Marc Monnier

 

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Scrittore svizzero di lingua francese (Firenze 1829 - Ginevra 1885). Visse a lungo in Italia e fu prof. di letterature straniere nell'univ. di Ginevra. I suoi studî si rivolsero specialmente alle condizioni politico-sociali dell'Italia contemporanea (L'Italie est-elle la terre des morts?, 1860; Garibaldi: histoire de la conquête des Deux-Siciles, 1861; Histoire du brigandage dans l'Italie méridionale, 1862; La camorra: mystères de Naples, 1863) e alla critica letteraria (Genève et ses poètes, 1874). Fu anche poeta (Lucioles, 1853; Poésies, 1878) e narratore (Nouvelles napolitaines, 1879). Curioso e garbato il suo Théâtre des marionnettes (1871).

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Wikipedia

Marc Monnier, o Marco Monnier (Firenze, 7 dicembre 1829 – Ginevra, 18 aprile 1885), è stato uno scrittore e poligrafo italiano naturalizzato svizzero.

Biografia

Figlio di Jacques-Louis, francese originario della Ardèche, e di Priscille Lacour, svizzera di Ginevra, nacque e trascorse la giovinezza in Italia. Nel 1832 risiedette con i familiari a Napoli. Fece gli studi università all'estero, dapprima alla Sorbona di Parigi per un paio di semestri, quindi all'Università di Ginevra, completando gli studi ad Heidelberg e a Berlino. Si stabilì a infine a Ginevra dove divenne professore di letterature comparate (1864-1885) e più tardi fu vice-rettore dell'Università. Fu padre di Philippe Monnier.

Marc Monnier fu uno scrittore prolifico e si interessò di argomenti disparati. È ormai ricordato come autore di saggi in lingua francese sulla cultura europea, e in particolare sulla cultura italiana (L'Italie est-elle la terre des morts?, 1859; Garibaldi, 1861; Les contes populaires en Italie, 1879; Les nouvelles napolitaines, ecc.). Si cimentò anche nella satira politica con buoni risultati; fu autore, in particolare, di una raccolta di brevi commedie in versi ottonari intitolata Théâtre des marionettes (1871).

Nella sua opera Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle province napoletane, tradusse e pubblicò il diario del generale catalano Josè Borjes, giunto nel 1861 in Italia meridionale per tentare un'insurrezione borbonica e divenendo noto per l'alleanza con il brigante Carmine Crocco.

Tradusse dal tedesco in lingua francese il Faust di Goethe.

Opere in volume

   * L'Italie est-elle La terre des morts?, Paris, L. Hachette et C., 1860 (434 p.) Trad. it. L'Italia è Ella la terra dei morti?, Venezia, Prem. stabil. tip. di P. Naratovich, 1863
   * Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle province napoletane dai tempi di fra Diavolo sino ai nostri giorni, Firenze, Gaspero Barbèra, 1862, Ed. Roma, Adelmo Polla, 1986.
   * La camorra: notizie storiche raccolte e documentate per cura di Marco Monnier, 2ª ed., Firenze, G. Barbera, 1862
        Ed. con prefazione di Nicola Tranfaglia, Cosenza, Memoria, 1998
   * Histoire du brigandage dans l'histoire meridionale, Paris, Michel Levy Frères, 1862
 
  
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Origini e storia della camorra

Le origini della camorra

Quando si cercano le origini della Bella Società Riformata capita di imbattersi in alcuni avvenimenti – leggenda o realtà? – spesso ripresi come atti costitutivi della setta ottocentesca.

Negli anni ‘20 dell’800 Pasquale Capuozzo, uomo che si guadagnava la vita ferrando gli zoccoli e che arrotondava “facendo la camorra”, ovvero estorcendo denaro con la violenza sul lavoro altrui, nel significato dell’epoca, promosse una riunione segreta nella chiesa di Santa Caterina a Formello, nel cuore di Napoli, per decidere le regole di chi volesse “fare camorra” e regolamentare un gruppo di delinquenti e cani sciolti troppo indisciplinato. Secondo leggenda, Capuozzo fu nominato nel corso della riunione primo capintesta della città. Si parla degli anni ‘20 dell’800.

Venti anni dopo, un altrettanto forse leggendario Francesco Scorticelli, contaiolo della camorra, nel 1842 avrebbe scritto un testo di 26 regole, denominato “frieno”. I dubbi sull’originalità del testo non sono mai stati dissipati. Episodi destinati, dunque, a restare nella leggenda, vista anche la distruzione di buona parte delle fonti di polizia borbonica che avrebbero potuto probabilmente fare chiarezza sugli episodi.

Marc Monnier, nella sua storia della camorra, fonte pubblicistica più attendibile per la lettura della camorra del periodo, non crede nell’esistenza di un codice scritto, innanzitutto perché la maggior parte degli affiliati non sapeva né leggere né scrivere. In secondo luogo perché la trasmissione delle regole, secondo Monnier, aveva carattere orale.

Francesco Mastriani, nella sua opera dal titolo "I vermi. Studi storici su le classi pericolose a Napoli", del 1863/4, riporta il "codice della camorra" riprendendolo dall'opuscolo anonimo dal titolo "Natura ed origine della misteriosa setta della camorra nelle sue diverse sezioni e paranze. Linguaggio convenzionale di essa, usi e leggi". In ventiquattro punti viene raccolto il codice della camorra.

L'interessante testo è pubblicato da Pasquale Sabbatino ne "Le città indistricabili".

Il saggio di Marc Monnier

Sulle origini ottocentesche del fenomeno della camorra, non si può prescindere da un testo al quale tutti gli autori successivi fanno poi riferimento. Si tratta di “La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate” volume preziosissimo scritto nel 1863 da Marc Monnier, professore italo-svizzero che nacque a Napoli e qui passò la giovinezza prima di trasferirsi altrove, salvo poi ritornarci dal 1855 al 1864 per affari di famiglia.

Il suo è un testo fondamentale innanzitutto perché è la prima opera pubblicistica sul fenomeno poi perché è un testo storico-sociologico che propone un’analisi molto chiara del fenomeno.

