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di Raffaella Gherardi
Primo di tre fratelli, nacque a Bologna l’8 nov. 1818 da Giuseppe,
appartenente a un’agiata famiglia di proprietari terrieri
arricchitisi con il commercio durante il periodo napoleonico, e da
Rosa Sarti, anche lei proveniente da una ricca famiglia borghese di
sentimenti liberali. Dopo aver appreso in casa le prime nozioni, il
M., che nel 1828 perse il padre, frequentò la scuola di
latino dei barnabiti, della quale conservò in particolare il
ricordo di Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi, noti per le loro accese
idee liberali. Nel 1830 durante un viaggio con la madre a Venezia,
rimase colpito dai tesori artistici della città e in
particolare dalla pittura, per la quale concepì una vera e
propria passione che non lo abbandonerà più nel corso
della vita e che fungerà sempre da sua grande
«consolazione».
Il 30 genn. 1832 il M. partì con la madre per Parigi, dove
viveva lo zio, Pio Sarti, costretto all’esilio per aver sostenuto i
moti bolognesi del 1831. A Parigi, oltre a subire l’influenza delle
idee liberali dello zio, ebbe modo di incontrare il generale M.J.P.
Motier de La Fayette, C.M. de Talleyrand Périgord e molti dei
più noti esuli italiani quali F. Orioli, T. Mamiani della
Rovere, P. Maroncelli e, fra i bolognesi, C. Pepoli, A. Zanolini, A.
Silvani. Con lo zio, in aprile, visitò Londra restandone
profondamente ammirato. A fine maggio era di nuovo a Bologna.
Nel 1833 intraprese studi a carattere scientifico (fisica,
mineralogia, chimica, geologia, astronomia) sotto la guida di
Vincenzo Michelini, medico e matematico: condotto da lui anche ad
ascoltare lezioni all’Università, che non frequentò
mai regolarmente.
Per gli studi a carattere letterario il suo maestro fu Michele
Medici, fisiologo, letterato e buon latinista; contemporaneamente fu
discepolo di Paolo Costa che gli trasmise in particolare l’amore per
gli studi letterari e filosofici: di lui, giudicandolo troppo legato
al sensismo, il M. avrebbe in seguito criticato i limiti. Risale al
1837, un anno dopo la morte di Costa, il primo saggio del M., una
analisi Intorno all’opera del prof. Paolo Costa intitolata
«Del modo di comporre le idee e di contrassegnarle con
vocaboli precisi per potere scomporle regolarmente a fine di ben
ragionare e delle forze e dei limiti dell’umano intelletto»,
pubblicata nel Nuovo Giornale dei letterati. Seguirono, nel marzo
del 1838, ne L’Istitutore, le osservazioni critiche sul dramma Dante
in Ravenna di Luigi Biondi.
Socio fondatore nel 1837 della Cassa di risparmio di Bologna,
nell’autunno 1839 il M. prese parte a Pisa al primo congresso degli
scienziati conoscendovi alcuni fra i più noti esponenti delle
scienze e delle lettere: fra gli italiani R. Lambruschini, G.
Montanelli, G. Giusti, G.B. Giorgini, e fra gli stranieri L.A.J.
Quételet. Da Pisa passò poi a Roma e a Napoli,
allacciando nuovi rapporti con scienziati e letterati. Intanto
approfondiva gli studi filosofici, spaziando dall’antichità
fino ai pensatori contemporanei; studiava con regolarità la
lingua tedesca; si occupava sistematicamente di pensiero economico
(A. Smith e J.B. Say in particolare); corrispondeva dal 1842 con P.
Giordani; provava particolare interesse per le opere di J.Ch.
Sismond de Sismondi e per la sua trattazione dei problemi sociali. A
conclusione di queste letture giunsero le due lettere Intorno alla
tendenza agli interessi materiali che è nel secolo presente
(Firenze 1841), primo nucleo dei suoi successivi, importanti scritti
in materia economica.
