Giuseppe Montanelli

 

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Patriota (Fucecchio 1813 - ivi 1862); collaboratore dell'Antologia di G. P. Vieusseux, nel 1840 divenne prof. di diritto civile nell'univ. di Pisa. Fu tra i primi in Italia ad accogliere il sansimonismo, passò poi al movimento evangelico promosso a Pisa da Carlo Eynard e aderì infine al neoguelfismo con la fondazione del giornale L'Italia (1847). Volontario con gli studenti pisani nel 1848, fu ferito e fatto prigioniero a Curtatone. Liberato, fu eletto all'Assemblea toscana; inviato governatore a Livorno, lanciò l'idea di una Costituente italiana, iniziativa a carattere nettamente rivoluzionario, che divenne programma governativo quando il granduca lo chiamò a succedere a Capponi nella presidenza del consiglio (ott. 1848). Convinto della necessità di inserire la questione toscana in una soluzione democratica di tutto il problema italiano, M. propose poi una Costituente unica di Roma e Toscana. Ma il granduca fuggì e M., entrato nel governo provvisorio (il triunvirato Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni) non riuscì a far proclamare la repubblica e l'unione con Roma per la decisa opposizione di D. Guerrazzi. Assunti i pieni poteri da quest'ultimo, M. fu inviato in Francia a sollecitarvi aiuti: qui rimase esiliato al ritorno del granduca (luglio 1849), mentre in Toscana veniva condannato all'ergastolo. In quegli anni pubblicò tra l'altro: Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d'Italia (1851) e Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850 (1853), acuta analisi del moto rivoluzionario italiano e delineazione di un programma politico, articolato su un socialismo decentrato di tipo proudhoniano. Non credendo all'immediata possibilità unitaria e sopravvalutando l'iniziativa e l'apporto francese, favorì per qualche tempo il movimento murattiano e, deputato all'Assemblea toscana (era andato volontario alla guerra del 1859), si dichiarò contrario alla fusione col Piemonte senza particolari garanzie. Poco prima della morte fu eletto deputato al parlamento italiano.

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DBI

di Paolo Bagnoli

MONTANELLI, Giuseppe.

Nacque a Fucecchio, in provincia di Firenze, il 21 genn. 1813 da Alessandro, organista e compositore di musica per banda, e da Luisa Pratesi. A nove anni venne affidato alle cure del canonico Valentino Montanelli, zio paterno, rettore del seminario di S. Caterina di Pisa, con cui compì i primi studi classici.Nel 1826 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa; di un anno successivo sono le sue prime composizioni poetiche.

Si laureò in giurisprudenza nel 1831 e nello stesso anno entrò in contatto con G.P. Vieusseux per collaborare all’Antologia, il periodico nel quale nel febbraio 1832 pubblicò uno scritto Sul giornaletto poetico stampato in Corfù, osservazioni di Achille Delviniotti corcirese. Il rapporto instaurato con Vieusseux e quanto ruotava intorno all’Antologia e al Gabinetto di lettura fondato a Firenze nel 1819 è indicativo degli orientamenti politici e culturali che animavano il M. fin dagli anni della giovinezza poiché intorno all’attività del Gabinetto si venne maturando la cultura politica del liberalismo toscano nella sua declinazione più moderata.Nel 1826 tra le personalità di spicco nel giro intellettuale che faceva capo al Gabinetto si segnalano personalità quali G. Capponi, C. Ridolfi, B. Ricasoli, R. Lambruschini, L.G. de Cambray-Digny, V. Salvagnoli, P. Bastogi e U. Peruzzi, tutti accomunati più che da un convincimento di ordine  ideologico, da un atteggiamento verso la società e la politica che li portava a impegnarsi in iniziative culturali, pedagogiche e anche economico-commericiali che ritenevano, con coscienza illuministica, fosse un loro dovere promuovere per il bene della comunità.

