Alberto Lo Presti

Il pensiero politico di Roberto Michels fra democrazia,  partito politico e oligarchia
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Le vicende intellettuali di Roberto Michels si possono comprendere sullo sfondo di una biografia complessa, a volte contraddittoria. Come sempre accade in casi così articolati, attorno alle motivazioni del pensiero michelsiano sono sorte numerose interpretazioni le quali, alla fine, rischiano di complicare ulteriormente la figura dell’autore, lasciandone una immagine a dir poco schizofrenica.
 
Di sicuro, riferirsi alla evoluzione della vita e degli studi di Michels significa riconoscere una dinamica parabolica, nella quale dall’impegno militarista – si arruolò a soli diciannove anni – divenne prestissimo un attivista di sinistra, subendo l’influenza della socialdemocrazia tedesca, per poi giungere al fascismo, con entusiasmo e convinzione. Così, abbiamo il Michels tedesco (nasce a Colonia, studia a Berlino, Monaco, Lipsia) e il Michels italiano (si stabilisce in Italia e dichiara di sentirsi cittadino italiano), un Michels socialdemocratico (qualcuno lo vuole addirittura rivoluzionario) e un Michels fascista, un Michels impegnato in politica e un Michels scienziato sociale convinto che la politica non poteva proporre soluzioni democratiche. Su questo sfondo biografico, si distinguono tre grandi momenti dell’evoluzione del pensiero michelsiano: il momento sociologico, nel quale Michels costruisce uno studio sulla struttura dei partiti politici; un momento politico, relativo all’analisi della socialdemocrazia tedesca; un momento elitista, sul significato delle organizzazioni di partiti e le possibilità di espressione democratica di un sistema politico.
 
Le idee fondamentali, e più conosciute, di Roberto Michels ruotano attorno a quella che da più parti è riconosciuta come legge ferrea dell’oligarchia. Non ci sono dubbi – secondo Michels - sull’esito politico delle forme del potere democratico: «La democrazia conduce all’oligarchia. E’ tale non tanto la nostra tesi, quanto la conclusione dei nostri studi»[1]. Michels è la figura che chiude il periodo di fondazione dell’elitismo politico moderno, iniziato con le produzioni di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto. Seppur eterogenei nei loro contributi, gli elitisti hanno un tipico modo di rafforzare epistemologicamente le loro argomentazioni: è necessario – si legge negli esordi dei libri di Mosca, Pareto e Michels – osservare scientificamente la politica, e non più semplicemente pensarla. Di conseguenza, è inevitabile che una volta usciti dalle oniriche analisi metafisiche sulla politica, inevitabilmente – a loro giudizio – ci si scontra con la «realtà», tanto più «reale» quanto separata dal mondo fantastico di chi anela alla buona politica fondata sul bene comune e sugli interessi della comunità. La conseguenza di tale discorso è, per necessità, una concezione pessimistica e negativa dei rapporti politici.
 
Insomma, al pari di Mosca e di Pareto, anche Michels si affretta ad affrancare la sua riflessione da qualsiasi ambito morale, giacché le sue conclusioni vogliono avere la pretesa di essere al di là del Bene e del Male, come dovrebbe essere– secondo loro – per qualsiasi altra legge sociologica. E’ il ricorrente problema del mascheramento di una posizione pessimistica con la totemica pretesa scientificizzante della scienza sociale. Come se bastasse porsi dal punto di vista dell’osservazione sociologica per vedere la realtà così com’è, e non così come ci pare più adeguato vederla per una nostra precisa predisposizione d’animo. Tanto è vero che la legge sociologica generale, per Michels, è la legge che vuole ogni aggregato umano tendere, immanentemente, alla formazione di oligarchie.
 
La critica a Michels si è interrogata sull’esito pessimista dell’evoluzione del suo pensiero, procedendo da interpretazioni diverse. Ricostruire l’origine dell’opera michelsiana e la tipologia delle interpretazioni è lo scopo del paragrafo successivo ed è un momento indispensabile per la comprensione delle idee forti contenute ne La sociologia del partito politico.
 
1. L’evoluzione del pensiero michelsiano

La questione principale che ha maggiormente impegnato la letteratura critica su Michels riguarda il passaggio da una posizione politica democratica-radicale, nella quale Michels è un attivo intellettuale militante nella socialdemocrazia tedesca della Seconda internazionale, alla elaborazione del nucleo principale delle idee sulla «legge ferrea dell’oligarchia».
 
Il divario ideologico è enorme. Basta far riferimento al modo con il quale Leszek Kolakowski indica i tratti essenziali degli aderenti al marxismo degli anni successivi alla Seconda internazionale. Fra le altre cose, Kolakowski mette in rilievo che costoro erano convinti dell’inevitabilità del successo storico del socialismo, dell’universalità del miglioramento delle condizioni di accesso all’istruzione e alla politica, che il socialismo rifletteva gli interessi dell’umanità, che la lotta rivoluzionaria sarebbe stato il risultato della ribellione delle classi lavoratrici[2]. In pratica, cosa è accaduto in Michels che lo ha condotto dalla fiducia nella trasformazione rapida del mondo, alla rassegnazione verso un mondo che mai potrà cambiare nella struttura del potere politico?
 
Uno dei modi tipici di analizzare il cambiamento di Michels è quello di vederlo come un rivoluzionario romantico deluso. In tal senso, accertata l’apatia e l’inamovibilità del movimento socialista, Michels avrebbe riformulato le sue scelte di fondo, le quali saranno il preludio per la sua conclusiva adesione al fascismo. Se democrazia non può essere, se trasformazioni e rivoluzione non saranno mai, allora l’esatto contrario è vero; così nasce la legge ferrea dell’oligarchia. Per questa linea interpretativa facciamo riferimento soprattutto all’introduzione di Juan Linz all’edizione del 1966 de La sociologia del partito politico, ma anche allo studio di Arthur Mitzman[3].
 
Un altro modo di valutare la figura michelsiana è quello di ridimensionare la sua componente socialrivoluzionaria e inquadrare lo sviluppo del suo pensiero all’interno di una cultura socialdemocratica intrisa di positivismo marxista. Questa tesi interpretativa, sostenuta per esempio da Giordano Sivini[4] e da Pino Ferraris[5], essenzialmente vuole dimostrare che il salto ideologico fra il “primo” Michels e il Michels fascista è meno spericolato di quanto si creda.
 
Un’ulteriore ipotesi interpretativa intende mettere in luce come Michels abbia mantenuto inalterata la struttura concettuale della sua opera, mentre l’approccio motivazionale, tanto ideologico quanto metodologico, è andato trasformandosi per l’influenza di autorevoli esponenti quali Gaetano Mosca e Max Weber. In sostanza, non è stato Michels a cambiare bandiera: è il vento che ha cominciato a soffiare in direzioni opposte.
 
E’ Paolo Ciancarelli[6] che ravvisa nel concetto michelsiano di «partito socialista morale» una delle chiavi di lettura per comprendere il passaggio fra i “vari” Michels. «Ogni partito socialista è per se stesso un partito morale – Dovunque il pensiero socialista penetra in un aggregato di lavoratori, ivi nasce da esso una seriazione opulenta di fattori morali»[7]. Per Michels il partito socialista è un modello ideale di partito, in quanto realizzato sulla contiguità fra il mondo intellettuale di estrazione borghese e socialista per scelta vocazionale e interessi della classe proletaria. Il primo, attraverso un’adeguata azione, riesce a educare le masse proletarie veicolandone le istanze rivoluzionarie. Il partito socialista è, quindi, il luogo ideale nel quale si incontrano la forza della dottrina intellettuale con l’azione politica della classe operaia e questo connubio costituisce il tratto morale di questa formazione.
 
D’altronde, Michels si è costantemente confrontato con la natura e gli scopi dei partiti politici. E’ stata già menzionata la sua iniziale militanza nel partito socialdemocratico tedesco; in un periodo successivo individuabile fra il 1906-1907, ricordiamo il Michels studioso dei gruppi dirigenti e della composizione dell’elettorato dei partiti socialisti (soprattutto italiano e tedesco); nella fase conclusiva riconosciamo la sua opera sulla Sociologia del partito politico. Ebbene, il concetto di partito, inteso come partito socialista morale, è il tratto costante dell’evoluzione del pensiero di Michels. A mutare, secondo Ciancarelli[8], è l’approccio. Il Michels degli inizi possedeva un ottimismo originario, espressione della sua  operatività ideologica formata nell’ambito della socialdemocrazia tedesca. Il Michels finale ha sì subìto la delusione del fallimento del programma rivoluzionario, ma uno degli aspetti decisivi utili per comprendere l’evoluzione delle sue posizioni intellettuali deve necessariamente far riferimento all’incontro con Max Weber.
 
Fra Michels e Weber intercorse un fitto scambio epistolare durato dal 1906 al 1915, anno nel quale si registrò una divergenza fra i due sulla questione della guerra mondiale. L’incontro con Weber fu decisivo: Weber era un critico accanito nei confronti della socialdemocrazia tedesca, in quanto la riteneva un partito fintamente rivoluzionario che, di fatto, bloccava l’azione delle masse proletarie. Ci ricorda Wolfgang J.Mommsen: «per quanto contemplasse teoricamente nelle sue riflessioni la possibilità di forme sociali socialistiche, Weber non vedeva in fondo nessuna alternativa reale al sistema economico capitalistico. Per lui, la “rivoluzione socialista del futuro” non era che una chimera. Al suo allievo Robert Michels, che, sulla base di idee umanitarie e radicalmente democratiche, si andava confrontando col problema di un socialismo liberale, Weber replicava che l’unica alternativa reale era quella fra un socialismo sindacalistico in senso tolstoiano, dunque completamente fondato su un’etica della convinzione, e l’accettazione della civiltà sulla base dell’adattamento alle condizioni sociologiche della tecnica, sia questa economica, politica o di un qualsiasi altro genere»[9]. 

Nel ripercorrere l’opposizione weberiana alle soluzioni socialiste e marxiste non ci si deve soffermare solo sulla critica al marxismo volgare contenuta nelle opere sulla dimensione religiosa dei fenomeni economici. Il rifiuto weberiano è fondato sul problema della razionalità degli ordini sociali. Questa, forse, è l’autentica profezia che Weber riuscì a elaborare ben prima del consolidamento della monumentale macchina statale sovietica. Weber era convinto che qualsiasi socialismo razionale avrebbe riassunto in sé le burocrazie della società capitalistica e che, anzi, ne avrebbe amplificato l’azione. Questo perché l’ordinamento socialistico avrebbe dovuto, per necessità, creare una rigida amministrazione burocratica, organizzata sulla base di regole ancora più fisse e formali di quelle della società capitalistica: «l’esigenza di un’amministrazione continua, rigorosa, intensiva e su cui si possa fare assegnamento, quale l’ha creata il capitalismo […] e quale ogni socialismo razionale dovrà semplicemente accoglierla e accrescerla»[10].
 
Weber si occupò del movimento socialista non solo a partire dalle questioni teoriche che il dibattito filosofico e sociologico produceva nei primi due decenni del ventesimo secolo. Egli partecipò, quale osservatore, al congresso di Mannheim del 1906 del Partito Socialdemocratico tedesco. L’impressione che ne ricevette fu estremamente tranquillizzante: il livello di pericolosità rivoluzionaria dell’SPD era praticamente nullo. Sullo sfondo di questi eventi lo scambio epistolare fra Weber e Michels si infittisce e Mommsen ricorda proprio il grande ascendente che il primo ebbe sul secondo nella valutazione dei fatti in gioco. Addirittura, rileggendo alcune delle lettere scambiate fra i due, osserviamo l’ammonimento intellettuale che Weber dirige verso il Michels a causa dell’entusiasmo che ancora quest’ultimo mostrava nei confronti dell’esperienza socialista sindacale[11].
 
Lo stretto rapporto con Weber condurrà Michels a pubblicare i suoi studi sul Partito socialdemocratico tedesco all’interno dell’ Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, rivista diretta da Weber, sviluppando due temi principali: la denuncia dell’ambiguità e della inamovibilità del partito e l’applicazione ad esso dei criteri di valutazione comparata con gli altri partiti liberali. In pratica, la classica controversia che insiste nel mondo socialista è quella relativa all’appartenenza alla classe borghese dei leaders socialisti. La questione si propone come urgente proprio a livello dottrinale.

Si ricorderà, infatti, come Marx ebbe modo di esprimersi nelle celebri pagine del Manifesto del Partito Comunista: «in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all’interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l’avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme», ma «fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria»[12]. Infatti, secondo Marx i ceti medi come i piccoli industriali, gli artigiani, i contadini, i commercianti, lottano contro la borghesia con l’obiettivo di restaurare un ordine precedente che li vedeva in una situazione di relativa prosperità. Possono fingere di accompagnarsi alle istanze rivoluzionarie, ma solo quel che basta per difendere i propri interessi futuri. E il sottoproletariato, «putrefazione passiva degli infimi strati della società», in balìa dei cambiamenti, è quello che spesso rischia di lasciarsi corrompere per delle finalità apparentemente rivoluzionarie e in realtà reazionarie.
 
Insomma, la questione della leadership non proletaria dei partiti socialisti e socialdemocratico non era una questione da poco. August Bebel, a capo del partito socialdemocratico tedesco, era per esempio un tornitore, mentre non si può dire lo stesso di Kautsky; addirittura, Franz Mehring, pilastro dell’ortodossia al fianco di Kautsky, divenne socialdemocratico dopo aver condotto professionalmente un’esperienza da pubblicista e giornalista per la stampa liberale.
 