Amministratore dei beni di famiglia già nel 1843, il M. si
dedicò ora anche a livello teorico ai problemi
dell’agricoltura e delle possibili innovazioni tecniche applicabili
in tale ambito. Membro della Società agraria di Bologna e
collaboratore del periodico Il Felsineo che dal 1840 ne fu l’organo,
ebbe un ruolo assai attivo nel dibattito sull’economia in cui fece
spicco il 23 apr. 1843 il suo discorso Della proprietà rurale
e dei patti fra il padrone e il lavoratore (Bologna 1845). Poi
riprese a viaggiare (prima in Svizzera, Germania, Belgio e Olanda,
poi, nel dicembre 1844, in Francia e in Inghilterra); un soggiorno
di cinque mesi a Parigi gli consentì di frequentare la
Sorbona e il Collège de France, e di seguire in particolare
il corso di diritto costituzionale tenuto da Pellegrino Rossi, di
cui divenne amico. Ebbe anche modo di assistere ad alcune riunioni
di fourieristi e di conoscere J. Michelet ed E. Quinet; in casa
Arconati, ritrovo di molti esuli italiani, ascoltò le
discussioni sulle tesi politiche di V. Gioberti (conosciuto di
persona a Zurigo pochi mesi dopo) e di C. Balbo.
La successiva permanenza in Inghilterra (maggio-luglio 1845)
servì soprattutto a fargli conoscere alcuni centri
manifatturieri e a rinsaldarlo nella sua ammirazione per
l’Inghilterra, mentre gli incontri londinesi con G. Mazzini non
poterono che confermargli la distanza dal metodo rivoluzionario dei
democratici. L’esperienza fatta oltre Manica gli avrebbe poi dettato
l’intervento che tenne il 1° marzo 1846 alla Società
agraria parlando Della riforma delle leggi frumentarie in
Inghilterra e degli effetti che possono derivarne al commercio
italiano (Bologna 1846). Intanto si infittivano i suoi contatti con
i capi del liberalismo moderato italiano, con M. Taparelli d’Azeglio
soprattutto, incontrato a Firenze, e con Montanelli e R. Ruschi,
conosciuti a Pisa, e ne nasceva la strategia della formazione di una
opinione pubblica nazionale che dopo l’elezione di Pio IX
coinvolgeva nel patriottismo anche il mondo cattolico. Di qui il
ruolo di interlocutore informale degli ambienti di Curia che il M.,
presto ricevuto in udienza dal nuovo papa, veniva via via assumendo.
Direttore nel 1847 per sette mesi de Il Felsineo, alla trattazione
delle materie agrarie il M. affiancò argomenti a carattere
economico generale e di attualità, con particolare attenzione
ai problemi relativi alle riforme (lavori pubblici, ferrovie,
sicurezza personale, amministrazione, scuole); diede anche un grosso
rilievo alla cronaca politica delineandovi con chiarezza un
programma di riforme orientate all’armonia fra le classi sociali.
Nel novembre del 1847 fu chiamato a far parte della Consulta di
Stato e inserito nella commissione incaricata di redigere la
risposta al discorso pronunciato da Pio IX in occasione
dell’inaugurazione della stessa Consulta (15 novembre).
Segnalatosi dunque come tra i più sensibili all’esigenza di
una politica riformista, il M. fu chiamato il 10 marzo 1848 al
governo dello Stato pontificio come ministro dei Lavori pubblici; lo
rimase fino al 1° maggio, cioè fino a quando
l’allocuzione papale del 29 aprile non ebbe chiarito i limiti del
liberalismo attribuito a Pio IX. Lasciata Roma, il M. in Piemonte si
arruolò nell’esercito di Carlo Alberto rivestendo dal 10
maggio all’11 agosto il grado di ufficiale di stato maggiore al
quartier generale sardo e partecipando alle battaglie di Goito e
Custoza. Nel frattempo, vigendo ancora a Roma la costituzione, era
stato eletto deputato per il collegio di San Giovanni in Persiceto:
un incarico al quale rinunziò dopo l’assassinio di Pellegrino
Rossi, indignato per la riluttanza del nuovo ministero ad iniziare
pubblicamente il processo contro gli autori del delitto. Dopo la
fuga del papa a Gaeta, il M. non ebbe esitazioni a mettersi alla
testa di quella parte dei moderati contrari a portare propri
candidati alla Costituente.