Monnier che studiò all’epoca, come racconta, centinaia di carte della Polizia, scrive innanzitutto che, per quanto abbia cercato fonti orali e scritte, non ha trovato tracce dell’organizzazione in città prima del 1820-1830. Negli scritti dei grandi storici che raccontano la rivoluzione napoletana del 1799, non c’è traccia del fenomeno. Quindi, anche se non si è riusciti a individuare un preciso atto di nascita della setta camorristica, Monnier ne collocava la vera comparsa non prima del periodo degli anni venti dell’Ottocento. È tra questi anni e il 1860 che la camorra si sarebbe formata prima nelle carceri poi sul territorio urbano.

Scrive Marcella Marmo, docente di Storia Contemporanea alla Federico II e storica della camorra delle origini: «Benché già questa generazione di metà secolo non riuscisse a individuare un preciso atto di nascita della setta, la memoria recente ne collocava la comparsa non prima del 1820-30 (non ce n’è traccia infatti nei grandi storici del 1799) e ne trovava alcuni precedenti nelle tradizioni estorsive carcerarie, attestate da prammatiche e fonti gesuitiche cinque-settecentesche che Monnier non manca di citare per esteso, per dedurne tuttavia la novità del fenomeno settario, solo di recente così ‘visibile’, in particolare sul territorio urbano. Presente con distinte paranze per settori di tangente nei dodici quartieri delle ripartizioni amministrative, la cosiddetta ‘società onorata’ o ‘ bella società riformata’ era organizzata con una vera e propria gerarchia interna (…) attraverso un reclutamento e una carriera ritualizzati che dal picciotto di sgarro conducevano al camorrista, al camorrista proprietario, al capo società di quartiere, al capintesta o re della camorra di tutta Napoli. Le tante storie apprese da fonti orali, le numerose biografie criminali ricevute dal questore di Napoli del 1862 non lasciavano dubbi sulla natura marcatamente plebea e criminale del fenomeno, e sul ruolo svolto nell’emergere di esso da precisi livelli aggregativi, che lo rendevano ben distinguibile da altri fatti sociali nel gran calderone della corruzione e della violenza della grande città capitale».

Modelli di riferimento della camorra delle origini

Nel periodo della sua nascita, la camorra sembra imitare altri modelli associativi incontrati in carcere o presenti nella società. In merito, la docente di Storia Contemporanea della Federico II e storica della camorra delle origini, Marcella Marmo, membro del comitato scientifico della Biblioteca digitale sulla camorra, nel saggio «Ordine e disordine: la camorra napoletana dell’Ottocento», contenuto nella rivista "Meridiana" dedicata a "Mafia, ‘ndrangheta, camorra" scrive: 

«La frequentazione dei liberali in carcere può avere offerto un modello per l’aggregazione di uomini e fenomeni disparati: ha chiari echi massonici il vincolo settario forte, ritualizzato dal giuramento di sangue, di quella che a metà secolo veniva chiamata anche Bella Società Riformata, e si diceva avesse tra i compagni anche dei framassoni».

Ma non solo massoneria e carboneria. La camorra sembra ispirarsi, nella sua struttura associativa, al linguaggio dell’onore tipico del mondo nobiliare e alla tangente-tassa divisa per quartieri e paranze tipica dell’amministrazione fiscale. Il codice dell’onore per la Bella Società riformata dell’Ottocento è il linguaggio parlato all’interno della setta. Detta le virtù e le regole che il perfetto camorrista deve avere. L’omertà, la fedeltà alla setta e la solidarietà – rituale ma anche materiale - coi settari sono le più importanti.

All'origine della parola

Sul tema della ricostruzione etimologica della parola (tema sviluppato nella sezione "Parole e gergo" della Biblioteca digitale sulla camorra) Isaia Sales, sociologo che ha dedicato parecchi studi al tema della criminalità organizzata napoletana, tra i quali il testo del 1993, "La camorra Le camorre" scrive:

«Sull’origine del termine “camorra” non c’è accordo tra gli studiosi. Prima di addentrarci nell’elenco numeroso di tutte le possibili spiegazioni, conviene esporre i significati con i quali è entrato nel linguaggio comune. “Camorra” è innanzitutto un’attività prima ancora che un’organizzazione delinquenziale. Anzi essa indica precisamente un tipo di attività malavitosa svolta: l’estorsione. “Prendersi la camorra” vuol dire infatti estorcere un guadagno minacciando o esercitando violenza, al punto che “camorra” ed “estorsione” sono diventati, nel tempo, sinonimi. […] Dunque la parola indica un’imposizione, un’esazione, una tassa che si paga a chi è in condizione di esercitare ritorsioni violente all’eventuale rifiuto, e indica al tempo stesso la cosa estorta. Strettamente legato a questo significato ce n’è un altro: “camorra” è un’attività delinquenziale fortemente organizzata, ed è, di conseguenza, l’insieme di coloro che vi aderiscono. Nella lingua italiana il termine è entrato nel senso di “lega di persone disoneste per ottenere illecitamente favori o guadagni ingiusti o anche l’insieme delle loro arti e delle loro azioni, un accordo per usare soperchierie, un agire ingiustamente a vantaggio del proprio ed a danno altrui. […] In definitiva, la parola “camorra” indicava allo stesso tempo un’organizzazione criminale e l’attività da essa svolta (l’estorsione)».

Il gioco della morra

Arturo Labriola, anarcosindacalista, autore nel 1901 de “Le leggenda della camorra”, è il primo ad indicare l’origine di camorra dal gioco della morra, in particolare, parlando di capo della morra, di colui, cioè, che controllava il gioco prendendo i soldi sul vincitore.

La morra era un gioco molto diffuso nella città di Napoli nell'Ottocento. Per giocare bastava poco. Si giocava in due, a vincere era chi, più velocemente, riusciva a indicare il numero che i due giocatori sommavano aprendo insieme, contemporaneamente, le dita di una mano. Gioco semplice ma che raggiungeva una forte violenza verbale.

L'etimologia più attendibile fa riferimento, dunque, a un campo che rientrava nelle tipiche attività della camorra che sul gioco per strada, nelle carceri ma anche nelle case da gioco, faceva sentire la sua presenza imponendo la tangente come prezzo della mediazione. Il camorrista si poneva, ovvero, come garante dell’esattezza del gioco.

Ad avallare questa tesi, un documento ufficiale: la prammatica del 1735. Questo documento rappresenta, ad oggi, la prima comparsa della parola camorra in un atto ufficiale. Nella prammatica si autorizzava a Napoli l'apertura di otto case da gioco di fronte a palazzo reale, con la dicitura “camorra avanti palazzo”.