Da queste premesse scaturisce lo sviluppo della formazione michelsiana. Da una parte, Weber che lo “istiga” a una posizione avalutativa, nella quale bisognava abbandonare qualsiasi idea di soffermarsi su ciò che doveva essere il vero interesse delle masse proletarie a partire da giudizi di valore; dall’altra, il fondamentalismo etico di Michels che lo portava a valutare nel partito socialista morale, sorto sull’alleanza degli intellettuali con la classe operaia, il concetto centrale della sua riflessione.
 
2. Democrazia e oligarchia

Nel prendere in esame la maggiore, e più conosciuta, fra le opere di Michels, ossia La sociologia del partito politico, bisogna preliminarmente operare un distinguo sulle diverse edizioni dell’opera. La prima edizione apparve nel 1911, in tedesco, e l’anno successivo in italiano. Michels rimise mano al lavoro nel 1925, così giustificandosi: «questa seconda edizione si basa su di un rifacimento radicale della prima, come lo richiedevano le mutate circostanze ed alcune nuove importanti pubblicazioni pertinenti all’argomento trattato»[13]. Forse, definire la nuova edizione un «rifacimento radicale» della prima è un po’ troppo. Di sicuro, la seconda edizione mostra una pacatezza e una moderazione maggiore, mentre i contenuti della prima sono più diretti e, in alcuni casi, polemici. Per i nostri scopi, volti alla determinazione della struttura pessimistica dell’argomentazione elitistica, dobbiamo far riferimento anche alla prima edizione, quale espressione genuina di uno spirito del tempo, di un preciso atteggiamento scientifico e pessimistico nei confronti delle controverse circostanze storiche del panorama politico italiano e europeo.
 
L’assunto di Michels muove da un sillogismo. Le moderne democrazie si fondano sul sistema dei partiti politici e questo significa che costruire un’analisi scientifica delle democrazie deve poter significare occuparsi delle organizzazioni dei partiti. Anzi, il funzionamento dei partiti politici è l’indice migliore che può argomentare lo stato di salute di una democrazia. Utilizzando quella che lui a più riprese chiama legge generale della sociologia, cioè quella che vuole ogni aggregato umano costruire oligarchie, allora la sorte della democrazia, che si regge su aggregati come i partiti politici, è segnata. Infatti, nella concezione di Michels il principio di sovranità popolare affermato dall’idea di democrazia è una menzogna. I partiti politici, per la loro stessa natura, producono leadership di potere in senso oligarchico.
 
Questo significa, principalmente, che l’analisi delle forme del potere politico si riduce ad una analisi del diverso grado di potere oligarchico presente nel sistema politico. Dal potere monarchico, massimo grado di espressione dell’oligarchia, alla democrazia, nella quale la numerosità di coloro che appartengono alla classe dominante si estende in misura maggiore. Impostata così la riflessione, è ovvio che una democrazia nella quale la classe al governo fa i propri interessi e non quelli della nazione è più dannosa rispetto ad una monarchia basata su una larga rappresentanza del ceto dominante. Ma non si deve credere che Michels introduca chissà quale criterio storiografico di demarcazione fra i diversi gradi di espressione del potenziale oligarchico. Semplicemente, la soluzione dipende dal grado di riproduzione della classe al potere, di natura conservatrice e prodigata alla tutela dell’unico motivo reale per la gestione del pubblico potere: mantenere la posizione di dominio.
 
Secondo Michels fra aristocrazia e democrazia c’è uno stretto legame che deve essere messo in rilievo se si vuole procedere scientificamente alla valutazione degli ordinamenti politici esistenti. Si tratta di un mutuo rapporto di necessità, giacché se è vero che l’aristocrazia, che aspira alla conservazione del potere politico, è costretta a presentarsi con peculiarità tipiche della democrazia, è altrettanto vero che il contenuto della democrazia è, inevitabilmente, penetrato di elementi aristocratici.
 
Questa oligarchia possiede una capacità di conservarsi superiore a qualsiasi destino storico e, pur di non perdere la posizione di dominio, «ama mutar di maschera e di coccarda» - dice il Michels nella prima edizione della sua opera - così che «la corrente di pensiero conservatrice […] ci appare oggi legata all’assolutismo, domani al costituzionalismo, dopodomani al parlamentarismo»[14]. Lo svolgersi della storia politica, in tal senso, è subordinato alle dinamiche vissute dalla classe al potere politico, e in particolare dalle trasformazioni del vecchio ceto aristocratico. Le aristocrazie di un tempo sono ormai sconfitte dall’avvento della modernità e del sistema dei partiti politici. Di questi ultimi, anche quelli conservatori devono far riferimento all’azione della società civile e della massa, per cui devono cedere qualcosa alla purezza del principio oligarchico: «anche se per loro natura restano antidemocratici, essi si vedono obbligati, almeno in determinati periodi della vita politica, a fare professione di democrazia o anche a ostentare una fede democratica»[15]. Addirittura, sembra sottolineare Michels, «l’istinto di autoconservazione che agisce anche in politica, spinge elementi dei vecchi gruppi dominanti a scendere dall’alto dei loro posti di privilegio durante il periodo elettorale per dare di piglio a quegli stessi strumenti democratici e demagogici di cui si vale la più giovane, numerosa e incolta delle nostre classi sociali, il proletariato»[16].
 
E’ sicuramente la seconda parte del rapporto aristocraziademocrazia ad essere rilevante. Cosa intende Michels quando afferma che il contenuto della democrazia si compone di elementi tipici della dottrina aristocratica? Innanzitutto, per «contenuto della democrazia» Michels non fa riferimento alle regole dell’azione istituzionale democratica, ma ai tratti teorici tipici del pensiero democratico così come è stato sviluppato dai filosofi e dai pensatori politici.
 
Secondo Michels, la teoria del pensiero liberale non basò, all’origine, le sue aspirazioni sulle masse. Il suo riferimento furono i nuovi ceti borghesi, già dominatori nel campo economico ma che ancora erano esclusi dal potere politico. Preparato in questo modo, il giudizio non può che essere impietoso: per i nuovi ceti borghesi «le masse pure e semplici risultavano un male necessario, sfruttabile unicamente per raggiungere scopi cui esse erano estranee»[17]. Michels cita una quantità di storici e filosofi che così interpretano l’evoluzione dei movimenti liberali e democratici: dalla raccolta di articoli contenuta ne The Federalist, di Hamilton, Jay e Madison, a Carl von Rotteck, Friedrich von Raumer, Heinrich von Sybel, Wilhelm Roscher. In questi pensatori troviamo un’accesa avversità per il ruolo delle masse nella vita democratica di un Paese. Se la democrazia può manifestarsi in due modi, cioè come dominio dei rappresentanti o come dominio della massa, bisogna osservare che nella storia del pensiero politico i primi sostenitori del liberalismo hanno percepito la seconda opzione in modo più negativo. Michels rievoca alcuni di quelle considerazioni più incisive orientate sull’accidentalità e potenziale dannosità del coinvolgimento delle masse nelle grandi dinamiche politiche.  Per esempio, la peggiore delle azioni storiche fu quella compiuta dalla monarchia francese, la quale costrinse la borghesia ad allearsi con le masse popolari. Ancora, cita quelle considerazioni di pensatori liberali contrarie al suffragio universale. Ma sulla critica a queste pretese di riconoscere nell’azione delle masse un effetto non contemplato nelle ispirazioni del movimento liberale e borghese si vedano le considerazioni svolte nel primo capitolo.
 
Riprendendo un tema caro al Mosca, Michels osserva come alla base delle dinamiche politiche vi sia una legge uniforme: qualsiasi gruppo si trovi a gestire il potere politico aspira, e progetta, di conservare questo dominio trasmettendolo ai propri discendenti. Emerge in questo frangente la visione antropologica del Michels: l’uomo sociale agisce sollecitato dai suoi istinti che, in ogni settore, gli impongono un imperativo, quello di tramandare in eredità il suo possesso. D’altronde, è questo stesso principio generale che ha dato origine alla matrice borghese dell’istituto della famiglia, che nasce con l’indissolubilità del matrimonio e la condanna dell’adulterio proprio perché, secondo il Michels, l’uomo che giunge a un certo benessere economico ha, per istinto, l’esigenza di tramandare in eredità il suo possesso al figlio legittimo[18]. Includendo negli oggetti di possesso privato da trasmettere ereditariamente anche il potere politico, ecco che la dinamica dei gruppi al potere è praticamente scritta: il gioco delle parti consiste in coloro che cercano di conservare la propria posizione di dominio e negli altri che cercano di soppiantare i poteri dei primi.
 
Si noti bene che, secondo il Michels, questa dinamica è superiore a ogni istituzione di diritto pubblico, quindi sarebbe veramente fuorviante – sempre per Michels – credere che nelle moderne democrazie queste dinamiche perverse non avvengano. Quello che veramente è tipico del corredo democratico di un assetto istituzionale consiste nella possibilità che ciascun gruppo in competizione politica ha di condire la propria posizione  con una buona dose di ipocrisia illimitata. Si scopre, per esempio, che tutti quelli che, nella modernità, hanno mosso una opposizione ai privilegi e ai costumi dei vecchi ceti aristocratici ne hanno, una volta raggiunto il potere, ricopiato le espressioni tipiche.
 
Ma un altro modo assai caratteristico di misurare l’illimitata ipocrisia di chi lotta per conquistare il potere politico è quello di osservare come si serve dell’etica per i suoi scopi. Tutti i gruppi contendenti, in pratica, si servono di argomentazioni etiche volte a dimostrare il bene universale che la loro azione politica persegue, mentre a vedere meglio non stanno altro che rincorrendo i propri particolarissimi ed egoistici fini. Così, nell’arena politica si sente inneggiare alla liberazione di tutto il genere umano, alla lotta in nome del popolo, alla volontà di affermare giustizia ed uguaglianza sociale, mentre si cerca nient’altro che la conquista del proprio dominio. Ora, in queste riflessioni di Michels si può leggere una posizione che vuole l’ordinamento democratico un naturale “amplificatore” di questa tendenza: «nell’era della democrazia l’etica è un’arma di cui ciascuno può valersi», «le democrazie sono parolaie», «il demagogo, questo frutto spontaneo del terreno democratico, trabocca di sentimentalità e di commozione sopra i dolori del popolo»[19].
 
Il fattore innovativo portato dalla democrazia moderna è l’organizzazione. In pratica, è attraverso l’organizzazione che si può impostare il libero conflitto politico fra gruppi forti e gruppi meno forti, in quanto è l’organizzazione che riesce a fare della solidarietà fra i deboli aventi uguali interessi una struttura in grado di competere per il potere politico. In sintesi, la lotta politica democratica richiede una certa organizzazione delle parti, la quale consente alle masse di competere per il potere, ma che produce anche effetti indesiderati, controproducenti, vale a dire il dilagare dello spirito conservatore all’interno dell’arena politica. Infatti, quando parliamo di un partito popolare, di un partito che vuole essere a favore delle masse, dobbiamo chiarire che esso non può essere direttamente guidato dalle masse. «Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia»[20]. Infatti, realtà come i partiti politici hanno bisogno di delegati che sbrighino gli affari correnti e che possano prendere decisioni immediate. Ai primordi della formazione di queste strutture partitiche, il delegato è indissolubilmente legato alla volontà della massa. Ma con la specializzazione dell’impresa politica, si richiedono ai delegati maggiori cognizioni e particolari abilità. Ecco che nasce l’esigenza di formare i delegati del partito, attraverso corsi e scuole adatti, e il risultato fu quello di creare élites di aspiranti al comando del partito, comunque dirigenti delle masse. E’ questo processo che fa dei delegati originari sottoposti alla volontà delle masse, un organismo indipendente ed emancipato dalla massa. Per tale ragione è implicita l’oligarchia dentro una qualsiasi organizzazione partitica. In pratica, il meccanismo dell’organizzazione è tale per cui ogni partito viene diviso «in una minoranza che dirige ed una maggioranza che è diretta»[21]. A questo punto si noterà come il Michels abbia praticamente trasportato l’idea originaria che Mosca aveva proposto per le realtà politiche in toto all’interno delle unità del sistema come i partiti politici. La prospettiva teorica elitista trova in Michels la “quadratura del cerchio”: dal sistema politico nazionale all’organizzazione di partito, la regola della formazione dell’élite politica permea tutta la sfera dell’azione politica. In Michels, ancora, risuona con forza il credo delle teorie politiche pessimistiche: nell’arena politica gli individui possiedono un certo numero di interessi di base; il potere politico è qualcosa per cui lottare e una volta acquisito - non importa in che modo - si deve difendere, conservare e tramandare; le idee etiche, i valori, altro non sono che armi per ingaggiare questa lotta e costruire una parvenza di bontà universale che possa celare i reali interessi particolari in gioco.
 
3. L’organizzazione e la conservazione

Lo schema teorico di Michels è lineare nella sua articolazione: le moderne democrazie richiedono un alto livello di organizzazione politica e tale organizzazione genera delle strutture di potere che suddividono anche l’interno dei partiti politici in una maggioranza che dirige e in una massa diretta.
 
