti che si sentivano fortemente minacciati da queste agitazioni sociali, dai continui scioperi e dalle sempre più frequenti occupazioni di fabbriche e terreni. In questo scenario, il fossato che divideva interventisti e neutralisti, divenne ancor più profondo. I contadini per esempio, pur partecipando alle lotte sociali, si allontanarono sempre più dal partito che in questo settore era più attivo: il Partito Socialista. Quest’ultimo, continuava ad attaccare i politici e i militari che avevano voluto la guerra senza poi preoccuparsi dei problemi di quella parte della popolazione che l’aveva fatta: principalmente i contadini appunto, dato che gli operai erano necessari nelle fabbriche per alimentare la produzione bellica. Gli ex combattenti, al loro ritorno dal fronte non trovarono le terre che erano state loro promesse al momento della partenza e neppure un posto di lavoro, occupato da quelli che essi definivano gli imboscati. Tra i reduci vi erano anche centossessantamila ufficiali congedati, che avevano grossi problemi di reinserimento nel mondo del lavoro. La maggior parte di essi provenivano dalla media borghesia e nella vita civile precedente la guerra avevano svolto lavori da impiegati, commessi o piccoli professionisti. Durante la guerra essi si erano abituati a comandare sui loro sottoposti e come ufficiali avevano sempre avuto a disposizione una discreta quantità di denaro da spendere. Per loro era quindi molto più difficile tornare al ritmo della vita di tutti i giorni. Per questa ragione la maggior parte di questi uomini entrò fin dal momento della sua fondazione nel movimento fascista, dopotutto chi esaltava le doti degli ufficiali e dei militari in genere, chi gettava benzina sul fuoco del risentimento nazionale era la destra.

LE ELEZIONI POLITICHE DEL NOVEMBRE 1919
A causa dell'insuccesso ottenuto dalla delegazione italiana alla Conferenza di Pace, il Governo presieduto da Orlando si dimise. Il suo successore, Francesco Saverio Nittiinserì nel proprio esecutivo molti ministri dell'area di Giolittisperando in tal modo di poter continuare a sostenere il ruolo di arbitro della politica. Ma la situazione economica dell'Italia era molto grave e l'inflazione erodeva progressivamente le conquiste economiche raggiunte a prezzo di dure lotte dai lavoratori. La politica finanziaria adottata da Nitti per rallentare l'inflazione e risanare il bilancio pubblico non ebbe l'effetto sperato : non convinse gli imprenditori e scatenò l'ira popolare che si tradusse nelle sommosse contro il carovita, che scoppiarono in diverse città della penisola nel mese di Luglio. La crisi dello Stato liberale venne sancita dalla nascita nel gennaio del 1919 del Partito Popolare Italiano, fondato dal sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo. Questo partito aggregava tutte le forze cattoliche del Paese presenti in molti strati della popolazione, contendendo ai partiti della destra una buona fetta degli elettori delle classi rurali. La vecchia politica ricevette un forte scossone: fino a quel momento i capi del Governo avevano sempre avuto a che fare con delle correnti, più che con dei partiti veri e propri, per cui era sufficiente contattare un singolo deputato per averne l'appoggio. In questo caso però, il Partito Popolare si presentava strutturato e compatto proprio come un partito moderno: esso era infatti collegato al mondo dei lavoratori per mezzo di un sindacato cattolico, laConfederazione Italiana dei Lavoratori ed era presente in diversi organismi di grande importanza per la vita sociale ed economica del Paese, quali le Casse Rurali e le cooperative, solo per citare le più importanti. In base a ciò non era più possibile stabilire alleanze o prendere decisioni con incontri di corridoio, ma per fare accordi era ora necessario conferire direttamente con la segreteria del nuovo partito. Prima delle elezioni, accadderò due fatti estremamente importanti: il 20 ed il 21 luglio, vi fu uno sciopero generale a sostegno delle repubbliche di Russia e Ungheria e contro l'intervento delle maggiori potenze in quell'area. Doveva trattarsi di un grande sciopero a livello internazionale ma riuscì solo in Italia. A seguito di questo evento, il 7 agosto, il governo presieduto da Nitti richiamò in Patria il corpo di spedizione italiano inviato in Russia. Il secondo grave fatto fu l'occupazione di Fiume avvenuta il 12 settembre e compiuta da un corpo di spedizione composto da volontari e guidato da Gabriele D'Annunzio. A seguito di quell'azione, negli ambienti della destra si pensò che il poeta fosse l'uomo giusto per mettere ordine nella politica italiana. Ma nella realtà quest'impresa servì solo ad entusiasmare qualche nazionalista convinto e una buona parte della gioventù, ma la maggior parte della popolazione era ormai stanca di gesti velleitari; in particolar modo essa non piacque alla media e grande borghesia, che alle azioni clamorose avrebbero preferito più ordine nel Paese e una maggiore stabilità economica e politica. Fu in questo modo che si iniziò a prendere in maggior considerazione la figura di Mussolini, che pur appoggiando dalle colonne del Popolo d'Italia l'impresa di D'Annunzio, non attaccava in modo aperto il governo. Alle elezioni che si tennero a novembre, i Fasci di combattimento, che si presentarono nell'unica lista di Milano, ottennero solo 4.795 voti, contro i 170.000 dei socialisti ed i 64.000 dei popolari della stessa circoscrizione. I partiti tradizionali uscirono sconfitti dalle elezioni perdendo molti seggi. Il risultato più eclatante lo ottenne il Partito Popolare Italiano, che divenne il secondo partito nazionale con il 20,5 % dei voti e 100 deputati. Ai socialisti andò il 32,4% dei voti, il doppio rispetto al risultato ottenuto nella tornata elettorale del 1913. Da queste elezioni risultava chiaro che gli italiani avevano espresso la loro fiducia ai partiti che rappresentavano le posizioni neutraliste.

LO SQUADRISMO FASCISTA TRA IL 1920 ED IL 1921.
La fine dell' occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920, segnò l'inizio del progressivo declino del movimento operaio e di un'aumento delle azioni delle squadre fasciste. Inizialmente finanziate dai grandi proprietari terrieri, le camicie nere trovarono negli industriali un nuovo e più cospicuo appoggio finanziario; inoltre esse godevano di una larga tolleranza da parte delle forze dell'ordine. Nel primo semestre del 1921 vennero occupate, devastate, distrutte o date fiamme circa duecento Camere del Lavoro, una ventina di tipografie e sedi di testate giornalistiche, ed un certo numero diCase del Popolo cooperative; la stessa sorte toccò a circa centocinquanta sezioni dei partiti socialista e comunista, una trentina di sedi sindacali ed un cospicuo numero di circoli culturali. Vennero anche dannegiate o distrutte una decina di biblioteche e altrettanti teatri popolari, oltre ad una cinquantina di circoli operai ed un elevato numero di abitazioni private. Negli scontri fra le squadre fasciste ed i socialisti i morti accertati furono 207, mentre più di 800 furono i feriti. Molto illuminante è anche il dato degli arresti e dei denunciati: più di 1400 gli attivisti socialisti arrestati dalle forze dell'ordine, contro poco più di 400 fascisti; circa 620 socialisti vennero denunciati a piede libero contro 878 fascisti. Innumerevoli furono i casi di non luogo a procedere nei confronti degli squadristi fascisti.Per rendere ancora più teso il clima, ebbero inizio una serie di attentati contro obbiettivi civili:il più efferato fu senza dubbio quello avvenuto il 23 marzo del 1921 contro il Teatro Diana a Milano, nel quale persero la vita ventuno persone e quasi duecento rimasero ferite. La stessa sera le squadre fasciste milanesi partirono alla volta della sede del quotidiano socialista Avanti da poco ricostruita e la distrussero nuovamente. Era il marzo del 1921 e le elezioni politiche erano previste per il 15 maggio successivo. Il Partito Socialista stava attraversando un momento di profonda crisi che si era concretizzata nel gennaio nel corso del congresso di Livorno, durante il quale ci fu una scissione interna che sancì la nascita del nuovo Partito Comunista Italiano, che si riconosceva nella III Internazionale. Il capo del Governo Giolitti, tentò di approfittare di questa momentanea debolezza della sinistra ed inserì Mussolini ed i suoi collaboratori nelle liste del Blocco Nazionale, un insieme di partiti che comprendeva democratici, liberali e nazionalisti. Egli continuò a lasciare mano libera alle camicie nere, i cui capi andavano assumendo giorno dopo giorno sempre più fama: l'avvocato Roberto Farinacci a Cremona, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Arpinati a Bologna. Alcuni tra loro erano lautamente stipendiati dai grandi proprietari terrieri e tutti erano abbondantemente riforniti di camion e armi sia dagli agrari che dai militari, godendo inoltre di una certa immunità.Le elezioni di maggio videro una tenuta della sinistra e una crescita del Partito Popolare. Il tentativo di Giolitti di portare via voti ai socialisti e ai popolari con il suo blocco nazionale, fallì miseramente. Questa sua mossa avventata avvantaggiò i fascisti, che riuscirono a portare in Parlamento ben 35 deputati. Mussolini era felicissimo per l'ottimo risultato ottenuto: in aula occupò l'ultimo posto a destra, e nel corso del suo primo discorso parlamentare, il 21 giugno, precisò subito che la sua sarebbe stata una politica di destra, enunciando quelli che poi sarebbero stati i punti base della sua attività. Il nuovo governo formato da Giolitti durò poco più di un mese e venne poi sostituito da un governo di centrosinistra guidato da Ivanoe Bonomi. Anch'egli si trovò con le mani legate nei confronti delle azioni condotte dalle squadre fasciste, poichè era stato eletto nel blocco nazionale e quindi anche con i voti dei fascisti. Nell'estate del 1921, per far fronte alle continue violenze delle camicie nere, prese vita un movimento che assunse la denominazione di Arditi del Popolo, che nelle intenzioni dei fondatori avrebbe dovuto arginare la violenza delle squadre fasciste.Inizialmente essi vennero appoggiati sia dai socialisti che dai comunisti, che in seguito presero poi le distanze da questo movimento, che indebolito dalle defezioni giunse a stringere una tregua ufficiale con i dirigenti fascisti.

GLI SCIOPERI DEL 1920
Gli scioperi contro il costo della vita iniziati nel 1919, continuarono anche per tutto il 1920. Tutte le categorie ne furono coinvolte ed in tutte le regioni italiane. Il numero degli iscritti alla Confederazione Generale del Lavoro, la CGL, in pochi anni si quadruplicò, superando di larga misura il numero di un milione e mezzo di adesioni. Per risolvere quello che per il Governo rappresentava un grosso problema sotto tutti gli aspetti, il Presidente del Consiglio Nitti, nell'aprile del 1920 varò una iniziativa tra le più impopolari dalla fine della guerra: il Governo decise infatti di tesserare la vendita di alcuni prodotti di prima necessità quali il pane, la pasta, l'olio, il burro ed i formaggi. Per rispondere alle agitazioni di piazza ormai sempre più frequenti, Nitti decise di utilizzare il sistema del bastone e della carota. Gli scontri fra le forze dell'ordine ed i manifestanti furono molto aspri e alla fine si contarono circa 150 morti tra i lavoratori ed un numero infinitamente minore tra le forze di polizia e dell'esecito.Alla Guardia Regia, istituita da Nitti come forza di repressione, si affiancarono i fascisti, che iniziarono in quel periodo le loro prime spedizioni punitive contro gli avversari politici e contro alcune istituzioni: nel febbraio del 1920, una squadra fascista assaltò la sede della Camera del lavoro di Bari devastandola. Lo sciopero non fu l'unica forma di lotta adottata dai lavoratori, già dal primo semestre del 1920 si assistette alle prime occupazioni di fabbriche. La sinistra appoggiava queste azioni, ma era spaccata al suo interno: mentre la CGL desiderava mantenere la lotta nell'ambito delle rivendicazioni sindacali, i socialisti insistevano sull'aspetto puramente politico, senza tuttavia appoggiare uno sblocco rivoluzionario della situazione, sostenuta invece da molti operai e da alcuni intellettuali socialisti, che facevano sentire la propria voce per mezzo di una rivista uscita a Torino il 1° maggio del 1919: L'Ordine Nuovo, fondata da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. Davanti ad una situazione che precipitava di giorno in giorno, gli industriali fecero fronte comune e nel marzo del 1920 nacque la Confederazione Generale dell'Industria. La prima dimostrazione di forza del padronato avvenne nelle Indistrie Metallurgiche a Torino: davanti alle pressanti richieste normative e salariali rilanciate dal sindacato, la proprietà decise il licenziamento di tre dei membri della commissione interna e con la chiusura degli stabilimenti. A seguito di ciò vi fu uno sciopero generale che coinvolse tutti i lavoratori piemontesi. Nel frattempo, a causa dei continui insuccessi e della sua ormai scarsa popolarità, Nitti fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni. Al suo posto fu richiamato l'ormai anziano Giolitti, che non commise l'errore del suo predecessore, e anzichè inviare la forza pubblica a sedare le manifestazioni di piazza, cercò di sedare i disordini con la trattativa: promise di colpire i profitti di guerra, di rendere più trasparenti i titoli azionari con la nominatività, di introdurre imposte sulle successioni e di permettere lo sfruttamento delle terre incolte. In politica estera, egli risolse con la diplomazia la questione di Fiume, lasciatale in eredità dal precedente governo. Il 12 novembre del 1920, a Rapallo venne siglato un accordo con la Jugoslavia che pevedeva l'attribuzione all'Italia della città di Zara, mentre Fiume sarebbe divenuta città libera. D'Annunzio, che non accettò il trattato, venne fatto sgomberare dalla città con la forza alla fine di dicembre. Per quanto concerneva la politica interna, Giolitti continuò a giocare la carta della trattativa e delle riforme, riuscendo in tal modo a mantenere la situazione sotto controllo, anche se le lotte operaie si estesero dal Piemonte a tutto il territorio nazionale. Ciò avvenne nel mese di agosto, quando la Federazione degli Operai Metalmeccanici, la FIOM, invitò tutti i lavoratori del settore a scendere in campo per ottenere dei miglioramenti salariali. Il 31 dello stesso mese, la Confindustria proclamò la serrata di tutti gli stabilimenti, a cui fece seguito, nei giorni seguenti, l'occupazione delle fabbriche ad opera dei lavoratori. La produzione non subì rallentamenti, nonostante l'opera di ostruzionismo messa in atto dalle banche e il boicottaggio delle materie prime, ma venne condotta direttamente dagli operai. Anche in questo caso Giolitti rimase fermo, nonostante il parere negativo degli industriali, che avrebbero preferito l'uso della forza. Egli riuscì invece a far dialogare i padroni ed i sindacati, che raggiunsero un accordo sugli aumenti salariali e approvarono congiuntamente un disegno di legge riguardante il controllo della produzione da parte degli operai, disegno di legge che non giunse mai all'attuazione effettiva. Se da una parte Giolitti indugiva davanti agli scioperi e alle occupazioni della sinistra, dall'altra egli temporeggiava anche nei confronti delle attività delle squadre fasciste che, secondo i suoi piani, avrebbero potuto fargli comodo in funzione antisocialista. Questa inattività del Presidente del Consiglio, dava credito a certe voci secondo le quali, a seguito del trattato di Rapallo, Mussolini avrebbe rinunciato a sostenere la causa di D'Annunzio in cambio della libertà d'azione delle camice nere. Gli episodi di violenza erano ormai all'ordine del giorno, fino a giungere verso l'ultimo quarto dell'anno ad una situazione di guerriglia quotidiana. Nonostante tutto, nelle elezioni amministrative di novembre, i socialisti mantennero gli stessi voti conquistati nelle precedenti elezioni del 1919, riuscendo a conquistare più di duemila Comuni, fra i quali Milano e Bologna.In Emilia, la vittoria della sinistra fu schiacciante: vennero conquistati ben 233 Comuni su un totale di 280. Questa travolgente vittoria, ottenne il risultato di far aumentare in quella regione le azioni delle squadre d'azione fasciste, sostenute finanziariamente dai grandi latifondisti locali che non vedevano di buon occhio le amministrazioni di sinistra.