Nel 1831 il M. collaborò anche al Giornale pisano e, nel 1832, al napoletano Progresso. L’anno successivo si avvicinò alle dottrine di C.-H. di Saint-Simon, approfondendo nel frattempo gli studi giuridici; nel 1835, dopo aver esercitato la pratica nello studio pisano dell’avvocato G. Carmignani, sostenne l’esame per l’avvocatura. Allo stesso anno risalgono i primi scritti poetici raccolti in opuscoli: Poesia e giurisprudenza: pensieri da inno (Pisa 1835); L'indefinito (Firenze 1835). Nel 1837 pubblicò a Firenze le Liriche. Tre anni dopo venne nominato professore di diritto civile e commerciale all’Università di Pisa ove ebbe, tra gli altri, quale collega S. Centofanti. Frutto del suo esordio come docente fu la Prolusione alle lezioni di diritto patrio detta il 4 genn. 1841 nell’I.R. Università di Pisa  (Pisa 1841). Presto prese a occuparsi di politica e nel 1843 promosse un’associazione, dal carattere prevalentemente morale, denominata «Fratelli italiani» che trovò diffusione soprattutto fra gli studenti pisani; a Livorno se ne fece propagatore V. Malenchini.

Grande rilievo ebbe nella sua formazione l'avvicinamento al movimento evangelico che faceva capo, a Pisa, a C. Eynard: tale suo passo rifletteva il nesso che, pensando a una riforma della Chiesa, il M. veniva stabilendo tra religione e politica, come dimostrò la memoria che nel febbraio 1846 rivolse al governatore L. Serristori contro la nascita di un nuovo istituto di suore del Sacro Cuore di Gesù in Pisa e il conseguente rafforzamento dell’attività dei gesuiti in Toscana. Per sostenere la propria azione politica, nel 1847 fondò in Pisa il giornale L’Italia, il cui primo numero vide la luce il 19 giugno. Alla fine di ottobre dello stesso anno si recò a Roma e il 2 novembre venne ricevuto in udienza da Pio IX. Sempre nel 1847 pubblicò vari opuscoli, fra i quali L’Austria e l’Italia in faccia all’Europa  (Torino) e Introduzione filosofica allo studio del diritto commerciale positivo (Pisa).

Animato da un forte sentimento patriottico, nel 1848 il M. partì da Pisa a capo di una colonna di volontari; ferito a Curtatone e inizialmente dato per morto, venne fatto prigioniero e condotto a Mantova e poi a Innsbruch. Nel settembre tornò in Toscana e fu eletto all'Assemblea in rappresentanza di Fucecchio. Ai primi di ottobre, inviato a Livorno come governatore per ristabilire la calma dopo i tafferugli che avevano messo in agitazione la città, vi concepì il progetto della Costituente italiana. Alla caduta del ministero Capponi il 26 ott. 1848, venne incaricato dal granduca di formarne uno nuovo – nato il 28 ottobre – nel quale assunse la carica di presidente chiamando al dicastero dell’Interno F.D. Guerrazzi e, alla Giustizia, G. Mazzoni.

L’esperienza governativa del M. nacque nel cuore del conflitto tra democrazia e moderatismo che agitava, al pari di altri Stati, anche la Toscana specialmente dopo la sconfitta piemontese a Custoza il 25 luglio 1848 e dopo l'armistizio di Salasco del 9 agosto, con la conseguente riconsegna di Venezia all’Austria. Nel settembre dello stesso anno sposò segretamente Laura Cipriani Parra con la quale era in amicizia fin dalla metà degli anni ’30.

Fallito il tentativo di Capponi di dare una risposta moderata alla situazione politica, il governo del M. si propose di darne una di segno marcatamente democratico, rispondente al clima politico che si era creato: è per tale motivo che richiese anche la presenza del Guerrazzi che lo aveva preceduto quale governatore di Livorno. Fu in questa veste che il  M. propose agli altri Stati italiani l’idea della Costituente quale soluzione di quel problema nazionale in cui aveva ora individuato il fine primario della propria attività. Già anticipata dal M. l’8 ott. 1848, ossia il giorno dopo il suo arrivo a Livorno in sostituzione di Guerrazzi, l’idea della Costituente fu esposta il 7 novembre ai rappresentanti toscani presso gli altri governi con una circolare articolata in quindici punti.