Michels costruisce una teoria generale delle cause che producono, nell’organizzazione democratica, l’insorgenza dei meccanismi dell’oligarchia. Tale teoria affonda le proprie radici in questioni di carattere psicologico, relativo al comportamento dei leaders nelle situazioni di potere, e in questioni di psicologia collettiva, relative alle propensioni delle masse per l’avvento di una conduzione autorevole della loro vitalità politica. In tal senso, il ritratto psicologico del membro dell’oligarchia che il Michels traccia è abbastanza fosco: il leader possiede una naturale sete di potere tipica in chiunque si lanci nel mondo politico, prende coscienza del proprio valore e costruisce la propria abilità, la propria eloquenza e la propria intelligenza in vista dello scopo della massimizzazione del dominio. Ma il pessimismo michelsiano raggiunge forse il suo apice nella considerazione di come le masse siano per definizione apatiche, abbiano il bisogno di essere comandate, sono pronte ad una riconoscenza senza limiti nei confronti di chiunque dia loro una prospettiva, possiedono una tendenza innata alla venerazione dei capi e al culto della personalità. Se la visione del Michels si struttura sulla innata propensione dei capi ad emergere a qualunque costo e sulla incapacità delle masse di non essere manovrate a piacimento, allora è ovvio che l’intero castello teorico politico è orientato verso il più assoluto pessimismo.
 
Neanche dentro l’oligarchia soffia il benché minimo vento di concordia: la lotta fra i leaders può originarsi per molteplici ragioni, come la distanza generazionale, la diversa origine sociale, o semplicemente da visioni diverse. Due forme particolari di lotta sono quelle fra i leaders provenienti dalle fila del partito e coloro che, invece, hanno raggiunto l’oligarchia al di fuori di esso; come dice Michels: «tra gli “alti papaveri di partito” e personalità spesso già famose che giungono alla ribalta improvvisamente»[22]. Particolare, ancora, è il confronto fra la leadership di tipo burocratico e quella di tipo demagogico. In pratica, Michels ci sta indicando una ulteriore differenziazione nelle minoranze dirigenti dei partiti moderni: da una parte i leaders eletti che dipendono dal consenso delle masse, dall’altra i leaders burocratici, che hanno raggiunto la loro posizione di vertice attraverso il controllo della macchina del partito. Ma attenzione, alla fine in ogni visione michelsiana prevale la generale predisposizione alla conservazione del potere, per cui Michels nota come accada frequentemente che la leadership burocratica e quella demagogica finiscano per allearsi o fondersi[23]. La fusione fra i diversi interessi presente nelle oligarchie diventa evidente quando osserviamo il funzionamento del meccanismo della cooptazione. I leaders affermati, infatti, ormai lontani dalla base delle masse, tentano di colmare il vuoto attraverso la cooptazione di coloro che invece riscuotono il consenso e che potrebbero insidiare il loro potere. La cooptazione, solitamente, consiste nell’attribuire a tali figure delle cariche prive di reali poteri, ma comunque onorifiche. Il risultato è che «i leaders dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono loro precluse le cariche più importanti ed essi rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi condividono ora la responsabilità delle azioni compiute insieme agli avversari di una volta»[24].
 
«L’atto finale di questo processo consiste non tanto in una circulation des élites, quanto in una fusion des élites»[25]. In questo frangente teorico avviene un momento interessante di confronto fra la teoria del Michels e quella del Pareto. Michels sembra proporre una visione alternativa a quella di Pareto; in realtà è bene precisare che la sua teoria si sofferma sulla vitalità dei moderni partiti di massa, vitalità che potremmo dire fissata nel quotidiano, nella cronaca dei singoli momenti dell’organizzazione partitica (il congresso, la segreteria, le elezioni). Ecco, forse le strategie e le tattiche quotidiane possono leggersi utilmente attraverso la teoria conservatrice di Michels basata sulla tendenza alla fusione dei gruppi oligarchici, mentre la visione di Pareto, a dire il vero, è assai più ampia nella considerazione dell’evoluzione storica delle dinamiche sociali. Pareto fonda, lo ricordiamo, le sue argomentazioni sull’equilibrio dinamico del sistema sociale, interpretabile a partire dalla sfera dei residui in attuazione i quali conferiscono a coloro che meglio riescono a esprimerli una posizione dominante. Le trasformazioni dei residui, e le conseguenti sollecitazioni ai gruppi dell’élites, si stagliano in un orizzonte temporale assai diverso rispetto alle vicissitudini quotidiane che il Michels osservava nel Partito socialdemocratico tedesco.
 
In definitiva, le oligarchie dei partiti politici sono continuamente minacciate da due forze: una esterna, consistente nell’orientamento delle masse che potrebbe produrre cambiamenti al vertice se non stravolgimenti, in caso di ribellione; una interna, dovuta al gioco di potere partecipato dagli ulteriori sottogruppi differenziati all’interno dell’oligarchia. In tale situazione, come si può pretendere – pensa il Michels – che possano esserci comportamenti virtuosi nell’arena politica? «Ed è da questo che deriva in tutti i moderni partiti popolari la profonda mancanza di vero spirito di fratellanza, cioè di fiducia negli uomini, ed il conseguente stato latente e continuo di belligeranza, quello “spiritus animi” sempre teso che ha dato luogo alla diffidenza reciproca dei leaders, diffidenza che è diventata una delle caratteristiche essenziali della democrazia»[26].
 
La posizione del Michels è, a questo punto, chiara nelle sue premesse e nelle sue conclusioni. L’analisi si basa sui processi in atto nelle democrazie moderne per conquistare il potere politico. L’organizzazione politica è la novità della modernità: essa costruisce i percorsi per giungere al potere, e una volta partecipi del potere ogni individuo, di fatto, smette i panni del progressista o dell’innovatore per vestire quelli del conservatore. E’ un processo che non conosce impedimenti e che soffoca ogni buona propensione verso una politica che costruisca i buoni ideali. In tal senso, le macchine organizzative dell’arena politica non si confrontano più sul piano delle visioni teoriche o idealistiche, piuttosto competono per il consenso di una certa base elettorale. Gli obiettivi, allora, si trasformano: dagli assetti desiderabili della società in avvenire all’acquisto del maggior numero di voti da realizzarsi subito. In tutto questo, diatribe e risentimenti personali diventano gli eventi tipici della cronaca quotidiana e ogni riferimento a idealità o a valori disturba l’incessante lotta fra le fazioni, mentre è desiderabilissima se può tornare utile nel contenzioso. Anche il parlamentarismo è uno strumento piegato a queste «occulte» esigenze: «Parlamentarismo significa aspirazione al maggior numero possibile di voti»[27], proprio come «Organizzazione di partito significa aspirazione al maggior numero possibile di iscritti»[28].

Soprattutto i partiti socialdemocratici pagano un alto costo a questa dinamica. Sono loro, infatti, che per aumentare il consenso, tradotto in voti e in inscritti, devono in un certo senso “diluire” il proprio messaggio ideologico per proporlo favorevolmente anche a settori non immediatamente identificabili con gli interessi della classe proletaria. Forse, la maggiore evidenza dell’incongruenza fra le idealità della socialdemocrazia e la prassi politica “corrotta” dall’organizzazione si ha quando si esamina il rapporto del partito con lo Stato. L’ideologia dei partiti socialisti postula l’estinzione dello Stato nella futura società comunista, ritenendolo superfluo e strumento di oppressione. Nonostante la purezza di questa convinzione, tuttavia, Michels osserva come le pressanti esigenze organizzatrici del partito abbiano, di fatto, centralizzato le funzioni direttive le quali si esprimono con efficacia quando riescono a imporre autorità e disciplina. Per tale via, «il partito politico-rivoluzionario è uno Stato nello Stato, che in teoria dichiara di perseguire lo scopo di svuotare e di distruggere lo Stato presente per sostituirlo con uno Stato completamente diverso»[29]. E’ inarrestabile il declino del fuoco ideologico dei partiti rivoluzionari: il «dinamismo rivoluzionario» viene soffocato dalle esigenze di un’organizzazione politica che deve continuamente richiamare la propria azione alla prudenza per conservarsi nella stabilità.

E’ in tal modo che la macchina organizzativa del partito rivoluzionario, creata con lo scopo del sovvertimento dei rapporti di forza, diviene invece un fine in sé: «l’organo finisce per prevalere sull’organismo»[30]. Ipoteticamente, il Michels adombra la possibilità che forse anche Marx, il quale dovrebbe insorgere contro questo stato di fatto dei partiti marxisti, forse invece cederebbe di fronte alla tentazione della gloria promossa da numerosi partiti intitolati al suo nome. Insomma, il giudizio penoso che vuole le socialdemocrazie e i movimenti rivoluzionari organizzati come partiti ideologicamente rivoluzionari ma concretamente conservatori non conosce limiti e, secondo il Michels, rivela al meglio la reale e inarrestabile tendenza insita in ogni organizzazione politica.
 
Michels richiama l’attenzione sull’idea fantasiosa di democrazia e sulla impossibilità della sua realizzazione ideale. E’ più confacente all’analisi reale dei rapporti politici prendere atto, attraverso la rilevazione empirica delle loro manifestazioni, dell’esistenza di una classe politica suddivisibile in coloro che dominano e in quelli che sono dominati. Passi pure il principio giuridico di definizione dell’ordinamento democratico: è, sembra dire il Michels, una buona dichiarazione d’intenti, ma nulla più. La realtà dei rapporti politici, come ci insegnano Mosca e Pareto, conferma invece che dalle lotte fra aristocrazia e popolo fino alle lotte di classe dell’era moderna, la dinamica politica è interamente articolata sul conflitto per il potere, sull’eterno antagonismo fra chi comanda e coloro che, comandati, aspirano a soppiantare i primi.
 
4. Élites e democrazia

Qual è il destino della democrazia, alla luce del pensiero di Michels? Michels non produce alcuna visione normativa sulla questione, in adesione all’insegnamento weberiano della distinzione, nell’impresa scientifica, fra giudizi di fatto e giudizi di valore. Michels compie, invece, un’accurata analisi politologica su quelle che potremmo chiamare “cause fisiologiche” della distanza fra la teoria della democrazia e la sua realizzazione storica. Il momento critico potrebbe riassumersi nel capovolgimento della funzione etica nel discorso michelsiano: se l’ideale di democrazia si riscontra nell’eticità della partecipazione politica diffusa e per consenso, il pessimismo michelsiano osserva come questa etica altro non è che uno strumento per raccogliere fortuna e gloria. Così, nella lotta – più o meno subdola – per il potere, «l’etica […] non sarebbe altro che una finzione»[31]. Insomma, il fatto innegabile, la costante di ogni trasformazione politica, l’unica universale regola sociologica rimane la costituzione di una classe politica, di una élite di potere, in ogni società organizzata.
 
Gli elementi teorici che sostengono questa concezione possiamo riassumerli in cinque punti.
 
Al primo posto, in accordo con la scarsa considerazione che Michels ha sempre mostrato nei confronti delle masse, troviamo l’indifferenza e la noncuranza politica della maggioranza. Non ha senso affermare il principio che vuole il rappresentante politico collegato e controllato alla sua base elettorale e alla popolazione intera. Questa è una «leggenda» del parlamentarismo. Coloro che si occupano della vita politica, fra il popolo, sono veramente una esigua schiera, e «soltanto l’egoismo è capace di stimolare gli uomini allo scopo di preoccuparsi dello Stato, e se ne preoccuperanno infatti appena le cose andranno molto male per loro»[32].
 
Ma non è solo questa diffusa apatia delle masse a determinare l’ineluttabilità della legge dell’oligarchia. Al secondo posto il Michels cita i meccanismi impliciti nella rappresentanza politica. Il parlamentarismo pone le basi perché si costituisca un gruppo che «mediante delegazione» governa sulla maggioranza. Altro che governo del popolo: è il governo di quella parte del popolo che rappresenta tutto e tutti. Dice il Michels: «tra la monarchia e la democrazia, basate tutte e due sul principio della delegazione, non c’è che una “differenza di tempo”, insignificantissima, e non d’essenza. Il popolo “sovrano” si sceglie, invece di un re, tutta una assemblea di piccoli re, ed incapace di esercitare liberamente il suo dominio sulla cosa pubblica, esso si lascia spontaneamente confiscare i suoi diritti. L’unica cosa che la maggioranza si riserba, è quella sovranità climaterica e derisoria che consiste nell’eleggere, dopo un dato periodo di tempo, dei nuovi padroni»[33].
 
Al terzo posto troviamo il ben noto principio dell’ereditarietà, che vuole qualsiasi classe dirigente tendere a trasmettere il proprio potere alla discendenza. In ogni ordinamento politico, allora, non solo si dà l’oligarchia, ma a parere di Michels «l’aristocrazia si stabilisce in via automatica, anche in quegli Stati che la escludono»[34].
 
Il quarto posto è occupato da un tema trattato nel paragrafo precedente. Esso riguarda lo sviluppo della burocrazia statale al servizio e a difesa della classe politica. Per giustificarla, il Michels ricorre all’istinto di conservazione dello Stato moderno, che si protegge allestendo una cintura attorno a sé di burocrati il cui interesse coincide con il suo. A dimostrazione della funzionalità del rapporto fra gli interessi della burocrazia e quelli dello Stato, il Michels fa notare le vantaggiosissime condizioni economiche che normalmente vengono accordate a coloro che lavorano nel settore della pubblica amministrazione dello Stato.
 
