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Partito politico italiano, costituito nel 1921 e sciolto nel 1991.
Fu fondato, sull’onda della Rivoluzione d’ottobre e del biennio
rosso, il 21 genn. 1921 dall’ala sinistra del Partito socialista
(PSI) che, durante il 17° Congresso del PSI (Livorno), in cui
ottenne 58.783 voti su 171.506, si costituì in organizzazione
autonoma col nome di Partito comunista d’Italia (PCD’I) sezione
italiana dell’Internazionale comunista. Tale denominazione venne
mantenuta fino al giugno 1943 (scioglimento del Comintern) quando fu
modificata in PCI.
La vicenda del PCD’I dalla clandestinità alla Resistenza.
Le principali forze promotrici della nascita del PCD’I furono la
corrente astensionista di A. Bordiga, il gruppo torinese dell’Ordine
nuovo, periodico diretto da A. Gramsci, cui facevano capo anche P.
Togliatti, U. Terracini e A. Tasca, parte dell’ala massimalista del
PSI (N. Bombacci, E. Gennari, A. Marabini) e infine la grande
maggioranza della Federazione giovanile socialista guidata da L.
Polano.
Il PCD’I (che elesse 13 deputati nel 1921 e 18 nel 1924) fu
costituito in polemica con la politica del PSI e allo scopo di
organizzare e dirigere lo sbocco rivoluzionario della crisi
italiana. I primi anni furono caratterizzati da un lato dalla
sconfitta del movimento operaio e dalla reazione statuale e
fascista, dall’altro dall’attestarsi del gruppo dirigente, guidato
da Bordiga, su una linea intransigente non priva di settarismi.
Ciò determinò il diversificarsi delle posizioni
all’interno del partito e la decisione del Comintern – che premeva
per la costruzione di partiti comunisti di massa e per un
riavvicinamento ai socialisti – di sostituire la direzione
bordighiana con un esecutivo che includesse la minoranza (giugno
1923).
Protagonista della costruzione del nuovo gruppo dirigente fu
Gramsci, che al 3° Congresso (genn. 1926) con le Tesi di Lione
diede avvio a un nuovo corso perseguendo – anche durante la crisi
Matteotti, dinanzi a cui il PCD’I tentò di promuovere lo
sciopero generale, ma rimase isolato – il radicamento del partito
tra le masse lavoratrici, individuando le «forze motrici della
rivoluzione italiana» nella classe operaia settentrionale e
nei contadini meridionali.
Con la promulgazione delle «leggi speciali» e l’arresto
di Gramsci (nov. 1926), il PCD’I entrò nella fase
clandestina. Gli anni tra il 1927 e il 1943 segnarono per i
militanti comunisti la stretta tra la clandestinità e
l’esilio, soprattutto in Francia e in Unione Sovietica. Tuttavia il
PCD’I non abbandonò mai la lotta in Italia, e fu anzi l’unico
partito antifascista a conservare un’organizzazione e un minimo di
radicamento. Importante a tal fine fu la svolta del 1928-30 che,
stimolata dai giovani L. Longo e P. Secchia, rafforzò l’idea
dell’Italia come centro di gravità dell’azione del Partito, e
vide ricostituirsi quel centro interno destinato ad affiancare il
centro estero. Anche sul piano sindacale il PCD’I tenne la stessa
linea, fondando la CGL «rossa» all’indomani dello
scioglimento della CGDL da parte dei suoi dirigenti (1927).
Al tempo stesso fu attento a usare ogni spazio di azione legale e a
non perdere i contatti con la massa dei lavoratori, agendo anche
all’interno delle organizzazioni del regime (sindacati corporativi,
dopolavoro ecc.); una linea che Togliatti sistematizzò poi
nelle Lezioni sul fascismo tenute a Mosca, in cui parlò di
«regime reazionario di massa», sottolineando la
necessità di puntare sulla ricostruzione dei legami di massa.
Nello stesso senso andarono gli appelli ai cattolici e anche ai
«fratelli in camicia nera» che il PCD’I – in particolare
su impulso di R. Grieco – rivolse ai lavoratori di altre
appartenenze per esortarli a un’azione comune contro la guerra
d’Etiopia e lo stesso regime fascista. Al tempo stesso, a Parigi,
attraverso Longo il PCD’I stringeva un patto di unità
d’azione con il PSI (1934), anticipando la svolta dei Fronti
popolari.
Durante la guerra il PCD’I proseguì la sua azione
clandestina, proponendo già tra la fine del 1942 e gli inizi
del 1943 la formazione di un fronte nazionale antifascista e di
squadre d’azione patriottica. Grazie ai legami con la classe operaia
del Nord, il PCD’I ebbe un ruolo rilevante negli scioperi operai del
marzo 1943. Dopo il 25 luglio, si ricostituì la direzione;
intanto il Promemoria urgente sulla necessità di organizzare
la lotta armata contro i tedeschi, redatto da Longo, costituiva
l’atto di nascita della Resistenza, che vide il partito in prima
linea, nell’organizzazione delle Brigate Garibaldi (dirette assieme
a Secchia), dei GAP (Gruppi di azione patriottica), delle SAP e del
Corpo volontari della libertà, di cui lo stesso Longo fu
vicecomandante. Al tempo stesso il PCD’I fu tra i fondatori (con G.
