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Patriota (Fucecchio 1813 - ivi 1862); collaboratore dell'Antologia
di G. P. Vieusseux, nel 1840 divenne prof. di diritto civile
nell'univ. di Pisa. Fu tra i primi in Italia ad accogliere il
sansimonismo, passò poi al movimento evangelico promosso a
Pisa da Carlo Eynard e aderì infine al neoguelfismo con la
fondazione del giornale L'Italia (1847). Volontario con gli studenti
pisani nel 1848, fu ferito e fatto prigioniero a Curtatone.
Liberato, fu eletto all'Assemblea toscana; inviato governatore a
Livorno, lanciò l'idea di una Costituente italiana,
iniziativa a carattere nettamente rivoluzionario, che divenne
programma governativo quando il granduca lo chiamò a
succedere a Capponi nella presidenza del consiglio (ott. 1848).
Convinto della necessità di inserire la questione toscana in
una soluzione democratica di tutto il problema italiano, M. propose
poi una Costituente unica di Roma e Toscana. Ma il granduca
fuggì e M., entrato nel governo provvisorio (il triunvirato
Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni) non riuscì a far proclamare la
repubblica e l'unione con Roma per la decisa opposizione di D.
Guerrazzi. Assunti i pieni poteri da quest'ultimo, M. fu inviato in
Francia a sollecitarvi aiuti: qui rimase esiliato al ritorno del
granduca (luglio 1849), mentre in Toscana veniva condannato
all'ergastolo. In quegli anni pubblicò tra l'altro:
Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d'Italia
(1851) e Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814
al 1850 (1853), acuta analisi del moto rivoluzionario italiano e
delineazione di un programma politico, articolato su un socialismo
decentrato di tipo proudhoniano. Non credendo all'immediata
possibilità unitaria e sopravvalutando l'iniziativa e
l'apporto francese, favorì per qualche tempo il movimento
murattiano e, deputato all'Assemblea toscana (era andato volontario
alla guerra del 1859), si dichiarò contrario alla fusione col
Piemonte senza particolari garanzie. Poco prima della morte fu
eletto deputato al parlamento italiano.
*
DBI
di Paolo Bagnoli
MONTANELLI, Giuseppe.
Nacque a Fucecchio, in provincia di Firenze, il 21 genn. 1813 da
Alessandro, organista e compositore di musica per banda, e da Luisa
Pratesi. A nove anni venne affidato alle cure del canonico Valentino
Montanelli, zio paterno, rettore del seminario di S. Caterina di
Pisa, con cui compì i primi studi classici.Nel 1826 si
iscrisse alla facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Pisa; di un anno successivo sono le sue
prime composizioni poetiche.
Si laureò in giurisprudenza nel 1831 e nello stesso anno
entrò in contatto con G.P. Vieusseux per collaborare
all’Antologia, il periodico nel quale nel febbraio 1832
pubblicò uno scritto Sul giornaletto poetico stampato in
Corfù, osservazioni di Achille Delviniotti corcirese. Il
rapporto instaurato con Vieusseux e quanto ruotava intorno
all’Antologia e al Gabinetto di lettura fondato a Firenze nel 1819
è indicativo degli orientamenti politici e culturali che
animavano il M. fin dagli anni della giovinezza poiché
intorno all’attività del Gabinetto si venne maturando la
cultura politica del liberalismo toscano nella sua declinazione
più moderata.Nel 1826 tra le personalità di spicco nel
giro intellettuale che faceva capo al Gabinetto si segnalano
personalità quali G. Capponi, C. Ridolfi, B. Ricasoli, R.
Lambruschini, L.G. de Cambray-Digny, V. Salvagnoli, P. Bastogi e U.
Peruzzi, tutti accomunati più che da un convincimento di
ordine ideologico, da un atteggiamento verso la società
e la politica che li portava a impegnarsi in iniziative culturali,
pedagogiche e anche economico-commericiali che ritenevano, con
coscienza illuministica, fosse un loro dovere promuovere per il bene
della comunità.