All’ultimo posto troviamo la propensione dei partiti socialdemocratici a distaccare una élite proletaria e ad inserirla dentro la classe politica. Questo processo, innanzitutto, è un processo spontaneo. L’attivismo dentro il partito può essere l’occasione per compiere una scalata verso il successo e gli onori della carriera politica. In questi termini, l’impegno politico è confrontabile con qualsiasi attività lavorativa: da esso si può trarre il sostentamento per la propria vita e un mezzo per dare espressione alle proprie ambizioni. In questo ambito il Michels fa un paragone discutibile, accostando la carriera degli elementi proletari all’interno dei partiti socialdemocratici alla «carriera» che possono fare gli elementi contadini e piccoli borghesi all’interno della Chiesa cattolica. Così come ci sono numerosi Vescovi che provengono da famiglie povere di lavoratori agricoli, la leadership dei partiti socialdemocratici è costituita da elementi del mondo proletario. Troppo facile vanificare il tentativo analogico del Michels, a partire dalla considerazione che la Chiesa non rappresenta le istanze del mondo agricolo così come invece i partiti socialdemocratici promuovono le ragioni del mondo proletario; oppure che le “carriere” in seno alla Chiesa non rispondono, di sicuro, ai requisiti richiesti per far concorrere elementi proletari alla leadership in seno al partito, e così via. L’effetto finale di questo carrierismo politico, comunque, è la costituzione di una élite proletaria che subisce una metamorfosi importante, che per il caso tedesco porta il Michels a considerare che «il gruppo socialista nel Reichstag, il quale d’origine era proletario, coll’andar del tempo è diventato un genuino campione della borghesia»[35].
 
In conclusione, il pessimismo conduce la riflessione di Michels alla circolarità dell’interpretazione del rapporto politico fra élites e masse. In pratica, si crea una oligarchia in seno a ogni organizzazione politica per via del generale e naturale disinteresse delle masse per le vicende politiche, e dall’altra parte si afferma che la diffusa presenza di élites di potere di fatto esclude le masse allontanandole dall’arena politica in modo da preservare il potere in coloro che lo occupano e gestiscono. Il rapporto non ha soluzione; d’altronde, accade sempre così quando si critica un impianto ideologico – la socialdemocrazia nel caso del Michels – opponendo un orientamento di pensiero altrettanto chiuso come il pessimismo politico.
 
Bibliografia
 
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NOTE
[1] R. Michels, 1911, tr.it., 1912, p.XIII.
[2] Kolakowski L., 1977; tr.it., 1983, pp.10-11.
[3] A. Mitzman, 1973.
[4] G. Sivini, “Introduzione” a R. Michels, 1980.
[5] P. Ferraris, 1982, 1985.
[6] P. Ciancarelli, 2000.
[7] R.Michels, 1905; tr.it., 1908, p.276.
[8] P. Ciancarelli, 2000, p.11.
[9] W. J. Mommsen, 1974; tr.it., 1993, p.184.
[10] M. Weber, 1922; tr.it., 1995, vol.1, p.218.
[11] W.J. Mommsen, 1974; tr.it., 1993, p.189.
[12] K. Marx, 1848; tr.it., 1948, p.113.
[13] R. Michels, 1926; tr.it., 1966, p.18.
[14] R. Michels, 1924; tr.it., 1966, p.27.
[15] Ibid.
[16] Ibidem, p.32.
[17] Ibidem, p.35.
[18] Ibidem, p.41.
[19] Ibidem, pp. 16-17.
[20] Ibidem, p. 33.
[21] Ibid.
[22] R. Michels, ***, p.260.
[23] Ibid.
[24] Ibidem, p.270.
[25] Ibidem, p.275.
[26] Ibidem, pp.261-262.
[27] Ibidem, p.487.
[28] Ibid.
[29] Ibidem, p.488.
[30] Ibidem, p.495.
[31] R. Michels, 1907; ora in 1989, p.432.
[32] Ibidem, p.436.
[33] Ibidem, p.438.
[34] Ibidem, p.439.
[35] Ibidem, p.447.

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Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS


Working paper n. 165 May 2010


UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDR

Corrado Malandrino


Il pensiero di Roberto Michels sull’oligarchia, la classe politica e il capo carismatico. Dal Corso di sociologia politica (1927) ai Nuovi studi sulla classe politica (1936)


1. Premessa

In un intervento destinato a sviluppare il tema della critica di Gramsci alla sociologia michelsiana del partito1, dal quale per collegamento storico e logico-contenutistico il presente contributo prende le mosse facendo esso parte di una sistematica Michelsforschung, scrivevo che a partire dalla sua riscoperta negli anni cinquanta-sessanta2 si sa bene che Michels – sulle orme di quella che lui stesso amava definire la “scuola mosco-paretiana”3 – si qualificò come uno dei più acuti osservatori elitisti della crisi oligarchica novecentesca della forma-partito in regime di democrazia.

La principale tesi michelsiana – che diede luogo alla enunciazione della nota “legge ferrea dell’oligarchia” -, facendo tesoro della distinzione moschiana tra governanti e governati e dei suggerimenti avuti da Weber sul problema della burocrazia, s’incentrò sull'ineluttabile spaccatura tra masse e capi, tra dirigenti e diretti, che prelude nella ricostruzione michelsiana alla degenerazione burocratico-oligarchica del partito democratico e socialista-democratico. Questa tesi fu applicata non solo all’analisi specifica del partito in regime politico democratico, ma fu adottata anche per la critica della teoria dell'organizzazione del partito politico e generalizzata a ogni tipo di partito, anche in regimi socialista e comunista, trovando oppositori tra i teorici socialdemocratici nella Seconda Internazionale prima della Grande guerra, e soprattutto dopo, nella Zwischenkriegszeit, negli esponenti più avvertiti del rivivificato marxismo della Terza Internazionale e del comunismo europeo. Non ci sarebbe molto da aggiungere, in merito al tema, alle interessanti notazioni (solo per citare alcuni nomi) di Gallino, Pizzorno, Ripepe, Sartori, Sola in Italia, e di Conze, Eldersveld, Duverger, Linz, Lipset, fuori d'Italia.4

Sarebbe antieconomico ripercorrere l'affollato susseguirsi di interventi, brevissimi alcuni, più approfonditi altri, di illustri sociologi, scienziati politici, storici, filosofi, che si sono avvicendati nella discussione da più punti di vista. Sul punto si può concludere che – grazie a questa messe di studi -la teoria michelsiana della degenerazione oligarchica della forma partito e del regime democratico, relativamente alla formulazione datane nel primo ventennio del Novecento, sia diventato un classico.

Mi sembra di maggior interesse domandarsi (e indagare) che ne è stato di essa nella seconda metà degli anni venti e negli anni trenta, per verificare se lo sviluppo delle ultime riflessioni di Michels sull’oligarchia carismatica, in quanto caratterizzata appunto dal carisma del “capo” totalitario del regime, abbia aggiunto qualcosa di essenzialmente nuovo e significativo a questa dottrina politica.


2. La critica di Gramsci

Michels è stato oggetto di molte critiche, di metodo e di contenuto, da parte della cultura democratica del secondo dopoguerra, forse anche di "pregiudizi" non correttamente fondati come sostiene Ettore Albertoni5, anche se nella specifica materia di cui ci si occupa qui egli sembrerebbe riguadagnare considerazione, come ha rilevato Eugenio Ripepe in un saggio del 1989 dedicato a Roberto Michels oggi6, in parte autocritico rispetto alle sue riflessioni dell'inizio degli anni settanta7, nell 'ambito degli studi sull'elitismo.

L’ingenerosità delle stroncature mosse da Gramsci a Michels e, in alcuni casi, le sue imprecisioni derivarono con ogni probabilità proprio dal mancato e perspicuo riferimento al maggior testo michelsiano, come ho cercato di dimostrare nel saggio citato in apertura. L'avversione gramsciana contro Michels scaturì da un insieme di valutazioni che non riguardavano tanto, o solo, la questione partito, e che rimandavano invece a un quadro reso più complesso da altri fattori, tra cui quello del “nazionalismo italiano” esibito da Michels e il suo ruolo di “ambasciatore” e propagandista del regime fascista ebbero decisiva importanza.8

Ma, per restare al tema di oggi, si potrebbe appunto iniziare coll’analisi gramsciana della sociologia michelsiana del partito che prendeva le mosse non già dal classico riedito nel 1924 in Italia (che Gramsci fece acquistare, ma non lesse in modo puntuale e arricchendo la sua lettura con i commenti che usava consegnare ai Quaderni9), bensì dalla lettura dell 'articolo michelsiano del 1928 sulla “classificazione dei partiti politici”10, che corrisponde – questo sì - ai rilievi comparsi nei Quaderni. Questo articolo introduceva, con il Corso di sociologia politica dell’anno precedente11, l’elemento carismatico prima assente, nella dottrina michelsiana dell’oligarchia. Si noterà che il titolo di questo articolo, nelle edizioni inglese e italiana, connetteva più sobriamente e tecnicamente "le partis politiques" non con la "contrainte sociale" del titolo francese, ma con "the sociological character" e con il concetto della "classificazione dei partiti politici". Poiché i testi erano pressoché identici, Michels voleva sottolineare nel titolo aspetti differenti per destinatari diversi. Ma la sostanza non cambiava, essendo effettivamente l'elaborazione mirata a elencare e a giustificare in modo rapido una serie di definizioni tipologiche di partiti politici. Una volta enunciato il carattere di "fazione", comunque intrinseco al concetto generale di partito, e aver ricordato weberianamente le cause e la finalità dell'organizzazione partitica, in quanto associazione di lotta tendente alla conquista del potere (Machtstreben )12, e a farsi Stato nello Stato, Michels tratteggiava una lista di tipi di partito, né completa né esauriente nelle singole definizioni.

Gramsci inseriva nel suo riassunto dell’articolo tra parentesi vari punti interrogativi o commenti (del tipo "inesatto") laddove riscontrava nel filo espositivo michelsiano risvolti sui quali ironizzare, oscurità, oppure salti logici o storici. Ma appariva evidente che l'aspetto dell'articolo che lo impressionava di più era la parte legata al capo carismatico, culminante nella celebrazione di Mussolini in quanto incarnante la figura storica del "duce" del partito e dello Stato a direzione carismatica. Un Gramsci palesemente irritato scriveva che Michels "ha fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata del «capo charismatico» che probabilmente [occorrerebbe confrontare] era già nel Weber". 13 Gramsci ignorava in quel momento che effettivamente Michels, in più passi, aveva già riconosciuto il suo debito intellettuale nei confronti di Weber, arrogandosi semmai (sbagliando, perché in realtà andava oltre Weber senza capirne a fondo la teoria del carisma14) il merito di averne applicato le teorie all'esperienza del duce del fascismo.

Al termine della sua sintesi Gramsci faceva comunque alcune critiche, di metodo e di contenuto, sulla "classificazione dei partiti del Michels", che era giudicata "molto superficiale e sommaria, per caratteri esterni e generici". 15 Ricordava che accanto ai tre tipi generali: 1) partiti carismatici; 2) partiti di classe; 3) partiti dottrinari (con l'aggiunta dei partiti confessionali e di quelli nazionali), sarebbe occorso menzionare anche i partiti repubblicani in regime monarchico e i partiti monarchici in regime repubblicano. Ciò ricordato, però a Gramsci sembrava ancora necessario dire che "l'articolo [era] pieno di parole vuote e imprecise", 16 e che in definitiva "le idee di Michels sui partiti politici [erano] abbastanza confuse e schematiche, ma [erano] interessanti come raccolta di materiale grezzo e di osservazioni empiriche e disparate"; che "gli errori di fatto non [erano] pochi", che "le sue scritture [erano] zeppe di citazioni bibliografiche, in buona parte oziose e ingombranti" e così via. 17

Sul metodo di Michels Gramsci sentenziava: "La pura descrittività e classificazione esterna della vecchia sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia amabile scetticismo da salotto o da caffé reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo". 18 Occorre sottolineare, en passant, che il riferimento plurale di Gramsci "a queste scritture" di Michels faceva capire che si riferiva non solo all'articolo del 1928, che in quel luogo era il principale imputato, ma ad altri scritti che il capo comunista aveva in carcere e stava leggendo nel periodo. Queste non potevano che essere Francia contemporanea 19 e il citato Corso di sociologia politica, e non la Sociologia del 1911, come vari interpreti hanno sostenuto. In effetti i rilievi sull'affastellamento aneddotico e delle citazioni bibliografiche sembrano corrispondere soprattutto al carattere miscellaneo e disorganico del volume sulla Francia, tenuto conto che viceversa il Corso appare in proposito assai più conciso e lineare. A prescindere da tale osservazione, appare evidente che quando Gramsci parlava delle idee sui partiti si riferiva ancora una volta all'articolo francese del 1928, e, all'interno di questo, soprattutto alle elucubrazioni sulla tipologia del partito carismatico, che vi occupava grande spazio, opportunisticamente orientato all'elogio del carisma mussoliniano e in linea con la definizione di quell'elitismo carismatico che appariva esser l'ultima sua sintesi, mancata secondo la maggior parte degli interpreti.

In effetti, sorvolando sull'astiosità e sul sarcasmo comprensibili nella cultura militante del capo comunista – il quale scriveva all’interno di un carcere in cui lo stesso capo carismatico elogiato da Michels, con proprio ordine diretto, lo aveva fatto piombare in spregio a ogni anglosassone habeas corpus per impedirgli di pensare e di agire -, le critiche di Gramsci, se riferite all'articolo del 1928, sembrano giustificate poiché l'articolo di Michels si presentava meramente enunciativo, irritante in molti passaggi declamatori, privo di approfondimento, rapido e fuggevole nei giudizi. Come se Michels sentisse di non aver più nulla da dimostrare, avendo già detto tutto nel suo gran libro del 1911 e in altre pubblicazioni che del resto erano da lui richiamate. Il suo articolo, insomma, sembrava avere intenzionalmente carattere meramente ripetitivo, ritenendo forse egli d'aver portato nelle ricerche precedenti l'onere della prova scientifica.