Richiamato nel marzo 1849 al quartier generale sardo in seguito alla
ripresa della guerra contro l’Austria, nel novembre ottenne la
dispensa definitiva da ogni servizio. La pubblicazione dell’opuscolo
Della restaurazione del governo pontificio (Firenze 1849), molto
critico verso Pio IX, fu il preludio all’abbandono della politica
attiva da parte del M. che fra il 1850 e il 1851 visse per lo
più in campagna, a Cadriano, approfondendo gli studi di
agricoltura, filosofia (Kant e Rosmini in particolare), arte,
scienza e soprattutto di economia. Collaboratore del giornale
fiorentino Lo Statuto con alcuni articoli in cui prendeva le
distanze dalla restaurazione papale, nel 1851 lesse alla
Società agraria l’Elogio di Antonio Silvani che non fu
però pubblicato (lo sarà soltanto nel 1864) per timore
della censura pontificia; poi passò a Torino per essere
ricevuto (22 luglio 1851) da Vittorio Emanuele II al quale
parlò della condizione delle Romagne. Ma l’incontro torinese
più importante fu quello con C. Benso conte di Cavour col
quale scoprì immediatamente di avere una profonda
affinità sia intellettuale sia morale. Oltre ai comuni studi
di economia e agricoltura, ciò che univa i due uomini
politici era l’amore per la discussione delle idee, la fiducia nel
governo parlamentare e la convinzione che la soluzione del problema
italiano si dovesse fondare innanzitutto sull’azione diplomatica da
parte del Piemonte presso gli Stati europei.
Divenne questa, in modo informale, la sua missione. Durante un
viaggio in Francia e in Inghilterra, nell’estate del 1853 a Londra
ebbe modo di conoscere H.J. Temple visconte di Palmerston, W.E.
Gladstone e lord John Russell. Infittendo i contatti con Cavour, nel
1854 ne sostenne la politica di intervento del Piemonte a fianco
della Francia e dell’Inghilterra nella guerra d’Oriente. In una
pausa dei suoi spostamenti riprese gli studi dando alle stampe nel
1855 le sue 12 lettere Della libertà religiosa (poi, con
altri scritti giovanili minori, in Opuscoli letterari ed economici)
e tenendo privatamente nell’inverno 1855-56 un corso di economia
politica in quaranta lezioni. Nel 1856 su incarico di Cavour
preparò un memorandum sulla situazione dello Stato pontificio
additando nel malgoverno papale una causa di continua e pericolosa
instabilità: concetto che riprese l’anno dopo quando il 20
giugno 1857 fu ricevuto da Pio IX, in visita a Bologna, e gli fece
presente l’urgenza di una politica di riforme, prospettandogli come
inevitabile la candidatura del Piemonte alla guida di quanti
coltivavano le «speranze dei popoli».