Arturo Labriola scrive: «La parola camorra ha la sua interpretazione in sé stessa e deriva manifestamente dal giuoco della morra, che è appunto solito nel popolino. Non c’è bisogno di ricavare dall’arabo o dallo spagnuolo la parola, che ha dovuto sorgere dal cuore stesso del popolo, per una consuetudine di vivere. E del resto ove si ponga mente che il fenomeno della camorra si svolge più acutamente intorno alle case da giuoco di infimo ordine o meglio quotate, apparrà verosimile che da qualche consuetudine plebea di giuoco trasse la parola origine. Volere la camorra, frase che anche oggi in certi ambienti si usa, avrà dovuto proprio significare: volere una parte alla vincita del giuoco della morra».

Liborio Romano

Discusso personaggio dell’Italia risorgimentale, Liborio Romano ebbe un ruolo fondamentale nelle vicende che traghettarono le regioni dell’Italia meridionale dal Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, che stava nascendo, guidato dai Savoia.

Aderendo alla causa risorgimentale, partecipò ai primi moti del 1820 e poi agli avvenimenti del 1848 che portarono alla concessione della costituzione da parte del re Ferdinando II di Borbone.
Nel 1860, mentre Garibaldi organizzava i suoi Mille, e mentre si avvicinava la fine del Regno delle Due Sicilie, Liborio Romano venne nominato dal re Francesco II, ultimo monarca del casato dei Borbone, prefetto di Polizia.

Conferitogli in seguito la carica di ministro di polizia, fu lungimirante nel capire in che direzione strava andando il regno, prese perciò contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi e pensò a preparare il terreno per il passaggio del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia.

Fu lo stesso Liborio Romano a suggerire al re Francesco II di Borbone di lasciare la capitale e di riparare a Gaeta e poi a Roma senza opporre resistenza alle truppe garibaldine che si avvicinavano alla città, con l’intento di evitare spargimenti di sangue. In questo momento arriva la sua intuizione di cooptare i più forti camorristi e delinquenti dell’epoca per tenere buona la città all’ingresso di Garibaldi.

Grazie al suo intervento si evitarono problemi di ordine pubblico e Garibaldi entrò in una città calma e tenuta sotto controllo. Ma il prezzo da pagare per la città fu importante, vista l'escalation criminale che ne seguì. Garibaldi confermò Romano ministro dell’interno fino al 24 settembre 1860, data in cui entrò a far parte del Consiglio di Luogotenenza. Alle prime elezioni del neonato Regno d’Italia, Liborio Romano venne eletto deputato. Ritiratosi dopo pochi anni, morì nel 1867.

La camorra indossa la divisa

L’ingresso dei più forti camorristi nella guardia cittadina nel periodo di formazione della nazione italiana e il tentativo di legalizzazione della camorra rappresentarono, per Don Liborio Romano e per il nascente Stato italiano, un vero fallimento perché non si riuscì a normalizzare la mala vita, così come si sperava, mentre fu un grande successo per la “camorra in coccarda tricolore”, come venne poi chiamato il fenomeno in questa breve fase.

Legittimata dalla divisa, la camorra negli anni '60 dell'Ottocento acquisì nuova potenza e si aprì nuove strade di guadagno illecito. La “camorra in coccarda tricolore” apparve legittimata verso il basso, capace ovvero di gestire il popolo, ma non irreggimentata dall’alto, per cui con indosso la divisa ebbe più spazio per fare quello che già faceva. Un episodio questo fondamentale anche per la storiografia sulla camorra.

In una parte della memoria storico-politica successiva ai fatti, la “camorra in coccarda tricolore” rappresenta l’emblema della delegittimazione assoluta del potere generale verso il basso e, allo stesso tempo, la prova di una natura della camorra come contropotere plebeo, delinquenziale sì, ma capace allo stesso tempo di assolvere funzioni sociali e politiche complesse, come appunto quella di rappresentanza e “partito della plebe”, come è stata spesso definita.

Al di là delle interpretazioni, l'episodio dell'ingresso dei maggiori camorristi nella guardia cittadina, ci dà l’idea di un fenomeno delinquenziale ben organizzato e capace, in questa congiuntura politica, di valorizzare il suo controllo del territorio microcriminale.

Emerge, inoltre, in questa congiuntura, un altro aspetto che resterà presente per tutta la storia della camorra, cifra di lettura del fenomeno: l’opportunismo dell’organizzazione. La risposta alla chiamata di Liborio Romano non fu, infatti, adesione alla causa risorgimentale e liberale ma, piuttosto, sfruttamento di una situazione propizia.

A riguardo è indicativa una canzoncina camorrista riportata per primo da Dalbono nel 1866: “Nuje nun simm’ Cravunar’, Nuje nun simm’ Rialist’, Ma facimm’  ’e cammurist’, Famm’ n’… a chill’ e a chist’”.

A citare questa illuminante canzoncina è Marcella Marmo che, nel saggio pubblicato nella rivista "Meridiana" n.7/8 del 1990 e dedicato alle mafie scrive:

«Non posso non citare una famosa canzoncina camorrista, che sintetizza bene l’orientamento nella congiuntura delle generazioni pre-1860: "Nuje nun simm’ Cravunar’, Nuje nun simm’ Rialist’, Ma facimm’  ’e cammurist’, Famm’ n’… a chill’ e a chist’". Dagli anni quaranta ai plebisciti del ’60, questa o quella scelta di campo viene dunque percepita come una scelta autonoma, funzionale all’economia del gruppo (“nuje facimm’  ’e cammurist), che si ritiene autonomo ed intenzionalmente ostile (Famm’ n’… a chill’ e a chist’) a quante altre élites o istituzioni ne richiedessero comunque l’alleanza. Informazioni molto generali, come queste, lasciano solo intuire come la collaborazione mercenaria abbia potuto realmente contribuire a confermare o accrescere la “spaventevole” autorità dei camorristi nei quartieri, che appariva a questi scrittori liberali un prodotto della storia ma più ancora della perversa congiuntura, dominata a tutti i livelli sociali e politici dalla forza e dalla paura».