Nel 1831 il M. collaborò anche al Giornale pisano e, nel
1832, al napoletano Progresso. L’anno successivo si avvicinò
alle dottrine di C.-H. di Saint-Simon, approfondendo nel frattempo
gli studi giuridici; nel 1835, dopo aver esercitato la pratica nello
studio pisano dell’avvocato G. Carmignani, sostenne l’esame per
l’avvocatura. Allo stesso anno risalgono i primi scritti poetici
raccolti in opuscoli: Poesia e giurisprudenza: pensieri da inno
(Pisa 1835); L'indefinito (Firenze 1835). Nel 1837 pubblicò a
Firenze le Liriche. Tre anni dopo venne nominato professore di
diritto civile e commerciale all’Università di Pisa ove ebbe,
tra gli altri, quale collega S. Centofanti. Frutto del suo esordio
come docente fu la Prolusione alle lezioni di diritto patrio detta
il 4 genn. 1841 nell’I.R. Università di Pisa (Pisa
1841). Presto prese a occuparsi di politica e nel 1843 promosse
un’associazione, dal carattere prevalentemente morale, denominata
«Fratelli italiani» che trovò diffusione
soprattutto fra gli studenti pisani; a Livorno se ne fece
propagatore V. Malenchini.
Grande rilievo ebbe nella sua formazione l'avvicinamento al
movimento evangelico che faceva capo, a Pisa, a C. Eynard: tale suo
passo rifletteva il nesso che, pensando a una riforma della Chiesa,
il M. veniva stabilendo tra religione e politica, come
dimostrò la memoria che nel febbraio 1846 rivolse al
governatore L. Serristori contro la nascita di un nuovo istituto di
suore del Sacro Cuore di Gesù in Pisa e il conseguente
rafforzamento dell’attività dei gesuiti in Toscana. Per
sostenere la propria azione politica, nel 1847 fondò in Pisa
il giornale L’Italia, il cui primo numero vide la luce il 19 giugno.
Alla fine di ottobre dello stesso anno si recò a Roma e il 2
novembre venne ricevuto in udienza da Pio IX. Sempre nel 1847
pubblicò vari opuscoli, fra i quali L’Austria e l’Italia in
faccia all’Europa (Torino) e Introduzione filosofica allo
studio del diritto commerciale positivo (Pisa).
Animato da un forte sentimento patriottico, nel 1848 il M.
partì da Pisa a capo di una colonna di volontari; ferito a
Curtatone e inizialmente dato per morto, venne fatto prigioniero e
condotto a Mantova e poi a Innsbruch. Nel settembre tornò in
Toscana e fu eletto all'Assemblea in rappresentanza di Fucecchio. Ai
primi di ottobre, inviato a Livorno come governatore per ristabilire
la calma dopo i tafferugli che avevano messo in agitazione la
città, vi concepì il progetto della Costituente
italiana. Alla caduta del ministero Capponi il 26 ott. 1848, venne
incaricato dal granduca di formarne uno nuovo – nato il 28 ottobre –
nel quale assunse la carica di presidente chiamando al dicastero
dell’Interno F.D. Guerrazzi e, alla Giustizia, G. Mazzoni.
L’esperienza governativa del M. nacque nel cuore del conflitto tra
democrazia e moderatismo che agitava, al pari di altri Stati, anche
la Toscana specialmente dopo la sconfitta piemontese a Custoza il 25
luglio 1848 e dopo l'armistizio di Salasco del 9 agosto, con la
conseguente riconsegna di Venezia all’Austria. Nel settembre dello
stesso anno sposò segretamente Laura Cipriani Parra con la
quale era in amicizia fin dalla metà degli anni ’30.
Fallito il tentativo di Capponi di dare una risposta moderata alla
situazione politica, il governo del M. si propose di darne una di
segno marcatamente democratico, rispondente al clima politico che si
era creato: è per tale motivo che richiese anche la presenza
del Guerrazzi che lo aveva preceduto quale governatore di Livorno.
Fu in questa veste che il M. propose agli altri Stati italiani
l’idea della Costituente quale soluzione di quel problema nazionale
in cui aveva ora individuato il fine primario della propria
attività. Già anticipata dal M. l’8 ott. 1848, ossia
il giorno dopo il suo arrivo a Livorno in sostituzione di Guerrazzi,
l’idea della Costituente fu esposta il 7 novembre ai rappresentanti
toscani presso gli altri governi con una circolare articolata in
quindici punti.