DALLA CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE ALLO SCIOPERO LEGALITARIO DEL 1° AGOSTO DEL 1922

Durante il primo conflitto mondiale la grande industria conobbe un grandissimo sviluppo: per motivi bellici, lo Stato richiedeva infatti di tutto, dal materiale bellico ai capi di vestiario e al cibo riservato ai militari al fronte. Per rendere meglio l’idea dello sforzo bellico delle industrie italiane, basti pensare che l’Ansaldo, una delle maggiori operanti in Italia nel periodo, mentre in tempo di pace dava lavoro a circa quattromila operai, durante la guerra ne contava più di cinquantacinquemila. La stessa cosa successe alla FIAT, che dai cinquemila operai del tempo di pace, arrivò a contarne fino a cinquantamila. Per far fronte alle esigenze belliche, nei quattro anni del conflitto, l’Ansaldo produsse oltre undicimila cannoni, dieci milioni di proiettili, circa quattromila aeroplani e un centinaio di navi militari di diverso tipo. I grandi profitti derivanti da questa straordinaria produzione, portarono il capitale sociale dell’azienda dai trenta milioni di lire precedenti alla guerra a circa cinquecento milioni al suo termine. Nel panorama economico-sociale del Paese, assunsero sempre più importanza dei personaggi lontani dei vecchi centri di potere: ai grandi proprietari terrieri, si sostituirono gli industriali arricchiti dalla guerra, che si organizzarono nella Confindustria. Al termine della guerra, in Italia come nel resto d’Europa, si venne a creare il problema della conversione dell’industria da bellica ad uso civile. Ma purtroppo in quel periodo vi era una diffusa stagnazione dei mercati mondiali, aggravata in Italia dalla scarsa competitività dei prodotti industriali nazionali, dovuta in parte alla dissennata politica di protezione doganale fino ad allora praticata dal governo italiano. Mentre gli altri Paesi dettero inizio all’allargamento del mercato interno, in Italia gli industriali preferirono mantenere bassi i salari, precludendosi anche questa possibilità. All’estero l’industria si attivò riuscendo a compiere la propria conversione con i grandi profitti derivati dalla produzione bellica, nel nostro Paese gli industriali attesero l’intervento dello Stato: i governi Giolitti e Bonomi, non solo non intervennero in aiuto all’industria, ma colpirono i profitti di guerra non reinvestiti. Le grandi industrie cresciute a dismisura durante la guerra, iniziarono a dare segni di cedimento, ed alcune di esse crollarono sul finire del 1921. Fra esse l’Ansaldo e l’Ilva, che trascinarono nel loro fallimento la Banca Italiana di Sconto, rovinando migliaia di piccoli risparmiatori che vi avevano depositato i loro risparmi. Per far si che lo Stato concedesse il proprio aiuto all’industria, occorreva un nuovo governo non più legato ai vecchi possidenti, ma bensì un governo che lasciasse alla nuova classe dirigente libertà di azione. Fu da quel momento che gli industriali iniziarono a vedere in Mussolini il possibile nuovo capo del governo. Gli agrari, più conservatori, avrebbero preferito il proseguimento dello Stato liberale, ma si accorsero che ormai la cosa era improponibile. La guerra aveva definitivamente emancipato gli operai ed i contadini, che nella vita terribile passata nelle trincee fece conoscere ad individui, che se non fosse stato per la guerra non sarebbero mai usciti dal luogo natio, cose ed idee nuove. Il suffragio universale si abbattè come una mannaia ed il nuovo sistema elettorale proporzionale, rese ancora più difficile la manipolazione dei risultati elettorali. L’alternativa ai fascisti era costituita dai socialisti, che avrebbero attuato chissà quali riforme, mentre Mussolini avrebbe probabilmente mantenuto l’inviolabilità della proprietà privata. Il 2 febbraio del 1922, cadde il governo Bonomi, preceduto da due fatti importanti per il mondo cattolico: dal 20 al 23 novembre del 1921, si tenne a Venezia il congresso del Partito Popolare Italiano, mentre il 22 gennaio del 1922 morì papa Benedetto XV. Dal congresso dei popolari emersero le due anime del partito: la destra che avrebbe voluto un’alleanza con i fascisti e con i conservatori non cattolici, e la sinistra, che rappresentava la maggioranza assoluta del partito, che avrebbe voluto intavolare delle trattative con i socialisti, ma solo nel caso che questi avessero tralasciato ogni velleità rivoluzionaria. Anche il Partito Socialista era diviso al suo interno in Massimalisti, ancorati saldamente alle idee di Marx, ed i socialisti di destra, che essendo in minoranza, non erano in grado di imporre al partito la loro volontà, che consisteva nella possibilità di formare un nuovo governo con i cattolici. In questo clima si inserì la Santa Sede, nella persona del nuovo papa Pio XI. In quegli anni, lo Stato del Vaticano era in condizioni economiche alquanto precarie, e già dai tempi di Pio IX, le offerte che giungevano alle casse di San Pietro dai fedeli di tutto il mondo cristiano, bastavano appena a coprire le necessità interne. Le cose non migliorarono nè sotto il pontificato di Leone XIII e neppure sotto quello di Pio X, che si vide addirittura costretto a vendere i doni più preziosi ricevuti dai fedeli. Quando iniziò la Prima Guerra Mondiale papa Benedetto XV vide diminuire drasticamente i contributi all’Obolo di San Pietro da parte di Francia e Belgio. Questi due Paesi continuarono a non inviare contributi in Vaticano anche dopo la guerra, così come pure la Germania e l’Austria. Gli unici introiti sicuri provenivano quasi interamente dal Nord e dal Sud America. Ad aggravare la situazione economica della Chiesa, intervenne la legge varata da Giolitti nel 1920, che obbligava i possessori di titoli sia pubblici che privati, a registrarli sotto il loro nome. I capi delle organizzazioni delle associazioni e degli ordini religiosi che possedevano questi titoli, erano infatti persone piuttosto anziane e quindi, in caso di decesso, si sarebbero dovute pagare imposte di successione molto alte che avrebbero fatto correre il rischio di perdere la quasi totalità del capitale. A complicare le cose, il Banco di Roma, nel quale erano depositati gran parte dei soldi del Vaticano e di numerose altre organizzazioni cattoliche, era sull’orlo del fallimento. I precedenti governi liberali non fecero nulla per salvare la Banca Italiana di Sconto e a maggior ragione non ci si attendeva nulla di buono dai socialisti. Ai motivi di ordine finanziario si aggiunse anche il fatto che quando era arcivescovo di Milano, Achille Ratti, ora papa Pio XI, era noto per le sue idee conservatrici e nonostante la base del Partito Popolare fosse nella sua stragrande maggioranza democratica, egli dalle pagine dell’Osservatore Romano prese sempre posizioni più vicine alla destra, boicottando in ogni modo un possibile avvicinamento tra cattolici e socialisti. La ricerca di un successore di Bonomi, non fu affatto facile. Occorreva infatti formare un governo in grado di porre fine alla guerra civile in atto e che riprendesse in mano le forze di polizia e dell’esercito. La scelta cadde infine su Luigi Facta, considerato come succube di Giolitti, che ricevette i voti dei liberali, dei conservatori, dei popolari e dei fascisti. Le Camicie nere si erano intanto impadronite della maggior parte dei comuni della Valle Padana, della Toscana, dell’Umbria e della Puglia, dove imposero le dimissioni dei sindaci regolarmente eletti e l’allontanamento dei prefetti non graditi. Il 12 maggio esse occuparono Ferrara, il 30 Bologna e quindi Rimini e Adria. Il 12 luglio del 1922 vennero assediate Viterbo e Cremona. In quest’ultima città erano molto forti le Leghe bianche, rappresentate in città dal deputato cattolico Guido Miglioli. Le squadre di Farinaccioccuparono prima la prefettura, quindi devastarono le sedi delle organizzazioni operaie e per finire infierirono sull’abitazione del Miglioli. Il Fascismo, appoggiato dai militari, agiva ormai come uno Stato nello Stato, senza che il governo Facta intervenisse in alcun modo. Il 19 Luglio il governo si dimise e si aprì una nuova lunga crisi. Mentre Giolitti, Bonomi ed Orlando iniziarono ad intessere delle trame segrete intese a traghettare i fascisti nel futuro governo, vi fu un avvicinamento tra i socialisti e i cattolici, che fece subito pensare ad un’alleanza in funzione antifascista. Ma la situazione era ormai incontrollabile per le forze democratiche, soprattutto a causa della forte compromissione dell’esercito con le azioni commesse dalle squadre fasciste e dal veto posto da Giolitti circa un’unione tra cattolici e socialisti. Nel frattempo i fascisti continuarono ad occupare con la forza paesi e città: il 29 luglio fu la volta di Ravenna, dove vennero incendiate la sede principale delle cooperative e un edificio storico che fu abitazione di Byron. Una delle pochissime città che si ribellarono a questa forma di occupazione fu Parma, nella quale gli Arditi del Popolo, appoggiati dalla maggior parte della popolazione, si scontrarono vittoriosamente con le squadre di Balbo e Farinacci, riuscendo perfino ad ottenere la neutralità dell’esercito. In questo clima, l’alleanza del Lavoro, organizzazione fondata dal Sindacato dei ferrovieri, alla quale avevano dato la propria adesione la Confederazione Generale del Lavoro, l’Unione Sindacale e il Sindacato dei lavoratori Portuali, fissò per il primo di agosto uno sciopero generale a carattere nazionale, definito Legalitario, poichè tramite esso si intendeva chiedere il ripristino della legalità e di misure atte a porre fine alle violenze perpetrate dai fascisti. Diverse erano le speranze riposte nella manifestazione dai sui promotori: gli anarchici ed i comunisti speravano ancora in una rivoluzione, i moderati nell’indignazione generale antifascista che rendesse possibile la formazione di un governo democratico di sinistra. I Popolari, che non vennero interpellati in merito, si schierarono per il no allo sciopero, lo stesso Don Sturzo, era convinto che l’alleanza sindacale fosse stata manipolata da agenti provocatori. I fascisti colsero l’occasione mobilitandosi allo scopo di far fallire lo sciopero che essi dichiararono illegale e annunciarono che se lo Stato non fosse intervenuto entro quarantotto ore , i fascisti avrebbero agito in sua vece. Lo scipero fu un fallimento e coinvolse solo una parte dei lavoratori e della popolazione, ma malgrado ciò si verificarono ugualmente gravi incidenti fra fascisti e manifestanti. Alle 12 del 3 agosto, gli organizzatori dello sciopero ne annunciarono la fine. La rappresaglia fascista non si fece attendere: in pochi giorni vennero occupate decine di comuni e anche Milano, roccaforte socialista venne presa d’assalto. La sede dell’Avanti venne nuovamente distrutta. Le camicie nere entrarono a Palazzo Marino, sede del comune, con il consenso del prefetto della città. Queste azioni furono il preludio alla Marcia su Roma, che sancirà la presa del governo da parte di Mussolini.

LE ORIGINI DEL FASCISMO
La parola “fascismo” deriva dal fascio di verghe che erano portate nell’antica Roma da appositi addetti chiamati “littori”, (da qui la denominazione “fascio littorio”). I fascis littorii erano le guardie del corpo personali del magistrato e rappresentavano il potere che avevano di uccidere il re. Tra le verghe del Fascio, o lateralmente, vi era inserita una scure, che però in età repubblicana veniva tolta quando si era all’interno della città. Dopo la disfatta di Caporetto, il termine Fascio cominciò ad essere legato alla necessità di un’unione nazionale al di sopra degli interessi dei partiti. Come tale, ma accompagnato da rivendicazioni rivoluzionarie, l’emblema romano venne accolto da Benito Mussolini, divenendo il simbolo dei Fasci di Combattimento e in seguito del Partito Nazionale Fascista, per simboleggiare l’unione del popolo italiano e per volersi ispirare alla potenza e alla grandezza del popolo romano. Per i giovani la Prima Guerra Mondiale era stata un’avventura, un’esperienza vissuta con l’esaltazione dell’eroismo e del coraggio, ma il disastro morale sopraggiunse quando si scoprì che era una guerra nuova, lunga, di logoramento. Così si accusò il Parlamento e i partiti di disfare con vuote polemiche quello che i combattenti conquistavano col sangue. Queste accuse, anche se prive di fondamento, prepararono il terreno per i futuri semi dei movimenti combattentistici; vale a dire: arditismo, futurismo politico, fiumanesimo, fascismo. I movimenti combattentistici fecero della partecipazione alla guerra l’origine, legittima, del loro diritto al potere e alla guida del paese rinnovato. Dovevano, infatti, salvare la patria dal nemico interno, come l’avevano salvata da quello esterno, e rinnovarla, attraverso vari propositi: purificazione morale, lotta all’analfabetismo, giustizia per tutti, riconoscimento dei diritti delle donne, istituzione del divorzio, riforma del costume. Il movimento non presentò solo quest’aspetto, in alcuni nuclei di minoranza, dai quali sorse la prima classe dirigente fascista, fu la premessa di un’ideologia sovversiva, che voleva la distruzione degli istituti liberali e l’esaltazione del ruolo avuto dalle aristocrazie guerriere, in particolare gli arditi. Questi ultimi, che rifiutavano di riprendere un posto nel “sistema” una volta finita la guerra, furono guardati con sospetto o corteggiati, soprattutto dai partiti estremi, che tentarono di accaparrare per sé quel capitale d’energie e d’individui pronti a tutto, privi di scrupolo ed efficaci combattenti. Durante la guerra gli arditi avevano goduto, in compenso del rischio, particolari privilegi, senza dover subire la logorante vita di trincea. Essi quindi avevano vissuto la guerra soltanto come spettacolo del loro eroismo individuale, esibito sempre ai limiti della morte. N’era derivato un gusto per il temerario, una familiarità con la morte stessa, che diventava quasi un desiderio d’apparire tanto coraggiosi e superiori alla massa comune, da amare la morte e da assumerla a simbolo del loro valore. Gli arditi erano convinti di aver acquisito valori e qualità che li rendevano superiori alle masse. Sorsero così formazioni d’arditismo, corpi scelti destinati alle azioni più pericolose, con simboli che rispecchiavano il loro carattere e la loro esaltata psicologia; simboli “strani” in cui tornava sempre il colore, l’immagine, l’idea della morte (stendardi neri, teschi col pugnale fra i denti). Gli arditi furono certamente fra i primi a distinguere il combattentismo fra partecipazione attiva, aristocratica e partecipazione di massa, passiva e incosciente. L’istintiva neutralità delle masse era un fatto indiscutibile, comune sia alla borghesia sia al proletariato, ma dovuto più ad un naturale sentimento di evitare il peggio, che ad una convinta adesione a teorie pacifiste. L’aspetto più interessante della loro “ideologia”, fu l’esaltazione della giovinezza e dell’azione, ideologia efficace nell’attrarre i giovani, specialmente quelli che non avevano fatto la guerra. Al contatto con futuristi e fascisti, gli arditi aspirarono a formulare la loro dottrina sulla base dell’esperienza della guerra, dando vita a una contestazione verso la società borghese, rivolta soprattutto verso la sua mentalità, piuttosto che verso i suoi fondamenti. Sul piano politico chiedevano l’annessione delle terre italiane e delle terre necessarie alla grandezza della nazione, la riforma elettorale, la Costituente, la rappresentanza dei combattenti, la revisione dei contratti di guerra, l’incriminazione dei profittatori e infine, l’espropriazione dei capitali e nuove leggi sul lavoro. Attivismo, nazionalismo (esaltazione dello stato nazionale, considerato come ente indispensabile per la realizzazione delle aspirazioni sociali, economiche e culturali di un popolo) e giovinezza sono caratteri dell’arditismo che il fascismo fece suoi. Gli arditi fornirono alla forza nascente del fascismo quadri attivi, armati, esperti nelle azioni rapide, pronti alla violenza e allo scontro fisico, poco o per nulla rispettosi delle idee altrui. Inoltre l’arditismo fu il metodo di lotta del fascismo, che ne prese anche i simboli e lo stile (la camicia nera). All’interno dell’estremismo combattentista, l’unico gruppo che avesse un’ideologia, a cui attinsero arditi e fascisti, era quello futurista. Nato come movimento artistico nel 1909, il futurismo fu la prima avanguardia del Novecento che, per la sua polemica contro le radici dell’arte (no scuola classica, no città monumentali) e della cultura tradizionale, investiva tutto il mondo di valori, di abitudini, di istituzioni legato a quello della cultura stessa (Filippo Tommaso Martinetti). Al centro dell’ideologia futurista vi era la concezione della vita come movimento verso il futuro e la libertà assoluta dell’individuo come il valore fondamentale; perciò questa ideologia non ammetteva né leggi, né religione, né tradizioni. Per il futurismo parlare di solidarietà e di uguaglianza, in senso assoluto, era in linguaggio passatista. La lotta quotidiana, l’aggressività dei forti verso i deboli, erano considerate norme valide sia per gli individui e sia per i popoli, perché erano necessarie per eliminare gli elementi decadenti, deboli e corrotti. Da queste premesse di darwinismo sociale, i futuristi negarono la solidarietà fra gli esseri umani e fra i popoli, ed esaltarono le virtù della giovinezza, il coraggio, l’amore del rischio e dell’avventura, che servivano appunto per selezionare gli uomini nuovi dalla massa dei vecchi inerti. Anche la violenza era accettata, essendo vista come manifestazione dell’esuberanza e dell’insofferenza dei giovani per la politica delle parole e dei compromessi. I futuristi quindi accolsero con viva approvazione la decisione di Mussolini di fondare i Fasci di combattimento e ne furono i primi animatori ed organizzatori. La data di nascita ufficiale del Fascismo viene comunemente fatta coincidere con questa fondazione (23 marzo 1919). Mussolini però intendeva dar vita ad un movimento più che ad un partito, quest’ultimo, infatti, fu creato soltanto il 7 novembre 1921. Il tentativo di teorizzare il fascismo fu affrontato nel giugno del 1932, con la pubblicazione del XIV volume dell’Enciclopedia Italiana contenente la voce Fascismo a firma di Benito Mussolini. Il saggio si divideva in due parti ben distinte: le Idee fondamentali e la Dottrina politica e sociale; la prima, a carattere teorico e dottrinale, fu scritta, in realtà, da Giovanni Gentile (1875 – 1944), la seconda, più “politica” in senso stretto, da Mussolini. I punti che il filosofo sviluppò nel suo scritto sono: la coincidenza di prassi e pensiero, la polemica antiliberale e la differenziazione dai nazionalisti. Nel binomio pensiero e azione il filosofo siciliano vedeva, infatti, la più netta e decisa presa di posizione contro la tradizione italiana, di origine appunto rinascimentale, che mirava a separare l’uomo di pensiero dai problemi della società, cioè della politica. Nel suo testo Gentile analizza “che cos’è” il fascismo e a quali concezioni politiche esso si oppone. Il fascismo è prassi, in quanto è inserito in uno specifico momento storico, ma è anche pensiero poiché contiene in sé un ideale che lo eleva a formula di verità. E’ una concezione spiritualistica, ma non è scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come lo sono, in generale, le dottrine che pongono il centro della vita fuori dell’uomo. Il fascismo vuole un individuo attivo, che concepisca la vita come lotta e che capisca che solo lui può conquistarsi l’esistenza che vuole. Per questo viene data grandissima importanza alla cultura in tutte le sue forme (arte, religione, scienza) e all’educazione. Esso è anche una concezione religiosa, in cui l’uomo è visto in rapporto con una Volontà superiore e obiettiva che lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Inoltre è una concezione storica, nella quale l’uomo “esiste” solo in rapporto con la società, la famiglia, la nazione e la storia. Per questo motivo viene dato gran peso alle tradizioni, ai costumi, alle memorie e alle norme del vivere civile, contrariamente a quanto professava il futurismo politico. Ha una concezione antiindividualistica dello Stato, ed è quindi contro il socialismo poiché non esistono né individui, né partiti fuori dello Stato. Al tempo stesso però il fascismo è contro la democrazia, che “ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più” (segue il darwinismo sociale dei futuristi). Per Gentile, e quindi per Mussolini, non è la nazione a generare lo Stato, ma il contrario, perché esso dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà e un’effettiva esistenza. Lo Stato disciplina tutti gli individui, ispirando con i suoi principi le personalità di ognuno; per questo il fascismo è educatore e promotore di una vita spirituale, volendo rifare l’uomo stesso, il suo carattere e la sua fede. La sua insegna è perciò il fascio littorio, simbolo dell’unità, della forza e della giustizia.

LA NASCITA DEL PARTITO NAZIONALE FASCISTA
Se nel 1919 e nel 1920 le spedizioni punitive delle camicie nere furono quasi sempre a livello locale e piuttosto estemporanee, dall’estate del 1921 vi fu un radicale cambiamento nel modus operandi. Nelle squadre d’azione iniziarono infatti ad aver un peso sempre maggiore i militari: ciò portò ad un miglioramento nell’organizzazione e nella disciplina di questi uomini e in una vera e propria programmazione delle azioni da compiere. In questo modo ai fascisti fu possibile puntare a bersagli che non erano più i singoli individui, ma bensì i comuni retti dalle giunte socialiste. La tecnica più utilizzata consisteva nel far convergere nel luogo scelto per l’azione, migliaia di squadristi che potevano giungere anche da molto lontano. Una volta completata l’adunata, aveva inizio l’opera di devastazione della Camera del Lavoro locale, delle sedi delle cooperative, dei circoli ricreativi operai e delle abitazioni degli attivisti socialisti. Infine le squadre fasciste si ponevano alla ricerca del Sindaco e dei membri della giunta e del consiglio comunale, che una volta scovati venivano costretti con la forza a rassegnare le proprie dimissioni. Avvenuto ciò giungeva il Prefetto che provvedeva a nominare un commissario, che naturalmente era una persona di provata fede fascista, che aveva il compito di amministrare la località. Ma non tutte le città che ebbero la sventura di essere liberate dalle squadre fasciste erano amministrate dai socialisti. Uno degli esempi più illuminanti in questo senso fu senza dubbio l’azione che, il 12 luglio del 1921, portò alla cacciata da Treviso della giunta retta da membri del Partito Popolare Italiano di Don Sturzo. Nel frattempo all’interno del movimento fascista ebbero inizio i primi dissidi . Con l’ingresso in Parlamento di un buon numero di deputati del proprio schieramento, Mussolini tentava in ogni modo di dare una parvenza di legalità al suo movimento ed in questo senso accettò la mediazione dell’allora Presidente della Camera Enrico De Nicola, che il 2 agosto del 1921, portò ad un patto di pacificazione con i socialisti. Ma già il 16 agosto i Fasci dell’Emilia Romagna, riuniti in congresso a Bologna, ribadirono la non accettazione del patto da parte loro, seguiti circa un mese più tardi da quelli della Toscana, e il 28 settembre da quelli dell’Umbria e a seguire da tutti gli altri. I grandi capi dello squadrismo, come Roberto Farinacci il Ras di Cremona, Dino Grandi,capo indiscusso del fascismo bolognese, Italo Balbo, capo delle squadre ferraresi e il barese Caradonna, si schierarono apertamente contro Mussolini. Essi continuarono le loro azioni contro le giunte popolari e contro i comunisti, che non avevano voluto scendere a patti con i fascisti. In questa occasione, Mussolini ebbe modo di esprimere tutta la propria capacità nel gestire la situazione che era venuta a crearsi e nel manovrare gli uomini: con grande clamore egli si dimise dalla Commissione esecutiva dei Fasci. In realtà, stava meditando di trasformare il movimento dei Fasci di Combattimento in un partito politico, mantenendo però operative sia le squadre d’azione che i loro capi. Al Terzo congresso nazionale dei Fasci, che si tenne a Roma dal 7 al 10 novembre del 1921 e che sancÌ la nascita del Partito Nazionale Fascista, Mussolini fece il proprio intervento senza più parlare di dimissioni e con tono conciliante verso coloro che lo avevano criticato. L'abbraccio con Grandi sancì l'avvenuta riappacificazione. Sempre nel corso di quel congresso venne reso pubblico il programma del nuovo partito che rispetto a quello del precedente movimento dei Fasci di Combattimento prevedeva molti cambiamente sostanziali: vennero rimossi tutti i punti considerati socialisteggianti e quelli sfavorevoli al capitalismo; divenne inoltre palese l'avvicinamento alla Confindustria tramite alcune dichiarazioni liberiste. Anche la monarchia fu rassicurata circa il proprio futuro: venne infatti rimosso dal programma ogni accenno alla repubblica.