Memoria sulla consorteria dei Camorristi

Archiviati presso il Ministero dell’Interno tra «atti diversi» di gabinetto del cinquantennio che va dal 1849 al 1895, si trovano due manoscritti, rinvenuti da Marcella Marmo, «Memoria sulla consorteria dei Camorristi esistente nelle Provincie Napolitane» e «Rapporto sulla camorra», conservati senza firma e senza data. Solo un appunto a mano, con scritto “1860”, ci mette probabilmente sulle tracce della congiuntura politica dell’Unità d’Italia.

Marmo scrive: “Benché in stesura non ufficiale, si tratta con ogni probabilità della documentazione sulla camorra pervenuta al Ministero di Torino nella primavera del 1861 dal Dicastero di Polizia della Luogotenenza napoletana, affidato fin dal novembre del 1860 a Silvio Spaventa, già emigrato di prestigio e leader a Napoli del “partito piemontese”. Tra i tanti e complessi problemi dell’ordine pubblico e degli indirizzi generali per la politica meridionale nel 1861, l’attivo ed intransigente Consigliere dell’Interno e della Polizia fin dalle prime settimane del suo insediamento si era orientato a reprimere la virulenta camorra della capitale, organizzazione misteriosa ma visibilissima nelle pratiche estorsive tra carceri e città”. Due testi che rappresentano dunque un buon osservatorio sul fenomeno criminale di metà Ottocento.

Di seguito alcuni tra i più interessanti passaggi tratti dalla «Memoria»:

«Sotto il patronato della Madonna del Carmine vive nelle Province Napolitane una mala consorteria che Consorteria dei Camorristi o Camorra semplicemente si appella. Essa ha organamento, mezzi di azione e scopo determinato e questo scopo è: campare la vota nell’ozio mediante estorsione e scrocco da praticarsi a scapito dei giuocatori anzi tutto, poi di quanti si guadagnano anche onestamente un pane. Non sono riuscito a spiegare la causa di questo nome: camorristi».

«I camorristi sono divisi in tre classi: la prima comprende i Picciotti d’onore, poi vengono i Picciotti di sgarro, nella terza categoria sono i Camorristi propriamente detti. Queste tre classi costituiscono un vero ordine gerarchico, né si può essere Camorrista senza essere prima stato Picciotto d’onore e Picciotto di sgarro».

«La Consorteria dei Camorristi ha tanti centri quanti sono i Capo-luoghi di Provincia. A Napoli havvi un centro in ogni quartiere e i quartieri della città sono dodici. Ciascun centro ha un capo, eletto di camorristi compresi nella sfera in cui egli avrà impero. Si sceglie sempre a capo della società chi è più provetto ed abile in materia di Camorra e maneggio del coltello. Nei bagni, nelle prigioni, nei corpi militari, è pure stabilita la Camorra, ed in ogni luogo di pena come in ogni corpo militare havvi un proprio Capo-società.Tutti questi camorristi sono in relazione fra loro, quelli di una Provincia con quelli delle altre Province, quelli dei bagni, delle prigioni e dell’armata con quelli che sono liberi».

«Ora ecco in quel modo lucrano i camorristi. Essi intervengono dove si giuoca, sui mercati, nei postriboli, nelle piazze e strade, dove vi sono vetture a nolo o facchini, si trovano al porto, si trovano in qualsiasi altro luogo pubblico e sempre quando uno busca qualche cosa, deve farne parte al camorrista. (…) E non vi è modo alcuno per sottrarsi al pagamento di questo tributo dovuto alla Camorra. Il Camorrista ha mezzi troppo potenti e temuti, perché gli si osi far resistenza».

Rapporto sulla camorra

Archiviato presso il Ministero dell’Interno tra «atti diversi» di gabinetto del cinquantennio che va dal 1849 al 1895, insieme con la Memoria, c'è il documento intitolato «Rapporto sulla camorra».

Seguono alcuni brani.

«La camorra è un sodalizio criminoso che ha per iscopo un lucro illecito e che si esercita da uomini feroci sui deboli per mezzo delle minacce e della violenza. La sua sede principale è nei luoghi di custodia e di pena, ivi si manifesta nella sua piena forza e vi giunge ad atti di scellerata ferocia».

«Ma il vocabolo camorra col decorrere del tempo mutò il suo primitivo valore e fu applicato a denominare ogni abituale estorsione e però furon detti camorristi non solo i veri adepti alla consorteria, ma ben anche tutti coloro che vivono di lucri indebiti prelevati sulle case di giuochi, di prostituzione e sopra alcune specie d’industrie e di commercio. Di questa lebbra è infetta Napoli e le province tutte e sebbene essa riposi egualmente nella estorsione operata dal forte sul debole per mezzo della minaccia e della violenza, l’indole ne è diversa per caratteri sostanziali che la distinguono da quella che ha vita nei luoghi di pena. Ed invero la camorra nel carcere costituisce un’associazione, i di cui membri hanno gerarchia di gradi, hanno usi tradizionali, metodi di ammissione, corrispondenza anche in luoghi lontani».

«La camorra poi della città è di altra indole. Il camorrista, così impropriamente denominato ha per lo più un mestiere, che esercita, il suo regno è limitato, egli non può uscirne».

«La prelevazione delle tasse si esercita nel modo più schifoso e brutale che immaginar si possa. Tutto è soggetto a tributo, lo si preleva principalmente sul giuoco, poi sull’ingresso dei detenuti nel luogo di pena o di custodia, poi sulla vendita del vino, dei commestibili e di qualsiasi oggetto. Tutto suscita l’ingordigia del camorrista, egli preleva la sua parte dal danaro largito dall’affetto dei congiunti e quando questo non ha più denaro, lo spoglia prima dei suoi abiti, poi lo priva del cibo».

La legge Pica: prima legge speciale

La prima “Legge di pubblica sicurezza” dello Stato italiano è datata 15 agosto 1863 e prende il nome dal deputato pugliese che la firmò: Giuseppe Pica.

La legge speciale conferiva al Governo la facoltà di comminare – inizialmente per un periodo non superiore a un anno, poi esteso a due – il domicilio coatto agli “oziosi, ai vagabondi, ai camorristi, ai manutengoli e alle persone sospette”, previa approvazione di una Giunta che doveva essere formata dal Prefetto di Napoli, che la presiedeva, dal presidente del Tribunale, dal sostituto procuratore del Re e da due consiglieri provinciali. Nel testo della legge Pica, “procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle province infette”, fece la sua prima comparsa, in una disposizione del nuovo Stato, il termine camorrista. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa", la legge Pica, redatta da una Commissione parlamentare dopo un suo viaggio al sud, interveniva senza bisogno di un processo.