Il motivo di partenza del ragionamento che la sostiene risiede nella
nuova situazione politica determinatasi dopo l’insurrezione lombarda
la quale «proclamò col fatto il principio della
sovranità nazionale e i governi lo accettarono partecipando
alla guerra di indipendenza» (Marradi, p. 87). Il principio
della sovranità nazionale ebbe un corollario politico di
notevole rilievo poiché, a seguito dell’insurrezione, il
Piemonte non solo aggregò le province insorte, ma volle che
tale annessione fosse legittimata con il voto popolare. Il dato di
novità della situazione italiana venne, perciò, colto
nell’intreccio tra l’avanzamento del processo unitario e l’adozione
di un regime democratico; oramai l’Italia che doveva nascere,
l’Italia unita, per il M. non poteva prescindere da questi due
principî – sovranità nazionale e suffragio universale –
«acquisiti irrevocabilmente dal diritto pubblico
italiano» (ibid.). Ne consegue che la Costituente
«è l’applicazione degli stessi principi
all’edificazione della nazionalità» (ibid.). L’unione
dei due principî esprime, in maniera quasi simbolica,
l’orientamento ideologico-politico del M. che, dopo gli avvenimenti
del ’48, vide in un ordinamento statuale a forma federalista la
soluzione del problema italiano. Rifuggendo da ogni concezione
giacobina la Costituente si configura, infatti, come la forma
politica che anticipa e prepara quella statuale; essa segna il
passaggio storico da un vecchio assetto politico legittimato dal
principio divino a uno nuovo che è legittimo poiché
espressione della libera volontà della nazione. In questa
fase il M. non si esprime per un ordinamento di tipo monarchico o
repubblicano; la costruzione dell’unità è
pregiudiziale alla forma istituzionale e ciò giustifica la
sua preferenza per una forma federalista che non sarebbe,
però, legittimata senza il riconoscimento dei cittadini che
devono eleggere un parlamento sovranazionale, ossia la Costituente.
Il federalismo del M. aveva dunque le caratteristiche di un
federalismo nazionale e non di un federalismo di Stati. La sua
Costituente avrebbe dovuto prevedere due stadi: il primo antecedente
la cacciata dello straniero e il secondo successivo alla conquista
dell’indipendenza. «La Costituente del primo Stadio deve
occuparsi di tutti i problemi che si riferiscono o direttamente o
indirettamente all’acquisto dell’indipendenza» – spiegava la
circolare del 7 nov. 1848 – per poi precisare che «tutte le
questioni d’ordinamento interno alla Nazione non si dovranno agitare
se non nel secondo stadio, poiché alla loro risoluzione
è richiesto il voto di tutto il popolo italiano, gran parte
del quale non potrà eleggere i suoi rappresentanti
finché geme nel dolore della servitù straniera»
(ibid., p. 88).
La proposta del M. si colloca su un piano diverso sia rispetto al
disegno di V. Gioberti, tutto proteso nel coniugare l’istanza
cattolica con il dato politico dell’unità nazionale, sia a
quello di Carlo Cattaneo, espressione di un’altra concezione
federalista: per il M., infatti, «la nazione dovrà
esercitare la sua autonomia al di sopra di qualsiasi altra» ma
ciò «non vuol dire che essa debba necessariamente
distruggere le autonomie subnazionali.Si tratta di armonizzare la
varietà coll’unità» (G. Montanelli, Memorie
sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino
1853, I, p. 74). Nel corso degli anni l’istanza autonomistica della
realtà italiana sarebbe rimasta una costante della sua
concezione politica.
Il 22 genn. 1849 venne presentata al Consiglio generale del
Granducato la legge per l’elezione dei deputati toscani
all’Assemblea costituente italiana: all'approvazione seguì
anche quella del Senato, nonostante le pressioni in senso contrario
esercitate da Leopoldo II. Tuttavia, nei giorni intercorsi tra la
votazione del Consiglio generale e quella del Senato si registrarono
a Firenze nuovi disordini che impensierirono fortemente il granduca
il quale, temendo reazioni negative del papa, anziché
controfirmare la legge la mattina del 30 gennaio lasciò
Firenze e raggiunse la famiglia a Siena dove, sordo agli inviti del
Governo, si fermò adducendo motivi di salute; poi, il 3
febbr. 1849, con una lettera al M. invitò i ministri «a
recedere dall’idea di abbandonare i loro posti», mantenendo
tale decisione malgrado le pressioni del M. recatosi di proposito a
Siena per convincerlo a tornare. La ragione vera della fuga fu nota
quando il granduca ammise di non aver firmato la legge sulla
Costituente per timore della scomunica papale. L'8 febbraio i
fiorentini proclamarono decaduto Leopoldo II e invitarono il
Consiglio generale, riunito in seduta in palazzo Vecchio, a nominare
un governo provvisorio. Il Consiglio generale, per evitare la
violenza popolare e sotto la pressione moderata esercitata
soprattutto da Capponi e da Ricasoli, nominò un governo
provvisorio affidandolo al M., a Guerrazzi e a Mazzoni.