Alla fine del 1858 il M. portò a termine una delle sue opere
di più vasto respiro edita a Firenze l’anno successivo: si
tratta Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e
col diritto. A ragione il M. ricorderà più volte,
anche in occasione di dibattiti parlamentari, il largo successo di
quest’opera in Italia e in Europa; testimoniano in tal senso la
traduzione francese, edita a Parigi nel 1863 (Des rapports de
l’économie publique avec la morale et le droit, corredata da
un’importante prefazione di F. Passy) e le successive riedizioni in
Italia (Firenze 1868 e 1881). Soprattutto nel decennio 1875-85,
periodo in cui il dibattito politico-culturale italiano si
incentrò sul tema del cosiddetto «germanesimo
economico» (secondo la sarcastica espressione dell’economista
liberista Francesco Ferrara), l’opera del M. sulla economia pubblica
verrà vista come capostipite di quella originale «via
media» tutta italiana con cui molti fra gli economisti
nostrani concilieranno i principî base del liberismo con la
necessità di commisurare gli stessi a una disincantata
analisi dei «fatti», concretamente analizzati nella loro
realtà storica. In causa c’era anzitutto il problema del
ruolo dello Stato e degli interventi che si riteneva più o
meno legittimo esso compisse sul terreno dell’economia e della
questione sociale. Sia nei suoi scritti più organici sia nei
suoi scritti minori così come negli interventi parlamentari
ed extraparlamentari, il M. studioso e uomo politico non si
stancherà di portare alla ribalta il tema della
trasformazione dello Stato liberale da puro e semplice Stato di
diritto (così come lo pensavano i liberali della prima
metà dell’Ottocento e come lo avevano pensato i patrioti
italiani prima di raggiungere l’Unità) a Stato amministrativo
chiamato a darsi carico insieme della «questione
amministrativa» e della «questione sociale». Il
M., così come la più avvertita pubblicistica liberale
italiana, poneva più volte in risalto il passaggio dalla
cosiddetta «età della poesia» (il periodo in cui
la meta cui tendere era l’unificazione nazionale)
all’«età della prosa», in cui si trattava di
costruire effettivamente lo Stato nazionale e di disegnarne i
compiti.
All’inizio del 1859, mentre era in viaggio in Egitto, il M.
ricevette da Cavour una lettera che lo sollecitava a rientrare
immediatamente a Torino: lì giunto il 22 aprile, dopo aver
giurato come suddito sardo, fu nominato segretario generale del
ministero degli Esteri. Suo compito particolare era quello di
seguire a diretto contatto con Cavour gli affari italiani. Di Cavour
condivise poi la sorte dimettendosi dopo la firma dei preliminari di
Villafranca (11 luglio). Chiamato il 3 sett. 1859 a presiedere
l’Assemblea convocata per preparare l’annessione delle Romagne al
Piemonte, il 7 settembre presentò e fece votare una sua
mozione nella quale si dichiarava che «i popoli delle Romagne,
rivendicato il loro diritto, non vogliono più governo
temporale».
Con l’elezione del 22 apr. 1860 il M. entrò nel Parlamento
sardo, proseguendo poi il suo mandato nel Parlamento del Regno
d’Italia e conservandolo fino alla morte, dalla VII alla XVI
legislatura. Pochi mesi dopo, il 1° novembre, Cavour, vinta
qualche resistenza da parte del re, gli affidò il ministero
degli Interni, carica confermatagli anche nel successivo ministero
Ricasoli.
Con la creazione del Regno riprese in lui concretezza e urgenza il
tema dell’assetto interno del nuovo Stato: su ciò intervenne
nel 1861 il suo importante progetto sull’Ordinamento amministrativo
del Regno d’Italia, largamente ispirato al motivo delle autonomie
locali (vi venivano, per esempio, delineati «consorzi
permanenti di province» che mettevano sul tappeto il tema
della regione). Approdato all’esame di una commissione parlamentare,
il progetto fu respinto con ventiquattro voti contrari e diciotto a
favore, ma fu destinato a costituire anche nei decenni successivi un
utile terreno di confronto, in Italia e altrove, per proposte e
dottrine ispirate alla prospettiva del decentramento amministrativo;
dell’interesse che esso immediatamente suscitò fa fede la
pressoché immediata traduzione in lingua francese (De
l’organisation administrative du Royaume d’Italie), pubblicata a
Parigi (1862) con una introduzione di A. Levy. Nella Storia d’Italia
dal 1871 al 1915 B. Croce avrà modo di sottolineare come, se
approvato, il disegno Minghetti del 1861 «avrebbe risparmiato
gli inconvenienti e i danni dell’accentramento». D’altronde le
dimissioni presentate dal M. il 1° sett. 1861 al Ricasoli furono
originate appunto da profonde divergenze sull’ordinamento
amministrativo.