LA NASCITA DEI FASCI DI COMBATTIMENTO
Il 23 marzo del 1919, in Piazza San Sepolcro, Benito Mussolini fondò i Fasci di combattimento, che rappresentavano l'evoluzione dei precedenti Fasci di azione rivoluzionaria. Fra i circa cento presenti nella sala dell'Alleanza industriale e commerciale, spiccavano i nomi di alcuni noti personaggi: Michele Bianchi, Ferruccio Vecchi, Filippo Tommaso Marinetti e altri. Il programma di questo nuovo movimento rappresentava un misto di nazionalismo, antisocialismo e anticapitalismo; un movimento quindi buono un pò per tutti. Nelle sue file militavano infatti ex combattenti, studenti, contadini, rappresentanti della piccola borghesia e industriali. I punti del programma, vennero raggrupati da Mussolini in quattro grandi problemi: la politica, il problema sociale, quello militare e il problema finanziario. Sotto il problema politico, era indicato un punto dedicato ai giovani e che riguardava l'abbassamento a 18 anni per gli elettori e a 25 anni per poter essere eletti deputati. Veniva quindi una proposta di abolizione del Senato, i cui membri venivano nominati direttamente dal re e una politica estera più dinamica, che contrastasse quella vigente, che secondo Mussolini tendeva a stabilizzare l'egemonia delle vecchie potenze plutocratiche. Il problema sociale era poi particolarmente sentito, e ad esso vennero dedicati ben 10 punti del programma: per quanto riguardava la classe operaia, venivano accolte le giuste rivendicazione per una diminuzione delle ore lavorative, che avrebbero dovuto essere portate a otto; per una partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico delle industrie; per un'affidamento ai sindacati della gestione delle industrie stesse e dei servizi pubblici, ed infine un riordino dei trasporti e la modifica dell'età pensionabile, che sarebbe stata vincolata all'usura dovuta al tipo di lavoro svolto. Anche i contadini ed i reduci erano citati in questa parte del programma: veniva infatti previsto l'obbligo ai proprietari di coltivare le terre, precisando che i terreni incolti sarebbero stati espropriati e ceduti alle cooperative contadine, favorendo soprattutto i reduci di guerra; veniva inoltre previsto un intervento contributivo dello Stato per la costruzione di case coloniche. Per quanto riguardava la scuola, era previsto che lo Stato avrebbe dovuto inserire nel proprio bilancio, i fondi necessari a coprire le spese per garantire l'istruzione scolastica obbligatoria. Riguardo alla burocrazia, la riforma prevedeva il decentramente del personale e una sana epurazione che avrebbe garantito l'ingresso di elementi più idonei e produttivi. La questione militare comprendeva un unico punto nel quale, facendo riferimento alla politica estera futura, si sosteneva la necessità di periodi di breve durata ma frequenti, di addestramento militare, in modo tale da poter fare dell'Italia una Nazione pronta a sostenere eventuali conflitti nel modo più idoneo possibile. La parte del programma riguardante la finanza, risultava senza dubbio la più provocatoria; nei suoi punti si citavano fra l'altro: una forte imposta straordinaria sul capitale, che avrebbe dovuto avere un carattere progressivo, una vera e propria espropriazione parziale di tutte le ricchezze; il sequestro dei beni appartenenti alle congregazioni religiose e la chiusura delle mense vescovili, viste come una grande fonte di passività per la Nazione e un privilegio a favore di pochi; una revisione di tutti i contratti sulle forniture di guerra, ed il sequestro dei 3/4 dei profitti di guerra. I punti del programma non furono dei principi assoluti, anzi, essi venivano, a seconda delle necessità del momento, o in base alla platea alla quale Mussolini si rivolgeva, ribaditi o elusi, in modo tale da aggregare al movimento sempre più larghi strati della popolazione. Il vero volto dei Sansepolcristi, si rivelò in tutta la sua drammaticità il 15 aprile 1919 a Milano, dove una squadra di fascisti, attaccò violentemente un gruppo di lavoratori in sciopero che si stavano recando all'Arena. Nello stesso momento, un altra squadra assaltò la sede del quotidiano socialista Avanti distruggendone gli impianti e gli uffici.

IL PRIMO GOVERNO MUSSOLINI
Con le sue sole forze alla camera dei Deputati, Benito Mussolini non avrebbe mai potuto formare un proprio governo. Ma grazie ai contatti e alle trattative che egli condusse per tutto il mese di ottobre, le bastò inserire qualche esponente liberale, democratico e popolare nella compagine governativa e tra i sottosegretari, per raggiungere il proprio scopo. Il 19 novembre del 1922, la Camera votò con larga maggioranza la fiducia al Governo Mussolini. Fra coloro che votarono a favore, figuravano nomi importanti del panorama politico italiano: Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi, Orlando, e anche due personaggi destinati a divenire molto importanti nel futuro: Gronchi, futuro presidente della Repubblica Italiana nel dopoguerra, e Alcide De Gasperi, futuro Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra. Qusti voti vennero dati a Mussolini, nonostante egli, in occasione della presentazione alla Camera del nuovo esecutivo, avesse minacciato i deputati presenti, facendo loro presente che se solo avesse voluto, avrebbe potuto facilmente ottenere con la forza la fiducia del Parlamento. Tutto ciò avvenne senza che l’allora Presidente della Camera dei Deputati Enrico De Nicola, che diverrà in seguito il primo Presidente della neonata Repubblica Italiana, intervenisse, anzi, egli diede il proprio voto al nuovo Governo. A fine novembre, anche il Senato accordò la fiducia al Governo Mussolini, che non ancora soddisfatto, il 24 novembre chiese ed ottenne dal Parlamento i pieni poteri per un anno. I suoi primi decreti legge vennero accolti come un ringraziamento da quanti lo avevano sostenuto nella sua scalata al potere: industriali e ricchi possidenti terrieri. Venne infatti abolita la nominatività dei titoli azionari, alla quale fecero seguito le privatizzazioni e la soppressione della tassa di successione familiare. Vennero quindi ridotte l’imposta sugli immobili, e sulla ricchezza mobile, estesa anche agli stipendi dei lavoratori pubblici e parastatali. I possidenti terrieri vennero invece premiati con lo sblocco dei fitti e con il blocco di ogni progetto di riforma agraria: a subirne le conseguenze furono i contadini ed i mezzadri, gravati di una nuova imposta. A subire le maggiori ritorsioni furono i ferrovieri, che con la loro lotta erano stati un esempio per tutte le altre categorie di lavoratori: molti di loro vennero licenziati con la scusa di un esubero di personale o con altre motivazioni. la festività del 1° Maggio venne abolita e al suo posto venne inventato il Natale di Roma, che cadeva il 21 aprile. Nel corso di quel periodo nel quale Mussolini ebbe i pieni poteri, venne costituito un esecutivo che divenne successivamente organo costituzionale: il Gran Consiglio del Fascismo. Il Vaticano ricevette rassicurazioni circa il salvataggio del Banco di Roma; il costo dell’operazione ricadde poi sulle spalle dello Stato e di conseguenza degli italiani. Per ingraziarsi ulteriormente le gerachie vaticane, venne resa obbligatoria la presenza del crocifisso in tutti gli edifici e uffici statali, e verranno concessi aumenti di rendite ai parrocci e ai vescovi. Inoltre seminaristi e sacerdoti vennero esentati dagli obblighi militari. Il 14 gennaio 1923venne costituita la Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, nella quale affluirono le fedeli camicie nere, che giuravano fedeltà a Mussolini ma non al re. Questo corpo paramilitare svolgeva compiti di polizia territoriale ed era stipendiata dallo Stato. Per entare a far parte di questi reparti, occorreva essere iscritti al Partito Nazionale Fascista. Tutti coloro che in precedenza erano a capo delle squadre fasciste, che in precedenza si erano macchiate dei più svariati crimini, divennero ufficiali della M.V.S.N. il cui primo console, grado corrispondente a quello di colonnello, fu Piero Brandimarte, che si era messo in evidenza a Torino dove rivestiva la carica di capo del Fascio. Fra il 18 ed il 22 dicembre 1922 a causa dell’uccisione di un fascista, vennero assassinati 22 attivisti di sinistra, mentre due riuscirono miracolasamente a fuggire mettendosi in salvo. Gennaro Gramsci, scambiato per il più famoso fratello Antonio Gramsci, venne assalito e preso a bastonate, mentre tutti i giornalisti del quotidiano Ordine Nuovo vennero duramente perseguiti. In quei giorni a Torino venne incendiata la locale Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri ed altri centri di aggregazione appartenenti ad organizzazioni di sinistra, o legate al movimento operaio. Nelle contempo, nelle altre città italiane imperversavano bastonate ed olio di ricino. Tutti questi fatti vennero denunciati dal deputato socialista Giacomo Matteotti. Tra il 1° novembre 1922 ed il 31 marzo 1923, secondo alcune fonti ufficiali, i fascisti commisero più di 100 omicidi, per i quali nessuno venne mai condannato.

LA MARCIA SU ROMA
Fra l’agosto ed il settembre 1922, le azioni di violenza da parte delle squadre fasciste non cessarono, facendo registrare decine di omicidi, pestaggi e danneggiamenti di vario genere ai danni di abitazioni private e edifici appartenenti alle associazioni politiche di sinistra, o comunque non favorevoli al fascismo. Nel frattempo Facta, il cui Governo era stato sfiduciato il 19 luglio, ottenne alla Camera dei Deputati la fiducia per il nuovo esecutivo, che nell’insieme risultò essere più debole del precedente. Il 20 settembre apparve sulle pagine del Corriere della Sera, una lettera che alcuni deputati del Partito Popolare avevano inviato a Don Sturzo, per metterlo in guardia circa la posibilità di stringere alleanze con il Partito Socialista. La paura di un’alleanza di quel genere, crebbe ulteriormente dopo la fine del congresso dei socialisti, tenutosi a Roma dal 1° al 3 di ottobre, nel corso del quale, la corrente di destra del partito si staccò dal movimento creando un nuovo partito politico: il Partito Socialista Unitario, alla cui segreteria venne designato Giacomo Matteotti. Si formò così alla Camera un gruppo di socialisti disposti ad appoggiare un governo di centrosinistra e a farne parte integrante. Questa situazione non fece piacere al Vaticano e neppure ai cattolici conservatori. Altri esponenti politici, appoggiati dai grandi industriali e dai latifondisti, speravano ancora di poter riportare il Fascismo ad una parvenza di legalità per potersene servire per i propri scopi e per difendere i propri interessi, minacciati dalle leggi proposte dal nuovo governo di centrosinistra, che sarebbero state molto dannose per i loro patrimoni. Mussolini nel frattempo si preparava a compiere un’azione di forza, mantenendo comunque ancora aperte delle trattative con i più importanti esponenti politici dell’epoca quali Giolitti, Nitti, Orlando e Facta. Il 16 ottobre si tenne a Milano una importante riunione alla quale presero parte i principali capi delle camicie nere e perfino dei generali dell’esercito in pensione. Fu in quell’occasione che venne creato il Quadrumvirato formato da Italo Balbo, Emilio De Bono, De Vecchi e Bianchi; quest’ultimo era il segretario del Partito Nazionale Fascista. A questo Quadrumvirato venne assegnato come compito principale l’organizzazione della mobilitazione e della strategia militare da adottare. La decisione di anticipare i tempi per l’azione di forza, venne presa il 4 novembre nel corso del congresso del PNF a Napoli, e venne ufficialmente annunciata il 27 di ottobre. Il quartier generale venne stabilito a Perugia. Mussolini non era presente, infatti, al termine del congresso si recò a Milano, dove attese l’evolversi degli eventi. La sera del 27 ottobre, il re Vittorio Emanuele III,che si trovava nella residenza di San Rossore, rientrò precipitosamente a Roma, e nel corso della nottata,tutti i prefetti ricevettero l’ordine di passare i propri poteri alle autorità militari. Purtroppo, salvo rare eccezioni,queste confinarono i propri reparti nelle caserme, lasciando che i fascisti occupassero tranquillamente i punti strategici quali gli uffici telefonici e telegrafici, le stazioni ferroviarie, i ponti e le sedi dei quotidiani, ma soprattutto i depositi di armi e munizioni. Questi ultimi furono molto importanti, poichè pochi fascisti disponevano di armi da fuoco regolari. Il numero esatto dei componenti di questo esercito improvvisato non si conoscono a tutt’oggi: l’unica cosa certa e che essi erano ancora fuori da Roma il 28 ottobre, mentre Facta si recava dal re per farle firmare il decreto per lo stato d’assedio. In quelle ore Vittorio Emanuele III aveva ascoltato i consigli e le pressioni che le giungevano da parte di una serie di importanti personalità in massima parte arroccate su posizioni filofasciste: l’ammiraglio Thaon de Revel, il generale Armando Diaz, il generale Cittadini, aiutante di campo del sovrano, ed il rappresentante dei nazionalisti Federzoni. Quando a corte giunse la voce che il duca d’Aosta Emanuele Filiberto, cugino di Vittorio Emanuele III, si era incontrato con i capi fascisti ed in quel momento si trovava nei pressi di Perugia, al re parve subito chiaro che si era già trovato il suo sostituto, e si rifiutò di firmare il decreto dello stato d’assedio. Appena si sparse la notizia, migliaia di fascisti si riversarono nelle strade: prendendo d’assalto i treni essi marciarono su Roma inneggiando a Mussolini, ponendo in questo modo una seria ipoteca sul candidato che i militari ed i nazionalisti avevano proposto al re, ovvero Salandra, che comunque non sarebbe riuscito ad ottenere la fiducia. Infatti la Confindustria fece sapere che avrebbe gradito come Presidente del Consiglio solo Mussolini. Non firmando lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele III si precluse anche la possibilità di poter scegliere in nuovo Premier. Il 29 ottobre inviò un telegramma a Mussolini, che si trovava ancora a Milano, invitandolo a Roma. Questi raggiunse il re il giorno successivo in treno. In quel momento la preoccupazione maggiore era generata dall’esercito di camicie nere accampato alle porte della capitale. Per risolvere il problema senza generare incidenti, vennero messi a disposizione delle squadre fasciste che ancora dovevano raggiungere Roma, dei treni e altri mezzi di locomozione, alfine di consentire loro di raggiungere il punto di adunata senza creare problemi. Per quelli che invece erano già giunti nei pressi della capitale, vennero trovati degli alloggi di fortuna e serviti dei pasti caldi, in attesa che giungessero gli altri. Finalmente, nel pomeriggio del 31 ottobre, i primi fascisti mobilitatisi per l’impresa, con le altre migliaia di camicie nere che giunsero successivamente, entrarono trionfanti a Roma. La Marcia su Roma segnò l’inizio dell’era fascista e la fine della democrazia in Italia.

LA RIFORMA ELETTORALE DEL 17 LUGLIO 1923
Raggiunta la presidenza del Consiglio dei Ministri, Mussolini, non ancora soddisfatto del fatto che il Partito Nazionale Fascista non avesse la maggioranza assoluta in parlamento, decise che era giunto il momento di riformare la legge elettorale. Fino a quel momento l’Italia era suddivisa in ampi collegi elettorali, in ognuno dei quali ciascun partito otteneva un numero di deputati proporzionato al numero dei voti conquistati dalla propria lista. Il progetto di legge presentato in aula dal sottosegretario fascista agli Interni Giacomo Acerbo prevedeva la somma dei voti raccolti nei vari collegi, ed il partito che fosse riuscito ad ottenere il risultato migliore, con un tetto minimo posto al 25%, avrebbe ottenuto automaticamente due terzi dei seggi in tutti i collegi elettorali, ottenendo in tal modo la maggioranza assoluta in Parlamento. Anche se al termine del loro congresso, i popolari si erano schierati per il mantenimento del sistema proporzionale, essi cercarono un compromesso, che venne esposto dall’Onorevole Alcide De Gasperi alla Commissione della Camera riunita per discutere la riforma della legge elettorale. Questi propose che il partito che avesse raggiunto il 40% dei voti avrebbe ottenuto il 60% dei seggi; naturalmente la proposta venne sdegnosamente rifiutata dai fascisti, che non si discostarono dalle loro posizioni iniziali. Essi misero in atto una campagna intimidatoria nei confronti dei popolari e degli altri oppositori, sia per mezzo della stampa, oppure con il supporto della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, che ormai svolgeva attività di presidio costante a Montecitorio. Il 10 luglio la legge venne infine portata in Parlamento per essere illustrata e votata. Il giorno successivo, Don Sturzo diede le proprie dimissioni dalla segreteria del Partito Popolare Italiano. Il fatto ebbe molto rilievo sulla stampa nazionale dell’epoca: la dirigenza fascista, aveva infatti informato il Vaticano di non poter più garantire l’incolumità di Don Sturzo e dei sacerdoti in genere. Fu quindi il Vaticano stesso che convinse il segretario dei popolari a dimettersi. Queste dimissioni furono il risultato di un incontro che Mussolini aveva avuto poco tempo prima con il Cardinale Gasparri: nel corso dell’incontro Mussolini assicurò all’alto prelato, che si sarebbe attivato per salvare il Banco di Roma, chiedendo in cambio del favore le dimissioni di Don Sturzo. Nel frattempo, la riforma scolastica presentata dal Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, introdusse l’Esame di Stato, mentre le scuole private e religiose ottennero le stesse condizioni delle scuole pubbliche. Subito dopo le dimissioni di Don Sturzo, vi fu una vera escalation di azioni violente perpetrate dalle squadre fasciste e rivolte soprattutto contro le sedi delle varie organizzazioni cattoliche: queste azioni avevano come obbiettivo, quello di far capire ai più recalcitranti, che era meglio sottomettersi al nuovo stato di cose, sia dentro che fuori dal Parlamento. Anche alcuni sacerdoti caddero vittime della cieca violenza fascista: il caso più eclatante fu l’assassinio ad Argenta(FE) di Don Giovanni Minzoni, parroco della cittadina e organizzatore della gioventù cattolica locale. Il povero sacerdote venne assassinato la notte del 23 agosto da tre uomini, che pare fossero stati inviati da Italo Balbo, per zittire un personaggio scomodo. Il 15 luglio la camera dei Deputati votò a larga maggioranza la fiducia al Governo. Il 17 luglio toccò alla legge elettorale. Nei quattro giorni durante i quali la legge restò all’esame del Parlamento, i popolari tentarono ancora, ma invano, di trovare un compromesso che accontentasse le parti. Solo due giorni prima, Mussolini, in un discorso conciliante rivolto a tutta l’assemblea parlamentare, fece intendere che se la legge Acerbo fosse stata approvata, le violenze e gli omicidi sarebbero terminati, poichè sarebbe venuto a mancare l’oggetto del contendere.Naturalmente la legge venne approvata, e Vittorio Emanuele III, quello stesso giorno, firmò il decreto. Il 13 novembre anche il Senato diede la sua approvazione alla riforma della legge elettorale. Il 1923 volgeva al termine, ed il 1924 si presentava come foriero di imminenti sventure.

DALLE ELEZIONI DEL 6 APRILE 1924 AL DELITTO MATTEOTTI
La campagna elettorale fascista causò un incremento delle violenze commesse dalle squadre di camicie nere. Ai candidati dei partiti antifascisti fu praticamente impedito di tenere i propri comizi elettorali: gli unici manifesti elettorali visibili sui muri delle città italiane erano quelli del Partito Nazionale Fascista. La polizia trasse in arresto centinaia di oppositori della nascente dittatura. Antonio Piccininicandidato nel collegio elettorale di Reggio Emilia per il Partito Socialista massimalista, venne assassinato. Ogni partito si presentò alle elezioni con una propria lista, mentre Benito Mussolini presentò un listone composto da 135 candidati fra fascisti, che erano in netta maggioranza rispetto agli alleati, liberali, democratici, socialdemocratici, cattolici e altri. Una buona parte di questi uomini, erano dei politici di vecchia data, che portarono alla lista di Mussolini il proprio prestigio, ma soprattutto i loro colleghi di partito. Fra questi personaggi, i più famosi erano Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Salandra, entrambi ex Presidenti del Consiglio, ed Enrico De Nicola ex Presidente della Camera e primo Presidente della Repubblica nel dopoguerra. Ques’ultimo ritirò la propria candidatura poco prima del voto, ma non venne mai perseguitato dal fascismo:Mussolini anni dopo lo nominò senatore. Nel corso di questa campagna elettorale, i fascisti utilizzarono per la prima volta la Radio come mezzo propagandistico. Mussolini capì fin dall’inizio la potenzialità di questo mezzo di comunicazione, in grado di far giungere in tutto il territorio nazionale il suo messaggio politico. La mattina del 6 aprile vennero aperti i seggi elettorali, che quasi ovunque erano presidiati da picchetti di fascisti armati. Numerosi furono i casi di violenza a danno di cittadini chesi recavano alle urne. Le irregolarità furono innumerevoli, al punto che in alcuni seggi votarono perfino delle persone decedute. I fascisti ottennero la maggioranza assoluta nell’Italia del sud, mentre nelle città del Nord i partiti antifascisti ottennero numerosi successi. Avendo comunque ottenuto il 66% dei voti totali, il listone proposto da Mussolini si aggiudicò 374 deputati, la maggioranza assoluta, in virtù della Legge Acerbo. Particolarmente penalizzati furono i democratico-liberali che passarono dai precedenti 210 seggi agli agli attuali 45, quindi il Partito Popolare che da 106 passò a 39 seggi; infine i socialisti delle varie correnti, che dai 122 seggi che avevano prima delle elezioni si ritrovarono con 46. Aumentarono i propri deputati il Partito Repubblicano, 7 seggi, il Partito Comunista, 19 seggi e la lista Amendola con 8 seggi. In totale, l’opposizione poteva contare in aula su 159 deputati, divisi fra diversi partiti spesso in lotta tra loro. Gli imbrogli e le intimidazioni messe in atto dai fascisti durante le elezioni del 6 aprile, vennero denunciate il 30 maggio del 1924 in Parlamento, dal deputato dei socialisti unitari Giacomo Matteotti. In un discorso avvincente, fece i nomi e diede il dettaglio dei fatti più incresciosi accaduti in quelle ore, interrotto continuamente dalle ingiurie e dalle grida provenienti dai banchi occupati dai fascisti. Matteotti terminò il proprio intervento dicendo che quele elezioni non potevano essere ritenute valide, sancendo in tal modo la propria condanna a morte. I brogli elettorali furono solo l’ultimo anello di una catena costituita da interrogazioni parlamentari, discorsi e scritti, nei quali egli ebbe il coraggio di denunciare la corruzzione vigente tra i gerarchi e all’interno dei componenti del governo di Mussolini. In effetti, appena arrivati al potere, molti fascisti approfittarono della propria posizione per arricchirsi o per favorire persone a loro vicine. Matteotti denunciò il traffico dei residuati bellici, che costituì una vera e propria truffa ai danni dello Stato; l’acquisto di aziende economicamente dissestate; le tangenti pagate dagli imprenditori in cambio di appalti o favori, concessi senza che venisse presentata una qualsiasi garanzia. Il pomeriggio del 10 giugno, Matteotti venne agredito e rapito da cinque uomini in Lungotevere Arnaldo da Brescia. Il suo corpo venne rinvenuto solo il 16 agosto, maldestramente sepolto nella macchia della Quartarella, situata a nord di Roma. Già il giorno successivo al rapimento, gli italiani reagirono con sdegno: in tutta Italia vennero organizzati degli scioperi spontanei, manifestazioni e cortei. Il 13 giugno i deputati dell’opposizione decisero per protesta di astenersi dai lavori parlamentari.Mentre la gente, senza essere minacciata continuava a portare fiori sul luogo del rapimento, la stampa iniziò ad occuparsi dettagliatamente del delitto. I fatti iniziarono ad apparire anche sui grandi quotidiani a tiratura nazionale, nelle pagine dei quali si facevano anche i nomi dei mandanti: Giovanni Marinelli, tesoriere del Partito Nazionale Fascista, Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa di Mussolini, ed infine Mussolini stesso. Durante quel breve periodo di libertà di stampa, i giornali pubblicarono anche i resoconti di tutte le violenze delle quali i fascisti si erano macchiati precedentemente e sempre taciute all’opinione pubblica. Per le strade le camicie nere diradarono la loro presenza e molti ferventi fascisti stracciarono per protesta la tessera del partito. Nonostante tutto ciò, il 26 giugno il Senato espresse la propria fiducia al Governo Mussolini a grande maggioranza. Nel frattempo, a seguito delle segnalazioni di un testimone oculare che aveva annotato il numero di targa sulla quale venne caricato a forza Matteotti, vennero arestati i componenti del commando che aveva prelevato e successivamente assassinato il deputato socialista: Amerigo Dumini, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Albino Volpi.Emilio De Bono, che in qualità di direttore generale della Pubblica Sicurezza tentò tentò di insabbiare le prove contro Dumini, venne rimosso dal suo incarico e sostituito da Federzoni. I comunisti cercarono di convincere gli altri partiti antifascisti ad abbandonare la cosiddetta protesta dell’Aventino per formare un controparlamento da opporre ai fascisti. Non essendo riusciti nell’impresa decisero di rientrare da soli nell’aula parlamentare. Gli altri partiti, speravano con la loro assenza di bloccare i lavori parlamentari e confidavano in un intervento del re, che loro speravano avrebbe sciolto la camera, visto che il Primo Ministro era coinvolto nell'omicidio Matteotti: ma Vittorio Emanuele III non fece nulla. Mentre gli aventiniani attendevano lo sviluppo degli eventi disertando il Parlamento, i fascisti, che nel frattempo si erano ripresi dallo scossone loro inferto dal grave fatto di sangue, ricominciarono con le loro violenze e Mussolini, nonostante le richieste da parte dei suoi sostenitori più moderati di evitare certi atteggiamenti, riprese i suoi comizi pubblici, nei quali tenne discorsi estremamenti violenti contro i suoi oppositori. Negli ultimi giorni dell’anno, le strade di Firenze rimasero in balia della violenza delle squadre fasciste: la rabbia delle camicie nere si scaricò in modo particolare contro il Nuovo Giornale, la cui sede venne data alle fiamme; anche il Circolo di Cultura e il circolo dei reduci e del loro periodico vennero devastati. Molti danni subirono anche le abitazioni private di deputati dell’opposizione. Chiunque venne a trovarsi sulla strada delle squadre fasciste venne percosso senza motivo. Nei giorni successivi, le stesse imprese si ripeterono in altre città della Toscana, dell'Emilia e della Lombardia.