In due anni, tra il 1863 e il 1864, la commissione provinciale prese in esame ben 1800 posizioni con richieste di domicilio coatto di cui 1200 subirono condanna. Insieme all’epurazione messa in atto da Spaventa, costituì la prima guerra di stato alla camorra. La prima legge di polizia ordinaria dello Stato Italiano entrò in vigore due anni dopo, nel 1865.

Alla legge Pica seguono due provvedimenti di carattere eccezionale: uno nel 1864, l’altro nel 1866, che rimpiazzavano la legge ordinaria del ‘65. Tra le leggi di polizia del '65 e del '71 c’è una differenza: mentre nella prima i camorristi non rientravano nelle categorie sociali pericolose, passibili delle temibili “misure preventive” (come oziosi, vagabondi, persone sospette), essi nel 1871 verranno reinseriti tra le persone sospette, come già nelle leggi eccezionali.

Il ricorso, o la semplice invocazione, a una giustizia straordinaria è una costante della storia della città, attribuibile alla difficoltà nel trovare prove di colpevolezza per incriminare i sospetti. Nasconde però una valutazione politica del problema, come una sorta di ammissione di impotenza della classe politica che si confessa incapace di risolvere in maniera ordinaria al fenomeno.

Nel 1889 vengono promulgati il nuovo codice penale Zanardelli, dal nome del ministro, e la nuova legge di Pubblica Sicurezza, coordinata al primo e destinata a sostituire la vecchia legge del 1865. Ultimi atti dell’Italia liberale in materia penale, resteranno in vigore, rispettivamente, fino al codice Rocco del 1930, il primo, e fino alla nuova legge di pubblica sicurezza del 1926, la seconda. 
    
Il codice Zanardelli presentava significative innovazioni in senso liberale e garantista, con l’abolizione della pena di morte, e l’inserimento della libertà di sciopero. Aspetti che venivano mitigati dalla concessione di maggiori poteri all’esecutivo e alla polizia.

I provvedimenti d’ammonizione e di domicilio coatto svolgevano una funzione di repressione preventiva nei confronti delle classi pericolose. Il presupposto per la richiesta di ammonizione nella nuova legge di PS per i delinquenti si basava, insieme alla classica voce pubblica, sull’esistenza di precedenti incriminazioni, indipendentemente dall’esito del processo.

Provvedimenti non certo garantisti, ma la difficoltà di trovare prove dell’associazione si mostrò subito. Importante momento di discussione su garantismo e antigarantismo, con caratteri di scontro interistituzionale, e sull’applicazione o meno del reato d’associazione per delinquere, sarà offerto, tra fine Ottocento e primi anni del Novecento, dal processo Cuocolo, arrivato non a caso subito dopo la ventata di moralizzazione suscitata dall’Inchiesta Saredo.

Il voto: nuovo mercato della camorra

La seconda metà dell'Ottocento rappresentò per la camorra il momento della scoperta di un nuovo mercato. L'allargamento del suffragio giocò in merito un ruolo fondamentale.

Gigi Di Fiore nel suo libro «La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime guerre», descrive molto bene quanto stava accadendo: «Il Dio voto si affermava. L’allagamento del suffragio, seppure limitato agli uomini e a persone con un alto censo e requisiti culturali, faceva aumentare le possibilità di pressione che i camorristi potevano esercitare sugli elettori, in appoggio a questo o quel candidato. All’estorsione, dopo appena una decina di anni dall’unità d’Italia, si aggiungeva un altro monopolio della Bella Società Riformata che, però, continuava a non possedere colore politico preciso. Gli appoggi ai candidati erano momentanei e strumentali: i camorristi speravano di ricavarne benefici immediati o successivi».

A proposito della presenza della camorra sulle elezioni, «Il Mattino», nato nel marzo del 1892 e destinato a diventare il maggiore giornale cittadino, in occasione di due tornate elettorali, una per le elezioni provinciali del luglio 1892 e l’altra per le elezioni politiche del maggio 1895, nel quartiere di Montecalvario a Napoli, parla con chiarezza della presenza della malavita impegnata nelle elezioni e presente nei seggi a sostenere l’uno o l’altro candidato.

A scriverne è il direttore Edoardo Scarfoglio che il 30 luglio del 1892 scrive un articolo dal titolo “La mala vita e l’elezione di Montecalvario”, duro attacco e denuncia del sistema clientelare e affaristico che si serve, per fini elettorali, della malavita.

«L’avvocato Girardi, che ha perorato assai fiaccamente per se stesso davanti agli elettori di Montecalvario, nel suo discorso-programma commise due errori di tattica talmente grossolani, che non s’intende come abbia potuto cadervi. Il primo (lo rilevammo ieri con sufficiente efficacia), ponendo in campo la significazione morale della sua candidatura; e l’altro, lanciando un’emozionante invettiva contro la mala vita suscitata contro di lui da Billi. Chi ignora che tutte le speranze dell’on. Girardi riposano appunto su questa tanto deprecata mala vita?».

Scarfoglio ha amici e – soprattutto – nemici in città. Le sue parole possono essere dettate da inimicizie o interessi. L’accusa di connivenza con la camorra e di manipolazione di questa forza per vantaggi elettorali potrebbe essere usata dal direttore come arma politica. Ciò che è certo, però, è che, da un lato o dall’altro, gli articoli riflettono la presenza della malavita nelle elezioni. L’impressione che si ha è quella di una politica che tiene le redini e che indirizza i rapporti con la mala vita locale che sta con chi gli concede favori, al di là di ogni tipo di ideologia.

«Invano in un portoncino al numero 75 del vico Lungo San Matteo si sono distribuite migliaia e migliaia di lire, senz’alcun ritegno; invano la feccia di Montecalvario, violentemente scossa tra il terrore dell’ispettore Rinaldi e la lusinga d’un biglietto di banca, gli è stata suscitata contro, invano tutte le citeree del quartiere hanno promesso piaceri inediti e gratuiti agli elettori che tradissero il vecchio lupo nella fatal giornata: Billi ha vinto», scrive Tartarin, pseudonimo di Scarfoglio, il primo agosto 1892.

Il colera a Napoli

Nell’estate del 1884 una grave epidemia di colera colpì Napoli, facendo contare, alla fine, circa settemila morti nella sola città e quasi ottomila nella provincia.