3. Gli altri scritti michelsiani sull’oligarchia carismatica

Sotto questo aspetto è del tutto fondato supporre che, agli occhi di Michels nel 1928, l'articolo si ponesse in rapporto di continuità, pur con tutte le differenti sfumature, con le ricerche precedenti. Ma a fronte di un esame oggettivo – dal quale risulta la novità dell’elemento carismatico giocato pesantemente in funzione di appoggio alla dittatura mussoliniana -bisogna invece concludere che tale posizione dell'autore, pur coerente con la sua storia politica più che scientifica, non appare del tutto giustificata. Specie se si leggono gli scritti successivi dedicati a questo tema. In proposito occorre infatti precisare che l'articolo del 1928 non corrisponde -se non nell'assunto fondamentale, genericamente riaffermato, del carattere oligarchico del partito -ai contenuti e al senso dell'originale Sociologia del partito politico, nella quale non vi è nemmeno una pagina dedicata al tema del partito carismatico in quanto tale. Questo concetto era estraneo al Michels del 1911 e non emerge significativamente nel 1924, così come quello del duce carismatico (pur essendovi beninteso molte pagine che si occupano dei capi). Nella Soziologie del 1911 non si procedeva a una sistematica classificazione dei partiti.

Gli studiosi finora ricordati hanno molto discusso su cosa sia, in effetti la Soziologie (e non è qui possibile riprendere tale dibattito nella sua interezza, salvo allacciarsi ad alcune considerazioni). Fra le differenti letture proposte, neppure una si attaglia all'orientamento dell'articolo del '28, che appar essere sostanzialmente una rapida e insipida rielaborazione della questione del partito politico, dal quale emerge come aspetto vivificante soprattutto il motivo del “duce carismatico”. Mentre, in genere, del precedente capolavoro michelsiano si è apprezzato il carattere ampio e lo spessore analitico, sotto il profilo dei materiali storico- politici e sociali utilizzati. Secondo lo studio di Sola20, che è tra le elaborazioni di scienza politica più informate, complete e organiche dei vari aspetti del pensiero elitista michelsiano, "il tema di fondo della ricerca michelsiana consiste nell'elaborazione di una più ampia sociologia dell'azione dirigente e della leadership: di essa tanto la sociologia della «direzione politica» quanto la sociologia dell'«oligarchia» rappresentano solo dei momenti particolari".

Della ricerca sociologico-politica michelsiana, è bene ricordarlo, si sottolinea sempre il suo essere il punto terminale di una maturazione decennale21, basata su esperienze dirette personali e su una vasta indagine intellettuale su un modello di partito, quello socialdemocratico, che troppo rapidamente -sulla scorta di una critica "radicale di sinistra" successiva, alla quale l'opera di Michels diede avvio - viene scambiato per una mera macchina burocratica. La Spd fu anche e prima di tutto, specie prima della controversia revisionista, una ecclesia militans, un partito di militanti e di elettori aderenti che avevano saputo ricreare un mondo culturale separato, ma completo. Non a caso gli intellettuali giocavano un ruolo complesso al suo interno nella creazione del circolo dell'informazione-formazione, di cui Michels nella sua Sociologia tien conto.

Si è lontani - nel caso della Sociologia del partito - da ogni forma di riduzionismo psicologico, tecnico e dall’estremizzazione carismatico-mussoliniana tentata dal Michels fascista22. Al contrario dell'articolo del '28, la Sociologia non si caratterizza per l'analisi elitistico-carismatica della forma-partito (e della forma di Stato), ma descrive il partito come un organismo polivalente ("organizzazione, Stato nello Stato, impresa economica, organismo sociale"23), e certamente come organismo politico complesso anche al livello della Führertum (ma senza l'appiattimento su di un unico Führer, ossia di un Duce carismatico alla Mussolini). Sempre citando Sola, la Sociologia del 1911 è una "scienza analitica del partito politico" e ha carattere eminentemente "realistico"24, mentre l 'articolo del 1928 si presenta con il marchio della sintesi definitoria, della verità apodittica e dell'autoreferenzialità carismatica. Per dimostrare tale assunto val la pena procedere all’analisi degli altri scritti in cui Michels parla dell’oligarchia carismatica cercando di strutturare meglio il suo discorso. Questi sono rintracciabili sostanzialmente (tralasciando certi scrittarelli troppo scopertamente apologetici del regime) in tre testi: il citato Corso di sociologia politica del 1927, gli Studi sulla democrazia e l’autorità del 1933 e i Nuovi studi sulla classe politica del 1936, l’ultimo anno della vita di Michels. 25

3.1. La direzione carismatica dello Stato

Il Corso di sociologia politica rappresenta una fusione di materiali didattici rielaborati per una loro presentazione in veste più scientifica. È costituito di quattro lunghi capitoli dedicati rispettivamente al fattore economico, alla élite, alle tendenze democratiche e alle controtendenze aristocratiche e, infine, alla direzione carismatica nella vita pubblica. Seguiamo il ragionamento di Michels sul tema in questione traendolo dalle varie notazioni sparse qua e là. Esso parte dal dato di fatto (e dal principio) della continua rotazione delle élites nei regimi democratici. Nota Michels che tale carattere nell’offrire garanzie di accesso al potere alle varie élites nel tempo, produce altresì rotture della continuità dell’azione di governo, disfunzionamenti, insicurezze e comportamenti asimmetrici nella gestione della cosa pubblica. Di contro, il fenomeno della permanenza stabile di una ”robusta élite unica al potere” – che certo appare più efficiente e sicura nell’azione di governo -assume necessariamente “caratteri antidemocratici” (qui è trasparente il richiamo all’acquistata supremazia dell’élite fascista, ma anche alla minoranza bolscevica26), ed è avversata dalle altre élites minori, che sostengono ovviamente il ritorno al principio della pluralità delle élites e della loro circolazione. Tale opposizione è favorita dalla tendenza al pluralismo che è molto forte nella formazione e nella vita delle élites economiche.

Tuttavia, il consolidamento del concetto dell’unicità dell’élite al potere, che è dato vedere nella storia recente, continua Michels, si basa sul presupposto della critica generalizzata alla democrazia borghese che è ormai vecchia di un secolo, se vi si includono le prime contestazione del principio liberaldemocratico da parte dei teorici del socialismo. Sulla base di tale affermazione, in realtà Michels opera un collegamento molto discutibile tra tutte le teorie socialiste progressiste, antiborghesi e antiliberali, e l’elitismo ultraliberale e conservatore, arrivando senza soluzione di continuità fino a quello della scuola mosco-paretiana. Tale linea critica antiliberale e antidemocratica porterebbe, nell’interpretazione di Michels, alla demistificazione del principio della maggioranza in quanto fondamento rappresentativo e di massa del sistema liberaldemocratico, in quanto esso non assicurerebbe affatto agli elettori il controllo democratico dei governi, i quali restano invece sempre, come affermato da Mosca, espressione di una minoranza organizzata. Come insegnano le teorie elitiste, l’esercizio del potere delle varie classi politiche democratiche rimane invariabilmente frutto di “tortuosi intrighi di corridoi”. Al contrario, l’élite unica, insediatasi saldamente e monopolisticamente al potere, eserciterebbe secondo il sociologo italo-tedesco un dominio “franco, chiaro, concreto e diretto”. 27

Se questo è vero, continua Michels, tuttavia “l’élite antidemocratica non può fare appieno astrazione dal principio di massa” nell’era della “mobilitazione” delle stesse in nome del patriottismo popolare. “Dato il risveglio delle folle operaie e contadinesche non è possibile nell’era presente – e i fatti, sottolinea Michels, forniscono a questa asserzione un’abbondante documentazione – che l’élite possa affermarsi vittoriosa senza il continuo tacito consenso delle masse, dalle quali, sotto vari aspetti, dipende la sua sorte”. 28 A conclusione di questo ragionamento, il sociologo italo-tedesco sottolinea che si determina dai fatti stessi una contraddizione, “un’antinomia non tragica, ma fatale”, per l’élite antidemocratica: da un lato, nel dover essa mantener indefinitamente il potere senza apparente mandato rappresentativo di consenso, concesso nelle forme elettorali democratiche usuali; dall’altro, nell’aver però sempre bisogno di un consenso forte da parte delle masse, anche se non manifestato attraverso il suffragio tradizionale, per legittimare il proprio diritto al potere e la propria autorità. [Per inciso: questa considerazione ci fa capire quanto poco Michels credesse alla validità delle elezioni coatte nel regime del partito unico nel quale viveva e di cui si era fatto sostenitore…]. Formulato in tal modo il problema di fronte al quale si trovava a suo avviso “l’élite antidemocratica” fascista, Michels introduce, per risolvere tale antinomia, la nota argomentazione weberiana dei tipi puri di potere legittimo: il potere legale-razionale, il potere tradizionale e infine il potere carismatico. 29

Nel terzo tipo di potere Michels afferma di trovare la soluzione dell’antinomia da lui rilevata. In quest’ultimo caso, scrive infatti Michels, “la legittimità [è] basata sulla sottomissione spontanea e volontaria delle masse al governo di persone dotate di qualità congenite straordinarie, ritenute talora addirittura soprannaturali e, comunque, sempre superiori di molto al livello generale, per virtù delle quali esse persone sono stimate capaci (e spesso lo sono) di compiere grandi cose, ed anche miracolose. Epperò avviene che questi uomini sembrano in fondo designati nientemeno che da Dio stesso. Esempi: il profeta, il Duce”. 30 En passant, il sociologo italo-tedesco nota (citando genericamente Vincenzo Cuoco) che il presupposto del sorgere di duci (guide politiche) è dato proprio dalla circolazione delle élites nelle democrazie. Ovvero, proprio dalle loro lotte interminabili emerge infine una figura dotata di qualità carismatiche che pone loro fine instaurando un più fermo dominio. Proprio “l’istituzione del Duce” costituisce il caposaldo della “nuova teoria dell’élite”. Questa figura infatti conferisce non solo nuova sicurezza, rapidità, abilità e disinvoltura all’esercizio del comando, ma dà all’élite antidemocratica un fondamentale rapporto con la massa di cui prima era carente.

Al proposito, l’esempio storico citato da Michels per avvalorare il suo argomento è quello di Oliver Cromwell, il capo carismatico della prima rivoluzione inglese citato anche da Weber, ripreso icasticamente quando impone al Parlamento l’istituzione del suo protettorato. Al di là delle divagazioni alle quali indulge, il fatto sostanziale sottolineato da Michels sembra essere l’elemento di inimitabile “genialità” apportato dall’uomo carismatico nel tenere il timone del potere e nel suo rapportarsi direttamente con le masse (che Michels richiama spesso, con evidente distorsione del suo significato, come “opinione pubblica”). Si formerebbe così una “fede collettiva” delle masse nei confronti del duce, un canale di comunicazione diretta che può assumere “forma spiccatamente mistica”. “Alla fede nella propria missione – scrive Michels – si congiunge, nel duce carismatico, nato qual è dalle masse, il bisogno di rimanere colle masse in continuo contatto. Ne scaturisce un fenomeno storico-politico di sommo momento”. 31

A questo punto il discorso michelsiano da ‘teorico’ si fa storico, o cronachistico, in quanto la tipica figura del duce di cui ha trattato fino a quel momento viene ricondotta sempre più alla misura e alla figura reale del Duce italiano, il “Capitano Nuovo” che l’Italia – proclama Michels -ha trovato nei “tempi tempestosi”, il Capo del Governo che “parla e traduce in forma nuda lineare e lampante cotesta sua nuova consapevolezza, contenente i propositi della moltitudine, mentre questa stessa freneticamente acclama, rispondendo alla voce profonda della propria coscienza, o perlomeno, diremo noi, di quella, anche più profonda, della propria subcoscienza”. 32 A queste affermazioni, seguono infine notazioni sul carattere e sulle regole di comportamento del “duce”: il duce, pur se deve mantenere il contatto con le masse, deve comunque rimanerne “distinto”, non condividerne i difetti, deve star al di sopra di simpatie e antipatie e di certe debolezze umane, per mantenere intatto il suo ascendente (“per non essere massificato, conviene che egli ogni tanto si smassifichi ”33, scrive testualmente l’autore); il duce deve essere “buono”, non nel senso sentimentale, ma dedito al bene della cosa pubblica, incondizionatamente devoto a essa; deve sfuggire alle tentazioni costanti della megalomania (sic!); deve agire limitatamente attraverso la burocrazia di carriera, ma scegliere i propri collaboratori al di fuori della cerchia dei ceti governativi e amministrativi, anch’essi “secondo la loro qualificazione carismatica” e in base alla sua ispirazione (decidendo autonomamente di toglier loro l’incarico se vien meno la loro attitudine al carisma); il duce infine dev’esser alieno dallo stringere compromessi. Il duce insomma instaura la sua dittatura e non vi è da attendersi che di sua spontanea volontà la faccia cessare o abdichi: “il duce carismatico non abdica neppure quando l’acqua gli giunge alla gola. Poiché appunto nella sua prontezza di morire sta un suo elemento di forza e di trionfo”. 34 Solo la perdita del carisma può giustificare un’eventuale abdicazione, che equivale al suo suicidio politico.