Il motivo di partenza del ragionamento che la sostiene risiede nella nuova situazione politica determinatasi dopo l’insurrezione lombarda la quale «proclamò col fatto il principio della sovranità nazionale e i governi lo accettarono partecipando alla guerra di indipendenza» (Marradi, p. 87). Il principio della sovranità nazionale ebbe un corollario politico di notevole rilievo poiché, a seguito dell’insurrezione, il Piemonte non solo aggregò le province insorte, ma volle che tale annessione fosse legittimata con il voto popolare. Il dato di novità della situazione italiana venne, perciò, colto nell’intreccio tra l’avanzamento del processo unitario e l’adozione di un regime democratico; oramai l’Italia che doveva nascere, l’Italia unita, per il M. non poteva prescindere da questi due principî – sovranità nazionale e suffragio universale – «acquisiti irrevocabilmente dal diritto pubblico italiano» (ibid.). Ne consegue che la Costituente «è l’applicazione degli stessi principi all’edificazione della nazionalità» (ibid.). L’unione dei due principî esprime, in maniera quasi simbolica, l’orientamento ideologico-politico del M. che, dopo gli avvenimenti del ’48, vide in un ordinamento statuale a forma federalista la soluzione del problema italiano. Rifuggendo da ogni concezione giacobina la Costituente si configura, infatti, come la forma politica che anticipa e prepara quella statuale; essa segna il passaggio storico da un vecchio assetto politico legittimato dal principio divino a uno nuovo che è legittimo poiché espressione della libera volontà della nazione. In questa fase il M. non si esprime per un ordinamento di tipo monarchico o repubblicano; la costruzione dell’unità è pregiudiziale alla forma istituzionale e ciò giustifica la sua preferenza per una forma federalista che non sarebbe, però, legittimata senza il riconoscimento dei cittadini che devono eleggere un parlamento sovranazionale, ossia la Costituente.

Il federalismo del M. aveva dunque le caratteristiche di un federalismo nazionale e non di un federalismo di Stati. La sua Costituente avrebbe dovuto prevedere due stadi: il primo antecedente la cacciata dello straniero e il secondo successivo alla conquista dell’indipendenza. «La Costituente del primo Stadio deve occuparsi di tutti i problemi che si riferiscono o direttamente o indirettamente all’acquisto dell’indipendenza» – spiegava la circolare del 7 nov. 1848 – per poi precisare che «tutte le questioni d’ordinamento interno alla Nazione non si dovranno agitare se non nel secondo stadio, poiché alla loro risoluzione è richiesto il voto di tutto il popolo italiano, gran parte del quale non potrà eleggere i suoi rappresentanti finché geme nel dolore della servitù straniera» (ibid., p. 88).

La proposta del M. si colloca su un piano diverso sia rispetto al disegno di V. Gioberti, tutto proteso nel coniugare l’istanza cattolica con il dato politico dell’unità nazionale, sia a quello di Carlo Cattaneo, espressione di un’altra concezione federalista: per il M., infatti, «la nazione dovrà esercitare la sua autonomia al di sopra di qualsiasi altra» ma ciò «non vuol dire che essa debba necessariamente distruggere le autonomie subnazionali.Si tratta di armonizzare la varietà coll’unità» (G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino 1853, I, p. 74). Nel corso degli anni l’istanza autonomistica della realtà italiana sarebbe rimasta una costante della sua concezione politica.