A essere più duramente colpiti furono i vecchi quartieri di Vicaria, Porto, Pendino, Mercato con il degradato tessuto di fondaci, vicoli stretti, edifici putridi. L’epidemia pose il tema della riqualificazione della città di Napoli al centro del dibattito dell’opinione pubblica nazionale e legò, inscindibilmente, le urgenti misure igieniche di cui Napoli necessitava al più ampio obiettivo della modernizzazione della città.

Per la prima volta si cominciò a parlare di un intervento straordinario per Napoli. La legge «pel risanamento della città di Napoli» fu approvata nel gennaio 1885 e prevedeva la bonifica dei quartieri bassi, con finanziamento statale, l’ampliamento della città, con la costruzione di nuovi rioni, la realizzazione di fognature e il proseguimento della costruzione dell’acquedotto del Serino. L’inaugurazione di una parte dell’acquedotto e la cosiddetta "posa della prima pietra" per la costruzione del nuovo rione Vomero, rispettivamente il 10 e l’11 maggio del 1885, lasciavano ben sperare sulla rapidità di realizzazione dei lavori.

Ma, a una prima fase di concordia amministrativa dettata dall’urgenza e dall’attenzione nazionale, seguirono quattro anni di stallo dei lavori, bloccati di fronte alle difficoltà e alle lotte interne alle giunte che si scioglieranno e si formeranno sulla questione dei lavori del Risanamento.

La questione del Risanamento si incrocerà con la difficile congiuntura finanziaria dell’Italia di fine secolo, e le vicende generali del Paese si sovrapporranno a quelle di Napoli. Nella crisi bancaria nazionale verranno coinvolti anche Istituti che avevano contribuito col proprio capitale alla nascita della “Società per il Risanamento”, affidataria dei lavori.

L’opera di risanamento della città di Napoli perderà il carattere emergenziale e i suoi lavori si protrarranno ben oltre i tempi previsti. Inoltre, la gestione dei finanziamenti destò subito sospetti: inchieste amministrative sulle case popolari e sulle opere del Risanamento e un clima di sospetto si tradussero nel primo commissariamento del comune di Napoli, sciolto nel 1891 e affidato al commissario regio Giuseppe Saredo.

Dieci anni dopo, Saredo firmò l’inchiesta* che porta il suo nome, sui rapporti tra camorra e amministrazione a Napoli.

* L'Inchiesta Saredo
di Antonella Migliaccio  

Nel clima surriscaldato dalla durissima campagna a mezzo stampa condotta dal giornale socialista "La Propaganda" contro la cosiddetta “camorra amministrativa”, campagna dall’eco nazionale, maturò la necessità di fare chiarezza su quanto accadeva a Napoli.

L’8 novembre del 1900 Giuseppe Saracco, presidente del Consiglio in carica, firmò il decreto di istituzione della commissione d’inchiesta col fine di indagare sulla cosiddetta “camorra amministrativa”, ovvero sulla corrotta classe dirigente napoletana a capo delle amministrazioni cittadine tra gli anni Ottanta e Novanta portata alla luce dalla campagna moralizzatrice de "La Propaganda". Il giornale si era fatto portavoce di una “triplice battaglia, morale contro la camorra, politica contro la reazione ed economica a favore del proletariato”, di forte impatto politico, tanto da preoccupare le forze moderate, che avevano finito per appoggiare la campagna moralizzatrice col fine di sottrarne il monopolio ai socialisti.
L’eco degli scandali napoletani era arrivato anche in Parlamento. A trentanove anni dall’Unità d’Italia, Napoli era già stata commissariata nove volte.

L’inchiesta Saredo portò alla luce la grave situazione di corruzione, di clientelismo e di generale inefficienza del Comune napoletano. Notevole la mole di atti prodotti, di tipo ufficiale, come delibere delle giunte, bilanci del Comune, verbali di interrogatori, ma anche non ufficiali, come una documentazione fatta di memorie, lettere, biglietti di raccomandazione di notevole interesse. Si parlò nell’Inchiesta di “alta camorra”, dal carattere borghese, distinta dalla camorra plebea, e pure in contatto con questa attraverso la figura dell’intermediario.

Le indagini dell’Inchiesta si svolsero in un clima difficile, ostacolate dai boicottaggi del personale amministrativo che contrastava invece con il diffuso appoggio dell’opinione pubblica. L’Inchiesta indagò profondamente sui meccanismi di formazione del personale burocratico nel periodo unitario e sul funzionamento della macchina amministrativa, e mise in luce una struttura da sempre affollata ma aumentata negli ultimi anni, con meccanismi d’assunzione per meriti, come previsto dal regolamento, regolarmente disattesi. Età avanzata degli impiegati, basso grado d’istruzione, esubero del numero degli assunti ma, soprattutto, il cumulo di doppi e a volte triplici incarichi di lavoro in diversi uffici. Significativo il dato finanziario di questa politica di impiego: le retribuzioni erano tra le più basse d’Italia, a fronte di una spesa comunale dedicata agli stipendi, invece, tra le più alte.

L’inchiesta Saredo fece luce sul quadro di malgoverno e la natura clientelare degli scambi, disegnando una distorta realtà della quale l'onorevole Casale, oggetto degli attacchi de La Propaganda, rappresentava solo la punta di un iceberg di corrotti.

"La propaganda"

«La Propaganda», rivista prima e quotidiano poi, espressione del pensiero socialista, giocò un ruolo importante nello smuovere la città di Napoli dal torpore in cui versava a fine Ottocento.

A partire dal maggio 1899, il giornale si fece portavoce di una “triplice battaglia, morale contro la camorra, politica contro la reazione ed economica a favore del proletariato di forte impatto politico", tanto da preoccupare anche le forze moderate che finirono per appoggiare la campagna moralizzatrice pur di sottrarne il monopolio ai socialisti.

Tutto cominciò con un’inchiesta sul modo in cui il Comune di Napoli aveva stipulato alcune convenzioni per l’illuminazione pubblica e i tram cittadini. Bersagli principali delle accuse della Propaganda furono il sindaco Celestino Summonte e il potente parlamentare Alberto Aniello Casale, entrambi, secondo il giornale, sostenuti dalla camorra. Anche il direttore de Il Mattino, Edoardo Scarfoglio finì nel mirino del quotidiano socialista, che parlò della triade Casale-Summonte-Scarfoglio come punta di un iceberg corrotto di funzionari, politici e amministratori che verrà poi descritto dall’inchiesta Saredo di lì a poco.
Durissimi gli attacchi contro la cosiddetta “camorra amministrativa”.