Con la partenza di Leopoldo II per Gaeta, la Toscana fu governata da
un triunvirato tra i cui componenti non regnava certo la concordia;
infatti, mentre al M. premeva proclamare ufficialmente la
Repubblica, Mazzoni riteneva più opportuno che la questione
fosse affrontata dalla Costituente e Guerrazzi si andava nuovamente
orientando verso il fronte moderato che peraltro non lo appoggiava.
In un clima di incertezze e di intemperanze politiche tra le diverse
fazioni, il 5 marzo 1849 i Toscani furono chiamati alle urne per
eleggere una nuova assemblea legislativa con mandato valido anche
per la Costituente romana, pur senza precisare se spettasse a essa
il compito di decidere sulla forma di Stato che doveva assumere l’ex
Granducato. Mentre la votazione per la Costituente andò quasi
deserta, il governo ebbe l'approvazione; la nuova Assemblea si
insediò il 25 marzo e, nell’occasione, il M. tenne un
appassionato discorso sull’attività del governo provvisorio.
«Il nostro desiderio – disse – ora si è che sia
decretata l’unificazione con Roma», aggiungendo:
«Guardiamo a Roma sì, ma per vedere spalancato il
tempio di Giano. Un gran libro dei conti è aperto sui campi
lombardi. E verrà giorno in cui al nuovo principio che
abbiamo inaugurato, si chiederà dall’Italia redenta quante
vite, quanti denari, quante lagrime, quanto sangue abbia dato al
comune riscatto. E nella risposta è l’avvenire della
Repubblica che vogliamo fondare» (Ghisalberti, p. 312).
Si stava valutando l'opportunità di un'adesione della Toscana
alla Repubblica romana quando il 27 marzo giunse la notizia della
sconfitta di Novara avvenuta il 24 marzo e della conseguente
rinuncia di Carlo Alberto alla Corona sarda. Racconta il M.:
«Differire la proposta repubblicana prudenza politica
domandava […]. Dopo la disfatta di Novara il paese non ci lasciava
più fare, e se era modo di reggere ritta la democrazia
consisteva a restringersi tutti in tutela di indipendenza dal
forestiero. Nella notte dal ventisette al ventotto rassegnammo alla
Costituente i poteri. Niuno parlò di repubblica; tutti di
pensare a difesa. Fu proposto accordare per più sollecite
provvidenze autorità straordinaria a Guerrazzi […]. In
Toscana in quel momento io non potevo essere utile come in Francia,
cooperando al pronto apparecchio dei quattromila armati,e a favore
della stampa,della pubblica opinione,e dei governi. Proposi a
Guerrazzi mi mandasse a Parigi, e lasciai la Toscana» (in
Memorie..., II, pp. 348 s.).
Inviato in Francia con l’incarico formale di raccogliere appoggi
militari e sensibilizzare l’opinione pubblica a favore della
Toscana, con il ritorno di Leopoldo, avvenuto il 12 apr. 1849, la
missione del M. si trasformò in un esilio destinato a durare
fino al 1859. Occorsero tre anni prima che il 16 ag. 1852 iniziasse
il processo contro i protagonisti degli avvenimenti del ’48-’49;
l’anno seguente il M., contumace come Mazzoni, fu condannato
all’ergastolo e Guerrazzi a 15 anni di carcere, poi condonati
all’esilio.