Nel capitolo sulla “fatalità” della classe politica compreso negli Studi sulla democrazia e sull’autorità, Michels invero non aggiunge nulla a quanto già detto, semmai sottolinea la capacità della guida carismatica di restringere e controllare -meglio di quanto non sia capace di fare la direzione di tipo liberaldemocratico – l’onnipresente burocrazia (che è all’origine dell’impossibilità di attuazione del tipo rousseauiano di democrazia dal quale Michels fa partire il suo ragionamento nella Soziologie). Infine, nell’ultimo suo scritto del 1936, i Nuovi studi sulla classe politica, ribadisce le tesi sopraddette, sentenziando che “nei partiti gerarchici il capitanato diventa un principio, il carisma rimpiazza la continua elezione e rielezione degli eletti da parte delle masse” e rincarando la dose sul dato di fatto che comunque “anche nei paesi e nei partiti democratici che negano il carisma, esiste una dittatura dei capi, anche se la democrazia formale cerca di nascondere l’effettivo processo. Il rapido cambio tra i capi [nei sistemi liberaldemocratici, n.d.r.] trae in inganno gl’inesperti circa il vero carattere di dominio. Giacché non sono le masse a rovesciare i capi, ma i capi nuovi che delle masse a tal uopo si valgono”. 35 Accanto a tali affermazioni drastiche che sono lontane dallo spirito empirico e scientifico delle prime opere sulla sociologia del partito, Michels pone alcuni cenni sul tratto “volitivo” dell’oligarchia carismatica, un carattere volontaristico, fatto di nicciana volontà di potenza. Lo fa con il consueto taglio storico piuttosto che con un completo approccio teorico, anche se qui e là compaiono echi e citazioni di teorici come Nietzsche e Weber.

La volontà di dominio, scrive, e la storica necessità di competenza compresa in senso carismatico si uniscono presso molti popoli nel dopoguerra per il desiderio di trovare “nella vita politica ed anche nell’industria e nei traffici un capo: forte, incoronato non già dalla capigliatura incanutita dagli anni, e neppure fatalmente da avite ed accumulate tradizioni, ma da giovanile capacità di comando [come non cogliere qui l’eco machiavelliano dei giovani che battono la fortuna che è donna, n.d.r.], una scelta ispirata e confermata dal numero e dallo stato d’animo delle masse dei seguaci”. Insomma sta a cuore a Michels di separare la giustificazione elettorale ed economica dalla scelta del capo carismatico, cosa che esula dalle normali e tradizionali procedure di reclutamento della dirigenza politica. “Laddove la nuova classe politica si forma intorno a un capo carismatico e a un gruppo carismatico – scrive -, vale a dire nato all’infuori della cerchia tradizionale, ereditaria o plutocratica, ma dotato di forte ingegno e foriere di una missione trascendentale, perché capace d’ispirare ai suoi seguaci una fiducia e una fede che rasentano il divino ed il soprannaturale, fa difetto ogni nesso iniziale coi fattori economici”. 36 A maggior riprova cita Weber in tedesco: “Reines Charisma ist spezifisch wirtschaftsfremd”. 37 Ovvero, il carisma puro è spiccatamente estraneo all’economia. Anche se, come fa notare lo stesso Weber, corrono vincoli pecuniari tra il capo carismatico e i suoi fedeli (come donazioni, stipendi fissi, ecc.), il carattere essenziale del carisma sta, conclude Michels, “nella brama del dominio, nelle fede indomita, nel coraggio fisico”. 38

Detto questo, come è nel suo stile degli ultimi anni, Michels trapassa in altre notazioni di colore, talora oziose, sperdendo il tenue filo teorico dipanato. Verso la fine del capitolo, per riprendere l’argomento del “coefficiente volitivo”, non trova di meglio che ricondurre la propietà di tale carattere ai soggetti storici che meglio l’impersonano, ossia il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco, i quali – scrive -“lungi dal presentare manifestazioni storiche parallele, hanno tuttavia in comune di essere dei movimenti che si sono fatti strada con metodi rivoluzionari ed in antitesi all’intellettualismo accademico ed alla massoneria imperante. Intanto – conclude -segnano una vittoria della corrente volitiva e politica, tengono domo l’accademismo puro e mettono freno all’economismo unilaterale [sic!]”. 39

3.2. Confronto tra la teoria weberiana e quella michelsiana del potere carismatico

Si ha in queste conclusioni qualcosa di sostanzialmente diverso da una teoria scientifica e da una mera giustificazione del fascismo carismatico, si ha la traccia un approdo pieno di Michels al regime dittatoriale mussoliniano. Si ha in questo passaggio anche un distacco profondo dall’originale dottrina weberiana (ma, vorrei aggiungere, dalla stessa Soziologie originaria michelsiana). Vorrei però, prima di trarre alcune conclusioni inerenti l’interpretazione del pensiero e della prassi politica di Michels, soffermarmi brevemente sul confronto tra le formulazioni weberiane e quelle michelsiane in tema di carisma, tema sul quale il più recente e convincente studio critico è senz’altro quello citato di Francesco Tuccari sui Dilemmi della democrazia moderna. Mi sembrano persuasivi i giudizi di Tuccari (e il precedente di Portinaro) sui limiti della trattazione michelsiana della dottrina del carisma. 40

Apparentemente Michels rispetta la lettera della dottrina weberiana sul carisma, ricavata come si evince dalle citazioni predette dalla postuma edizione degli studi di Economia e società. Weber, in effetti, tratteggia qui il potere carismatico come “una relazione sociale di carattere specificamente straordinario e puramente personale” possibile in virtù del “dono di grazia” posseduto dal tipo umano carismatico. Se si legge la famosa conferenza monacense sulla Politica come professione41, si trovano espressioni simili sulla straordinarietà del potere carismatico, che sul piano politico è inteso come “dominazione in forza della dedizione del seguace al carisma puramente personale del capo”; ovvero, sulla spontaneità e dedizione dei seguaci del carisma (e dell’uomo carismatico stesso al suo carisma). Chiarendo infatti il senso intimo della “dedizione” dei seguaci e dell’uomo carismatico, Weber scrive che “la dedizione al carisma del profeta o del capo in guerra o del grande demagogo nella ecclesia o nel parlamento significa che egli personalmente è per gli altri uomini un capo per vocazione intima, e che costoro lo seguono non in forza del costume o della legge, ma perché credono in lui. Dal canto suo, egli vive per la sua causa, tende con ogni sforzo alla sua opera […]”. 42

Ciò che invece è ben diverso in Weber dalla riduzione michelsiana della dottrina carismatica è, innanzi tutto, l’ampiezza della definizione del potere carismatico, che Weber deriva dagli studi sulla sociologia delle religioni e che quindi applica a una serie di tipi carismatici, che non sono invece ripresi da Michels (interessato com’è a una sola espressione del tipo carismatico). Ma la maggiore differenza, anche teorica, da rilevare sta nell’uso che Michels fa della dottrina del carisma. Nel suo pensiero, il duce carismatico (che non è il grande demagogo parlamentare che soprattutto ha in testa Weber, ma tende ad assomigliare molto al meneur des foules di Le Bon) ha soprattutto la funzione di risolvere l’antinomia verificatasi nel caso dell’insediamento stabile dell’élite antidemocratica al potere, ha insomma la funzione, grazie al suo rapporto “sintonico” con le masse, di ovviare al problema della legittimazione di massa carente nell’élite antidemocratica dittatoriale. Ciò fatto, il duce carismatico resta fissato per sempre a tale funzione.

Quindi il carisma del duce rende “carismatica” l’élite-oligarchia che viene cristallizzata in questa forma e figura, non ha più ulteriore evoluzione. Con tale fondamento si può affermare a questo punto che Michels sia teorico dell’elitismo carismatico e di una nuova forma di democrazia (che però della democrazia ha solo il nome). 43

Ben diversamente stanno le cose per la teoria weberiana. Come è chiaramente spiegato in Economia e società, il carisma rompe nel suo farsi il corso della tradizione e della legalità statuali, ma dopo una fase di acuto protagonismo dell’uomo carismatico, il suo potere tende in qualche modo a darsi una legittimazione legalitaria e a rientrare gradualmente nella forma di potere legale-razionale. 44 Di qui la figura del presidente carismatico in un regime presidenziale, democratico-plebiscitario, ma tendenzialmente decentrato e federale, che rappresenta l’approdo politico della dottrina costituzionale weberiana. Non vi è in Weber alcun cenno a un protrarsi indefinito del “rapporto sintonico” tra duce e masse come elemento teorico fondamentale di giustificazione di un regime dittatoriale (la “nuova democrazia”) e di una “nuova teoria dell’élite” che prevede in realtà la sopravvivenza di un’unica élite antidemocratica al potere, come sostiene invece Michels.

4. Conclusione: il carisma machiavellico del Duce secondo l’ultimo Michels

Dalle asserzioni di Michels sul potere oligarchico-carismatico e sul “coefficiente volitivo” si comprende come egli si volesse sempre più qualificare come “intellettuale organico” (per usare in senso lato una categoria gramsciana) del fascismo. 45 Questo intento aveva a che fare molto più con il suo progetto di vita professionale e pubblica che non con approfonditi elementi di scienza politica. Per esempio il personaggio di Michels coincideva col profilo del “collaboratore carismatico” del Duce, da trarsi fuori della stretta cerchia governativa e burocratica. Questo ci suggerisce il Michels autore degli articoli e dei libri dei tardi anni venti e trenta, quando, rientrato in Italia sotto la protezione personale del Duce e con in tasca la tessera del PNF dopo il lungo periodo di Basilea, nella fascistissima Università di Perugia, come ordinario di Economia generale e corporativa, Michels procurava di rappresentare e onorare con frequenti viaggi all’estero l’immagine culturale del regime in Europa (su questo capitolo “accademico” della biografia michelsiana fornisce dati anche il contributo del 1992 di Maria Cristina Giuntella nel volume sul “fascismo e l’inquadramento degli atenei”46). Ma questa notazione non basta a capirne l’intima vocazione finale, che si radica soprattutto col ricercato legame diretto col Duce.

Non appare casuale il fatto che in quegli anni Michels sviluppasse in modo accentuato (per usare un eufemismo) un’interpretazione ‘machiavellista’ della figura carismatica del Duce-principe, rinnovatore e salvatore della patria italiana. Ho richiamato questo tema in un articolo che utilizza alcune riflessioni fatte già da Di Nucci. 47 Da questi articoli e da quello di Aldo G. Ricci (Michels e Mussolini) 48 emergerebbe soprattutto una strumentalizzazione di sapore propagandistico della figura del “segretario fiorentino”, elevato da Michels (o si dovrebbe dire “abbassato”?) a “icona” nel santuario dei padri culturali dell’Italia fascista. Ricci e Di Nucci si soffermano soprattutto sul testo di una conferenza tenuta da Michels nel 1929 nella sua città natale, Colonia, in cui si fa risalire a Machiavelli – cito le parole di Michels -la “lunga tradizione di vitalità politica e culturale” dalla quale sgorgano “le fonti intellettuali del fascismo”49. In Machiavelli, secondo Michels, “già si trova il pensiero del Duce, condottiero irruento, spontaneo, individuale, forte non di un potere ereditato, ma per proprie virtù. Altra analogia fra Mussolini e Machiavelli è la devozione entusiasta per la Patria”. Non per caso Mussolini aveva in animo di scrivere una dissertazione accademica su Machiavelli, studio per il momento rimasto frammentario e incompiuto50. Si potrebbe azzardare un commento: forse, tenuto conto che Michels sapeva bene che le sintesi delle sue conferenze venivano regolarmente depositate sul tavolo di lavoro del Duce, il quale ne era fedele lettore e postillatore, questo poteva essere anche un modo per insufflare subliminalmente al potente protettore la possibilità di affidare allo stesso Michels – che avrebbe assolto con entusiasmo a tale dovere – la curatela dell’eventuale opera organica mussoliniana su Machiavelli... Questa parrebbe retorica cortigiana, non lontana - quando imbastisce simili paragoni o apparentamenti - dalla categoria del “servo encomio” dedicato al “principe” dell’Italia fascista.

Apparirebbe persino benigna, sotto questo profilo, la talvolta ingenerosa e stroncante critica di Gramsci al “lorianismo”, di cui s’impregna nel periodo fascista il metodo scientifico del Michels sociologo, le cui scritture – scrive Gramsci nei Quaderni del carcere – “sono oziose e ingombranti”, piene di “truismi” appoggiati all’autorità degli scrittori più disparati51. Questa attitudine poco gloriosa dell’ultimo Michels ricorre anche nel libro, chiaramente condizionato dagli obiettivi della politica culturale fascista, pubblicato nel 1930 in Svizzera e in Germania con il titolo Italien von heute52. Qui prende forma lo stesso tipo di riproposizione della figura (più che dell’opera) del Machiavelli. Anche se, occorre notarlo, emergono alcuni elementi di maggior interesse dal punto di vista del pensiero politico, che fanno pensare a riflessioni meno occasionali. Laddove per esempio è scritto che “l’Italia ha fatto nascere con Machiavelli il maestro della dittatura rivoluzionaria patriottica e del realismo dell’arte dello Stato”53.