I MEZZI DI REPRESSIONE DEL FASCISMO. IL CONFINO DI POLIZIA
Autore: Michele Strazza

Nel 1926, nell’Italia Fascista, viene approvato il nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza ( R.D. n.1848 del 06.11.26). L’emanazione era stata preceduta, pochi mesi prima, dalla nomina a Capo della Pubblica Sicurezza del Prefetto Arturo Bocchini che grande parte ebbe nella riorganizzazione dell’apparato repressivo del Regime.
Il T.U.L.P.S. dedicava molto spazio alle misure di prevenzione, strutturate come semplici fattispecie di sospetto, funzionali alla repressione del dissenso politico e dotate di maggiore effettività rispetto alla disciplina repressiva della Legge Penale, sancendo l’ampia applicazione, in nuova forma, di un istituto giuridico già presente nell’Ordinamento: il Confino. Secondo l’art 185 del T.U. il confino di polizia si estendeva da uno a cinque anni e si scontava, con l’obbligo del lavoro, in una colonia o in un comune del Regno diverso dalla residenza del confinato.
Il “domicilio coatto” era stato applicato, dopo l’Unità d’Italia, per la prima volta all’interno della legislazione del 1863 sul Brigantaggio (Legge n.1409 del 1863 c.d. Legge Pica ), come provvedimento provvisorio e di emergenza, ma non aveva dato grossi risultati. L’istituto giuridico, tuttavia, venne introdotto stabilmente nella legislazione ordinaria nel 1865, come completamento logico dell’ammonizione, con l’emanazione del primo Testo Unico di Pubblica Sicurezza ed esteso, inizialmente, ai vagabondi recidivi, agli oziosi ed ai sospetti di alcuni reati.
In seguito, con la legge 294 del 1871, vennero coinvolti tutti gli ammoniti. La misura non poteva essere inferiore a 6 mesi e oltrepassare i 5 anni. La competenza ad emettere il provvedimento era attribuita al Ministero dell’Interno e, successivamente ed entro certi limiti, anche ai Prefetti.
Con il nuovo Testo Unico di P.S. del 1889 (Regio Decreto n.6144 del del 1889) l’ammonizione fu estesa anche ai “diffamati” sottoposti a procedimento penale ed assolti. I “diffamati” erano le persone indicate come colpevoli di certi reati dalla “voce pubblica”. Il domicilio coatto, invece, venne comminato agli ammoniti dopo due contravvenzioni all’ammonizione oppure dopo due condanne, sempre sussistendo la condizione della pericolosità per la sicurezza pubblica.
Nel 1894, infine, Crispi, per combattere le agitazioni contadine ed operaie, introdusse nuove disposizioni “eccezionali” sul domicilio coatto. La misura diveniva, cioè, applicabile nei confronti di chiunque fosse stato processato per delitti contro l’ordine pubblico o contro l’incolumità pubblica, nonché nei confronti dei promotori delle associazioni contro gli ordinamenti sociali.
Tale misura di Polizia, pur conservando certe regole del vecchio sistema, nel 1926 venne estesa ben oltre una generica area di emarginazione sociale, diventando uno strumento cardine del controllo poliziesco del Fascismo. Nel solo periodo novembre-dicembre 1926 vi furono ben 900 assegnazioni al confino.
Rispetto alla precedente disciplina rimase il duplice scopo di tutelare lo Stato contro i pericoli di turbamento della sicurezza pubblica, allontanando dal loro ambiente abituale persone che, per i loro precedenti e la loro condotta, dimostravano persistente tendenza a delinquere. La nuova misura, tuttavia, aveva una netta differenza con il “domicilio coatto” che andava a sostituire. A differenza di quest’ultimo, infatti, poteva essere applicato immediatamente e non solo a seguito di una trasgressione alle prescrizioni dell’Autorità di P.S.
Il confino, se era diretto a colpire le persone pericolose alla sicurezza pubblica, non poteva applicarsi che agli ammoniti, in quanto il provvedimento già adottato non si ravvisasse efficace o sufficiente a impedire attentati all’ordine pubblico; se invece si aveva riguardo all’ordine pubblico poteva applicarsi a chiunque avesse commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali ed economici costituiti nello Stato o a menomarne la sicurezza ovvero a contrastare od ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, in modo da recare comunque nocumento agli interessi nazionali, in relazione alla situazione interna o internazionale dello Stato (Art. 184 del R.D. 06.11.1926 n.1848). Secondo Barile veniva cioè introdotta la “pena per un reato rimasto nella sfera del pensiero”.
A differenza delle sanzioni penali vere e proprie, il confino non richiedeva una responsabilità giudizialmente accertata per fatti considerati dalla Legge come reati, ma soltanto una condotta tale da produrre un pericolo effettivo alla sicurezza pubblica ed all’ordine politico, tanto da indurre l’Autorità a togliere il soggetto pericoloso dal luogo di residenza e sottoporlo a particolare vigilanza per un periodo di tempo che poteva variare da uno a cinque anni. Spesso, però, il limite massimo dei cinque anni non veniva affatto rispettato, nel senso che si procedeva ad una nuova riassegnazione ad altri cinque anni nei confronti di soggetti ritenuti particolarmente pericolosi per non aver modificato le proprie convinzioni sovversive.
Tale misura di Polizia completava, pertanto, la funzione punitiva dello Stato, non lasciando la società indifesa contro coloro che, pur non incorrendo in specifiche condanne per reati, presentavano, in sommo grado, una pericolosità spesso più grave e più nociva di quella derivante dalla consumazione di reati scoperti e puniti. Per tale motivo, venne impiegata indiscriminatamente contro tutti coloro che non sarebbe stato possibile perseguire con i metodi propri della giustizia ordinaria a causa della loro non provata reità.
Alcune volte, addirittura, essa venne usata per evitare la celebrazione di processi, per reati di pertinenza della magistratura ordinaria, a carico di persone note o iscritte al Partito Fascista, onde evitare le inevitabili ripercussioni sull’opinione pubblica.
Il provvedimento era affidato alla facoltà discrezionale della stessa Commissione Provinciale che emetteva le ordinanze di ammonizione, composta dal Prefetto che la convocava e presiedeva, dal Procuratore del Re, dal Questore, dal Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia Fascista, designato dal comandante di zona; svolgeva le funzioni di segretario un funzionario di Pubblica Sicurezza (Artt. 186 e 168).
Non erano prescritte speciali formalità. La proposta di confino veniva formulata dal Questore competente per territorio, sulla base delle risultanze di polizia, mentre era del tutto inesistente il diritto di difesa. La situazione della persona proposta per il confino era, da questo punto di vista, totalmente paradossale anche rispetto agli imputati davanti al Tribunale Speciale che usufruivano, invece, della presenza dell’avvocato difensore. L’ordinanza emessa dalla Commissione Provinciale per l’assegnazione al confino veniva poi trasmessa al Ministero dell’Interno per la designazione del luogo, diverso dalla residenza del confinato (Art.187 R.D. 06.11.26 n.1848).
Era anche previsto un ricorso, nel termine di 10 giorni dalla notifica dell’ordinanza, alla Commissione di Appello, istituita presso il Ministero dell’Interno, composta dal Sottosegretario di Stato all’Interno, che la convocava e presiedeva, dall’Avvocato Generale presso la Corte di Appello di Roma, dal Capo della Polizia, da un Ufficiale Generale dell’Arma dei Reali Carabinieri a da un Ufficiale Generale della Milizia, designati dai rispettivi comandi generali. Qualora il confinato si fosse allontanato dal luogo di confino, sarebbe stato punito con l’arresto da tre mesi a un anno (art. 193), mentre in caso di buona condotta era prevista la liberazione condizionale (art. 191).
Il 25 novembre 1926, con la Legge n.2008 (“Provvedimenti per la Difesa dello Stato”), emanata come legge di emergenza dopo l’attentato Zaniboni a Mussolini, veniva istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da un presidente scelto tra gli ufficiali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dalla quale provenivano altri cinque giudici, ed un relatore scelto tra il personale della Giustizia Militare (Art.7 L. 2008/1926 e decreti di attuazione R.D. 12.12.26 n.2062, R.D. 13.03.27 n.313 e R.D. 03.10.29 n.1759).
Il Tribunale, il quale aveva competenza sui reati politici introdotti dalla nuova normativa e per quelli contro la sicurezza dello Stato, era, in definitiva, un vero e proprio organo di giustizia politica che giudicava secondo la procedura penale in tempo di guerra, con un rito inquisitorio e ridotte garanzia difensive: una fase istruttoria segreta senza patrocinio dell’avvocato, una fase predibattimentale con possibile segretazione degli atti processuali, obbligo del mandato di cattura, impossibilità della libertà provvisoria, non ricorribilità in Cassazione per le sentenze, inesistenza di altri mezzi di impugnazione, ad eccezione della revisione. Quest’ultima, peraltro, era affidata ad un Consiglio di Revisione composto anch’esso da membri scelti tra gli ufficiali dell’esercito e della milizia fascista e presieduto dallo stesso presidente del collegio di primo grado.
Con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931 (R.D. 18 giugno 1931 n.773, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.146 del 26.06.1931) la disciplina delle misure di prevenzione resta sostanzialmente immutata rispetto al 1926, ma viene resa ancora più esplicita la possibilità di ammonire gli avversari politici e destinarli al confino.
Nel luglio del 1931 entra in vigore il nuovo codice penale preparato da Alfredo Rocco e quello di procedura penale. La contemporanea riforma carceraria (R.D. 18.06.1931 n.787) porta altresì ad un notevole inasprimento punitivo. L’apparato legislativo repressivo del Regime ha ormai assunto una forma definitiva ed il confino è diventato il migliore strumento per la lotta gli avversari politici. La genericità delle norme, basate sulla prevalenza dei momenti soggettivi e sganciate da una concreta pericolosità sociale, consentirà un controllo del dissenso molto più penetrante del ricorso ai delitti politici codificati.
Le nuove leggi di P.S. permetteranno, inoltre, un forte collegamento tra misure custodiali e misure di prevenzione grazie alla possibilità dell’arresto immediato delle persone proposte per l’assegnazione al confino ed alla prassi di trattenere in carcere gli imputati prosciolti del Tribunale Speciale, in attesa della valutazione, da parte dell’Autorità di P.S., di adottare o no provvedimenti di Polizia.
Fu proprio il potere di arresto concesso alle Commissioni Provinciali ad amplificare l’efficacia repressiva del confino. Le vittime venivano tenute a lungo in carcere prima che il loro destino fosse deciso. Ugualmente, i prosciolti e assolti per insufficienza di prove che si trovavano in stato di custodia cautelare spesso passavano dalla galera fascista direttamente al confino.
Con la nuova misura, dunque, ai vecchi confinati comuni (delinquenti, prostitute, mafiosi, ecc.) si aggiungono ora tutti coloro che in qualche modo deviano dal “comune sentire” fascista, dimostrando, anche solo vagamente, la loro dissonanza con i valori della Nazione e con i suoi simboli. Antifascisti veri o presunti, semplici mormoratori, sospetti, tutti incappano nelle maglie di questa sanzione che, per l’agilità della procedura e l’ampia discrezionalità di irrogazione, diventa il mezzo più veloce per eliminare soggetti pericolosi o soltanto fastidiosi. A questi si aggiungeranno, con l’abbraccio mortale della Germania e l’entrata in Guerra, gli ebrei, gli zingari, gli irredentisti slavi e tutti i nuovi oppositori politici.
In realtà il confino verrà utilizzato moltissimo anche per casi “marginali”, per soggetti cioè tutt’altro che pericolosi, colpevoli soltanto di aver commesso piccoli gesti di intolleranza, spesso perpetrati in stato di ubriachezza, nei confronti dei simboli del Regime. Saranno, infatti, numerosi coloro che verranno giudicati dalle Commissioni Provinciali soltanto per aver usato parole irriguardose nei confronti del Governo, per aver “maltrattato” il ritratto del Duce o per aver raccontato barzellette su Mussolini. Altre volte si tratterà di soggetti, giudicati sovversivi” soltanto per aver inneggiato in pubblico al Comunismo ed alla Russia oppure per aver cantato “bandiera rossa”.
Anche la distinzione tradizionale tra confinati politici e comuni non sarà mai troppo netta. L’ampia discrezionalità nell’irrogazione della misura di Polizia porterà spesso ad una confusione di tipologie, per cui semplici truffatori verranno ritenuti pericolosi per gli interessi economici dello Stato ed inviati al confino come “politici”.
Sotto l’implacabile scure del confino passò un numero altissimo di italiani. Con nomi noti o sconosciuti, dal fior fiore dell’antifascismo militante fino a semplici sfortunati solo per aver pronunciato, in un momento d’ira, invettive contro il Duce, tutti furono prima arrestati e poi inviati in zone dove dovevano perdere il contatto con il proprio retroterra, affinché fossero messi in condizioni di non nuocere. Si trattò veramente di una migrazione interna di vaste proporzioni che aveva come unico obiettivo quello di ridurre al silenzio quanti si opponevano all’unicità di pensiero del capo. Una vera e propria “persecuzione di popolo”, dunque, ma, come ogni persecuzione, essa fu anche la culla, per coloro che continuarono a tenere duro, nella quale crebbe il senso della democrazia e della tolleranza.

IL FASCISMO DI MUSSOLINI
Autore: Giuseppe Di Summa

Sommario
Capitolo 1 “I fuochi d’artificio“
Capitolo 2 “Fuori il palo e fuori la corda“
Capitolo 3 “La filosofia dei tempi“
Capitolo 4 “Un tratto di fine arte politica“
Capitolo 5 “Vincere e vinceremo!“
Capitolo 6 “Credere, obbedire, combattere“
Capitolo 7 “Capitolazione o resistenza?“
Capitolo 8 “L’impossibilità di continuare“
Capitolo 9 “Mirate al cuore“.