Amendola e M. Scoccimarro) del Comitato di liberazione nazionale, in
cui acquisì rapidamente un posto di rilievo.
Il «partito nuovo» di Togliatti; il PCI nell’Italia
repubblicana.
La ridefinizione della linea del partito ebbe luogo a partire dal
ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944): messa provvisoriamente
da parte la pregiudiziale repubblicana, Togliatti – con la
«svolta di Salerno» – indicò al partito
l’unità antifascista come premessa di un radicamento nella
società che sarebbe scaturita dalla liberazione; sul piano
organizzativo indirizzò i militanti verso la costruzione del
«partito nuovo», di un partito, cioè, che avesse
ampia base di massa e rappresentatività sociale.
L’idea guida di Togliatti era che la trasformazione socialista
dell’Italia dovesse avvenire attraverso la progressiva ascesa delle
masse popolari al governo della cosa pubblica, con un continuo
allargamento della democrazia (democrazia progressiva) e una serie
di «riforme di struttura» in grado di modificare i
rapporti sociali ed economici. Conseguentemente il PCI fece parte
dei governi dell’Italia democratica fin dal regno del Sud e, dopo la
Liberazione, partecipò alla ricostruzione economica e
politica, estese la sua influenza nella società (attraverso
una capillare rete di sezioni territoriali e cellule di fabbrica)
soprattutto tra la classe operaia, ma anche in strati di ceti medi,
di contadini (specialmente nel Mezzogiorno) e di intellettuali,
superando i 2 milioni di iscritti dal 1949 al 1956; al tempo stesso
il PCI aveva una presenza egemone tra i militanti e i dirigenti
della CGIL, disponeva di un diffuso organo di stampa
(l’Unità) ed era largamente presente negli enti locali.
Nel giugno 1946 elesse 104 deputati all’Assemblea costituente
contribuendo alla stesura della Carta costituzionale; un suo
dirigente, U. Terracini, presiedette l’Assemblea.
Escluso dal governo insieme al PSI in occasione della formazione del
quarto gabinetto De Gasperi (maggio 1947), il PCI venne a costituire
da allora la maggiore forza politica di opposizione. Battuto dalla
Democrazia cristiana (elezioni dell’aprile 1948) il Fronte
democratico popolare – costituito principalmente da PCI e PSI –, gli
anni del dopoguerra furono caratterizzati da un duro confronto con
il governo su temi di politica sia interna sia internazionale:
già sconfitta un’ipotesi di potere consiliare sviluppatasi
nelle fabbriche del Nord (i consigli di gestione) e avviata una
riforma fondiaria nel Mezzogiorno, la battaglia del PCI verté
in particolare sul controllo sociale della produzione,
sull’attuazione della Costituzione e sulla difesa dei livelli
occupazionali; in campo internazionale, apertosi il periodo della
Guerra fredda, il PCI (che, sciolta l’Internazionale nel 1943, nel
1947 aveva aderito al Cominform) tentò di contrastare
l’adesione dell’Italia alla NATO (1949).
Momenti particolarmente aspri del confronto politico furono le
manifestazioni che seguirono l’attentato a Togliatti (luglio 1948) e
la campagna elettorale per le politiche del 1953, a motivo
dell’introduzione di un meccanismo che correggeva in senso
maggioritario la rappresentanza elettiva; tale meccanismo tuttavia
non scattò e il PCI vide incrementata la rappresentanza
parlamentare (22,6%). In questo periodo si delineò anche lo
scontro interno che avviò il ricambio generazionale alla
guida del partito, mentre il «rapporto segreto» di
Chrusčëv al 20° Congresso del PCUS e l’invasione sovietica
dell’Ungheria (1956) costrinsero il PCI a un’ampia riflessione sulla
propria strategia e sul socialismo realizzato: nell’8° Congresso
(dic. 1956) il partito rilanciò i temi della coesistenza
pacifica e della molteplicità di vie al socialismo, e
iniziò a prendere le distanze dall’unitarismo di stampo
sovietico prevalente nel movimento comunista mondiale (Togliatti
aveva parlato invece di policentrismo), accentuando sul piano della
politica interna gli aspetti democratici e gradualisti già
presenti nell’elaborazione del 1944-47 (via italiana al socialismo).