Durante l’esilio il M. entrò in contatto con diversi
esponenti del mondo politico francese svolgendo un’intensa
attività pubblicistica su giornali e riviste francesi. Fu
anche affiliato alla massoneria (nel 1861 era membro della loggia
«Dante Alighieri» che rappresentò il 1° marzo
1862 in un’assemblea generale per eleggere un nuovo gran maestro in
sostituzione di Costantino Nigra). Oltre a sancire il suo definitivo
distacco da Mazzini la riflessione sulle appena trascorse vicende
politiche e militari dell'Italia e sul ruolo che vi avevano avuto i
mazziniani unitari fu all'origine, nel 1851, dell’Introduzione ad
alcuni appunti storici sulla rivoluzione d’Italia (Torino), seguito
nel 1852 dall’opuscolo Nel processo politico contro il Ministero
democratico toscano (Firenze).
L’Introduzione costituisce l’opera politica di maggior respiro del
M., la cui analisi della rivoluzione non ha un significato
esclusivamente fattuale in quanto egli con il termine rivoluzione
non si riferisce solo agli avvenimenti quarantotteschi, ma individua
una categoria storico-politica che assume una connotata valenza
ideologica. Per quanto giudichi quasi impietosamente l’operato del
movimento democratico in Italia, il M. non abiura, tuttavia, a quel
sentimento; riconosce, anzi, che esso aveva una logica in quanto lo
sottendevano un giudizio e un ragionamento politico.
Partendo dal presupposto che «ogni popolo ha diritto a
governarsi da sé» e che ogni forma di occupazione
straniera «è un attentato a questo
diritto», il M. sosteneva che tutti, papa o principe o popolo,
possono portare il paese all'indipendenza: «Il despotismo o la
libertà non importa; basta rivendicare l’autonomia
nazionale». L’urgenza di arrivare all’indipendenza nazionale
dà, perciò, ragione di quel sentimento che è la
manifestazione di un impulso politico di ordine superiore ed
evidenzia una verità che ha un significato politico di valore
storico e concettuale. La conclusione del M. è che lo Stato
della Chiesa, in quanto monocratico, non può essere né
liberale né democratico: «Papato e democrazia non
potevano stare insieme, la incompatibilità di cotesti due
principii resulta dalla loro essenza medesima. La democrazia
è la legge fatta a seconda di quello che pare giusto o utile
alla maggioranza dei socii interrogata per via dei metodi che la
sapienza politica abbia suggerito più idonei a chiarire il
pensiero comune. […] Lo accordo della democrazia col principato
è reso impossibile dalla contrarietà delle loro
nature, essendo il principato volontà di uno (monos), e la
democrazia mente di tutti (demos)» (Introduzione..., pp. 16
s.).
Su questo punto il M. torna più volte nelle Memorie, quasi a
testimoniare un convincimento di cui oramai, dopo le esperienze
rivoluzionarie vissute, si sentiva certo e cioè che la
battaglia per l’unità del paese non potesse andare scissa da
quella per la democrazia, intesa come partecipazione di popolo al
grande processo politico e come strumento essenziale per arrivare a
una palingenesi del quadro nazionale.
La centralità della funzione democratica nel processo
unitario conferisce al M. una particolare connotazione nell’ampio
scenario del pensiero politico risorgimentale e rappresenta anche la
chiave di lettura degli atteggiamenti politici che assunse una volta
rientrato dalla Francia quando, ancora deputato del parlamento
toscano, si dichiarò, e fu il solo a farlo, contrario
all’annessione dell’ex Granducato al Piemonte e, successivamente,
quando fu portavoce di una proposta di ordinamento del nuovo Stato
basata sull’istanza autonomistica. La tesi del M. è piena di
suggestioni moderne soprattutto laddove si prefigura un’idea di
Stato non onnicomprensivo, ma momento generale di tenuta di un
sistema autonomistico fondato sulla capacità
autorganizzatrice della società. Le insufficienze palesate
dai moti del ’48 lungi dal cancellare il valore dell’assunto
rivoluzionario gli hanno conferito una sostanza diversa: arrivare
all’unità e all’indipendenza tramite una consapevolezza
collettivamente maturata. La denuncia delle insufficienze del ’48 si
fa così netta e inequivocabile: «Fu un errore – scrive
– credere separabili i tre principii del simbolo politico italiano.