I fuochi d'artificio
In un caldo pomeriggio del 29 luglio 1883, alle due di pomeriggio, nasce a Dovia, piccola frazione di Predappio, Benito Mussolini.
Questo paesino in pieno Appennino non distante da Forlì rimane famoso per avere dato i natali ad uno dei protagonisti indiscussi della vita italiana della prima metà del novecento.
Come molti giovani contestatori trovò casa nel socialismo anche se di stampo “rivoluzionario“ e sin da giovane si distanziò dalla linea moderata del partito negando legittimità all’istituzione parlamentare ed esaltando la rivoluzione.
Qualche anno dopo passata la giovinezza affermerà: “Ho sempre sputacchiato il buon senso dai greci la pazzia era ritenuta d’origine divina, e le rivoluzioni sono le rivincite della follia sul buon senso“.
Anche da socialista comincia a manifestare tendenze ad un suo movimento autonomo con idee che vedono proporsi la creazione di nuovi simboli che esaltino un tempo vissuto nella povertà nell’avvicinarsi di una prossima futura prima guerra mondiale.
Inizia a prendere nette posizioni antimilitaristiche e si allarga anche con intemperanze giovanili in forti affermazioni di carattere ateo definendo Dio come “Un mostruoso parto dell’ignoranza umana“.
Nell’autunno del 1904 fu espulso dalla Svizzera perché renitente alla leva. Il suo ritorno in Italia evitando problemi con la legge fu possibile solo grazie ad una amnistia per festeggiare la nascita del principe ereditario Umberto di Savoia.
Al rientro fu comunque costretto a sostenere il servizio militare.
Mentre era sotto le armi le sue convinzioni antimilitaristiche si placarono e cominciò a farsi anche delle simpatie.
Dopo la leva sembrò lasciarsi tutto alle spalle e ritornò ad essere quello che era prima.
Nel febbraio 1909 fu a Trento dove gli fu affidata la direzione del Giornale “L’Avvenire del Lavoratore“ e la segreteria della Camera del Lavoro.
Risvegliò il giornale col suo dinamismo tanto che Cesare Battisti lo volle come redattore capo al “Popolo“.
In Trentino nella sua breve permanenza ebbe diversi scontri con Alcide De Gasperi giovane leader dei cattolici definendolo con tutta la sua arroganza del tempo in vari modi tipo “pennivendolo“, “uomo senza coraggio“, “intellettivamente stitico“. De Gasperi non gli riservò molto tranne un chiaro “Cannibale Antireligioso“.
Dal Trentino si spostò a Forlì dove nel 1910 diventò segretario della locale Federazione Socialista con posizioni sempre antimilitaristiche anche nei confronti della guerra di Libia definita con sue parole “la nuova avventura africanista“.
Questo fu un momento di consensi tanto che George Sorel di lui disse: “è un condottiero del XV secolo un giorno lo vedrete alla testa di un battaglione sacro“.
In breve tempo portò la tiratura del giornale socialista Avanti! da 28 mila a 100 mila copie.
Nel 1913 si presentò alle elezioni politiche nel collegio di Forlì e ne uscì sconfitto.
Si rifece l’anno dopo venendo eletto consigliere comunale a Milano.
Ormai si avvicinava il primo conflitto mondiale ( 1915-1918 ) è la posizione del nostro Governo fu come tutti sanno dapprima neutralista e su queste posizioni si mantenne anche Mussolini scrivendo anche un articolo dal titolo “Abbasso la Guerra!“ e iniziò dopo alcune riserve una neutralità attiva ed operante.
La sua posizione era comunque destinata a cambiare e senza grandi indugi passo lentamente ma con costanza ad essere favorevole ad un intervento nel conflitto che lo costrinsero ad abbandonare la direzione del giornale socialista.
Il partito mal sopportava le sue posizioni e dopo avere fondato un nuovo giornale "Il Popolo D'Italia" abbandonò le file prendendosi anche i complimenti di uno come Prezzolini che gli scrisse via telegramma “Partito Socialista ti espelle Italia ti accoglie“.
Gli interventisti riuscirono nel loro intento e Salandra il 24 Maggio 1915 proclamò guerra all’Austria.
Quando la nostra nazione entrò nel conflitto la guerra vedeva Austria e Germania vincenti.
Nel 1917 col ritiro della Russia tutto sembrava perduto tanto è vero che gli Austro-ungarici riuscirono ad entrare in Italia vincendo la battaglia di Caporetto.
La situazione fu salvata dall’intervento degli americani e l’Italia si riscattò sconfiggendo definitivamente gli austro-ungarici nella battaglia di Vittorio Veneto.
Nel Novembre 1918, Austria, Ungheria, Germania, Bulgaria ed, impero ottomano furono costretti alla resa. La conferenza di Versailles segnò una serie di umiliazioni per il nostro capo del governo Orlando da far definire da D’Annunzio la vittoria “mutilata“.
Orlando fu sfiduciato dalle Camere e dovette cedere il posto a Nitti.
Dopo la prima guerra mondiale il potere politico andava dalla parte dei lavoratori che dopo avere combattuto non erano più disposti ad essere sfruttati e si vedevano come i protagonisti della scena politica, volevano contare di più.
Le rivendicazioni della classe proletaria si possono evincere dalle dichiarazioni programmatiche del partito socialista nel 1918.
1- socializzazione dei mezzi della produzione
2- distribuzione dei prodotti fatta esclusivamente dalla collettività
3- abolizione della coscrizione militare e disarmo universale, in seguito alla unione di tutte le repubbliche proletari internazionali.
La posizione di Mussolini in questo momento insieme ai suoi primi collaboratori è quella di un esasperato patriottismo di tipo nazionalistico manifestato in maniera confusa in diversi settori (sindacale, giornalistico, politico). Questa confusione portò comunque alla costituzione dei Fasci di combattimento creati nel 1919 che ebbero scarsa incidenza nella vita politica visto che cercarono uno scontro forzoso con i movimenti operai cattolici e socialisti.
I Fasci animarono diversi scontri anche danneggiando sedi e persone che Mussolini motivò in questa maniera: “Il popolo lavoratore avrà il buon senso e la forza di non lasciarsi traviare da coloro i quali mirano a trascinarli alla rovina Viva l’Italia! La nostra patria forte in pace come lo fu in guerra.“
Per i fascisti questi scontri erano giustificati dallo eccessivo uso degli scioperi Carlo Dalcroix scriveva a proposito (Un uomo un popolo) “lo sciopero era diventato una malattia epidemica ed aveva assunto forme croniche e deliranti. Senza vera necessità, spesso con un pretesto, si abbandonavano le fucine ed i campi, trascendendo ad atti vandalici, si facevano spegnere le fornaci; si danneggiavano gli impianti, si lasciavano morire le messi nei solchi, si faceva morire il bestiame nelle stalle. Si videro gli infermieri abbandonare i malati e perfino i becchini rifiutarsi di seppellire i morti; si ebbe anche un comizio di protesta degli accattoni per l’aumento delle elemosine. Salariati ed impiegati di stato davano esempio ed i servizi più vitali erano sottoposti ad un’alternativa di ostruzionismo e di scioperi, le navi ferme nei porti, i treni abbandonati nelle stazioni le città al buio, le folle minacciose e le truppe accampate via; fu questo uno spettacolo durato per anni.“
Dalcroix esasperava da vero sostenitore una situazione in maniera enfatica e polemica ma queste erano in quel periodo le idee di Propaganda di Benito Mussolini.
Nel 1921 Mussolini affermò: “Il movimento operaio deve assumere nuove forme diverse da quelle vecchie e superate del partito socialista : il fascismo sarà la sintesi tra le tesi indistruttibili dell’economia liberale e queste nuove forme del movimento operaio“.
In questo periodo il fascismo inizia a diffondersi soprattutto nelle città dell’Italia Settentrionale e Centrale arrivando ai 310.000 iscritti.
La crisi dei sindacati e del movimento socialista, la delusione e lo smarrimento che ormai serpeggiavano nelle masse fecero intravedere la possibilità di una soluzione autoritaria.
La classe politica italiana era disposta ad accettare la rivoluzione fascista dello stato.
Comuni in molti uomini politici era la convinzione che il fascismo per il suo carattere più emotivo che politico, avesse avuto vita breve Giolitti infatti no dava molta importanza ai fasci e di Mussolini diceva “Sono fuochi d’artificio che fanno molto rumore ma poi si spengono rapidamente“.
Nell’attesa che si spegnessero li si poteva utilizzare. Anche Mussolini sapeva che il suo movimento non godeva d9i grande forza e che vi era il bisogno di dare ai fasci una facciata più rispettabile depurandoli dagli elementi estremisti.
Condusse nel 1921 all’interno del Partito una vittoriosa battaglia contro le correnti di sinistra e si guadagnò la fiducia degli industriali con un programma economico liberista e fece un passo avanti verso la chiesa. Pio XI , eletto nel ’22 non darà l’appoggio della chiesa ai popolari di Don Sturzo contribuendo alla vittoria definitiva del fascismo. Il fascismo si rendeva agli occhi dell’opinione pubblica più rispettabile e molti uomini politici del vecchio stato liberale o gettarono la spugna o passarono dalla parte fascista.

Fuori il palo e fuori la corda
Il partito fascista riusciva ad entrare in Parlamento grazie alle elezioni del 1921 anche se con una rappresentanza tale da non potere determinare gli indirizzi politici.
Le forze maggiori erano il partito socialista e il partito popolare. Ma nel clima politico italiano l’unica novità erano Mussolini e i suoi. Il parlamento non dava segnali di attività; i popolari si videro negare l’appoggio del Vaticano e nel gruppo socialista vi furono grosse divisioni.
Non potendo contare su grandi numeri Mussolini era più invogliato ad utilizzare le folle e nei suoi discorsi iniziò a ricattare apertamente la monarchia; era pronto a guidare un’insurrezione popolare e dalle parole passò ai fatti con una iniziativa che prese il nome di marcia su Roma.
La marcia su Roma fu sicuramente un azione che non richiese grande sforzo bellico e prese il via il 24 ottobre 1922.
L’appuntamento era a Napoli perché proprio in quella città era già da tempo in programma la riunione del consiglio nazionale del partito fascista.
Quando Mussolini arrivò la città era piena di camicie nere ve ne erano circa 60 mila.
Il duce impartì le sue direttive : le squadre dovevano essere pronte per il 26. Il 27 sarebbe iniziata la mobilitazione. Dopo avere impartito i suoi ordini ripartì per Milano. Due gerarchi De Vecchi e Costanzo Ciano si recarono da Salandra e reclamarono le dimissioni del presidente del Consiglio Luigi Facta , gli venne risposto di no, esso era convinto che Mussolini bluffasse. La mattina del 28 il presidente del consiglio venne svegliato da un fascio di telegrammi in cui i prefetti segnalavano che i fascisti erano già in marcia. Facta convocò il consiglio dei ministri che decise di proclamare lo stato d’assedio. La sorpresa per Facta, che non avrebbe mai potuto prevederla , fu che il re si rifiutò di fermare il decreto.
“Queste decisioni– disse - spettano a me………..dopo lo stato d’assedio non c’è la guerra civile…….”
Facta fu così costretto a rassegnare le dimissioni . In un primo momento il re pensò di affidare al Governo a Salandra ma informato telefonicamente Musssolini commentò “non ho fatto quello che ho fatto per provocare la resurrezione di Don Antonio Salandra”
Il re dunque aveva a disposizione un solo nome quello di Mussolini e proprio a capo dei fascisti affidò al nuovo Governo.
La marcia delle camicie nere avvenne ma il suo valore fu simbolico il risultato prefisso era stato ottenuto senza sforzo militare era bastata la minaccia. Il duce arrivò a Roma il 30 Ottobre e dopo avere deposto il suo bagaglio in albergo si presentò in camicia nera al quirinale: “maestà – disse- vi porto l’Italia di Vittorio Veneto“
Formò un Governo composto, oltre che da fascisti da nazionalisti, da liberali.
Il duce tenne per sé i dicasteri degli esteri e degli interni. Mussolini si presentò il 16 novembre alle camere per ottenere la fiducia. Nel suo primo discorso, al Parlamento, affermava con tranquillità: “Le libertà statutarie non saranno vulnerate e la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo“.
Vi furono in quel discorso alcuni passi ormai diventati cavalli di battaglia antifascista:
"Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti………sono qui per difendere e potenziare al massimo grado , la rivoluzione delle camicie nere , inserendola intimamente come forza di sviluppo di progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere . Mi sono imposto dei limiti; mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non si abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli“.
Ad un interruzione di Modigliani che disse “Viva il Parlamento!“ Mussolini rispose: “Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo di soli fascisti“.
Il Governo otteneva 306 si e 116 no.
Durante i primi mesi di Governo prevalse il Mussolini legalitario. La prima impronta del regime si ebbe nel 1923 con l’istituzione di due nuovi organi : la milizia fascista e il gran consiglio del fascismo. La prima era il riconoscimento legale delle squadre d’azione; il secondo era il massimo organo del partito fascista.
Nell’Aprile, sempre più privi dell’appoggio della chiesa, i popolari abbandonarono il Governo.
I successivi mesi portarono l’Italia verso la dittatura. Dittatura che Mussolini realizzò tramite la legge Acerbo che fu la risposta alla possibilità di essere tolto di mezzo dopo l’omicidio Matteotti.
La legge Acerbo aveva il compito di agevolare la creazione di un partito unico (quello fascista naturalmente). La commissione che si occupò di questa legge era composta da: Giolitti ( presidente ), Orlando , Salandra, Bonomi, De Gasperi, Turati e una nutrita rappresentanza di deputati fascisti.
Il regime sentì il bisogno di questa legge perché pur essendo di fatto padrone del paese aveva alla Camera una rappresentanza assai inferiore dei consensi conquistati era dunque ovvio che il duce mirasse a sciogliere anticipatamente la camera ed a indire nuove elezioni. In questa prospettiva, il Governo, fra il luglio e il novembre 1923, fece approvare dalla Camera e dal Senato la nuova legge elettorale , detta appunto Acerbo dal nome del proponente, che prevedeva un larghissimo premio maggioranza (2/3 dei seggi) per la lista che avrebbe raggiunto la maggioranza relativa dei consensi.
Se nessuna lista avrebbe raggiunto il livello prescritto le elezioni si sarebbero ripetute con il sistema proporzionale.
Non è tanto la bontà della legge ma il periodo in cui fu approvata a farcene vedere il mezzo per consentire a Mussolini la dittatura.
Dittatura non instaurata tramite la forza militare , anche se un contributo lo diede anche quest’ultima , ma tramite un’azione politica agevolata dalla mancanza di pesi a difesa della democrazia.
Nel gennaio 1924 la camera fu sciolta e le elezioni vennero indette per il 6 aprile.
Nel “listone“ fascista entrarono uomini come Salandra, De Nicola, Vittorio Emanuele Orlando.
Ai fascisti si contrapponevano i socialisti del P.S.I e del P.S.U, i comunisti, i popolari, i liberali democratici, i repubblicani e altri gruppi minori, uno dei quali capeggiato da Giolitti.
Non fu una campagna elettorale, come era prevedile dal clima instauratosi nel paese, tranquilla e vi furono numerosi scontri ed accuse di intimidazione.
I risultati finali furono favorevoli ai fascisti che ottennero più del 60% dei voti.
Il clima si fece sempre più rovente ed in Parlamento il deputato socialista Giacomo Matteotti elencò le violenze dei fascisti nel periodo preelettorale; l’uccisione del candidato del P.S.I Antonio Piccinni, i bandi imposti ai candidati dell’opposizione, le urne affidate in custodia alla milizia fascista.
Questo discorso tenuto il 20 maggio 1924 provocò violente reazioni nelle file fasciste tanto che il 10 giugno Matteotti fu aggredito a Roma, da quattro squadristi, rapito in automobile e trucidato.
Il suo cadavere fu ritrovato solo il 16 Agosto. Mussolini cercò di controllare l’emozione nel paese facendo arrestare gli esecutori materiali del delitto : Dumini, Volpi , Poveromo , questi i loro nomi.
Nel processo iniziato solo nel marzo 1926 i tre sicari furono condannati a solo 6 anni di carcere. Ma presto furono scarcerati grazie ad un amnistia nel 1947 il processo subì una revisione e gli assassini furono condannati al carcere a vita. L’onda emotiva che attraversò il paese fu fortissima e in quel momento il duce avrebbe potuto perdere tutto. Gramsci in sua lettera descrive così quei giorni:
“Ho vissuto giornate indimenticabili e continuo a viverle. Dai giornali è impossibile farsi una impressione esatta di ciò che sta avvenendo in Italia. Camminavamo sopra un vulcano in ebolizione; di colpo, quando nessuno se l’aspettava, specialmente i fascisti arcisicuri del proprio potere infinito, il vulcano è scoppiato, sprigionando una immensa fiumana di lava ardente che ha invaso tutto il paese, travolgendo tutto e tutti del fascismo. Gli avvenimenti si sviluppano con una rapidità fulminea, inaudita ; di giorno in giorno , di ora in ora la situazione cambiava, il regime era investito da tutte le parti, il fascismo veniva isolato nel paese e sentiva il suo isolamento nel panico dei suoi capi, nella fuga dei suoi gregari“.
Il Governo fu duramente attaccato alla Camera dove tutte le opposizioni, tranne i comunisti, abbandonarono il Parlamento in segno di protesta.
Questa ritirata fu detta dell’Aventino e s’ispirava all’ipotesi che travolto dalla squalifica morale e magari per l’intervento del re, il Governo dovesse dimettersi. Mussolini doveva in quel momento decidere se sfidare l’opposizione o abbandonare il campo. Aiutato da Vittorio Emanuele III che gli confermò la fiducia il duce decise di sfidare i partiti. Rispose alle opposizioni ritirate sull’Aventino nel gennaio 1925 con un discorso in Parlamento dai più definito “Il Battesimo della dittatura mussoliniana“. Il duce nel suo discorso riassunse l’azione del Governo in campo economico e nella politica internazionale. Mettendo l’accento sull’annessione di Fiume dalla Jugoslavia si dichiarò amareggiato che nessuna forza politica volesse partecipare al bagno di giovinezza che aveva rinvigorito l’Italia. Perché tanta ostilità? Perché negare legittimità ad un partito che aveva milioni di consensi? Secondo Mussolini la regola parlamentare era stata rispettata anche se taluni residui di violenza e di illegalità resistevano, ma questo non poteva bastare a mettere sotto accusa un’intera classe dirigente, ecco alcuni passi del suo discorso nel quale praticamente Mussolini si assume la responsabilità del delitto Matteotti.
“Ebbene, dichiarò qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale e storica di quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda.
Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato una associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima politico e morale.
Ebbene a me la responsabilità di questo clima storico politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi. Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo e ricco della mia esperienza di vita in questi sei mesi ho foggiato il partito (……)
Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo castigavo e poi avevo la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino.
L’Italia o Signori vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa, gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. State certi che nelle quarantotto ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area.“
Non passarano infatti più di quarantott'ore perché le sedute della Camera fossero sospese. Nello stesso arco di tempo ai prefetti fu ordinato di provvedere allo “scioglimento di tutte le organizzazioni che sotto qualsiasi pretesto possono raccogliere elementi turbolenti o che comunque tendano a sovvertire; i poteri dello Stato“.
I partiti in pratica venivano chiusi. Mussolini che aveva già la maggioranza in Parlamento era riuscito a trovare il modo di fare tacere le opposizioni. Il discorso del Gennaio del ’25 dava inizio alla dittatura e di conseguenza tutti i settori vitali dello stato, giustizia, economia, cultura furono interessati dalla nuova organizzazione voluta dal regime.