Tornò al potere l’8 dic. 1862 come titolare delle Finanze,
conservando il suo portafoglio anche quando subentrò a L.C.
Farini nella presidenza del Consiglio (24 marzo 1863). Famosi
restano i discorsi in materia finanziaria in cui delineò i
provvedimenti per risanare il deficit. Questa prima esperienza alla
testa di un governo si chiuse per il M. il 24 sett. 1864 (venti
giorni dopo il matrimonio con Laura Acton, vedova di D. Beccadelli
principe di Camporeale), quando fu costretto alle dimissioni dai
tumulti scoppiati a Torino e duramente repressi a seguito
dell’annuncio della Convenzione di settembre, negoziata con
Napoleone III tramite il ministro degli Esteri Visconti Venosta. In
un volume edito postumo dal titolo La Convenzione di settembre: un
capitolo dei miei ricordi (Bologna 1899), il M. avrebbe poi
rievocato questo suo atto di politica estera come «il passo
più decisivo all’Unità d’Italia con Roma
capitale».
Restò un semplice deputato fino al 13 maggio 1869, quando
L.F. Menabrea lo volle con sé al governo come ministro
dell’Agricoltura, Industria e Commercio. In tale funzione, durata
fino al 14 dic. 1869, il M. chiamò a collaborare tecnici di
primo piano, quali l’economista L. Luzzatti, e promosse la
realizzazione di due grandi iniziative: l’inchiesta industriale e
l’inchiesta agraria, i cui risultati, pubblicati nel decennio
successivo, segneranno l’avvio della revisione dei trattati
commerciali e della cosiddetta «svolta protezionistica»
della politica economica italiana. La fine dell’impegno ministeriale
gli consentì di dedicarsi agli studi ma gli lasciò
anche spazio per importanti missioni politiche: la maggiore fu
quella che il 24 ag. 1870 lo destinò quale ministro
plenipotenziario a Vienna. Vi rimase per dieci mesi seguendo in
particolare la posizione del governo austriaco sulla questione
romana.
L’apice della carriera politica il M. lo toccò come
presidente del Consiglio negli anni 1873-76. Successore di G. Lanza
a partire dal 10 luglio 1873, il M. riservò a sé anche
la titolarità delle Finanze. Denso di significato fu uno dei
suoi primi impegni presidenziali al seguito di Vittorio Emanuele II
in un viaggio ufficiale a Vienna e a Berlino compiuto, dopo molte
esitazioni, per rafforzare l’alleanza con il mondo tedesco; appunto
a Berlino il M. incontrò lo storico L. von Ranke che
registrerà nel suo diario l’impressione positiva fattagli
dalla grande «cultura europea» dello statista italiano.
Il fatto che nel M. la statura del politico e dell’uomo di cultura
si sommassero è un elemento su cui molti esponenti del mondo
della politica e della scienza del tempo posero l’accento,
paragonandolo in ciò alla figura di Gladstone. Il collare
della Ss. Annunziata di cui fu insignito dal re il 5 giugno 1874
rappresentò per lui un segno tangibile del prestigio
raggiunto come uomo di Stato.
Sul piano interno l’azione di governo del M. fu largamente orientata
al problema del risanamento del deficit finanziario, questione
ritenuta di fondamentale importanza anche rispetto ai problemi
politici. Come ebbe modo di ribadire in un discorso ai suoi elettori
a Cologna Veneta nell’ottobre 1875, «le cattive finanze fanno
la cattiva politica, ed aprono le porte alla rivoluzione». Nel
1876 il traguardo del pareggio del bilancio fu finalmente raggiunto,
e fu il M. stesso ad annunciarlo in Parlamento il 16 marzo. Malgrado
il suo indubbio rilievo, la notizia fu accolta con una certa
freddezza anche dalla sua stessa parte politica, la Destra, ormai
lacerata al suo interno in riferimento, in primo luogo, a un’altra
urgente questione sul tappeto: quella delle ferrovie. Accusato di
statalismo soprattutto da illustri esponenti della potente
«consorteria toscana» (i Peruzzi, Bastogi,
Cambray-Digny), in gran parte direttamente coinvolta nella gestione
delle diverse società delle strade ferrate, il governo
Minghetti cadde il 18 marzo 1876, quando giunse in Parlamento la
legge sul riscatto delle ferrovie e la Destra toscana votò
con la Sinistra, mettendo in minoranza il governo (241 voti
contrari, 181 favorevoli; dei voti contrari 57 furono della Destra:
le dimissioni del governo furono immediate). Si parlò allora
di «rivoluzione parlamentare», e si trattò
comunque di una svolta storica che segnò l’avvento della
Sinistra al potere. Sostituito da A. Depretis, il M. sarà
l’ultimo primo ministro della Destra nell’Italia liberale.