Libertà-Unità-Indipendenza, poiché gli è
certo che per compiere la nostra rivoluzione dobbiamo
simultaneamente soddisfare a tre condizioni: I. Trasformazione dei
governi assoluti in governi liberi; il che racchiude il problema
della libertà; II. Unione dei governi parziali in un governo
unificatore, il che racchiude il problema dell’unità; III.
Lotta con una forza materiale, personificata soprattutto nelle
milizie dell’Austria, il che racchiude il problema
dell’indipendenza» (Introduzione..., pp.29 s.).
La polemica con l'unitarismo mazziniano da un lato, con il
sabaudismo dall'altro si ritrova nella pubblicazione quasi coeva del
M., quelle Memorie sull’Italia... (1853; traduz. francese,
Paris 1857) che costituiscono una fonte preziosa oltre che per la
conoscenza del personaggio, per la comprensione dell'evoluzione
interna dell'Italia fino al 1848. Mentre riprendeva
l'attività letteraria con la stesura di un poema drammatico,
La tentazione (Paris 1856), e di una tragedia, la Camma (ibid.
1857), affidata alla recitazione di Adelaide Ristori che la
rappresentò a Parigi con successo, a metà anni ’50 il
M. si avvicinò a posizioni bonapartiste; in particolare, nel
1855, aderì al movimento che voleva portare Luciano Murat sul
trono di Napoli. Ciò era in parte determinato dall'avversione
per Mazzini, in parte dal fascino che la Rivoluzione del 1789 e la
cultura politica francese esercitavano su di lui che già nel
1851era entrato nel «Comitato franco-iberico-italiano»
(più brevemente Comitato latino) creato da F.-R. de La
Mennais.
Francia, per lui, significava soprattutto quel grande anelito di
libertà e di giustizia che scaturisce dalla Rivoluzione come
rottura della storia in grado di aprire a tutta l’umanità un
nuovo orizzonte. Il richiamarsi alla Rivoluzione come sistema ha un
valore pregnantemente ideologico, di approdo a una filosofia
politica che, sviluppando il liberalismo, estenda il traguardo della
concezione democratica. La democrazia intesa come concetto e come
metodo politico, quale sostanza che è alla radice della
Rivoluzione, si assesta sul piano delle idee e su quello
consequenziale delle istituzioni che a queste si richiamano in una
ideologia che raccoglie e rappresenta tutti questi passaggi, in un
socialismo che è anche una filosofia politica ben definita.
Infatti il socialismo montanelliano vive di proprie caratteristiche
peculiari; talora utopistico, come in tanta parte del socialismo
risorgimentale, nel saggio che dedica alla Rivoluzione italiana
assume un profilo di pieno rilievo. Fortemente influenzato dalle
teorie di Saint-Simon e altrettanto permeato dalla dottrina
cattolica, il M. vive la suggestione di una nuova società
alla stregua di un nuovo cristianesimo. Deriva da Saint-Simon l'idea
che la nuova società debba fondarsi nell'interesse degli
operai sull’organizzazione del lavoro, nel solco di un umanitarismo
di matrice cristiana che però supera la vecchia religione
dogmatica incapace di promuovere un vero progresso sociale: una
visione sociale dello Stato quale insieme di organizzazioni libere e
autorganizzantesi. Il M. fa proprio un tassello del ragionamento
saintsimoniano quando afferma: «Il Socialismo italiano cade
principalmente: Sul Feudo Chiesa Sul Feudo Stato. Dovrà
ottenere il disarmamento politico del Clero senza offendere la
libertà di coscienza; dovrà disfare gli Stati,
rendendo le funzioni in loro concentrate, parte alla libertà
individuale, parte al Comune-Municipio, parte al
Comune-Città, parte al Comune-Nazione»
(Introduzione..., p. 122).
Solo in questi termini il M. può dirsi socialista, ma il suo
socialismo più che come una fede politica appare come
un’istanza di ordine spirituale non confinata nell’utopia,
bensì frutto di un atto rivoluzionario. Alla fine del suo
saggio sulla Rivoluzione italiana il M. torna su un’impostazione di
chiaro segno democratico ruotante intorno al binomio unità e
federazione e, riferendosi sia alle posizioni di Mazzini sia a
quelle di Cattaneo, dimostra come esse non siano del tutto
inconciliabili. L'orientamento politico di fondo resta comunque la
democrazia, che è in lui la vera linea di demarcazione,
l'elemento davvero caratterizzante di ogni ideologia di
libertà.