La filosofia dei tempi
Nel corso del ’25 e sino alla fine del ’26 furono varate le cosiddette “leggi fascistissime“ opera di una coppia di ex nazionalisti: Luigi Federzoni, Ministro dell’Interno ed il giurista Rocco, Ministro Guardasiggilli.
La stampa italiana aveva visto la nascita dell’Unità (12 febbraio 1924) ad opera di Antonio Gramsci che sulla rivista Ordine Nuovo scriveva di Mussolini “Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro feroce meccanica, fare venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi: esso è veramente impressionante anche visto da vicino fa stupire: Ma egli è il capo? Il tipo concretato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impastato di tutti i detriti lasciati dal suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva diventare il capo del proletariato, divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che esso sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia“.
A seguito degli avvenimenti del ’25 anche questo tipo di stampa poteva essere un elemento turbolento teso a sovvertire i poteri dello stato e dunque nello stesso anno la libertà di stampa venne soppressa. La giustizia, che doveva occuparsi non solo dei normali reati ma anche di quelli politici, fu interessata da una serie di provvedimenti che andarono dall’introduzione della pena di morte alla istituzione del “Tribunale speciale per la difesa dello Stato“.
Con questo organismo si aboliva la tradizione liberale e democratica che aveva affermato il principio della libertà d’opinione, il regime fascista riprendeva modelli inquisitoriali per colpire la “cospirazione“.
Durante tutta la sua attività che durò dal ’26 alla caduta di Mussolini, il tribunale speciale emise 2319 sentenza (tra di esse 42 condanne a morte). Le sue vittime furono uomini appartenenti per lo più alle classi subalterne del centro–nord.
Diverse furono le personalità che incapparono nel tribunale.
Riportiamo una sentenza del ’29 che riguarda il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini:
Processo a carico di Pertini Alessandro
Avvocato socialista unitario
Già condannato e poi amnistiato nel ’25 per incitamento all’odio di classe.
Già assegnato al confine di polizia nel 1926, espatriò con Filippo Turati il 12.12.26 in Francia dove svolse, con scritti e conferenze, attività e propaganda sovversiva ed antifascista.
Nell’ottobre 1928 impiantò persino in Nizza una stazione radio telegrafica con al quale riuscì a propagare false notizie ai danni dell’Italia.
In occasione del procedimento penale che per tale fatto subì in Francia cercò di trasformare il dibattimento in comizio antifascista.
Chiamando a testimoni del “barbaro dominio“ i più noti fuoriusciti.
Nel marzo u.s si allontanò dalla Francia ed attraversò la Svizzera con passaporto falso, rientrò in Italia.
Venne riconosciuto ed arrestato a Pisa il 14 aprile.
Antifascista fegatoso e spavaldo in udienza ha ammesso ai fatti e dopo la sentenza ha gridato “Viva il Socialismo“.
Condannato a dieci anni e nove mesi di reclusione.
I nostri diplomatici all’estero ricevettero da Mussolini in persona l’ordine di togliere a Nitti la cittadinanza italiana. Nitti era in quel periodo il simbolo dei fuoriusciti (successivamente gli altri fuoriusciti si vedranno levare cittadinanza e beni) ed era sempre stato seguito con una attenzione del duce. Tutto questo avveniva nel giugno del ’25.
Qualche settimana dopo vennero uccisi due fieri oppositori del regime Amendola e Gobetti.
Dopo il ’25 anche l’atteggiamento dei fascisti, verso i comunisti, subì un cambiamento. In un primo momento il duce li aveva esaltati come il “pericolo bolscevico“ tanto temuto dalla borghesia italiana, successivamente però con la nuova situazione creatasi con l’aventino anche l’opposizione comunista venne soppressa.
Ad accorgersi del nuovo orientamento fu Antonio Gramsci che l’8 settembre 1926 venne trasportato in manette a Regina Coeli. Ecco come descrive quei giorni: “Arrestato l’8 di sera alle 10 e 30 e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima”.
Trasferito a Milano nel carcere di San Vittore deve aspettare che l’istruttoria del processo sia ultimata.
Il dibattimento dura dieci giorni e al Presidente che gli dice: “Siete imputato di attività cospirativa, di istigazione alla guerra civile, di apologia di reato e di incitamento all’odio di classe“, Gramsci risponde: “Sono comunista e la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore dell’Unità. Non ho svolto attività clandestina di sorta perché ove avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così, mai lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu esercitata nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la mia migliore difesa (……..)Se d’altronde l’essere comunista importa responsabilità l’accetto“.
Il risultato del processo fu la condanna a venti anni da scontare a Portolongone ma una visita medica accertò che il detenuto era affetto da uricemia cronica e lieve esaurimento nervoso e quindi per scontare la pena (che durò sino al 24 aprile 1937) venne scelta la casa penale speciale di Turi di Bari.
Assieme a Gramsci vennero condannati quasi tutti i dirigenti di primo piano del P.C.I. tra cui Terracini, Scoccimarro, Roveda, Riboldi.
La nuova legislazione si occupò anche: della soppressione della massoneria; di concedere al governo amplissime facoltà di emanare decreti di legge; di riformare i codici; di fascistizzare la burocrazia e di sopprimere ogni autonomia delle amministrazioni comunali. Iniziarono a nascere in questo periodo i movimenti organizzati dei fuoriusciti.
La prima organizzazione antifascista nacque attorno a Bruno Buozzi, il quale ricostruì, in esilio la rappresentanza del movimento sindacale italiano. Intorno a lui si riunirono il deputato socialista Felice Quaglino, Pallante, Rugginenti, Giuseppe Bensi, Giuseppe Sardelli, i quali erano stati investiti in Italia della rappresentanza del movimento sindacale. Buozzi iniziò le pubblicazioni del giornale “L’operaio Italiano“, organo della Confederazione Generale del Lavoro.
All’estero oltre a Buozzi vi furono Luigi Campolonghi e Alceste De Ambris che formarono la “concentrazione antifascista“. De Ambris era stato uno dei fascisti della prima ora, lasciò il movimento e si spostò in Francia dove poco dopo, iniziò la sua attività antifascista. Secondo Campolonghi la concentrazione avrebbe dovuto raccogliere maggiori adesioni individuali fra gli iscritti ai vari partiti di sinistra. Ci fu una contropoposta di Modigliani che voleva una intesa fra gruppi e partiti sufficientemente affini (era lo schema dei futuri comitati di liberazione). Alla concentrazione aderirono le due fazioni socialiste (la massimalista e la socialdemocratica), il partito repubblicano, la lega dei diritti dell’uomo e la confederazione del lavoro di Buozzi. Non aderirono i comunisti che volevano continuare con i loro piani insurrezionali . Le prime iniziative furono la pubblicazione di un settimanale, “La libertà“ il cui direttore fu Carlo Treves. Il primo numero uscì il 1° maggio 1927, con un articolo di Turati intitolato “Il primo maggio dei vinti“.
Questo settimanale si poneva naturalmente in una posizione di critica verso il regime. La concentrazione rimase unità finchè Treves fu direttore della “Libertà“. Quando se ne andò nel 1933 essa si sciolse.
Dopo l’esperienza della “Libertà“ Facchinetti e Pacciardi fondarono la “Voce Repubblicana“; la confederazione del lavoro si limitò a spingere gli operai verso la organizzazione sindacale francese. Buozzi fece uscire “L’operaio Italiano“ nel 1934. Iniziarono poco dopo le pubblicazioni di un settimanale “Giustizia e Libertà“ diretto fino a quando fu assassinato dai fascisti da Rosselli.
È accertato un collegamento dei fuoriusciti con l’internazionale socialista probabilmente alcuni di essi volevano un rovesciamento del regime fascista e l’instaurazione di una repubblica bolscevica.
Per controllare la cospirazione contro il regime venne costituita e affidata alla direzione del Prefetto Bocchini l’OVRA (Organizzazione Vigilanza Reati Antifascisti). Questa organizzazione iniziò la sua attività partendo da Milano ma successivamente di diffuse su tutto il territorio nazionale. Ciascuna zona aveva i suoi informatori sconosciuti anche agli ispettori centrali.
In seguito ad un attrito fra Bocchini e l’allora segretario del partito Starace quest’ultimo creò una propria polizia politica l’UPI.
Chi veniva denunciato veniva mandato via dall’Italia anche se era sempre Mussolini a dire l’ultima parola.
L’opera di riorganizzazione non si fermava qui. Al fascismo bisognava dare una ideologia. Seguaci del regime fascista furono nel mondo culturale i futuristi (in prima fila Marinetti) i Dannunziani e tutti gli intellettuali nazionalisti.
Nel 1925 non furono certo pochi gli scrittori che firmarono “il manifesto degli intellettuali fascisti“ redatto da Giovanni Gentile.
Assieme al Croce il Gentile collaborò alla “critica“ spinto dalla convinzione che il filosofo non potesse isolarsi ma dovesse partecipare e in prima persona alla vita politica della nazione.
Lo stato corporativistico, secondo Gentile, trionfava su quello liberale. Lo stato ora doveva essere inteso come centro degli interessi della collettività. C’è da sottolineare che Gentile non fu sempre in sintonia con il regime ed intervenne per censurarne alcune esagerazioni.
Nel mondo culturale del tempo si muovevano altre due figure di grandissimo spessore Giuseppe Prezzolini e Benedetto Croce. Prezzolini fondò nel 1908 “La Voce“ con l’intenzione di combattere la cultura del positivismo e di diffondere il pensiero e la sensibilità intuzionistica e idealistica e fu in un certo modo vicino al fascismo anche se in una lettera al direttore del Corriere della Sera, il 18 Giugno 1981 Prezzolini scrive:
“Non ho mai avuto alcun incarico da un’organizzazione fascista, non ho mai avuto nemmeno un biglietto di tranvai gratis dal fascismo (….), quanto ai miei auguri a Mussolini nel 1922, dopo la marcia su Roma, chi non glieli faceva? Ma i miei auguri furono chiariti quando pubblicai presso l’israelita Formiggini e per sua richiesta la forse prima biografia di Mussolini nel 1924 che terminava: “tocca al paese offrirgli gli uomini per un compito superiore quale sarà il ritorno alla vita dei paesi più progrediti, civili e legali“. Per mia richiesta alla biografia di Mussolini fece seguito una biografia di Giovanni Amendola che terminava: “Giovanni Amendola ha affrontato con serietà , tenacia e coraggio – fino al rischio della vita – l’impopolarità dei compatrioti e l’ostilità del partito avversario. Queste profonde qualità gli avrebbero valso soltanto la stima di una minoranza di italiani e non quella simpatia più vasta che gli è stata regalata dalla persecuzione fascista“.
Il Croce partecipò attivamente alla vita politica come Senatore e Ministro e per alcuni anni manifestò simpatia e comprensione per il movimento, simpatia e comprensione al liberalismo. Votò a favore del Governo fascista e conservò fiducia in esso anche dopo l’omicidio Matteotti.
Le leggi eccezzionali del 1925 e la politica culturale del regime spinsero Croce alla opposizione e alla stesura di una “Protesta“ contro il “Manifesto“ degli intellettuali fascisti, la quale fu pubblicata il 1 maggio 1925 e raccolse ampi consensi.
Dopo tale presa di posizione il Croce mantenne un fermo atteggiamento di condanna del regime, che fu costretto a concedergli un certo margine di libertà anche per la notorietà internazionale da lui raggiunta, in un'opera del 1940 “il carattere della filosofia moderna“, il Croce scriveva:
“Senza dubbio, vi sono tempi nei quali tra la vita pratica, sociale e politica si osserva una sorta di rispondenza (…….) tempi singolarmente felici nei quali un medesimo fervore morale genera quasi gemelli i modi della filosofia e i modi della vita. Ma c’è ne sono altri, travagliati e dolorosi nei quali il pensatore stà solitario e con poca compagnia (…) guai al filosofo se egli per isfuggire la solitudine e per altri assai meno nobili sentimenti si piega e adegua la sua filosofia alla “filosofia dei tempi“ e in qualche modo la seconda! Che per contrario, allora tanto più stretto e più urgente è il dovere suo di rammentare agli uomini mercè dei concetti speculativi e dei giudizi storici quella che è la vera e compiuta umanità tanto più che egli deve essere allora rigido verso gli altri e verso se stesso , perché, se il sale si insipido chi potrà mai salarlo? il suo regno è ben di questo mondo, ma non già dell’istante che passa.“

Un tratto di fine arte politica
Prima la giustizia , poi la cultura , ora bisognava occuparsi dei rapporti con la chiesa , dell’economia e della politica estera ed il duce non si tirò indietro.
Un successo di Mussolini fu il ripristino dei rapporti con la Santa Sede che si erano incrinati dal 1870 quando l’unità era stata ottenuta sacrificando lo Stato Pontificio.
La politica dello stato liberale fu una politica laica di netta separazione dei rapporti tra stato e chiesa. Mussolini non aveva pregiudizi liberali capiva che era fondamentale avere la chiesa dallapropria parte.
Per fare un’accordo bisognava essere almeno in due e alla volontà di Mussolini si associò quella del Pontefice che nel fascismo vedeva l’antagonista del comunismo ateo.
I primi contatti iniziarono nel 1926 e vennero portati a buon fine l’11 Febbraio 1929 con la firma tra Mussolini e il Cardinale Pietro Gasparri.
Vennero stipulati tre atti diplomatici; un trattato che sanciva l’accordo intervenuto fra l’Italia e la Santa Sede costituita in Città del Vaticano; un concordato che riconosceva alla chiesa determinati privilegi sulle altre confessioni e religioni, una convenzione finanziaria in forza della quale lo Stato Italiano si impegnava a pagare una somma determinata alla Santa Sede.
Qui riportiamo una parte del discorso in Parlamento di Benedetto Croce, laico per eccellenza, con il quale il filosofo motivò il suo voto contrario al concordato “Al nostro rifiuto taluni obiettano che quel che si è eseguito mercè il concordato sia un tratto di fine arte politica, da giudicare, non secondo le ingenue idealità etiche , ma come politica, giusto il trito detto che Parigi val bene una messa, né io nego la mia ammirazione all’arte politica, né ignoro che quel trito detto si suole attribuire, leggendariamente, a un grand’uomo, a un eroe della storia della Francia (Enrico IV), del quale si credette così di interpretare il riposto pensiero; quantunque forse gli si fece torto, perché sta di fatto che egli non pronunciò mai quelle parole. Come che sia, accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi val bene una messa è una cosa che vale infinitamente più di Parigi perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero! E’ il nostro voto comunque per altri rispetti si voglia giudicarlo, ci è imposto dalla nostra intima coscienza , alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza che ci domanda“.
Nello stesso anno del Concordato, il 1929, si svolsero le elezioni.
Il fascismo (unica lista presente) portò a casa 8 milioni di voti contro 136 mila contrari.
L’accordo Stato-Chiesa contribuì in quel momento a rafforzare il regime. Nel 1929 sull’economia italiana si abbattè l’uragano della crisi economica scatenata dall'impennata dei prezzi dei cereali che misero in grave difficoltà gli agricoltori statunitensi.
Il 24 ottobre ( giovedì nero ) la borsa di Wall-Street crollò le azioni persero circa 1/3 del valore e la tendenza al ribasso continuò sino al Luglio del 1932.
Per cercare di risanare l’economia il nuovo Presidente Americano Roosvelt propose agli americani il New Deal ( Nuovo Patto ) con il quale venne seppellita per sempre la tesi del liberalismo puro e si introdusse la politica dello Stato assistenziale.
Il fascismo che era andato al Governo proprio per risollevare l’Italia dalla crisi in cui era entrata nel dopoguerra nella quale uno dei settori vitali per la sua esistenza , nel quale avrebbe dovuto dimostrare di avere delle capacità, in uno stato vicino al tracollo poiché l’economia faceva fatica.
Ma come fu amministrata questa fatica dal regime?
Per tre o quattro anni dal 22’ al 25’ vi fu una politica economica liberale o quasi liberistica.
Prima che si diffondesse il motto “tutto per lo stato, tutto nello stato“, il liberismo fu applicato da Alberto De Stefani il quale fu nominato Ministro delle Finanze da Mussolini il 31 Ottobre 1922.
De Stefani diverrà l’anno seguente anche Ministro del Tesoro, la sua politica favorì le esportazioni e quindi di conseguenza la ripresa della produzione industriale, realizzò una fiscalità propizia agli investimenti ed ai profitti fino ad arrivare a raddrizzare il bilancio dello Stato.
L’alta tariffa doganale del 1921 venne abbassata, ridotti furono gli interventi pubblici nell’economia, mentre la spesa pubblica scendeva in poco tempo dal 35 al 13 per cento del reddito nazionale.
Mussolini che nel ’22 aveva gridato “Basta con lo stato ferroviere, lo stato postino e lo stato assicuratore“ mutò progressivamente opinione.
La Confindustria poi dopo avere salutato con gioia questi provvedimenti cominciò a rammaricarsi che l’economia non fosse in mano ad un ministro di sua completa fiducia. De Stefani era troppo autonomo, occorreva un uomo dell'industria e della finanza come era il Conte Giuseppe Volpi di Misurata.
Il Volpi iniziò una politica di difesa ad oltranza della lira cercando di diminuire le importazioni di grano, minerali, petrolio ed incentivando la cerealicoltura, diede vita alla famosa “battaglia del grano“.
Questa battaglia fu combattuta tramite una legge del 1932 con la quale furono istituiti dei consorzi agrari che raccoglievano i prodotti agricoli, soprattutto i cereali, offrendo agli agricoltori anticipi sulle vendite e assicurando la collocazione delle derrate sul mercato.
La produzione subì un reale incremento: mentre nel 1923 si producevano in Italia circa 59 milioni di quintali di frumento, nel 1933 se ne produssero 79 milioni di quintali.
In questo periodo si iniziarono anche iniziative di bonifica di terreni incolti e malarici di una superficie di oltre 4 milioni e mezzo di ettari.
Venne dato notevole impulso ai lavori pubblici ma tutte le iniziative avevano come vizio d’origine l’essere il mezzo per realizzare una politica protezionista.
Questa politica si spiegava con le tendenze imperialistiche del nostro governo che intensificò di molto la spesa per gli armamenti e sempre in questa ottica perseguì una politica di incremento delle nascite.
Questa politica fu realizzata tramite l’imposta sul celibato, facilitazioni fiscali per le famiglie numerose, condizioni di favore riservate ai coniugati, premiazione delle madri prolifiche.
Come gli altri paesi europei anche l’Italia aveva subito il contraccolpo della grande crisi del 1929 e non aveva senso investire in soldi rimasti in armi.
Ma nel clima di recessione il 3 Ottobre 1935 l’esercito Italiano oltrepassa il Mareb dando inizio alla Guerra contro l’Etiopia.
La Campagna d’Africa aveva un significato soprattutto simbolico poiché nel nostro esercito bruciava la delusione per la sconfitta di Adua nel 1896. Io osservo oggi come scrivente le emozioni di tale evento e si volevano proprio scannare per stanchezza. Bisogna sottolineare che il prestigio internazionale, si era rivali in questi primati, si misurava ancora in base alla grandezza del proprio territorio.
La Storia degli Italiani in Africa non era agli inizi, un posto dove siamo stati per anni, nel 1885 un gruppo di 1.500 Bersaglieri occuparono Massaua in Eritrea. Nel 1892 si acquisirono i protettorati su Somalia ed Etiopia e nel 1912 vi fu la conquista della Libia.
L’idea dell'Africa quindi non era certo nuova e Mussolini cercando di mostrare al popolo Italiano e al consesso internazionale di essere forte, ci provava in continuazione ogni giorno per preparare questa missione militare, decise di ritentare la via del continente nero.
Ma perché venne scelta proprio l’Etiopia?
Alla questione in maniera attendibile si risolve sostenendo che non interessava a nessun paese colonizzatore.
Le armate Italiane al Comando di Rodolfo Graziani dopo una serie di facili vittorie occuparono il 5 Maggio 1936 Addis Abeba.
Nelle piazze apparvero grandi carte geografiche dell’Africa Orientale dove giornalmente, la gente poteva seguire i progressi delle truppe italiane; lo stesso avvenne in ogni classe delle scuole e la parola d’ordine “Noi tireremo diritto“ apparve sui muri, nei manifesti e nei cartelli delle dimostrazioni a favore del fascismo e della guerra;
avanzerei seri dubbi su quello a cui essa serva come sempre.
Il Comando della Compagnia d’Africa passò nelle mani di Badoglio e si concluse rapidamente grazie alla superiorità soprattutto organizzativa e numerica del nostro esercito.
Alla campagna etiopica ora viene, giustamente, data poca importanza ed a distanza di anni la scelta di sostenerla pare illogica ed è sicuramente sbagliata.
L’obiettivo era quello di distogliere gli Italiani dalla crisi economica ed unirli in nome del comune patriottismo era un’obiettivo propagandistico perché non risolveva nessun problema, anzi li aggravava e dunque come poteva l’Italia occuparsi di un altro Stato quando non riusciva ad occuparsi di se stessa?
L’aggressione Italiana fu condannata dalla società delle Nazioni.
Ma le sanzioni decise vennero applicate blandamente e la reazione tutt’altro che decisa aprì le porte alla Germania che comprese la scarsa unità Internazionale per la sua politica e, capita l’ostilità anglo- francese il regime dovette aprire una forte collaborazione con la Germania.
Da quel momento il Fascismo iniziò a perdere consensi ed è saggio scriverlo adesso.