Il 22 genn. 1849 venne presentata al Consiglio generale del Granducato la legge per l’elezione dei deputati toscani all’Assemblea costituente italiana: all'approvazione seguì anche quella del Senato, nonostante le pressioni in senso contrario esercitate da Leopoldo II. Tuttavia, nei giorni intercorsi tra la votazione del Consiglio generale e quella del Senato si registrarono a Firenze nuovi disordini che impensierirono fortemente il granduca il quale, temendo reazioni negative del papa, anziché controfirmare la legge la mattina del 30 gennaio lasciò Firenze e raggiunse la famiglia a Siena dove, sordo agli inviti del Governo, si fermò adducendo motivi di salute; poi, il 3 febbr. 1849, con una lettera al M. invitò i ministri «a recedere dall’idea di abbandonare i loro posti», mantenendo tale decisione malgrado le pressioni del M. recatosi di proposito a Siena per convincerlo a tornare. La ragione vera della fuga fu nota quando il granduca ammise di non aver firmato la legge sulla Costituente per timore della scomunica papale. L'8 febbraio i fiorentini proclamarono decaduto Leopoldo II e invitarono il Consiglio generale, riunito in seduta in palazzo Vecchio, a nominare un governo provvisorio. Il Consiglio generale, per evitare la violenza popolare e  sotto la pressione moderata esercitata soprattutto da Capponi e da Ricasoli, nominò un governo provvisorio affidandolo al M., a Guerrazzi e a Mazzoni.

Con la partenza di Leopoldo II per Gaeta, la Toscana fu governata da un triunvirato tra i cui componenti non regnava certo la concordia; infatti, mentre al M. premeva proclamare ufficialmente la Repubblica, Mazzoni riteneva più opportuno che la questione fosse affrontata dalla Costituente e Guerrazzi si andava nuovamente orientando verso il fronte moderato che peraltro non lo appoggiava. In un clima di incertezze e di intemperanze politiche tra le diverse fazioni, il 5 marzo 1849 i Toscani furono chiamati alle urne per eleggere una nuova assemblea legislativa con mandato valido anche per la Costituente romana, pur senza precisare se spettasse a essa il compito di decidere sulla forma di Stato che doveva assumere l’ex Granducato. Mentre la votazione per la Costituente andò quasi deserta, il governo ebbe l'approvazione; la nuova Assemblea si insediò il 25 marzo e, nell’occasione, il M. tenne un appassionato discorso sull’attività del governo provvisorio. «Il nostro desiderio – disse – ora si è che sia decretata l’unificazione con Roma», aggiungendo: «Guardiamo a Roma sì, ma per vedere spalancato il tempio di Giano. Un gran libro dei conti è aperto sui campi lombardi. E verrà giorno in cui al nuovo principio che abbiamo inaugurato, si chiederà dall’Italia redenta quante vite, quanti denari, quante lagrime, quanto sangue abbia dato al comune riscatto. E nella risposta è l’avvenire della Repubblica che vogliamo fondare» (Ghisalberti, p. 312).

Si stava valutando l'opportunità di un'adesione della Toscana alla Repubblica romana quando il 27 marzo giunse la notizia della sconfitta di Novara avvenuta il 24 marzo e della conseguente rinuncia di Carlo Alberto alla Corona sarda. Racconta il M.: «Differire la proposta repubblicana prudenza politica domandava […]. Dopo la disfatta di Novara il paese non ci lasciava più fare, e se era modo di reggere ritta la democrazia consisteva a restringersi tutti in tutela di indipendenza dal forestiero. Nella notte dal ventisette al ventotto rassegnammo alla Costituente i poteri. Niuno parlò di repubblica; tutti di pensare a difesa. Fu proposto accordare per più sollecite provvidenze autorità straordinaria a Guerrazzi […]. In Toscana in quel momento io non potevo essere utile come in Francia, cooperando al pronto apparecchio dei quattromila armati,e a favore della stampa,della pubblica opinione,e dei governi. Proposi a Guerrazzi mi mandasse a Parigi, e lasciai la Toscana» (in Memorie..., II, pp. 348 s.).

Inviato in Francia con l’incarico formale di raccogliere appoggi militari e sensibilizzare l’opinione pubblica a favore della Toscana, con il ritorno di Leopoldo, avvenuto il 12 apr. 1849, la missione del M. si trasformò in un esilio destinato a durare fino al 1859. Occorsero tre anni prima che il 16 ag. 1852 iniziasse il processo contro i protagonisti degli avvenimenti del ’48-’49; l’anno seguente il M., contumace come Mazzoni, fu condannato all’ergastolo e Guerrazzi a 15 anni di carcere, poi condonati all’esilio.