Sempre nel tentativo di svolgere una approfondita indagine politica
sulla situazione italiana al fine di comprendere le insufficienze
del passato, nel 1856 il M. dedicò un saggio a Le parti
national italien: ses vicissitudes et ses espérances (Paris
1856), testimonianza di una lucida analisi politica sulle vicende
per l’unità nazionale. Premesso che «l’histoire de
l’Italie […] n’est que l’histoire d’une grande aspiration
nationale» (p. 3), le radici del cosiddetto partito nazionale,
vale a dire del movimento unitario medesimo, erano da lui
individuate in una imprescindibile alleanza laica, imposta a suo
dire dalla necessità di liberare il partito nazionale dalle
aspettative che avevano creato l’iniziale politica di Pio IX e anche
la visione giobertiana.
Era, questo, un elemento di novità nel M., sempre pieno di
rispetto – peraltro non ricambiato come emerge dall’epistolario
giobertiano – verso le posizioni di Gioberti. Pur riconoscendo al
suo messaggio un carattere innovativo nel suo desiderio di superare
la distanza della Chiesa dalla questione nazionale, il M. non si
nascondeva che «Gioberti voulait le pape inspirateur et chef
de la guerre de l’indipendence. C’était l’ancienne utopie du
moyen age,la force imperiale ou militaire au service du pontificat:
seulement, cette conception théocratique qui
s’étendait alors à toute la chrétienté,
Gioberti la restreignait à l’Italie, et en faisait
l’instrument de son affrainchissement politique» (ibid.,
p.17). Propio il comportamento di Pio IX aveva confermato
l’incapacità genetica della Chiesa a essere protagonista e
guida di un processo di unificazione. Il tramonto della speranza
neoguelfa evidenziava anche l’intima articolazione del partito
italiano in «trois catégories: - celles des
révolutionnaires antiréformistes, - celles des
réformistes antirévolutionnaires, - celles des
révolutionnaires réformistes». Nella prima
categoria collocava Mazzini e i cospiratori; nella seconda uomini
come Cesare Balbo e Massimo d’Azeglio, esponenti di un «pale
libéralisme» che attende le riforme da chi è al
governo; nella terza coloro che «voulaient arracher des
réformes par tous les moyens dont ils pouvaient
disposer». È evidente che egli si considerasse parte di
quest’ultima categoria, quella dei democratici capaci di porsi in
una posizione al contempo critica e dialettica rispetto alla
politica piemontese, colpevole, a suo avviso, di restringere il
problema italiano a una pura questione territoriale.
Le vicende del 1859 lo richiamarono in Italia per partecipare alla
guerra. Rientrato in Toscana dopo la cacciata del granduca avvenuta
il 27 apr. 1859, il M. si arruolò nei Cacciatori delle Alpi;
dopo l'armistizio di Villafranca incontrò Napoleone III a
Torino e lo vide orientato verso una soluzione federale, cosa che
quando fu eletto all’Assemblea toscana (dove non esitò a
votare la decadenza della dinastia lorenese) lo indusse a respingere
l'ipotesi di una annessione immediata al Piemonte e a sostenere la
creazione di un Regno indipendente dell’Italia centrale sotto il
principe Napoleone Girolamo Bonaparte. Chiarì quindi il suo
pensiero in un opuscolo, L’Impero, il Papato e la democrazia in
Italia. Studio politico (Firenze 1859), in cui, ribadita la fede in
una democrazia progressiva, si diceva convinto che tutta la storia
della nazione e dello spirito italiano spingessero all’unità,
ma che non si potesse non tener conto della realtà di un
paese suddiviso da secoli in Stati autonomi. L’unità,
insomma, non poteva intendersi come allargamento di uno Stato a
scapito degli altri, bensì come fusione degli Stati e delle
loro culture in un’entità superiore in cui tutti si potessero
riconoscere.