"Vincere e vinceremo"
La situazione internazionale spinse l’Italia a stringere accordi di alleanza con la Germania anche se i rapporti tra Mussolini ed Hitler non erano sempre stati idilliaci. Si incrinarono per l’appoggio dato dalla Italia al progetto semi-dittatoriale di Dolfuss in Austria e per la collaborazione offerta alle forze austriache per scongiurare il tentativo di colpo di stato nazista del 1934, si riavvicinarono per la guerra di Abissinia e soprattutto per la guerra civile spagnola.
Per uniformarsi al totalitarismo tedesco Mussolini dovette condurre nel 1938 una campagna di riorganizzazione dello Stato Fascista per alimentare la propaganda vennero mobilitati radio e giornali che iniziarono a trasmettere messaggi di stampo nazionalista e fascista.
L’obiettivo che si poneva il regime era di cancellare completamente ogni traccia del carattere “borghese“ degli italiani; si dovevano modificare cultura e stili di vita ed il primo passo fu l’introduzione del voi o meglio ancora del tu contro l’uso del lei.
La rivista di Bottai “Critica Fascista“ scrisse “Si ristabilisca il tu, espressione dell’universale romano e cristiano, e il voi, segno di rispetto e di gerarchia“.
I cambiamenti non interessarono solo il modo di parlare degli italiani, anzi dei camerati, venne imposto anche un nuovo modo di marciare “il passo romano“ creato dal Duce per evidenziare il carattere guerriero del popolo italiano.
Nel Giugno del 1938 si proibì in tutti i luoghi pubblici la stretta di mano, bastava il saluto romano.
La mossa che rese più evidente il tentativo di allinearsi sulle posizioni tedesche fu l’introduzione della legislazione razziale ispirata ad un documento che venne pubblicato il 14 Luglio 1938 ad opera di ignoti, patrocinati dal Ministro della Cultura, sotto il titolo “Manifesto della razza“ ecco alcune delle tesi esposte nel Manifesto:
“Il carattere di razza è puramente biologico (………..) Alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno le differenze di razza. La popolazione dell’Italia attuale è ariana. Esiste oramai una pura razza italiana. Questo concetto è basato (…..) sulla purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il regime in Italia è in fondo del razzismo (……..) La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose.
Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo“.
A seguito del dibattito instauratosi nel paese vennero adottati tra il 1938 ed il 1939 una serie di provvedimenti.
Nel Settembre del 1938 le scuole italiane eliminarono dal loro interno alunni, insegnanti e testi ebrei.
Nel Novembre 1938 è vietato il matrimonio tra italiani di razza ariana e di altra razza: si limitano fortemente i diritti di proprietà immobiliare degli ebrei e si impedisce agli imprenditori di possedere aziende con più di 100 dipendenti.
Ai giovani di religione ebraica vengono interdetti lo svolgimento del servizio di leva e l’inserimento nella pubblica amministrazione e proibita agli ebrei l’iscrizione alle organizzazioni fasciste. Nel Giugno del 1939 i professionisti ebrei vengono raggruppati in un albo separato da quello ufficiale, la loro libertà di esercizio della professione è ristretta alla sola cerchia di persone della stessa razza.
La “Dichiarazione sulla razza“ approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 6 ottobre del 1938 stabilisce in ogni caso che i provvedimenti sopra descritti non vengano applicati nei confronti di persone che nel corso del secolo abbiano acquisito particolari benemerenze nelle guerre combattute dall'Italia, o siano stati iscritti, prima del 1922, al partito Fascista.
Un altro dei provvedimenti del regime fu l’istituzione del “Sabato fascista“: non si lavorava negli uffici e nelle scuole si svolgevano solo ore di ginnastica.
Allo sport il regime fu sempre attento perché attraverso lo sport si potevano esaltare le masse e i successi italiani nelle competizioni internazionali potevano essere presentati e vissuti come vittorie della intera Italia fascista e le vittorie non mancarono, infatti, nel 1938 il purosangue Nearco vinse il prestigioso Grand Prix de Paris; la nazionale di calcio si aggiudicò per la seconda volta consecutiva la coppa Rimet; Bartali dominò il Tour de France.
Questi provvedimenti di riorganizzazione dello stato furono seguiti da una politica diplomatica molto attiva a livello internazionale e che, come politica, era di pieno appoggio alla Germania nazista.
I primi risultati tangibili si ebbero nella Conferenza di Monaco che doveva decidere della annessione dei Sudati, ossia dei territori Cecoslovacchi dove era massiccia la presenza etnica dei Tedeschi, il Duce appoggiò in quella occasione la Germania, che li rivendicava, nella lotta con la Francia e l’Inghilterra che proteggevano la Cecoslovacchia.
Il risultato della Conferenza fu che i Sudeti furono occupati dai Tedeschi che successivamente senza rispettare gli impegni occuparono anche il resto della Cecoslovacchia.
La nascente alleanza Italo-Tedesca aveva però dei problemi, era duro il Duce, poiché Mussolini era irritato dal fatto che Hitler lo informava solo a fatto compiuto ed il capo del Fascismo voleva essere trattato alla pari.
Mussolini anticipando per una volta Hitler decise di annunziare il 6 Maggio 1939 in occasione di una visita del Ministro Von Ribbentrop, l’imminente firma di una alleanza italo-tedesca.
Il trattato venne firmato a Berlino il 22 Maggio e venne denominato “Patto d’Acciaio“. Le parti con questo patto si impegnavano a tenersi in contatto e nell' articolo 3 troviamo il punto più importante: ”Se malgrado i desideri e le speranze delle parti contraenti dovesse accadere che una di esse venisse a essere impegnata in complicazioni belliche con un’altra o con altre potenze, l’altra parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari“….
Il trattato prevedeva agli articolo 4 e 5 “La collaborazione nel campo della economia di guerra e la non conclusione in caso di conflitto, di amnistia e di pace se non in pieno accordo tra di loro“.
Nell’accordo la consultazione fra le due parti era molto teorica e soprattutto non vi era nessuna clausola che fissasse la volontà italiana di preservare la pace per almeno tre anni.
L’Italia non poteva entrare in guerra e quando fu evidente che la Germania non avrebbe aspettato, Mussolini inviò un messaggio a Hitler nel quale sottolineava due punti:
1- Se la Germania attacca la Polonia ed il conflitto rimane localizzato, l’Italia darà alla Germania ogni forma di aiuto pratico ed economico che sarà richiesto.
2- Se la Germania attacca la Polonia e gli alleati di questa contrattaccano la Germania, l’Italia non prenderà iniziative di operazioni belliche date le attuali condizioni della nostra preparazione militare, regolarmente e tempestivamente segnalate al Fùhrer e a Von Ribbentrop. L’Italia non può che affrettare la sua preparazione militare e la sollecitudine del suo intervento sarà in relazione ai mezzi bellici e materie prime. Il Duce resta in attesa di conoscere il giudizio del Fùhrer su tutto quanto precede.
Nel paese le reazioni all’accordo con la Germania non furono molto favorevoli il Re Vittorio Emanale III non aveva avuto mai grande simpatia per i nazisti ed era decisamente contrario ad un coinvolgimento dell'Italia in guerra.
L’antipatia del re verso i tedeschi era contraccambiata da Hitler che definiva il sovrano “Imbecille“ e faceva riferimento solo a Mussolini.
Contrari alla alleanza erano anche il Papa e lo stesso Galeazzo Ciano che pubblicamente, il 16 Dicembre 1939, in un discorso alla Camera espresse il suo scetticismo verso l’alleato tedesco.
Sembra che proprio in quel momento Ciano potesse subentrare a Mussolini, infatti, una nota della segreteria vaticana riferisce:
“C (Ciano) un mese fa era in predicato di succedere a M (Mussolini) e ciò poteva avvenire da un momento all’altro“; ma il Re preferì, non trovando il coraggio, tenersi Mussolini che il 5 Gennaio 1940 in una lettera a Hitler sosteneva che “Il nemico numero uno era l’Urss; sconfiggere completamente Gran Bretagna e Francia era impossibile, perché gli Usa sarebbero intervenuti a difesa delle democrazie; era opportuno non attaccare in Occidente ed arrivare ad un compromesso………”.
Hitler rispose il 10 Marzo invitando l’Italia ad entrare in Guerra e Mussolini sembrava convincersi sempre più ed in un promemoria segretissimo il duce scriveva: L’Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra……senza squalificarsi…il problema non è quindi sapere se l’Italia entrerà in guerra; si tratta soltanto di sapere quando e come; si tratta di ritardare il più a lungo possibile compatibilmente con l’onore e la dignità, la nostra entrata in guerra, per prepararsi in modo tale che il nostro intervento determini la decisione; perché l’Italia non può fare guerra lunga”….
Quando la Germania travolse e conquistò la Francia e l’intervento italiano non era più tanto un fatto militare quanto una necessità politica il duce si decise: aveva infatti bisogno, "di alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace quale belligerante“ e temeva che la Germania vittoriosa avrebbe fatto pagare caro all' Italia il suo non intervento.
Il 10 Giugno 1940 Ciano consegnò la Dichiarazione di Guerra all’Ambasciatore di Francia che commentò “E’ un colpo di pugnale ad un uomo a terra…….I tedeschi sono padroni duri e ve ne accorgerete anche voi“ questo avveniva e non certo il regime voleva essere innocente in una guerra già partita da anni.
Nello stesso giorno, infatti, alle ore 18.00 a Piazza Venezia a Roma, dal famoso balcone il Duce comunicò alla Nazione l’entrata in guerra. La gente avrebbe capito visto che nell' ascoltarlo si erano riuniti non solo lì ma anche vicino alla radio messa a disposizione nelle sedi di partito, ed ecco alcuni dei passaggi del discorso pronunciato da Mussolini in quella occasione:
Combattenti di terra, di mare e dell’aria!
Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!
Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania! Ascoltate
Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria.
L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra e già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia.
Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente che in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esperienza medesima del popolo italiano (………..)
Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è lotta tra due secoli e due idee (……….) L’Italia proletaria e fascista è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica ed impegnativa per tutti.
Essa trasvola ed accende i cuori dalle alpi all’Oceano Indiano:
Vincere! e vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa ed al mondo.
Popolo Italiano
Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!
Non si può perdere il brivido dunque della entrata in guerra della Italia.
Il duce aveva aspettato il momento propizio e secondo lui lo aveva trovato ma la decisione di entrare in guerra non fu certo un buon affare per la nostra nazione visto che di un affare si trattava perché l’Italia era animata dall’interesse di avere dalla Germania un trattamento da alleato fedele ed utile e non dà un interesse di difesa della propria identità nazionale.
Questa scelta non si poteva interrompere o evitare ed era nella logica del Patto d’acciaio e dello avvicinamento all’alleato tedesco ed a nulla poteva servire la dichiarazione di non belligeranza perché l’Italia senza combattere sarebbe diventata una colonia tedesca.
Non furono tanto i sogni imperialistici ma la necessità di fare sentire la propria voce a spingere Mussolini verso il conflitto ma per noi l’alleanza con la Germania non faceva certo sentire uno Stato sicuro ma in assenza di questa alleanza l’entrata in guerra ci avrebbe riguardato lo stesso ma su questi argomenti si era aperta una discussione nella quale i contrari a questa alleanza rappresentati dal Re, dal Pontefice ed alcuni importanti gerarchi fascisti continuavamo a manifestare l’idea che nulla sarebbe andato bene con questo accordo.
Ma al momento Mussolini rimaneva delle sue idee e cambiare la scelta di allearsi con i tedeschi sembrava impossibile.
Se nella Prima Guerra Mondiale l’Italia era entrata impreparata, nella Seconda Guerra Mondiale entrò ancora più impreparata o come potrei scrivere “vicinissima a forti perdite umane“ che non poteva non essere noto a tutti.
L’esercito italiano disponeva di armamenti decisamente mediocri, non sappiamo come ne erano convinti i soldati o i gerarchi: aveva una artiglieria artigianale risalente alla Guerra del 1915-1918.
La guerra nella quale Mussolini ci faceva entrare non si faceva con le baionette e neppure con il fucile ’91 in dotazione all’esercito sin dai tempi della guerra d’Africa.
Per combattere occorrevano carri armati e noi non ne avevamo più di 1.400 diciamo piccolini; occorrevano munizioni e ve ne erano solo per combattere per una sessantina di giorni di guerra. Anche la tanto esaltata aeronautica “arma fascistissima“ voluta dallo stesso Mussolini, nel 1923 non era poi in condizioni tanto eccellenti: al momento dell’entrata in guerra contava 1322 bombardieri (di cui 900 efficienti e solo 600 relativamente moderni) e 1.100 tra caccia e assaltatori (di cui 700 impiegabili e solo pochi moderni).
L’arma che godeva della salute migliore era la marina, ma anche qui vi erano grossi problemi poiché mancavano le basi d’appoggio e una adeguata protezione aerea e per questo le nostre navi sarebbero facilmente diventate affondabili.
A conti fatti come si legge non si poteva tranquillizzare nessuno degli oppositori al conflitto perché a conti fatti la nostra forza bellica era inconsistente per il conflitto che si andava a combattere, che era già pieno di forti rischi per i nostri soldati.

“Credere, obbedire, combattere“
La guerra italiana, poco elegantemente, iniziò con l’offensiva contro la Francia che era una nazione a quel tempo che era stata messa completamente a terra dalla Germania e dunque ci si aspettava una rapida soluzione del nostro impegno.
I nostri soldati erano guidati dal Principe Umberto ed erano equipaggiati con divise estive mentre sul fronte di guerra imperversavano temperature gelide. Oltre alle difficoltà organizzative c’era l’incapacità dei nostri di fronteggiare le truppe alpine francesi che conoscevano il terreno ed erano più addestrate rispetto ai nostri.
Nella guerra che ci doveva vedere facilmente vittoriosi contro i moribondi francesi al momento dell'armistizio potevamo vantare la sola occupazione di Mentone sulla costa e di alcuni villaggi montani. Questi risultati erano ottenuti con un prezzo alto anzi altissimo: 1300 tra morti e dispersi, 3000 feriti e 2125 congelati.
I giorni che ci aspettavano erano tutt'altro che rosei.
Come reagì, il paese a questi primi risultati?
Il regime da quello a cui siamo a conoscenza fu molto attento ad alimentare la sua attività propagandistica che mirava a nascondere tutto ciò che era possibile ed aveva come obiettivo il testimone di una guerra che ci vedeva vincere e per questo si ricorreva al metodo dei motti che ossessionavano la popolazione che doveva affrontare questa civiltà, quella di “Credere, obbedire, combattere“; “Battere il nemico ovunque “; “Un popolo di soldati con un esercito di cittadini“;
Riconoscere questo nuovo popolo non convinceva comunque totalmente l’uomo italico che però sapeva che la guerra non si fermava in Francia, doveva continuare da qualche parte e sperava di capirne il bilancio, poiché era l’Inghilterra il prossimo obiettivo.
Alla Italia venne affidata la responsabilità del Mediterraneo sia per la posizione geografica, sia per i nostri interessi in Nordafrica.
Le nostre mansioni non si sa se è un sospetto di inefficienza, erano ritenute poco importanti dal Fuhrer che non era interessato né al Mediterraneo né ai paesi africani.
Lasciate senza l’aiuto tedesco le nostre navi nel Mediterraneo erano bersaglio facile degli Inglesi.
Le nostre difficoltà navali davano problemi per la mancanza di rifornimenti alle truppe di stanza in Nordafrica.
Il nostro anno nero fu il 1941.
Occorre prima di iniziare a trattare il proseguimento della guerra, aprire una parentesi: vero è che il Duce forse non avrebbe potuto evitare l’entrata nel conflitto ma altrettanto vero è che il modo in cui condusse la nostra presenza nel conflitto fu disastroso.
La parola d’ordine per i nostri alti comandi era attaccare per potersi mettere alla pari dell’alleato tedesco, ma rispetto ai tedeschi noi eravamo lontani anni luce e questa differenza risultò evidente nel 1941.
L’Italia in quell’anno risultava impegnata nel continente africano. In Africa orientale tra Eritrea, Etiopia e Somalia aveva concentrato 290.000 uomini che rispetto ai nostri avversari, gli Inglesi, erano molti di più ma non bastava la superiorità numerica, ed il nostro esercito aveva sempre lo stesso difetto: essere male organizzato e male attrezzato e non era poco.
Per i primi mesi di guerra la superiorità numerica fu sufficiente per i primi mesi di guerra e gli italiani riuscirono a prendere la Somalia britannica.
Una vittoria che strategicamente non fu un granchè visto che gli Inglesi abbandonarono il campo contenendo le perdite al minimo.
Sul finire del 1940 la situazione in Africa Orientale si aggravò: gli Inglesi avevano ricevuto numerosi rinforzi sia umani che tecnici e, sul territorio, i guerriglieri etiopici iniziarono ad infastidire i nostri.
La nostra strategia difensiva ebbe come risultato il concentramento delle forze nel centro della colonia.
Ma le sconfitte iniziarono a farsi pesanti: gli Inglesi si ripresero facilmente la Somalia e conquistarono l’Eritrea. In seguito a queste sconfitte Amedeo d’Aosta il 19 Maggio 1941 si arrese agli Inglesi.
Anche in Africa Orientale la nostra forza era solo sulla carta ed a comandare le operazioni c’era uno dei gerarchi più in vista del regime, Italo Balbo, che però venne abbattuto per errore dalla nostra contraerea.
Il 28 Giugno 1941 a sostituirlo fu inviato il Generale Graziani.
Mussolini che aveva urgenza di successi ordinò l’offensiva contro l’Egitto che non fu possibile perché l’esercito rimase bloccato per la mancanza di rifornimenti a Sidi Barrani.
Questa sosta permise agli Inglesi di rafforzarsi e di sferrare un’attacco che sbaragliò i nostri. Graziani rassegnò le dimissioni e venne sostituito da Rommel; i tedeschi erano venuti a salvarci.
Rapidamente la situazione in Africa fu riequilibrata con una serie di vittoriose battaglie me la guerra era destinata a concludersi con la chiusura del conflitto mondiale grazie allo sbarco degli americani in Marocco.
A rendere evidente la dipendenza dell’Italia rispetto alla Germania ed a spazzare via ogni velleità di Mussolini in qualsiasi tavolo di pace, fu la guerra contro la Grecia che fu il vero fallimento della nostra nazione.
La nostra avventura in Grecia era iniziata nel 1940 e non procedeva bene anzi, andava malissimo e le perdite per il nostro esercito furono ingenti.
L’intera campagna ci costerà 13.755 morti, 50 mila feriti, 12 mila congelati, 25 mila dispersi. A salvarci dovettero intervenire i tedeschi che in soli 15 giorni fecero sventolare la svastica su Atene.
I nostri guai non erano finiti.
Il Duce c’è l’aveva sempre avuta con quelli che oggi sono i russi e ieri l’URSS e più volte aveva espresso al Fuhrer il desiderio di essere presente ad un eventuale attacco ai sovietici e l’occasione non mancò.
Furono preparati per l’impresa 62 mila uomini.
I nostri furono costretti a combattere tra la neve e l’esercito russo non scherzava già era forte sul terreno normale immaginiamoci sulla nave a casa propria.
Una novità fu che non uscimmo sconfitti solo noi ma anche i tedeschi e qui si inizio a capire che anche la Germania avrebbe potuto perdere la guerra.
Il popolo italiano cominciò a capire come andavano veramente le cose, sino a quel momento coperte dalla propaganda fascista, grazie ai primi bombardamenti sulle loro teste e ai racconti dei reduci ma soprattutto dalle notizie di morte dei loro cari per mano degli avversari che non ci facevano portare a termine quello che avremmo voluto fare.

Capitolazione o resistenza?
Le sconfitte per l’asse iniziarono a farsi pesanti ed oramai i tedeschi e gli italiani erano sconfitti su ogni fronte grazie soprattutto all'entrata nel conflitto degli americani.
L’azione degli alleati, dopo la presa dell' Africa Settentrionale, prevedeva l’accerchiamento della Germania e lo sbarco in Italia, precisamente in Sicilia, ritenuta il punto debole dell’asse.
Dopo le sconfitte sul territorio straniero stavano per arrivare quelle sul territorio nazionale.
La situazione interna nel 1943 vedeva il Duce oggetto di diversi malumori e soprattutto iniziavano a maturare vere e proprie congiure.
L’equilibrio si ruppe con lo sbarco degli alleati in Sicilia nel quale, furono impiegati 160.000 uomini con 2.800 navi, 600 carri armati e 100 cannoni.
Uno sforzo bellico di grandi proporzioni che aveva l’obiettivo non solo di conquistare l’isola ma di farlo rapidamente e così fu. A seguito di questo avvenimento gli oppositori del regime iniziarono a farsi vivi e moltiplicarsi.
Mussolini si era già trovato a dovere fronteggiare oppositori ma erano oppositori appartenenti ad altri partiti che il Duce aveva liquidato con l’esilio o con l’isolamento. Adesso il gioco era più duro, sia perché egli non era a conoscenza di chi lo avversava, sia perché chi ne voleva decretare la fine aveva consentito al Duce di prendere il potere e consolidarlo: erano oppositori del regime appartenenti al regime.
Primo fra tutti vi era il Re che aveva capito che piano si andava verso il fondo ma che doveva pur sempre organizzare la caduta del regime con tutti i rischi che questo poteva portare.
Il Re poteva contare sull’appoggio di molti degli alti comandi militari e anche di alcuni gerarchi fascisti e bisognava contattarli e muoversi.
Del complotto militare erano responsabili soprattutto due uomini che erano il Generale Ambrosio ed il suo ufficiale addetto Generale Castellano.
Ambrosio era animato da una grande avversione per i tedeschi ed era un fedelissimo della monarchia aveva capito che la guerra era perduta e vedeva l’alleanza con Hitler come un pericolo.
Il generale aveva sperato che a mettere fine alla Alleanza con la Germania potesse essere lo stesso Mussolini ma un incontro nel Luglio del 1943 tra i due dittatori aveva dimostrato ancora una volta che il duce era subalterno al fuhrer e incapace di opporsi in qualsiasi modo, nonostante stimolato dai suoi, al volere nazista.
Venne quindi messo a punto da Castellano un piano per eliminare il duce.
Il piano passò per le mani di D’Ambrosio ed arrivò tramite Acquarone, Ministro della real casa, al Re, il monarca non aspettava altro.
Castellano sapendo di poter rischiare portò a conoscenza del piano anche Galeazzo Ciano.
I contatti affidati al Re ed Acquarone proseguirono, ed in pochi giorni il Ministro della real casa incontrò Ivanoe Bonomi, ex Presidente del Consiglio e Marcello Soleri, Ministro del Governo Facta spazzato via dalla Marcia su Roma. A seguito di questi contatti vi fu un incontro tra il Re e Bonomi, nel quale il Bonomi espose il piano da applicare dopo la rimozione di Mussolini: il Governo ad un militare e scioglimento del patto d’acciaio con i tedeschi.
I contatti di Vittorio Emanuele III continuarono e le cose per Mussolini si fecero serie quando anche il Presidente della Camera dei Fasci Dino Grandi, in un incontro il 3 Giugno del ’43, manifestò l’intenzione di liquidare Mussolini.
L’invasione della Sicilia da parte degli alleati rese più veloce il complotto.
Oltre al Re anche il Vaticano portava avanti il progetto di eliminare Mussolini e, sembra da recenti indagini (Novembre 96) compiute dalla ricercatrice Albertina Vittoria che tre mesi prima del 25 luglio 1943, insieme agli Stati Uniti, il Pontefice Pio XII avesse preparato un piano che comportava la sostituzione di Mussolini con Luigi Federzoni, Ministro degli Interni e delle Colonie e poi Presidente del Senato, che godeva della fiducia del Pontefice per essere stato uno dei protagonisti della trattativa per la firma, nel 1929, dei patti lateranensi.
Questo progetto non venne mai attuato.
Le prime contestazioni pubbliche Mussolini le ricevette il 16 Luglio in una riunione dei gerarchi che dovevano preparare alcuni raduni propagandistici in varie città.
Il duce accettò la proposta di Grandi che era assente a quella riunione, di convocare il Gran Consiglio del Fascismo.
Prima di esso il Duce andò dal Fuhrer per un ennesimo vertice.
Fu l’ulteriore dimostrazione di impotenza che ne indebolì ancora di più l’immagine.
Il 21 Luglio Scorza telefonò a tutti i membri del Gran Consiglio per convocarli a Palazzo Venezia. L’appuntamento era per le 17.00 del 24 Luglio nella sala del Pappagallo. Nella stanza erano disposti a ferro di cavallo 28 tavoli uno dei quali, innalzato leggermente rispetto agli altri, era assegnato a Mussolini.
Il Gran Consiglio comprendeva i membri vitalizi, i membri divenuti tali per le cariche che ricoprivano i membri cooptati per fini speciali.
Ad un invito del commesso Navarra tutti si sistemarono ai loro posti, quindi entrò – erano le 17.15 – Mussolini, che non rivolse la parola a nessuno. Iniziò il suo intervento ammettendo che la guerra era in una fase critica ma continuò proclamando la sua fedeltà alla alleanza con la Germania. Egli disse “E’ giunto il momento di stringere le fila e di assumere le responsabilità necessarie“ poi pose il dilemma guerra o pace? Capitolazione o resistenza?
Il discorso del Duce, si dilungò per due ore, fu debole, poco incisivo e non convinse nessuno. Dopo Mussolini, erano le 21 circa, era il turno di Dino Grandi che presentò l’ordine del giorno e lo illustrò dopo aver proclamato la sua fedeltà al Duce. Grandi concluse il suo discorso citando una frase pronunciata nel ’24 da Mussolini stesso “Periscano tutte le fazioni anche la nostra, purchè si salvi la patria“.
Dopo Grandi fu il turno di Galeazzo Ciano. Il conte doveva tutto a Mussolini e ne aveva sposato la figlia, ma il suo tono non era affatto benevolo e il Duce incominciò a manifestare un certo malumore.
Quando Ciano ricordò che la Germania nel ’39 s’era buttata in guerra dopo avere assicurato che non l’avrebbe fatto se non molto dopo, Mussolini mormorò “Verissimo“ erano passate le 23, Galbiati suggerì qualcosa a Scorza che dopo passò un biglietto a Mussolini “Alcuni camerati data l’ora tarda e il prolungamento della seduta – disse il Duce – né propongono il rinvio a domani“. Grandi insorse: “Per la carta del lavoro ci tenesti qui sette ore adesso che si tratta della salvezza della patria possiamo rimanere a discutere per tutto il tempo necessario“. Senza scomporsi il Duce accettò l’obiezione “Va bene –disse– sospendiamo per mezza ora“.
La seduta riprese dopo quarantacinque minuti e andò avanti blandamente fino a quando intervenne il Capo di Stato Maggiore della milizia fascista Galbiati che si lanciò in veementi, per i dissidenti minacciose, affermazioni di fede fascista.
In quel momento Mussolini dovette avere la sensazione che fosse possibile domare la rivolta e finalmente parlò con efficacia.
“Chi chiede la fine della dittatura – disse –sa di volere la fine del fascismo. Io ho sessant’anni e so che cosa vogliono dire certe cose del resto la mia meravigliosa ventura è gia durata vent’anni“.
Ribadì la sua sicurezza della vittoria finale e ammonì che se il Re avesse liquidato lui, avrebbe anche liquidato insieme con lui, tutti i presenti che l’avevano sollecitato ad agire.
Lo sviluppo del dibattito aveva oramai fatto capire che l’ordine del giorno Grandi era una sfida per il Duce. Si ebbero le prime defezioni: Cianetti espresse alcune perplessità che gli salvarono la vita nel processo di Verona. Il Presidente del Senato Suardo ritirò la firma già apposta e propose una fusione tra il testo di Grandi ed il testo di Scorza, idea questa che trovò consenziente Ciano.
Mussolini non propose un’ordine del giorno proprio e alle 2.30 diede inizio alla votazione. Cominciarono dall’ordine del giorno Grandi ed i Si furono 19 i no 8 e gli astenuti 1 (Suardo).
Votare gli altri documenti era oramai superfluo.
"Chi porterà al Re questo ordine del giorno?" Domandò Mussolini raccogliendo le sue carte.
“Tu“ rispose Grandi.
“Signori – Sentenziò Mussolini – voi avete aperto la crisi del regime“
Ancora per una quindicina di minuti Mussolini si trattenne a Palazzo Venezia e ricevette alcuni componenti del Gran Consiglio che si dichiararono fedeli, uno di loro propose di arrestare i 19. “Arrestarli?“ disse ironicamente Mussolini e sottolineò che fra i rivoltosi c’erano i più alti rappresentanti del regime.
Grandi una volta uscito da Palazzo Venezia si incontrò con Acquarone che aspettava con ansia accanto a Montecitorio, e dopo si recò da Vittorio Emanuele III.
I due prepararono il Decreto che nominava Badoglio Capo del Governo.
Nella notte in cui si preparava tutto ciò Mussolini riuscì a riposare un po’ e alle sette del mattino era già in piedi.
Nonostante la brevità del riposo chi si era concesso apparve pieno di energia al suo segretario De Cesare.
Incontrando un giornalista tedesco, De Cesare disse che nessun comunicato sulla seduta del Gran Consiglio era previsto, egli, evidentemente in buona fede dichiarò “La seduta è stata lunga, ma non interessante né importante“.
Stranamente Mussolini non prese i provvedimenti che la logica della Dittatura avrebbe suggerito, si preoccupò solo di fissare una udienza con il Re il pomeriggio alle ore 17.00.
In quel colloquio Mussolini tentò di spiegare i suoi progetti politici e militari. Ma il Re non ne volle sapere e non gli diede il tempo di farlo dicendo al Duce “Io vi voglio bene, ve l’ho dimostrato più volte difendendovi da ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciarmi libero di lasciare ad altri il Governo. Rispondo con la mia testa della vostra sicurezza personale, statene certo.“
Al nome di Badoglio, Mussolini esclamò “Allora tutto è finito“
“Mi spiace, mi spiace“ ripeteva il Re.
Quando Mussolini, giunto alla uscita, si avviò verso la macchina, il capitano Pigneri gli si fece incontro dicendo “Sua Maestà mi prega di proteggervi e vi prego di seguirmi“.
Fu caricato su un'autoambulanza e trasportato in una caserma all'una di notte. Il Duce ricevette una lettera di Badoglio in cui gli si diceva che lo si era trattato in quel modo nel suo “personale interesse“.
In meno di 24 ore Benito Mussolini da capo del Governo e Duce del Fascismo passava ad essere un prigioniero ingombrante e pericoloso.