Durante l’esilio il M. entrò in contatto con diversi esponenti del mondo politico francese svolgendo un’intensa attività pubblicistica su giornali e riviste francesi. Fu anche affiliato alla massoneria (nel 1861 era membro della loggia «Dante Alighieri» che rappresentò il 1° marzo 1862 in un’assemblea generale per eleggere un nuovo gran maestro in sostituzione di Costantino Nigra). Oltre a sancire il suo definitivo distacco da Mazzini la riflessione sulle appena trascorse vicende politiche e militari dell'Italia e sul ruolo che vi avevano avuto i mazziniani unitari fu all'origine, nel 1851, dell’Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d’Italia (Torino), seguito nel 1852 dall’opuscolo Nel processo politico contro il Ministero democratico toscano (Firenze).

L’Introduzione costituisce l’opera politica di maggior respiro del M., la cui analisi della rivoluzione non ha un significato esclusivamente fattuale in quanto egli con il termine rivoluzione non si riferisce solo agli avvenimenti quarantotteschi, ma individua una categoria storico-politica che assume una connotata valenza ideologica. Per quanto giudichi quasi impietosamente l’operato del movimento democratico in Italia, il M. non abiura, tuttavia, a quel sentimento; riconosce, anzi, che esso aveva una logica in quanto lo sottendevano un giudizio e un ragionamento politico.

Partendo dal presupposto che «ogni popolo ha diritto a governarsi da sé» e che ogni forma di occupazione straniera  «è un attentato a questo diritto», il M. sosteneva che tutti, papa o principe o popolo, possono portare il paese all'indipendenza: «Il despotismo o la libertà non importa; basta rivendicare l’autonomia nazionale». L’urgenza di arrivare all’indipendenza nazionale dà, perciò, ragione di quel sentimento che è la manifestazione di un impulso politico di ordine superiore ed evidenzia una verità che ha un significato politico di valore storico e concettuale. La conclusione del M. è che lo Stato della Chiesa, in quanto monocratico, non può essere né liberale né democratico: «Papato e democrazia non potevano stare insieme, la incompatibilità di cotesti due principii resulta dalla loro essenza medesima. La democrazia è la legge fatta a seconda di quello che pare giusto o utile alla maggioranza dei socii interrogata per via dei metodi che la sapienza politica abbia suggerito più idonei a chiarire il pensiero comune. […] Lo accordo della democrazia col principato è reso impossibile dalla contrarietà delle loro nature, essendo il principato volontà di uno (monos), e la democrazia mente di tutti (demos)» (Introduzione..., pp. 16 s.).

Su questo punto il M. torna più volte nelle Memorie, quasi a testimoniare un convincimento di cui oramai, dopo le esperienze rivoluzionarie vissute, si sentiva certo e cioè che la battaglia per l’unità del paese non potesse andare scissa da quella per la democrazia, intesa come partecipazione di popolo al grande processo politico e come strumento essenziale per arrivare a una palingenesi del quadro nazionale.

La centralità della funzione democratica nel processo unitario conferisce al M. una particolare connotazione nell’ampio scenario del pensiero politico risorgimentale e rappresenta anche la chiave di lettura degli atteggiamenti politici che assunse una volta rientrato dalla Francia quando, ancora deputato del parlamento toscano, si dichiarò, e fu il solo a farlo, contrario all’annessione dell’ex Granducato al Piemonte e, successivamente, quando fu portavoce di una proposta di ordinamento del nuovo Stato basata sull’istanza autonomistica. La tesi del M. è piena di suggestioni moderne soprattutto laddove si prefigura un’idea di Stato non onnicomprensivo, ma momento generale di tenuta di un sistema autonomistico fondato sulla capacità autorganizzatrice della società. Le insufficienze palesate dai moti del ’48  lungi dal cancellare il valore dell’assunto rivoluzionario gli hanno conferito una sostanza diversa: arrivare all’unità e all’indipendenza tramite una consapevolezza collettivamente maturata. La denuncia delle insufficienze del ’48 si fa così netta e inequivocabile: «Fu un errore – scrive – credere separabili i tre principii del simbolo politico italiano. Libertà-Unità-Indipendenza, poiché gli è certo che per compiere la nostra rivoluzione dobbiamo simultaneamente soddisfare a tre condizioni: I. Trasformazione dei governi assoluti in governi liberi; il che racchiude il problema della libertà; II. Unione dei governi parziali in un governo unificatore, il che racchiude il problema dell’unità; III. Lotta con una forza materiale, personificata soprattutto nelle milizie dell’Austria, il che racchiude il problema dell’indipendenza» (Introduzione..., pp.29 s.).