Solo dopo i plebisciti il M. accettò la soluzione sabauda
come fatto compiuto facendosi però propugnatore di una forma
statuale fondata sul sistema regionale. Tornato nel 1860 riprese
l’attività forense; da tempo alto esponente della massoneria
con residui di una religiosità interiorizzata, iniziò
a operare all’interno delle società operaie organizzandole e
riunendole sotto il nome di «Fratellanza artigiana». Ma
il suo interesse maggiore restava la lotta politica in prima
persona: si candidò dunque alle elezioni per l'ottava
legislatura e fu bocciato a Fucecchio (ne provò dolore)
risultando invece eletto nel collegio di Pontassieve, dopo avere
chiarito ancora una volta i propri convincimenti in un opuscolo,
Schiarimenti elettorali, datato 14 genn. 1861 (Firenze 1861). Le
condizioni di salute non gli permisero, tuttavia, di partecipare ai
lavori parlamentari. Fu poi tra i fondatori del giornale fiorentino
La Nuova Europa nel quale dal 30 aprile all’8 ag. 1861
pubblicò venti articoli dedicati alle istituzioni del nuovo
Regno d’Italia che, raccolti in volume con il titolo
Dell’ordinamento nazionale. Trattato, uscirono postumi a Firenze nel
1862.
Gli articoli scritti pochi mesi prima di morire non solo
testimoniano delle idee del M. in relazione alla concreta
costruzione dello Stato unitario, ma raccolgono la visione politica
montanelliana nel momento in cui le idee generali sono chiamate a
misurarsi con la realtà delle istituzioni; la configurazione
da dare all’ordinamento nazionale è un problema cui il M.
partecipa con piena consapevolezza dell’importanza che esso riveste.
Alla questione, infatti, aveva pensato nel corso di lunghi anni
facendone l’oggetto principale della propria riflessione nel quadro
dell’iniziativa politica che veniva via via sviluppando per
l’unità del paese. Così, la raggiunta Unità lo
vide partecipe di quel dibattito intenso che si sviluppò
quando, oramai annesse tutte le regioni italiane eccetto ciò
che restava dello Stato pontificio, la questione
dell’attività si presentò come un problema di
qualità politico-amministrativa, come il punto terminale di
convergenza e di confronto delle varie posizioni che si erano
confrontate nel lungo e tormentato periodo dell'incubazione.
Coi suoi articoli il M. si inseriva nella discussione apertasi con
la presentazione da parte di L.C. Farini, allora ministro degli
Interni, di una nota del 13 ag. 1860 alla speciale sezione del
Consiglio di Stato per lo studio e la redazione dei disegni di
legge. L’intento di Farini era quello di mettere in equilibrio uno
Stato forte e accentrato con più marcate libertà
amministrative a livello locale. La sostanza della proposta – che
riscosse l’aspra critica di C. Cattaneo – verteva sulla creazione di
un ordinamento fortemente accentrato. M. Minghetti, che il 31 ag.
1860 lo sostituì agli Interni, sostenne un ordinamento che
prevedeva la nascita delle regioni come consorzi obbligatori tra le
Province per l’esercizio di particolari funzioni, non aventi quindi,
a differenza dei Comuni e delle Province da cui derivavano, un
rilievo politico di tipo primario.
Al M. la proposta Minghetti il parve «un aborto»;
animato dunque da sinceri sentimenti autonomistici pose, al di dopra
di ogni altra considerazione,«la sovranità
nazionale», espressione politica di quella coscienza di
italianità per la quale, scriveva, «Siamo unitari,
perché siamo italiani» (Dell’ordinamento nazionale...,
p. 2). E si domandava se fosse legittimo parlare delle forme di
decentramento prima di avere discusso cosa competesse centralmente
al nuovo Stato. La sua concezione democratica vedeva nell’istituto
della regione un momento di reale autonomia amministrativa in quanto
strumento per realizzare un vero decentramento. In posizione di
equidistanza rispetto a Cattaneo e a Mazzini, la regione
montanelliana non ha quella insindacabile autonomia legislativa
rivendicata dal primo, del tutto svincolata dal potere centrale, e
non ha nemmeno quella dimensione istituzionale nuova, indipendente
dagli assetti passati, che voleva il secondo. Essa era un momento
cellulare autonomo di uno Stato che, se voleva veramente stabilire
un legame di unità tra popoli diversi per cultura e fino ad
allora anche per storia, non poteva rinunciare in qualche modo a una
fase costituente.
Il M. morì a Fucecchio il 17 giugno 1862.