L’impossibilità di continuare
Mussolini era dunque fuori gioco e il Re come concordato con Bonomi affidò il Governo ad un militare il Maresciallo Pietro Badoglio.
Per niente nuovo alla scena, il maresciallo era infatti uno degli eroi di guerra del nostro paese ma non aveva mai ricoperto incarichi di così alta responsabilità politica.
Si potrebbe dire di lui che era un uomo che nell'ordinaria amministrazione funzionava bene ma che nell'emergenza perdeva la testa. Era il migliore generale italiano ma in un esercito come quello tedesco al massimo sarebbe stato colonnello.
I giorni del suo Governo non furono certo un esempio di buon governo, per non usare termini più pesanti, e forse per alleviarne le responsabilità si può dire che non era certo circondato da geni.
Combattuto tra le preoccupazioni del Re e tra quelle dei partiti antifascisti non volle scontentare né gli uni e né gli altri non prendendo quelle grandi decisioni che la gravità del momento richiedeva.
I suoi primi provvedimenti furono l’emanazione di un proclama in cui si annunciava che la guerra continuava e il divieto di assemblee e riunioni.
Il partito fascista venne sciolto ma non fu permessa la costituzione di altri partiti. I prigionieri politici vennero liberati , ma vennero mantenuti ai loro posti anche militari e funzionari di fede tedesca.
Badoglio prometteva che la vita politica sarebbe ripresa dopo le elezioni. Per ora la nazione doveva aver fiducia nel Governo.
Questa però si mostrava assai poco degno della fiducia che richiedeva.
Mentre il Fuhrer decideva di far affluire truppe nel nostro territorio, Badoglio diceva no a Grandi che voleva un immediato rovesciamento delle alleanze. Il maresciallo voleva guadagnare tempo ma di tempo non c’è ne era e gli eventi lo travolsero, infatti, dall' Ottobre 1942 all'Agosto del 1943 diverse città italiane, le più importanti del Nord Italia, furono bombardate dagli alleati. Milano fu sicuramente la città più colpita: 1500 milanesi morirono ed i monumenti più importanti furono danneggiati.
Il Governo era con l’acqua alla gola ma lottava ancora per una pace onorevole. Gli alleati risposero di essere disposti a concedergli una resa incondizionata e qui c’era poco di onorevole ma quella proposta non si poteva rifiutare.
Il Governo con il suo comportamento iniziava a scontentare tutti :
- I tedeschi oramai sicuri del tradimento
- Gli alleati che ci guardavano con grande diffidenza
- Gli italiani che vedevano arrivare la guerra nelle loro case
Badoglio e il Re volevano l’impossibile e cioè far uscire il paese dal conflitto con il consenso dei tedeschi e dopo avere ottenuto una pace favorevole dagli alleati.
L’Italia non aveva nessun potere per ottenere questo.
Le trattative di pace con gli alleati furono affidate al Generale Castellano ma da trattare c’era ben poco: infatti gli alleati volevano un si o un no deciso. Il 3 Settembre 1943 a Cassibile, uno sperduto villaggio siciliano, l’armistizio fu firmato.
Il Governo Badoglio riuscì però ad ottenere che l’annuncio dell’armistizio fosse dilazionato fino a che le truppe alleate fossero sbarcate nell’Italia Meridionale. Sbarco che avrebbe dovuto essere accompagnato da un lancio di paracadutisti su Roma. Gli alleati constatarono che il Progetto lancio era impossibile perché i tedeschi controllavano orami gli aeroporti della capitale. Quindi il lancio di paracadutisti non si poteva effettuare.
Badoglio tentava di rimandare l’annuncio e il Re era addirittura pronto a disconoscerlo ma il Generale Eisenhower due ore dopo che Radio Londra ne aveva dato la notizia, trasmise una dichiarazione di Badoglio nella quale si annunciava l’armistizio: era l’8 Settembre 1943.
Badoglio nel proclama che fu emanato dopo l’annuncio dichiarava alla Nazione:
"Il Governo italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower comandante in capo delle forze alleate Angloamericane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle Forze Italiane, in ogni luogo esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza“.
Naturalmente i tedeschi non restarono con le mani in mano. Hitler aveva sempre ribadito che l’alleanza con l’Italia c’era perché c’era Mussolini, e già all’indomani della seduta del Gran Consiglio aveva preparato un suo piano d’azione che prevedeva quattro punti:
1- La liberazione di Mussolini
2- L’occupazione di Roma
3- L’occupazione militare di tutta l’Italia
4- La cattura o la distruzione della flotta italiana
Per attuare i suoi propositi il Fuhrer spostò sul fronte italiano 6 divisioni di fanteria, 2 corazzate, 1 di paracadutisti, 1 brigata da montagna, oltre a unità varie delle tre forze armate. Altre 4 divisioni di fanteria erano in Austria a ridosso della frontiera italiana.
Appena dopo l’annuncio dell’armistizio i tedeschi presero Roma dove incontrarono la flebile resistenza di troppe mescolate a civili antifascisti.
Ma che fine aveva fatto il Re, di Mussolini che ne era stato?
Come e con chi si erano mossi?
Il Re il 10 Settembre assieme ai suoi più stretti collaboratori lasciò Roma per Pescara da dove con una corvetta raggiunse Brindisi, anche Badoglio era con lui.
L’esercito fu lasciato allo sbando privo di ordini e con il terrore della deportazione nei campi di concentramento.
Mussolini, invece, si trovava sul Gran Sasso sa dove il 26 Luglio aveva indirizzato una rassicurante lettera a Badoglio che evidenziava la sua voglia di capire l’atmosfera e di tirarsi fuori da eventuali ritorni al Governo.
"Desidero, scriveva, assicurare al Maresciallo Badoglio, anche del ricordo del lavoro in comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma che le sarà data ogni possibile collaborazione. Faccio voti che il successo (dove vedi il rischio della fucilata della Bomba o della esplosione per dirla con Carlo Rossella noto giornalista) coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e per nome di sua maestà il Re, del quale durante ventuno anni è stato leale servitore, e tale ora rimane.
Cambiò tutto ed anche il rischio quando un gruppo di paracadutisti liberò il Duce dalla prigionia, forse sarebbe meglio dire dall' esilio in cui si trovava e tra qualche tentennamento lo accompagnò a Monaco di Baviera dove ritrovò moglie e figli e alcuni gerarchi rifugiatesi in Germania dopo il Gran Consiglio (Farinacei, Pavolini, Ricci, Preziosi).
L’obiettivo dei tedeschi era il ristabilimento di un Governo fascista e il 15 Settembre 1943 le agenzie di stampa diramarono un comunicato:
"Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo in Italia.
In questo comunicato c’erano anche cinque ordini del giorno del Duce, le cui decisioni erano comunque più che influenzate dai tedeschi, si nominava Alessandro Pavolini segretario provvisorio del partito, che assumeva il nome di partito fascista repubblicano, si ordinava a tutte le autorità e ai funzionari destituiti da Badoglio di riprendere il loro posto e di appoggiare attivamente l’alleato tedesco, si ricostituiva la milizia fascista con a capo Renato Ricci e si scioglievano gli ufficiali delle forze armate dal giuramento prestato al Re.
Il 18 Settembre Mussolini parlò anche agli italiani da Radio Monaco annunciando la nascita della Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò sul lago di Garda.
Il testo fondamentale della nuova repubblica venne approvato nel corso del primo congresso del partito fascista repubblicano svoltosi a Verona dal 14 al 16 Novembre 1943.
Erano stati preparati 18 punti che proponevano riforma della organizzazione dello stato grazie alla convocazione di un’assemblea costituente che sancisse la fine della monarchia e portasse alla elezione del Presidente della Repubblica ogni cinque anni.
Vi erano poi altre tesi di carattere prettamente sociale che riguardavano i lavoratori.
Per combattere la Guerra la RSI aveva bisogno di un esercito il cui comando fu affidato a Rodolfo Graziani che chiamò alla leva le classi 24-25 ma alla chiamata rispose solo il 40% del totale.
Il duce da Campo Imperatore aveva manifestato a Badoglio di non volere essere d’ostacolo ma il Fuhrer riuscì a ritirarlo dentro.
Perché accettò?
1a Ipotesi: Mussolini aveva voglia di riabilitarsi, la sua uscita di scena non era stata poi tanto gloriosa.
2a Ipotesi: Mussolini aveva paura per la propria vita minacciata sia dagli alleati e in caso di rifiuto anche dai tedeschi che comunque non è che non imposero niente.
Una volta assuntosi la responsabilità di guidare la RSI Mussolini dovette accettare la volontà tedesca senza potere dire la sua e quando la doveva dire era in ritardo.
Raccontare in queste righe con precisione la sua nuova dialettica, il ricorso al reportage, il tentativo di cancellare i fallimenti, tutte cose che vengono fuori quando ci si aspetta di chiudere con i problemi e di vincere, ma tutto ciò era impossibile poiché nell’aria della RSI c’è stata sempre la sconfitta ed il regolamento di conti con il passato: niente è andato bene.
La Germania voleva che tutti i traditori del regime venissero puniti.
Molti di loro, vedi Grandi, erano fuggiti all’estero; altri, vedi Ciano, si erano consegnati ai tedeschi direttamente o non nascondendosi come la logica avrebbe voluto.
Il Consiglio dei Ministri del 28 Ottobre 1943 riunito a Gargnano nella villa Feltrinelli decise l’istituzione di un tribunale speciale straordinario destinato a giudicare i componenti del Gran Consiglio rei di tradimento.
Alla Presidenza fu designato Aldo Secchioni, Avvocato, pubblico accusatore Andrea Fortunato, i giudici Celso Riva, Franz Pagliani, Enrico Vezzalini, Otello Gaddi, Giovanni Raggio, Renzo Montagna. Giudice Istruttore l’avvocato Vincenzo Cersosimo.
Ricostruiamo il Processo di Verona grazie ad un articolo del Corriere della Sera del 29-7-1993 firmato da F.Felicetti che si occupava dell’argomento alla luce dei documenti comparsi.
Di quello che era successo a Verona, luogo in cui si svolse il processo, sino a ieri c’era soltanto qualche fotografia. Oggi da un angolo remoto dell’archivio di stato è stato ritrovato un filmato della fucilazione di Galeazzo Ciano e di quattro traditori del 25 luglio.
Quella mattina d’inverno, accanto al plotone, c’era un cineoperatore ufficiale italiano o forse tedesco, con il compito di alimentare la macchina della propaganda e di far vedere agli altri quanto fosse inflessibile il fascismo di Salò.
La pellicola venne sviluppata in Germania tutto è documentato.
11 Gennaio 1944 9.15-9.30 di mattina.
Non è molto freddo, niente nebbia.
Lo scenario è il poligono di tiro di San Procolo poco fuori Verona: un vasto spazio erboso, un terrapieno dove venivano piazzate le sagome e un muro di cinta non alto e tutto uguale.
Il plotone d’esecuzione è composto da venticinque miliziani, una fila in ginocchio e una in piedi.
I condannati erano Emilio De Bono vecchio ed esausto che non c’è la fa a camminare.
Ciano il più osservato, il genero di Mussolini che Hitler vuole morto.
Impermeabile chiaro, cappello, le mani in tasca si guarda intorno senza paura sembra avere fretta di chiudere una recita già scritta.
Gli altri sono: Gottardi, Pareschi e Marinelli svenuto alla lettura della sentenza.
I condannati sono seduti a cavalcioni su delle seggiole ed offrono la schiena al plotone.
Prima di sedersi Ciano compie un gesto istintivo si tira su leggermente i pantaloni per stare più comodo, come se non andasse a morire. Partono i colpi, il plotone non aveva una grande mira in un rapporto delle SS si legge:
“……..gli uomini che giacevano a terra erano stati colpiti così male che si contorcevano e gridavano. Dopo una breve pausa pochi altri colpi furono sparati….
La pellicola si sofferma su Ciano, la sua faccia è la più insanguinata.
Nello stesso archivio di Stato sono stati trovati anche degli spezzoni che raccontano il processo di Verona.
L’aula di Castelvecchio, era buia, un gran fascio lettorio e in fondo un lungo tavolo con i nove conponenti del tribunale speciale. Tra di essi vi erano fanatici squadristi in cerca di vendetta come Celso Riva, Renzo Montagna, Franz Pagliani.
Gli imputati sono l’ombra di loro stessi. Vi è un pubblico assai selezionato. I giornalisti prendono appunti ma scriveranno solo quello che sarà detto loro dal Ministro Mezzasoma“.
I tedeschi, secondo il loro stile, avevano avuto vendetta ma il Processo di Verona segna un precedente importante quella della fucilazione di uomini del nostro stato per propaganda politica Ciano e gli altri furono i primi a loro seguirà proprio Mussolini.

Mirate al cuore
La situazione nel nostro paese incominciava ad essere difficile, parte del territorio in mano ai tedeschi e parte agli alleati, gli italiani non contavano più niente.
Non contava Mussolini, assoggettato alla volontà di Hitler, ma non contava neanche Vittorio Emanuele III che gli alleati tenevano ancora in gioco per non creare ulteriore confusione ma che ormai non aveva nessuna voce in capitolo anzi, gli alleati erano già pronti, spinti dai fascisti ed antifascisti a sostituirlo, era già nell’aria il progetto del referendum per scegliere tra monarchia e repubblica.
Con il paese diviso in due iniziarono a dividersi anche parenti ed amici e lo spettro della fame e della morte invase la vita degli italiani.
I partiti antifascisti si erano riuniti nel CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Il primo congresso del CLN si tenne a Bari nel Gennaio del 1944 ed avanzò la proposta di abdicazione del Re e la proposta di una Assemblea Costituente alla fine della guerra.
Il Governo ed i partiti raggiunsero un accordo voluto soprattutto dal PCI che vide l’impegno nel Governo delle componenti Antifasciste.
Il compromesso ebbe come conseguenza l’uscita di scena da parte di Vittorio Emanuele III che venne sostituito dal figlio Umberto.
Questi erano problemi politici che avevano comunque poco peso sulla guerra che ancora si combatteva, e che vedeva il popolo intento a sopravvivere ai bombardamenti, ai rastrellamenti, ai razionamenti di cibo e di conseguenza l’attenzione verso il Re, il Governo e i Partiti era molto bassa e parlandoci chiaro c’era un completo e giustificato disinteresse.
Mentre al Sud si assisteva al tentativo di riorganizzazione dello Stato, al Nord chi non combatteva nella RSI gioco forza anche per salvarsi la pelle doveva combattere contro.
Nacquero così i partigiani.
Le bande partigiane agirono inizialmente soprattutto in montagna e nelle campagne dove i controlli erano minori.
Lo sviluppo dei partigiani e l’incremento della loro forza si accompagnò all’avanzamento degli alleati.
Il ruolo svolto dai partigiani è oggetto di diverse interpretazioni: c’è chi attribuisce loro un ruolo decisivo e chi invece uno marginale.
Alle brigate partigiane può senza dubbio riconoscersi il non trascurabile merito di aver svegliato gli italiani, poiché in Italia si combatteva una guerra che era la loro, quella degli italiani appunto.
Nel Giugno del ’44 le truppe alleate entrarono in Roma, a seguito di questa operazione Badoglio abbandonò e lasciò a Bonomi la presidenza.
Nell’Agosto venne liberata anche Firenze.
L’avanzata alleata ad un certo punto si bloccò sulla così detta Linea Gotica ed in quel momento iniziarono le difficoltà per i partigiani, oggetto di rastrellamenti, e per la popolazione civile, che divenne bersaglio delle varie esecuzioni e deportazioni decise dai nazifascisti.
La vita cominciò ad essere veramente dura: è di questo periodo la maggior parte dei 40.000 morti della guerra di liberazione.
La situazione si sbloccò nell’Aprile del 1945 quando gli alleati riuscirono ad entrare nel Nord Italia. Il crollo tedesco era oramai evidente non solo nel nostro paese ma sull’intero fronte di guerra e con la caduta del Fuhrer si chiudeva anche l’avventura della RSI ora restava a Mussolini solo la fuga.
Il 25 Aprile viene festeggiato ancora oggi come festa della liberazione.
I corpi del Duce, della Petacci e di altri gerarchi vennero esposti a Milano il 29 Aprile. Prima di essere fucilato ebbe la forza di esclamare “Mirate al cuore“….

Bibliografia.
G. Fiori “Processo a Gramsci“, Newton, pagina 17
Camera / Fabietti “1948 ai giorni nostri“, Zanichelli
Guglielmetti “I dittatori“, C.e.n – Roma
Cadauna “Processo a Mussolini“, C.e.n – Roma
Procacci “Storia degli italiani“, Laterza
Getto /Solari “Novecento“, Minerva Italica
Cervi / Montanelli “L’Italia della disfatta“, Rizzoli
G.Carocci “Storia del fascismo“, Newton
U.Cerroni “Il pensiero politico del novecento“, Newton.
Grazie ai quotidiani: Il Giornale e l’Unità.