La polemica con l'unitarismo mazziniano da un lato, con il sabaudismo dall'altro si ritrova nella pubblicazione quasi coeva del M., quelle Memorie sull’Italia... (1853; traduz. francese,  Paris 1857) che costituiscono una fonte preziosa oltre che per la conoscenza del personaggio, per la comprensione dell'evoluzione interna dell'Italia fino al 1848. Mentre riprendeva l'attività letteraria con la stesura di un poema drammatico, La tentazione (Paris 1856), e di una tragedia, la Camma (ibid. 1857), affidata alla recitazione di Adelaide Ristori che la rappresentò a Parigi con successo, a metà anni ’50 il M. si avvicinò a posizioni bonapartiste; in particolare, nel 1855, aderì al movimento che voleva portare Luciano Murat sul trono di Napoli. Ciò era in parte determinato dall'avversione per Mazzini, in parte dal fascino che la Rivoluzione del 1789 e la cultura politica francese esercitavano su di lui che già nel 1851era entrato nel «Comitato franco-iberico-italiano» (più brevemente Comitato latino) creato da F.-R. de La Mennais.

Francia, per lui, significava soprattutto quel grande anelito di libertà e di giustizia che scaturisce dalla Rivoluzione come rottura della storia in grado di aprire a tutta l’umanità un nuovo orizzonte. Il richiamarsi alla Rivoluzione come sistema ha un valore pregnantemente ideologico, di approdo a una filosofia politica che, sviluppando il liberalismo, estenda il traguardo della concezione democratica. La democrazia intesa come concetto e come metodo politico, quale sostanza che è alla radice della Rivoluzione, si assesta sul piano delle idee e su quello consequenziale delle istituzioni che a queste si richiamano in una ideologia che raccoglie e rappresenta tutti questi passaggi, in un socialismo che è anche una filosofia politica ben definita. Infatti il socialismo montanelliano vive di proprie caratteristiche peculiari; talora utopistico, come in tanta parte del socialismo risorgimentale, nel saggio che dedica alla Rivoluzione italiana assume un profilo di pieno rilievo. Fortemente influenzato dalle teorie di Saint-Simon e altrettanto permeato dalla dottrina cattolica, il M. vive la suggestione di una nuova società alla stregua di un nuovo cristianesimo. Deriva da Saint-Simon l'idea che la nuova società debba fondarsi nell'interesse degli operai sull’organizzazione del lavoro, nel solco di un umanitarismo di matrice cristiana che però supera la vecchia religione dogmatica incapace di promuovere un vero progresso sociale: una visione sociale dello Stato quale insieme di organizzazioni libere e autorganizzantesi. Il M. fa proprio un tassello del ragionamento saintsimoniano quando afferma: «Il Socialismo italiano cade principalmente: Sul Feudo Chiesa Sul Feudo Stato. Dovrà ottenere il disarmamento politico del Clero senza offendere la libertà di coscienza; dovrà disfare gli Stati, rendendo le funzioni in loro concentrate, parte alla libertà individuale, parte al Comune-Municipio, parte al Comune-Città, parte al Comune-Nazione» (Introduzione..., p. 122).

Solo in questi termini il M. può dirsi socialista, ma il suo socialismo più che come una fede politica appare come un’istanza di ordine spirituale non confinata nell’utopia, bensì frutto di un atto rivoluzionario. Alla fine del suo saggio sulla Rivoluzione italiana il M. torna su un’impostazione di chiaro segno democratico ruotante intorno al binomio unità e federazione e, riferendosi sia alle posizioni di Mazzini sia a quelle di Cattaneo, dimostra come esse non siano del tutto inconciliabili. L'orientamento politico di fondo resta comunque la democrazia, che è in lui la vera linea di demarcazione, l'elemento davvero caratterizzante di ogni ideologia di libertà.