L’on. Casale si vide costretto a querelare il giornale, ma il processo che ne seguì fu tutto a suo svantaggio: i giornalisti della «Propaganda» furono assolti perché i fatti di corruzione vennero provati. Casale si dimise. L’eco degli scandali napoletani arrivò anche in Parlamento: era maturo il clima per nominare una commissione di inchiesta.

Il commissariamento di Napoli

Sull'aprirsi del Novecento, la città di Napoli fu interessata da un grande scandalo - una sorta di tangentopoli ante litteram - che condusse al commissariamento della città.

Ma come maturò la situazione che aprì l'infelice storia dei commissariamenti dell'amministrazione cittadina?
Non sono da sottovalutare le contingenze storiche post unitarie che condussero fino all'Inchiesta Saredo. Napoli era una città in cerca di un riposizionamento, perso il ruolo di capitale aspirava una nuova identità. Sul territorio urbano si faceva sempre più accesa la lotta per il controllo del Comune e per la conquista di seggi in Parlamento.


Intanto, nel 1884, Napoli fu sconvolta da una gravissima epidemia di colera che fece contare più di 6800 morti solo in città. Fu questa l’occasione in cui, per la prima volta, si cominciò a parlare di un intervento straordinario per Napoli: nel 1885 venne approvata la prima legge speciale per Napoli che prevedeva fondi per lavori di ristrutturazione e ammodernamento della città.

La società del Risanamento si aggiudicò i lavori. Ma la gestione dei finanziamenti destò subito sospetti: già cinque anni dopo furono disposte due inchieste amministrative sulle case popolari e sulle opere del Risanamento.
Un clima di sospetto che si tradusse nel primo commissariamento del comune di Napoli che, sciolto nel 1891, fu affidato al commissario regio Giuseppe Saredo.

C’erano già tutte le premesse per un terremoto della vita cittadina che culminerà sotto l’inchiesta dello stesso Saredo per i rapporti tra camorra e amministrazione.

Brani dall'inchiesta Saredo

“Il male più grave, a nostro avviso, fu quello di aver fatto ingigantire la Camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale, invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni, o per lo meno di tenerla circoscritta, là donde proveniva, cioè negli infimi gradini sociali. In corrispondenza quindi alla bassa camorra originaria, esercitata sulla povera plebe in tempi di abiezione e di servaggio, con diverse forme di prepotenza si vide sorgere un’alta camorra, costituita dai più scaltri e audaci borghesi. Costoro, profittando della ignavia della loro classe e della mancanza in essa di forza di reazione, in gran parte derivante dal disagio economico, ed imponendole la moltitudine prepotente ed ignorante, riuscirono a trarre alimento nei commerci e negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli, nella stampa. È quest’alta camorra, che patteggia e mercanteggia colla bassa, e promette per ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la scaltrezza, la audacia e la violenza, come forza la piazza, ben a ragione è da considerare come fenomeno più pericoloso, perché ha ristabilito il peggiore dei nepotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà e frodando le leggi e la pubblica fede”.

Brano tratto dalla Regia commissione d’Inchiesta per Napoli, Relazione sull’amministrazione comunale, di cui era relatore il senatore Saredo.   

Di difficile lettura sono le relazioni camorriste quando si incontrano con i poteri alti. Il rischio che si corre – avverte Marcella Marmo, docente di Storia contemporanea dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, ricercatrice sulla camorra dell’Ottocento e componente del comitato scientifico della Biblioteca sulla camorra – è quello di incorrere in errori interpretativi, confondendo le relazioni che il network delinquenziale intesse con altri gruppi, con l’esistenza di una “camorra alta” o “in guanti bianchi” che dirige quella bassa.

L'omicidio Notarbartolo

Il delitto Notarbartolo fu il primo delitto eccellente di mafia. Il primo febbraio del 1893 sul treno Termini-Palermo si consumò l’assassinio che l’opinione pubblica non tardò a bollare come di mafia.
Emanuele Notarbatolo, ex direttore generale del Banco di Sicilia morì accoltellato e i sospetti caddero subito su un deputato della Destra storica, Raffaele Palizzolo, come mandante dell’omicidio. Lo scenario in cui va inquadrato l’omicidio è quello dei complicati networks che fanno incrociare cosche, politica centrale, alta finanza e interessi delle più potenti lobbies cittadine palermitane.

Il caso scosse l’opinione pubblica italiana. Per la prima volta, ci si trovò a fare i conti col fenomeno mafioso che, rotti confini insulari, invase le aule dei tribunali di Milano, Bologna e Firenze, irrompendo nello scenario nazionale.

Venne allo scoperto un fenomeno mafioso che si muoveva tra affarismo, mafia, politica e questione bancaria e che lo proiettava da una dimensione atavica e arretrata a un contesto che aveva a che fare con la modernità.

Il caso Notarbartolo incrociò, inoltre, un’importante inchiesta realizzata tra il 1898 e il 1900 dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, documento rivelatore della struttura associativa delle cosche mafiose di fine Ottocento. I documenti raccolti disegnarono la mappa delle cosche (o nasse), la loro struttura organizzativa, i gradi.

La mafia emerse come organizzazione federata attiva nell’agro palermitano, composta da un insieme di cosche distinte per competenza territoriale ma coordinate da una conferenza di capi e da un «capo supremo», segno di continuità associativa nella zona delle borgate palermitane con la mafia novecentesca.

Oltre al processo Notarbartolo, un’altra inchiesta veniva condotta a Palermo, parallelamente, sul piano amministrativo, nominata dal governo Saracco (come l’Inchiesta Saredo) per la moralizzazione del municipio. Si tratta dell’Inchiesta Schanzer che indagava sulla Sicilia degli anni Novanta e sui rapporti clientelari dell’on. Palizzolo venuti fuori nel corso del processo Notarbartolo.
L’inchiesta rivelò un forte uso di clientele, come nella situazione napoletana, ma un intreccio tra mafia e politica più stretto e provato.

La ricostruzione del caso Cuocolo

Il processo Cuocolo rappresentò un caso interessante per numerosi motivi, non solo strettamente processuali.