Il fatto che nell’ultimo decennio della sua vita il M. non
rivestisse più responsabilità governative e si
impegnasse anzitutto nei suoi amati studi, come più volte
volle ricordare, non segnò affatto la conclusione della sua
attività di uomo politico di primo piano, unanimemente
riconosciuto da alleati e avversari come interlocutore privilegiato.
Da deputato dell’opposizione continuò a svolgere un’intensa
attività parlamentare che si esplicò nella
formulazione e nella presentazione alla Camera di importanti
proposte di legge e interpellanze: portano la sua firma, ad esempio,
le prime leggi varate in Italia in tema di legislazione sociale;
memorabili sono i suoi discorsi in tema di riforma del suffragio
elettorale. Sempre attento all’evoluzione della politica interna, fu
lui ad avviare con A. Depretis la politica del trasformismo
giudicata indispensabile per battere l’estrema sinistra nelle
elezioni del 1882, le prime a suffragio allargato.
Come presidente dell’Associazione costituzionale delle Romagne, il
M. fu tra i più attivi nel promuovere coi suoi discorsi il
dibattito sui grandi temi del liberalismo. Peso notevole ebbero pure
i suoi interventi elettorali, le commemorazioni di personaggi
illustri (si vedano, per esempio, Vittorio Emanuele come re
costituzionale, 1882; Commemorazione di G.B. Ercolani, 1884) e le
conferenze, tutti largamente ripresi dalla stampa nazionale, alcuni
diffusi anche all’estero, e specialmente in Francia. Grande
attenzione il M. darà, per esempio, al tema della
legislazione sociale e ai differenti modelli (inglese e tedesco in
particolare) affermatisi in Europa in tale prospettiva. Una sua
conferenza tenuta a Milano su La legislazione sociale (1882)
avrà tale eco nella stampa e nel dibattito fra intellettuali
e uomini politici che lo stesso M. la pubblicherà,
arricchendola di note, come opuscolo autonomo.
Risalgono a questo periodo gli articoli di politica, letteratura ed
arte che il M. pubblicò nella Nuova Antologia; dopo avervi
edito uno studio su Le donne italiane nelle belle arti al secolo XV
e XVI (1877), nei primi anni Ottanta, dedicò, nella stessa
rivista, numerosi studi all’opera di Raffaello, ai suoi maestri e ai
pittori che a lui si ispirarono (tali saggi sono elencati negli
Indici per autori e materie della «Nuova Antologia» dal
1866 al 1830, a cura di L. Barbieri, Firenze 1934, p. 190): tanto
accurata e sentita si rivelò alla fine tale ricerca da
meritare una monografia, l’ultima del M., intitolata appunto
Raffaello, pubblicata nel 1885 a Bologna, e subito dopo tradotta in
tedesco ed edita a Breslavia nel 1887 col titolo Rafael von Marco
Minghetti.