Sempre nel tentativo di svolgere una approfondita indagine politica sulla situazione italiana al fine di comprendere le insufficienze del passato, nel 1856 il M. dedicò un saggio a Le parti national italien: ses vicissitudes et ses espérances (Paris 1856), testimonianza di una lucida analisi politica sulle vicende per l’unità nazionale. Premesso che «l’histoire de l’Italie […] n’est que l’histoire d’une grande aspiration nationale» (p. 3), le radici del cosiddetto partito nazionale, vale a dire del movimento unitario medesimo, erano da lui individuate in una imprescindibile alleanza laica, imposta a suo dire dalla necessità di liberare il partito nazionale dalle aspettative che avevano creato l’iniziale politica di Pio IX e anche la visione giobertiana.

Era, questo, un elemento di novità nel M., sempre pieno di rispetto – peraltro non ricambiato come emerge dall’epistolario giobertiano – verso le posizioni di Gioberti. Pur riconoscendo al suo messaggio un carattere innovativo nel suo desiderio di superare la distanza della Chiesa dalla questione nazionale, il M. non si nascondeva che «Gioberti voulait le pape inspirateur et chef de la guerre de l’indipendence. C’était l’ancienne utopie du moyen age,la force imperiale ou militaire au service du pontificat: seulement, cette conception théocratique qui s’étendait alors à toute la chrétienté, Gioberti la restreignait à l’Italie, et en faisait l’instrument de son affrainchissement politique» (ibid., p.17). Propio il comportamento di Pio IX aveva confermato l’incapacità genetica della Chiesa a essere protagonista e guida di un processo di unificazione. Il tramonto della speranza neoguelfa evidenziava anche l’intima articolazione del partito italiano in «trois catégories: - celles des révolutionnaires antiréformistes, - celles des réformistes antirévolutionnaires, - celles des révolutionnaires réformistes». Nella prima categoria collocava Mazzini e i cospiratori; nella seconda uomini come Cesare Balbo e Massimo d’Azeglio, esponenti di un «pale libéralisme» che attende le riforme da chi è al governo; nella terza coloro che «voulaient arracher des réformes par tous les moyens dont ils pouvaient disposer». È evidente che egli si considerasse parte di quest’ultima categoria, quella dei democratici capaci di porsi in una posizione al contempo critica e dialettica rispetto alla politica piemontese, colpevole, a suo avviso, di restringere il problema italiano a una pura questione territoriale.

Le vicende del 1859 lo richiamarono in Italia per partecipare alla guerra. Rientrato in Toscana dopo la cacciata del granduca avvenuta il 27 apr. 1859, il M. si arruolò nei Cacciatori delle Alpi; dopo l'armistizio di Villafranca incontrò Napoleone III a Torino e lo vide orientato verso una soluzione federale, cosa che quando fu eletto all’Assemblea toscana (dove non esitò a votare la decadenza della dinastia lorenese) lo indusse a respingere l'ipotesi di una annessione immediata al Piemonte e a sostenere la creazione di un Regno indipendente dell’Italia centrale sotto il principe Napoleone Girolamo Bonaparte. Chiarì quindi il suo pensiero in un opuscolo, L’Impero, il Papato e la democrazia in Italia. Studio politico (Firenze 1859), in cui, ribadita la fede in una democrazia progressiva, si diceva convinto che tutta la storia della nazione e dello spirito italiano spingessero all’unità, ma che non si potesse non tener conto della realtà di un paese suddiviso da secoli in Stati autonomi. L’unità, insomma, non poteva intendersi come allargamento di uno Stato a scapito degli altri, bensì come fusione degli Stati e delle loro culture in un’entità superiore in cui tutti si potessero riconoscere.