Innanzitutto si è probabilmente di fronte al primo caso in cui la collaborazione, non rara tra mafiosi/camorristi e polizia, fu portata in tribunale.

Gennaro Abbatemaggio, ricordato come il primo pentito di camorra, era affiliato all’organizzazione col grado di picciotto ed era un confidente abituale delle forze dell’ordine, una faccia nota. Salvo poi nel suo memoriale, successivo al processo, raccontare di essere stato convinto alla fasulla delazione dai Carabinieri e dal denaro offertogli.

Inoltre, nell'attirare l'attenzione su questo processo dei primi del Novecento, fu decisivo anche il coinvolgimento di una camorra mista. Non solo quella della massa di affiliati che gestisce i più diversi affari illeciti, ma anche quella elegante dei circuiti di cavalli e aste che tanto ricordava l’“alta camorra” dell’Inchiesta Saredo, il cui ricordo era ancora molto caldo in città.

Fu un processo che vide il forte scontro tra garantismo e antigarantismo, con aspri toni e conflitti inter-istituzionali, tra la Questura e i Carabinieri, ma anche all’interno della stessa magistratura.

Rappresentò, infine, per l’attenzione locale ma anche nazionale di giornali e gente comune, il primo momento della “nazionalizzazione” della camorra (a scriverlo è Marcella Marmo che la riprende dalla pubblicistica dell’epoca) ovvero dell’uscita allo scoperto della organizzazione sull’intero territorio nazionale. I giornali portarono alla conoscenza dell’intero paese l’esistenza, le attività e le facce della camorra.

Le fasi del processo Cuocolo

l processo Cuocolo, per l'uccisione dei coniugi basisti della camorra, iniziò nel 1906.

La prima istruttoria, messa in piedi contro un gruppo di noti camorristi che il giorno dell’omicidio banchettava poco lontano dal luogo del ritrovamento del corpo di Cuocolo, fallì per insufficienza di prove. La pista camorrista fu rilanciata l’anno seguente dalla polizia giudiziaria dei Reali Carabinieri, che portarono al procuratore una persona a conoscenza dei fatti, tale Gennaro Abbatemaggio, primo pentito di camorra, poi rivelatosi falso pentito, sulle cui rivelazioni si costruì l’accusa.

I Carabinieri del comandante Fabroni – in opposizione alla Questura e alla sua polizia giudiziaria sospettata di sostenere la pista del furto con l’obiettivo di proteggere i camorristi – impostarono il processo sull’associazione per delinquere attraverso reiterate falsificazioni di prove: due lettere fatte preparare con rapidità da un presunto tradito che chiedeva giustizia al Tribunale della Camorra, e un presunto anello di Cuocolo, prova dell’avvenuto assassinio, trovato dai Carabinieri in assenza della difesa a casa del presunto tradito.

Intorno alla produzione di prove false si mobilitò l’opinione pubblica garantista e si provocò uno scontro interno anche alla magistratura, con la sottrazione del processo a un PM garantista di alto prestigio, Leopoldo Lucchesi Palli.

Il processo, che per legittima suspicione fu spostato alla Corte d’Assise di Viterbo nel 1911-1912, terminerà con la vittoria della parte colpevolista e antigarantista. Dure pene saranno comminate: trent’anni agli imputati di duplice omicidio, cinque agli imputati per sola associazione.

Il processo risulta un punto d’arrivo di una strategia giudiziaria che aveva cercato di applicare a livello processuale il paradigma associativo, rilanciandolo contro la camorra in linea con il riaprirsi di un’attenzione penalistica alla mafia negli anni del processo Notarbartolo.

Nel corso degli anni la difesa cercherà più volte di riaprire il processo, appigliandosi alle irregolarità e alle manipolazioni probatorie. Solo nel 1927 le ritrattazioni del falso pentito Abbatemaggio confermeranno i dubbi e le denunce dell’opinione pubblica garantista, rappresentata dal PM Lucchesi Palli e da un avvocato-giornalista de «Il Mattino», Diodato Lioy che ancora per anni si erano spesi per la causa innocentista. Il processo però non fu riaperto e il caso si risolse con la remissione delle pene solo negli anni ’30, dopo che il delatore del 1907 inviò un memoriale di ritrattazione.

"Il Mattino"

Il 16 marzo del 1892 viene pubblicato il primo numero de «Il Mattino», giornale fondato da Edoardo Scarfoglio insieme con sua moglie Matilde Serao, in un panorama giornalistico culturalmente molto vivo.

In città, infatti, si pubblicavano con buone tirature il Roma, il Pungolo, il Piccolo, il Corriere di Napoli, e dal 1889 anche il quotidiano La Propaganda, voce del socialismo napoletano.

In questo quadro di ricchezza culturale la nuova esperienza de «Il Mattino» cercherà di ritagliarsi il suo pubblico. Un lungo editoriale a firma del direttore Scarfoglio saluta i lettori e spiega la nascita del giornale, costola del Corriere di Napoli di Matteo Schilizzi, cui avevano collaborato i coniugi prima del nuovo percorso. Al distacco doloroso dal passato Scarfoglio affianca l’entusiasmo per la nascita di un “giornale la cui voce di Napoli si spandesse per tutta quanta l’Italia; e fosse insieme un elemento di cultura e di civiltà per le nostre provincie, e un campione dei diritti meridionali davanti al resto della patria”.

Numerose le firme de «Il Mattino»: uno fra tutti il giovane Ferdinando Russo si occuperà della cronaca cittadina e pubblicherà numerose poesie sui costumi napoletani. Il giornale vanterà anche una  vasta schiera di illustri collaboratori, partendo da Gabriele D’Annunzio, amico di Scarfoglio, che pubblicherà numerose poesie in prima pagina, e Giosuè Carducci, per arrivare a Rocco De Zerbi e Francesco Saverio Nitti.

Quattro pagine costruite su cinque colonne,  con il fondo solitamente a firma di Tartarin, pseudonimo di Scarfoglio. Alla Serao spettava la rubrica «Api, Mosconi e Vespe», con lo pseudonimo gibus, mentre diventava “Giuliano Sorel” quando firmava le sue inchieste sociali che portavano i lettori nei vicoli di Napoli. A tre mesi dalla fondazione il quotidiano già godeva di un pubblico numeroso: terzo giornale cittadino – dopo il Roma e il Corriere di Napoli – aveva una tiratura di 13.000 copie.