Questo tipo di “machiavellismo”, che per Michels costituisce un’irrinunciabile conquista della scienza politica, fu abbandonato dagli italiani dei secoli successivi in quanto “del tutto immorale”54, ma è invece – secondo il Michels fascista -alla base delle correnti imperialiste dell’Italia moderna e infine è collocato come “principio strutturale del fascismo”: infatti, conclude Michels, “da Machiavelli [il fascismo] ricevette la dottrina del capo dittatoriale carismatico di conio messianico che non ha ereditato il proprio potere”. Credo sia interessante – anche se non si capisce ancora quanto fondato – questo primo cenno alla relazione “machiavelliana” tra arte dello Stato e dottrina della dittatura carismatica di sapore schmittiano. Tuttavia il riferimento farebbe pensare ancora una volta, nella stringatezza e mancanza di sviluppo, a una frase buttata lì, con intenzione propagandistica e celebrativa della figura del Duce, più che con reale intento scientifico.


Note

 1 Cfr. C. Malandrino, Gramsci e la Sociologia del partito politico di Michels, in Gramsci: il partito politico nei Quaderni, a cura di S. Mastellone e G. Sola, Firenze, CET, 2001, pp. 115-140. A questo articolo si rinvia per il necessario contesto di riferimenti dottrinali e bibliografici che hanno caratterizzato la discussione sulla sociologia michelsiana del partito politico nella seconda metà del Novecento. Per ciò che concerne il capolavoro michelsiano, cfr. R. Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Leipzig, Dr. Werner Klinkhardt, Philosophischsoziologische Bücherei, Band XXI, 1911 (prima ediz. it. Torino, UTET, 1912). Si ebbe una seconda ristampa stereotipa italiana nel 1924 sempre per i tipi della UTET. La seconda edizione tedesca, con una nuova introduzione e aggiunte dell'autore, avvenne nel 1925 (Stuttgart, A. Kröner). Ved. anche le più recenti riedizioni italiana (La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, a cura di J. J. Linz, Bologna, Il Mulino, 1966, che si giova di un’importante studio introduttivo del Linz stesso) e tedesca (Soziologie des Parteiwesens,a cura di F. R. Pfetsch, Stuttgart, Kröner, 1989).

2 Cfr. tra le riletture meno lontane nel tempo: D. Fisichella, R. Michels, il partito di massa ed il problema della democrazia, in G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella belle époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra '800 e '900, Milano, Giuffré, 1990, pp. 743-752; F. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 219-282 e 309-339.

3 Cfr. R. Michels, Studi sulla democrazia e sull’autorità, Firenze, La Nuova Italia, 1933, consultato in Id., Antologia di scritti sociologici, a cura di G. Sivini, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 200. Sul rapporto del pensiero michelsiano con le eredità intellettuali di Mosca e Pareto cfr. in generale J. H. Meisel, The Myth of the Ruling Class. G. Mosca and the «Elite», Ann Arbor, Michigan, 1958; G. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge ferrea dell'oligarchia in R. Michels, Genova, ECIG, 1972; P. P. Portinaro, R. Michels e V. Pareto. La formazione e la crisi della sociologia politica, "Annali della Fondazione L. Einaudi", Torino, 1977, XI, pp. 99142; Id., Tipologie politiche e sociologia dello stato. G. Mosca e M. Weber, ivi, 1978, XII, pp. 405-438; E. De Mas, L'Italia tra Ottocento e Novecento e le origini della scienza politica (Mosca, Michels, Ferrero, Rensi), Lecce, 1981 (ma ved. di De Mas anche le interessanti considerazioni svolte nel saggio Il giudizio di Michels su G. Mosca nel 1929, in R. Michels: economia sociologia politica, a cura di R. Faucci, Torino, Giappichelli, 1989, pp. 163-174); di Albertoni, oltre allo scritto cit., cfr. anche la Prefazione al primo tomo del vol. V dell'«Archivio internazionale G. Mosca per lo studio della classe politica» intitolato: Elitismo e democrazia nella cultura politica del Nord-America (Stati Uniti -Canada -Messico), Milano, Giuffré, 1989, pp. XI-LXII; P. Ferraris, L'influenza di G. Mosca su R. Michels, "Quaderni dell'Istituto di studi economici e sociali", Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Camerino, 1/1983, pp. 31-57; C. Mongardini, L'opera di R. Michels e la sociologia italiana, "Annali di sociologia/Soziologisches Jahrbuch”, Università di Trento, 2.1986, I, pp. 73-84. Ved. infine C. Malandrino, Patriottismo, nazione e democrazia nel carteggio Mosca-Michels, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, Torino, 2004, pp. 211-226.

4 Per una “bibliografia scelta”, ma esauriente, sugli autori citati cfr. R. Michels, Potere e oligarchie. Antologia 1900-1910, a cura e con intr. di E. A. Albertoni, apparato bibibliografico di V. Ravasi, Milano, Giuffré, 1989, pp. 109-122.

5 Ivi, p. 4.

6 Ved. in Roberto Michels: economia, sociologia, politica, cit., pp. 7-22.

7 Cfr. E. Ripepe, Gli elitisti italiani, vol. I, Mosca Pareto Michels, Pisa, Pacini, 1974, pp. 459-548.

8 Cfr. L. Di Nucci, Roberto Michels «ambasciatore» fascista, “Storia contemporanea”, XXIII, n. 1, 1992, pp. 91-103.

9 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975.

10 Cfr. R. Michels, Saggio di classificazione dei partiti politici, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", VIII, 1928, n. 2, pp. 162-178 (ripubblicato in Michels, Antologia di scritti sociologici, cit., pp. 177-195); Si tratta praticamente dello stesso testo edito da Michels in inglese col titolo Some reflections on the sociological character of political parties, "The American Political Science Review", XXI, 1927, n. 1, pp. 753-772; e in francese col titolo Les partis politiques et la contrainte sociale, "Mercure de France", 1928, pp. 513-535.

11 Cfr. R. Michels, Corso di sociologia politica, Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1927.

12 La citazione di Weber è tratta da parte di Michels (nota 1, p. 513) dall'opera Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der Sozialökonomik, III, 2 éd., Tübingen, 1925, Mohr, p. 167, 639: "D'après Max Weber, le parti politique a son origine de deux sortes de causes. Ce serait, en premier lieu, une société spontanée de propagande et d'agitation visant l'obtention de la puissance, afin de procurer par cela même à ses adhérents actifs (militants) des chances morales et matérielles pour la réalisation de buts objectifs ou d'avantages personnels, ou encore des deux à la fois. Par conséquent, l'orientation générale des partis politiques consiste dans le Machtstreben, soit personnel, soit impersonnel. Dans le premier cas, les partis personnels seraient basés sur la protection accordée a des inférieurs par un homme puissant. Dans l'histoire des partis politiques, les cas de ce genre sont fréquents". Più avanti (nota 4 bis, p. 515) Michels cita sempre Weber, op. cit., p. 140, per caratterizzare il partito carismatico: "Lorsque le chef exerce une influence sur ses adhérents par des qualités si éminentes qu'elles leurs semblent surnaturelles, on peut le qualifier de chef charismatique".

13 Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., Q.2, par. 75, p. 231.

14 Cfr. Portinaro, Teoria del partito, elitismo carismatico e psicologia delle masse, in R. Michels tra politica e sociologia, a cura di G.B. Furiozzi, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1984, pp. 275-299; Tuccari, Il leader politico e l'eroe carismatico. Carisma e democrazia nell'opera politica e sociologica di M. Weber e di R. Michels, "Annali di sociologia -Soziologisches Jahrbuch", 9.1993, II, pp. 77-99. A p. 282 Portinaro scrive: "L'accostamento delle nozioni di classe politica e direzione carismatica servì in realtà a Michels per legittimare un regime autoritario, non per definire un nuovo strumento d'analisi sociologica".

15 Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., Q. 2, par. 75, p. 234.

16 Ivi, p. 235.

17 Ivi, p. 237.

18 Ivi, p. 238.

19 R. Michels, Francia contemporanea. Studi, ricerche, problemi, aspetti, Milano, Corbaccio, 1927.

20 Cfr. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge ferrea dell'oligarchia in Roberto Michels, cit., p. 235.

21 Cfr. le considerazioni di Albertoni, Introduzione a R. Michels, Potere e oligarchie, cit., pp. 30-31.

22 Tuccari, I dilemmi della democrazia, cit., p. 251, ha sottolineato che essa è meno una Parteiensoziologie e più un'analisi sociologica, fondata su una ricerca storico-politica, sul formarsi dei partiti socialdemocratici europei e in particolare della SPD (p. 251). Ma certamente la Soziologie è estranea al viraggio assolutamente carismatico-fascista dato nell'articolo del 1928. Su ciò concordano generalmente gli studiosi del pensiero michelsiano finora citati.

23 Cfr. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge ferrea dell'oligarchia in Roberto Michels, cit., p. 131-135.

24 Ivi, pp. 9-10.

25 Cfr. R. Michels, Studi sulla democrazia e l’autorità, Firenze, La Nuova Italia, 1933; Nuovi studi sulla classe politica, Milano-Genova-Roma-Napoli, Società Anonima Editrice Dante Alighieri, 1936 (le pp. 150-180 di quest’opera sono recentemente riprodotte senza apparato critico, in quanto “classics”, in “élites e storia”, febbraio 2001, I, pp. 153-165).

26 Cfr. Michels, Corso di sociologia politica, cit., consultato in Antologia di scritti sociologici, a cura di G. Sivini, cit., p. 230.

27 Ivi, p. 229.

28 Ivi, p. 230.

29 È interessante notare come Michels recepisca in questo luogo la teoria weberiana del carisma in modo letteralmente fedele – ma inquadrandola e interpretandola in maniera più angusta e sostanzialmente distorcente -, come si constaterà confrontandone nel prossimo paragrafo la versione che qui se ne dà con le formulazioni originali di Weber.

30 Ivi, pp. 231-232. Michels riprende la formulazione della teoria carismatica weberiana da Wirtschfat und Gesellschaft, 2ª ed., Tubingen, Siebeck, 1925.

31 Ivi, p. 235. Si tratta di quello che Tuccari ha definito “il rapporto sintonico tra il Duce e le masse”.

32 Ibidem. 33 Ivi, p. 236. 34 Ivi, p. 238.

35 Cfr. Michels, Nuovi studi sulla classe politica, cit., pp. 157-158.

36 Ivi, pp. 167-168.

37 Cfr. M. Weber, Wirtschfat und Gesellschaft, 2ª ed., Tubingen, Siebeck, 1925, p. 142.

38 Cfr. Michels, Nuovi studi sulla classe politica, cit., p. 168.

39 Ivi, p. 178.

40 Cfr. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna, cit., pp. 318 e 325-339, in particolare a p. 318 Tuccari rileva che la teoria del “Duce carismatico” di Michels è “strutturalmente differente da quella elaborata da Weber in Wirtschaft und Gesellschaft, e che è tale proprio in relazione al problema di una definizione di una democrazia moderna”. Portinaro in Teoria del partito, elitismo carismatico e psicologia delle masse, cit., pp. 275-299, sostiene che Michels con la sua teoria del capo carismatico rimase molto più vicino a Le Bon che a Weber. Sivini invece parla di “abile uso del concetto weberiano di carisma” (cit., pp. 44-45), formula con cui si può concordare solo se si vuol dire che Michels spinge il concetto di carisma oltre i limiti dell’accezione weberiana e lo strumentalizza a fini certo non weberiani.

41 Cfr. M. Weber, Politik als Beruf (1919), ora in Id., Il lavoro intellettuale come professione, a cura di D. Cantimori, Torino, Einaudi, 1973, pp. 47-121.

42 Ivi, pp. 50-51.

43 Correttamente Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna, cit., p. 336 scrive: “Le implicazioni teoriche di questo nuovo «elitismo carismatico» sono fondamentalmente due. In primo luogo, l’adesione a una «teoria consensuale che, più che sulla votazione pubblica, poggia sulla pubblica opinione». In secondo luogo, l’accettazione dell’élite unica contro il sistema delle élites al plurale tipico dei sistemi inautenticamente democratici e maggioritari”.

44 Ivi, p. 338: “Ciò che a Michels sfugge del tutto […] è il fatto che il potere carismatico genuino rappresenta per Weber una forma «premoderna» delle relazioni di dominio, che giunge al termine del proprio percorso nell’epoca della cosiddetta «illuminazione carismatica della ragione» […] La democrazia moderna – Weber lo ripete in tutti i modi e con i linguaggi più diversi – è e non può che essere una democrazia plebiscitaria, ed è per questo che viene ricondotta alla categoria del potere carismatico. Tuttavia è tale sempre e soltanto sul terreno di libere elezioni e di un sistema di partiti al plurale”.