D’altra parte la casa romana del M. rappresentava, anche per merito
della moglie, un circolo politico-culturale di altissimo livello,
punto di incontro di esponenti di primo piano, e non solo nazionali,
del mondo della politica, dell’arte, della cultura. Sempre nella
Nuova Antologia (1° nov. 1885), comparve un lungo articolo su Il
cittadino e lo Stato, tema-cardine del liberalismo e centrale nella
riflessione politica del M. sia della giovinezza sia della
maturità piena. Sinteticamente, a partire dalla discussione
delle tesi presentate da E. Spencer ne L’individuo e lo Stato, il M.
vi delineava le trasformazioni dello Stato liberale contemporaneo
chiamato a darsi carico, pur mantenendo ferma la cornice dello Stato
di diritto, di nuovi campi di intervento: la questione sociale e il
tema di servizi pubblici quali le ferrovie vi erano posti in
particolare risalto nella prospettiva appena accennata.
Quale pensatore politico il M. raggiunse tuttavia il vertice della
sua riflessione in due grandi opere pubblicate a cavallo degli anni
Settanta-Ottanta e il cui successo fu tale che entrambe godettero di
due edizioni successive nel corso del primo anno di pubblicazione:
si tratta di Stato e Chiesa (Milano 1878) e de I partiti politici e
la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione (Bologna
1881). Se la prima venne presto tradotta in tedesco (Staat und
Kirche, Gotha 1881) e in francese (L’État et l’Église,
Paris 1882, con una lunga ed entusiastica introduzione di E. de
Laveleye che ne parlava come del migliore scritto pubblicato in
Europa sul tema dei rapporti Stato-Chiesa), il volume sui partiti
politici, pubblicato nel vivo del dibattito accesosi in Italia in
quegli anni sul parlamentarismo, divenne ben presto punto di
riferimento obbligato per i maggiori esponenti del pensiero politico
contemporaneo e delle nuove scienze politiche, giuridiche e sociali,
quali V.E. Orlando, G. Mosca, C.F. Ferraris. Nella prospettiva
cavouriana della «libera Chiesa in libero Stato», il
nodo della separazione tra Stato e Chiesa è per il M. il
punto d’avvio di un’indagine a tutto campo su come in Italia e in
Occidente, nella storia moderna e contemporanea, i rapporti tra
Stato e Chiesa si sono venuti man mano strutturando, in epoche e
realtà storiche diverse; relativamente all’Italia l’auspicio
era quello di una possibile conciliazione della religione cattolica
con i principî liberali.
L’opera sui Partiti politici ebbe immediata risonanza nel dibattito
politico-culturale contemporaneo non solo per le tematiche
affrontate (la distinzione tra partiti e amministrazione, tra
partiti e giustizia, il rapporto tra partiti e governo parlamentare,
il ruolo del decentramento amministrativo) ma, in via generale, per
la lezione di metodo che da essa veniva. Contrario a ogni forma di
astrattismo pregiudiziale, il M., confrontandosi con i grandi
pensatori moderni (da Rosmini a Romagnosi, da Constant a
Tocqueville, da Bentham a Spencer) identificava infatti il
«liberalismo moderno» come costante confronto dei
principî della dottrina con una puntuale analisi dei fatti,
nella loro realtà storica. Un’indagine per quanto possibile
scientifica del politico era a suo avviso imprescindibile, e a
questo tendeva la proposta, avanzata già nello scritto, di
istituire facoltà di scienze politiche nelle
università.
Dal 1880 il M. fu incaricato dell’insegnamento del latino alla
regina Margherita, con la quale, a partire dal 1882,
intratterrà una fitta corrispondenza epistolare che
durerà fino alla morte (a Milano nel 1947 verranno pubblicate
a cura di L. Lipparini le Lettere fra la regina Margherita e Marco
Minghetti 1882-1886). L’ultimo suo discorso lo tenne a Torino per
commemorare il 21 giugno 1886 l’anniversario della morte di Cavour.
Morì a Roma il 10 dic. 1886.
Dopo i solenni funerali la salma fu trasferita a Bologna su un treno
con la locomotiva imbandierata a lutto.
Fu sepolto a Bologna, la città natale nella quale M. aveva
sempre mantenuto la sua residenza, il 16 dicembre, dopo che gli era
stato reso l’ultimo omaggio in una piazza Maggiore gremita di
cittadini.