Solo dopo i plebisciti il M. accettò la soluzione sabauda come fatto compiuto facendosi però propugnatore di una forma statuale fondata sul sistema regionale. Tornato nel 1860 riprese l’attività forense; da tempo alto esponente della massoneria con residui di una religiosità interiorizzata, iniziò a operare all’interno delle società operaie organizzandole e riunendole sotto il nome di «Fratellanza artigiana». Ma il suo interesse maggiore restava la lotta politica in prima persona: si candidò dunque alle elezioni per l'ottava legislatura e fu bocciato a Fucecchio (ne provò dolore) risultando invece eletto nel collegio di Pontassieve, dopo avere chiarito ancora una volta i propri convincimenti in un opuscolo, Schiarimenti elettorali, datato 14 genn. 1861 (Firenze 1861). Le condizioni di salute non gli permisero, tuttavia, di partecipare ai lavori parlamentari. Fu poi tra i fondatori del giornale fiorentino La Nuova Europa  nel quale dal 30 aprile all’8 ag. 1861 pubblicò venti articoli dedicati alle istituzioni del nuovo Regno d’Italia che, raccolti in volume con il titolo Dell’ordinamento nazionale. Trattato, uscirono postumi a Firenze nel 1862.

Gli articoli scritti pochi mesi prima di morire non solo testimoniano delle idee del M. in relazione alla concreta costruzione dello Stato unitario, ma raccolgono la visione politica montanelliana nel momento in cui le idee generali sono chiamate a misurarsi con la realtà delle istituzioni; la configurazione da dare all’ordinamento nazionale è un problema cui il M. partecipa con piena consapevolezza dell’importanza che esso riveste. Alla questione, infatti, aveva pensato nel corso di lunghi anni facendone l’oggetto principale della propria riflessione nel quadro dell’iniziativa politica che veniva via via sviluppando per l’unità del paese. Così, la raggiunta Unità lo vide partecipe di quel dibattito intenso che si sviluppò quando, oramai annesse tutte le regioni italiane eccetto ciò che restava dello Stato pontificio, la questione dell’attività si presentò come un problema di qualità politico-amministrativa, come il punto terminale di convergenza e di confronto delle varie posizioni che si erano confrontate nel lungo e tormentato periodo dell'incubazione.

Coi suoi articoli il M. si inseriva nella discussione apertasi con la presentazione da parte di L.C. Farini, allora ministro degli Interni, di una nota del 13 ag. 1860 alla speciale sezione del Consiglio di Stato per lo studio e la redazione dei disegni di legge. L’intento di Farini era quello di mettere in equilibrio uno Stato forte e accentrato con più marcate libertà amministrative a livello locale. La sostanza della proposta – che riscosse l’aspra critica di C. Cattaneo – verteva sulla creazione di un ordinamento fortemente accentrato. M. Minghetti, che il 31 ag. 1860 lo sostituì agli Interni, sostenne un ordinamento che prevedeva la nascita delle regioni come consorzi obbligatori tra le Province per l’esercizio di particolari funzioni, non aventi quindi, a differenza dei Comuni e delle Province da cui derivavano, un rilievo politico di tipo primario.

Al M. la proposta Minghetti il parve «un aborto»; animato dunque da sinceri sentimenti autonomistici pose, al di dopra di ogni altra considerazione,«la sovranità nazionale», espressione politica di quella coscienza di italianità per la quale, scriveva, «Siamo unitari, perché siamo italiani» (Dell’ordinamento nazionale..., p. 2). E si domandava se fosse legittimo parlare delle forme di decentramento prima di avere discusso cosa competesse centralmente al nuovo Stato. La sua concezione democratica vedeva nell’istituto della regione un momento di reale autonomia amministrativa in quanto strumento per realizzare un vero decentramento. In posizione di equidistanza rispetto a Cattaneo e a Mazzini, la regione montanelliana non ha quella insindacabile autonomia legislativa rivendicata dal primo, del tutto svincolata dal potere centrale, e non ha nemmeno quella dimensione istituzionale nuova, indipendente dagli assetti passati, che voleva il secondo. Essa era un momento cellulare autonomo di uno Stato che, se voleva veramente stabilire un legame di unità tra popoli diversi per cultura e fino ad allora anche per storia, non poteva rinunciare in qualche modo a una fase costituente.

Il M. morì a Fucecchio il 17 giugno 1862.