Rotto nel 1956 il patto d’alleanza fra PCI e PSI, con la prospettiva
dell’inserimento socialista nell’area di governo, veniva a crearsi
una condizione di isolamento politico, che non incideva sui livelli
elettorali (22,7% nel 1958, 25,3% nel 1963). Alla morte di Togliatti
(ag. 1964) – le cui ultime elaborazioni (dalla polemica con il
partito cinese al Memoriale di Yalta) tendevano alla valorizzazione
e al rilancio della «unità nella
diversità» nel movimento comunista internazionale –
venne eletto alla segreteria L. Longo, il quale, intensificando la
polemica con il centrosinistra e il progetto di unificazione
PSI-PSDI, indirizzò il partito verso la programmazione
democratica, giungendo al 26,9% nelle elezioni del 1968.
La stagione delle lotte operaie e il processo di unità
sindacale, nonché lo spostamento a sinistra della pubblica
opinione, assieme alla crisi del centrosinistra, determinarono nei
primi anni Settanta nuove attenzioni e aspettative verso la politica
del PCI (27,1% nel 1972), alle quali il nuovo segretario E.
Berlinguer rispose con il «compromesso storico» (1973),
proposta di collaborazione con le forze cattoliche e socialiste per
il rinnovamento del Paese. La proposta divenne ineludibile dopo le
ulteriori affermazioni elettorali del PCI (34,4% nel 1976) e si
concretizzò dapprima nell’accordo sull’astensione al governo
presieduto da G. Andreotti (monocolore DC, ag. 1976), poi sul voto
al nuovo monocolore Andreotti, inaugurato nel giorno del rapimento
di A. Moro (marzo 1978). Proprio l’assassinio del dirigente
democristiano, principale interlocutore di Berlinguer nella DC,
condannò però il progetto al fallimento.
La delicatissima fase di «solidarietà nazionale»
terminò quindi nel marzo 1979, con la decisione comunista di
uscire dalla maggioranza, mentre iniziavano un certo calo elettorale
(30,4% nel 1979) e la ricerca di una strategia di «alternativa
democratica».
Sul terreno internazionale, l’invasione sovietica dell’Afghanistan
(1979) e la proclamazione della legge marziale in Polonia (1981)
segnavano un’ulteriore differenziazione dall’URSS (che già il
PCI aveva nettamente criticato per l’intervento in Cecoslovacchia
nel 1968), con la dichiarazione di Berlinguer circa l’esaurimento
della spinta propulsiva dell’Ottobre sovietico (dic. 1981) e
un’ulteriore sottolineatura del nesso necessario fra democrazia e
socialismo, cui fece seguito un forte impegno sui temi della
distensione e del disarmo.
Il relativo isolamento del PCI veniva confermato dal risultato
elettorale del 1983 (29,9%), cui si accompagnavano un progressivo
arretramento delle amministrazioni di sinistra e un sensibile calo
degli iscritti, mentre un duro scontro sul decreto di taglio della
scala mobile, varato dal governo di B. Craxi nel febbr. 1984, vide
il PCI sconfitto nel referendum indetto sull’argomento, sia pure con
una quantità di consensi ben superiore alla sua forza
elettorale. Durante la campagna per le elezioni europee del 1984,
moriva Berlinguer, cui seguiva nella carica di segretario generale
A. Natta. Preso atto della indisponibilità del PSI a una
linea di alternativa, il PCI avviava una politica di confronto senza
pregiudiziali con le altre forze politiche, mentre il dato
elettorale continuava a evidenziare una fase di difficoltà
(26,6% nel 1987).
Con A. Occhetto (segretario dal 1988) il PCI accentuava la ricerca e
l’impegno sulle riforme istituzionali, accostandosi all’idea di
bipolarismo e di quella riforma del sistema elettorale in senso
maggioritario che in passato aveva sempre avversato.
Nel 1989 Occhetto, anche in seguito al crollo del muro di Berlino,
propose, prima in un discorso (12 nov.) agli ex partigiani della
Bolognina, poi agli organismi dirigenti del partito, la creazione di
una nuova forza politica non più comunista, nella prospettiva
di unificare l’intera sinistra. Approvata dal Comitato centrale a
larga maggioranza, la proposta del segretario animò un vivace
dibattito interno e fu al centro della discussione del 19°
Congresso, tenutosi a Bologna nel marzo 1990. In quella sede la
mozione di Occhetto, sottoscritta dalla componente migliorista
facente capo a G. Napolitano, ottenne il 67% dei voti, contro il 30%
della mozione presentata da P. Ingrao, A. Tortorella e A. Natta,
che, pur favorevole a una ridefinizione della natura del partito,
era contraria all’abbandono dell’identità comunista, e il 3%
di quella di A. Cossutta, che ribadiva la validità
dell’esperienza comunista e auspicava il rilancio del partito.
Il 20° Congresso (1991) dava vita al Partito democratico della
sinistra; contrari all’iniziativa si dichiararono dirigenti di
rilievo e il 32,3% degli iscritti, parte dei quali, guidati da A.
Cossutta, avviò la costituzione del Partito della
rifondazione comunista.