45 A tal proposito mi sembra distorcente l’interpretazione rilasciata da Giordano Sivini nell’introduzione all’Antologia di scritti sociologici michelsiana, cit., p. 41, secondo la quale “dopo il distacco dal socialismo rivoluzionario Michels in realtà non dimentica più l’insegnamento di Mosca e Weber sulla necessità di una separatezza tra attività scientifica e coinvolgimento politico; ma proprio per questo gli riesce di far discendere la legittimazione del fascismo – mantenendo una totale autonomia intellettuale – direttamente dalla propria teorizzazione elitistica”. In verità, ben diversamente testimoniano le ultime elaborazioni michelsiane sul tema dell’oligarchia carismatica e le carte d’archivio. Inoltre, il carteggio tra Michels e il genero Mario Einaudi (citato da Sivini sulla base di una testimonianza orale di quest’ultimo, nel quale il sociologo italo-tedesco avrebbe testimoniato negli ultimi anni di vita un’opposizione marcata al fascismo espansionista e bellicoso), al contrario non pare corroborare la tesi di un Michels critico del regime. Ho potuto leggere il carteggio in questione per l’intervento dei figli di Mario, Luigi e Roberto Einaudi, che ringrazio sentitamente. Il carteggio è in effetti interessante per alcuni particolari della biografia privata e intellettuale di Michels, ma non autorizza assolutamente l’idea di un Michels contrario al regime, tutto al contrario. Vi è in effetti una sola lettera non datata, ma certamente collocabile nell’estate del 1935 per un riferimento al 16 agosto di quell’anno, in cui Michels lamenta l’imminenza della guerra di aggressione dell’Italia contro l’impero etiopico. Egli scrive: “Tutto in me si ribella contro la guerra, ed è inutile ch’io entri nei particolari. Il mio atteggiamento, inutile aggiungere anche quello, sarà sempre unicamente italiano, ma ciò non toglie che sono addoloratissimo che questa italianità non coincida sempre con gli interessi dell’umanità”. Certo questa riflessione in stile ambiguamente nazionalmazziniano si adatta al pensiero di Michels sviluppatosi fin dagli anni della guerra di Libia e della prima guerra mondiale (cfr. C. Malandrino, Lettere di Roberto Michels e di Augustin Hamon (1902-1917), “Annali della Fondazione L. Einaudi”, Torino, 1989, vol. XXII, pp. 502-508 e 542 ss.). Ma è troppo poco per giustificare una presa di posizione critica verso il fascismo. Anzi Michels aggiunge: “Con ciò non voglio dire che gli inglesi non abbiano dato il peggior degli esempi possibile”, quasi con l’intento di giustificare l’atteggiamento del regime; poi nelle lettere successive non dirà più nulla in merito. Michels ebbe sempre un debole per l’imperialismo italiano, che lo traghettò all’approdo mussoliniano. Il suo rammarico verteva sul fatto che anche l’Italia cadesse nella tragica fatalità della “legge di trasgressione” da lui teorizzata, secondo cui il i paesi che lottano per l’indipendenza, una volta raggiuntala, si propongono necessariamente fini imperiali. Condivido perciò la tesi espressa da Sivini a p. 47 che “l’approdo teoretico di Michels al fascismo non è direttamente rinvenibile nel cambiamento di campo dal socialismo rivoluzionario all’elitismo”: ma ciò è vero solo perché, infatti, in mezzo c’è tutta l’elaborazione sul patriottismo nazionalista (di cui Sivini non parla; cfr in proposito C. Malandrino, Pareto e Michels: riflessioni sul sentimento del patriottismo, in Id, R. Marchionatti (a cura), Economia, sociologia e politica nell'opera di V. Pareto, Studi della Fondazione L. Einaudi, Firenze, Olschki, 1999 e Id., Patriottismo, nazione e democrazia nel carteggio Mosca-Michels, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, Torino, 2004) e dell’oligarchia carismatica, la quale ultima fornisce davvero la cifra ideologica dell’adesione di Michels al fascismo mussoliniano.

46 Cfr. M. C. Giuntella, Autonomia e nazionalizzazione dell’Università. Il fascismo e l’inquadramento degli Atenei, Roma, Edizioni Studium, 1992, pp. 109-121.

47 Cfr. C. Malandrino, Michels ‘machiavellian’ o interprete di Machiavelli?, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero poltico del secolo XX, a cura di C. Vivanti e L. M. Bassani, Milano, Giuffré, 2005, pp. 177-194.

48 Cfr. in G. B. Furiozzi (a cura di), Roberto Michels tra politica e sociologia, Firenze, CET, 1984, pp. 253-263.

49 I testi citati sono in Di Nucci, Michels «ambasciatore» fascista, cit., p. 100 e in Ricci, Michels e Mussolini, cit., p. 261.

50 Probabilmente Michels si riferiva agli sviluppi del Preludio al Machiavelli, che Mussolini aveva preparato nel 1924 in previsione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza nell’Università di Bologna. Ricci, op. cit., p. 257, ricorda che Michels trascorse l’intero pomeriggio della giornata di Pasqua 1924 con Mussolini, che nell’occasione gli parlò dei suoi studi sul Machiavelli finalizzati appunto all’obiettivo della laurea. Poiché tale conferimento non ebbe luogo, il testo fu pubblicato sulla rivista fascista “Gerarchia”, cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1925-1926, Torino, Einaudi, 1966, p. 465.

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Wikipedia

Elitismo

L'elitismo è una teoria politica basata sul principio minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano ad una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia, classe politica, oligarchia.

I presupposti dell'elitismo

Il punto di forza dell'élite è nell'atomizzazione della massa. Secondo l'elitismo la massa è confusa, dispersa, incapace di organizzarsi. Su questo caos si fonda la forza dell'élite, che è invece organizzata e in questo modo ottiene e mantiene il suo potere. C'è dunque una critica verso la democrazia, ma non è una critica che scaturisce da un giudizio di valore, bensì una critica quasi ontologica: la democrazia, semplicemente, non può esistere, poiché il popolo non ha le capacità di autogovernarsi e nel momento in cui si organizza esso porta automaticamente un'élite a prendere il potere. Si parla di a-democraticità dell'elitismo, non di anti-democraticità. Per forza di cose, gli elitisti criticano anche la visione del liberalismo basato sulla separazione dei poteri (appunto perché il potere è invece monopolizzato), e criticano il socialismo perché ritengono che la società - ben lungi dall'essere divisa in classi - sia frammentata e atomizzata. La visione elitista si contrappone infine radicalmente a quella del pluralismo: quest'ultimo infatti ritiene che il potere sia largamente distribuito (e non monopolizzato) tra gruppi che si equilibrano (senza quindi formare élite). Al momento della sua nascita la teoria dell'elitismo (se pur di matrice scientifica) era connotata da una forte valenza ideologica, in contrapposizione con le teorie della democrazia radicale e con il marxismo. Il fatto che i governanti fossero minoranza e i governati maggioranza non è una cosa nuova (lo stesso Saint-Simon lo afferma); l'elitismo però, conferisce dignità scientifica a questa costante storica già osservata. Il fenomeno è proposto come qualcosa di ineluttabile nella storia della politica: i vecchi modi di considerare il governo (tripartizioni di Aristotele e Montesquieu e bipartizione di Machiavelli) sono considerati, secondo questa visione, obsoleti: sostanzialmente il sistema politico si fonda sempre sulla dicotomia massa-élite.
Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto

Gli studiosi italiani del primo Novecento, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, furono i fondatori dell'elitismo (si parla di: scuola elitista italiana).

Mosca, che usava il termine classe politica per riferirsi all'élite, propose il criterio delle tre C per descrivere il funzionamento dei detentori del potere:
Pareto, che operazionalizzò la teoria elitista anche in logica e in matematica, riteneva che i membri delle élite fossero davvero i membri migliori di una società e fossero quindi legittimati a governarla. Per questo egli utilizza il termine aristocrazia. A differenza di Mosca ritiene che il potere non sia monopolizzato da una sola élite, ma che in ogni ambito della società (in ogni sua sotto-struttura) via sia un'élite: in ambito economico, culturale, militare ecc. Pareto, inoltre, riprendendo una differenziazione già compiuta dal Machiavelli, distingue tra un'élite di leoni e un'élite di volpi. I primi usano la coercizione, la forza (la macht weberiana) per comandare; i secondi usano la persuasione e il mascheramento (la herrschaft). Alla lunga sono le élite di volpi a perdurare, perché il loro potere poggia su una legittimità più stabile e duratura. Più che dai problemi di formazione e di costituzione delle élite, Pareto è tuttavia interessato a come le élite vengono sostituite da altre élite. A suo parere esse non sono infatti destinate a durare nel tempo, ma ad essere sostituite; la storia è "cimitero di élite”.

Robert Michels

Robert Michels fu il più controverso tra gli elitisti, ma i suoi studi diedero anche la prova dell'esattezza della tesi elitista. Allievo di Max Weber, fu socialista e membro del Partito socialdemocratico tedesco, nella corrente anarco-sindacalista. Tuttavia, nel suo studio Sociologia del partito politico (1912), egli afferma che persino nel partito socialdemocratico ci sono élite che comandano, perché ovunque vi sia organizzazione vi è anche oligarchia. È l'organizzazione stessa che produce oligarchia, è nel momento stesso in cui si tenta di dare ordine sociale al caos della massa che tende a prevalere un'élite. Lo studio di Michels, riscontrabile poi in molti altri partiti storici (anche se è stato poi criticato e rivisto in seguito) mostra poi come le oligarchie partitiche finiscono per diventare più moderate delle masse che rappresentano, diventano classiste e gelose del loro potere, si imborghesiscono e portano il partito alla moderazione e all'allontanamento dalle ideologie radicali di partenza. Michels si avvicinò poi al fascismo nell'ultima parte della sua vita, che trascorse in Italia. La tesi di Michels è stata denominata "legge ferrea dell’oligarchia"*: l’organizzazione è la madre del predominio degli eletti sugli elettori. Chi dice organizzazione dice oligarchia.

Elitismo e fascismo

Da molti, soprattutto in seguito alla Seconda guerra mondiale, l'elitismo è stato criticato per una sua vicinanza ideologica ai fascismi. In realtà l'elitismo è una teoria politica descrittiva più che prescrittiva, cioè si limita a descrivere la realtà sociale che si delinea con la presenza dell'elitismo, senza proporre una sua visione, un metodo, delle regole da seguire. È innegabile tuttavia una vicinanza di pensiero. Michels, ad esempio, ebbe molti rapporti con Mussolini, esaltandolo anche in alcuni suoi scritti più tardi. Tuttavia Gaetano Mosca non aderì al fascismo, pur essendo un conservatore, ed anzi l'esperienza mussoliniana lo portò a moderare la teoria elitista. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, l'elitismo classico fu sommerso da critiche di vicinanza al fascismo e rinacque in una corrente più moderata negli USA.

Traspare da questi autori un certo timore per il socialismo egualitario; si ha il sentore che la società stia correndo verso l'egualitarismo (percepito perciò da questi come un valore negativo) e si sente il bisogno di porre un freno all’iperdemocraticismo. Nella società si stanno affermando le istanze del darwinismo politico che inducono a considerare la politica secondo una visione ristretta. Le stesse rivoluzioni vengono spiegate e interpretate in chiave elitista: esse non sono altro che la sostituzione della classe dirigente; il popolo è solo strumentale a questa dinamica, le masse sono uno strumento di manovra in mano alle élite politiche in ascesa. Si vuole ribaltare la filosofia della storia la quale affermava che le masse stessero andando verso il potere (rivoluzione, moti del 1848, etc...): le rivoluzioni non sono l'avvicinamento delle masse al potere, bensì lo strumento per il ricambio dirigenziale utilizzato dalle élite. A partire dagli anni ’20, con la pubblicazione della seconda edizione ampliata degli Elementi di scienza della politica di Mosca, la teoria della classe politica viene imponendosi per il suo valore scientifico e non per la sua connotazione ideologica: non è più una teoria destinata a circoli ultraconservatori ma è avvicinata anche da sinceri democratici.

Il neo-elitismo

In seguito alla seconda stesura degli "Elementi di scienza politica" di Mosca prende via un nuovo approccio all'elitismo. Nella seconda edizione dell’opera moschiana si evidenzia come le classi politiche possano trarre alimento dalle classi inferiori: la teoria delle élite si può perciò conciliare con una visione democratica ; il potere si configura cioè come liberal-democratico (dal basso all’alto: classe politica allargata) e non come autocratico (dall’alto al basso).

La teoria elitista è un prodotto della scienza politica italiana, italiani sono anche i due maggiori interpreti democratici e liberali della teoria: Guido Dorso e Filippo Burzio. Dorso sostiene che in ogni società esista un'élite e descrive quali rapporti debbano intercorrere tra classe politica e resto della popolazione. La classe politica deve essere sempre pronta ad accogliere in sé nuovi elementi, essa deve essere scelta dal basso e l’autogoverno locale deve contribuire a questa selezione. Burzio esalta il ruolo delle minoranze, le quali però, secondo lui, si devono proporre e non imporre.

Centrale rispetto alla teoria elitista è anche la figura di Harold Lasswell, il quale introduce la teoria all’interno del dibattito politologico americano. Egli pubblica nel 1936 “Chi ottiene che cosa, quando e come”; in questo libro sostiene che chi studia la politica si deve occupare esclusivamente delle élite. La massa non è di nessun interesse per uno studioso della politica. In “Potere e società” formula una scala gerarchica delle élite: l’élite più importante è quella che detiene il potere, esiste però anche un'élite di tecnici e probabilmente, visto che il mondo si sta sviluppando tecnologicamente, essa andrà ad acquisire sempre più importanza.

Una nuova versione dell'elitismo si è sviluppata dal secondo dopoguerra negli Stati Uniti. Il neo-elitismo parte dello studio di James Burnham dal titolo I neo-machiavellici, proponendo una visione anti-statalista. Burnham scrive “La rivoluzione dei manager”, qui riprende la teoria delle élite e prefigura che la futura classe al comando sarà la classe dei manager: non coloro che detengono la proprietà delle industrie ma coloro che hanno il brainpower per riuscire a portarle avanti deterrà il potere.

Altri studiosi hanno invece parlato di una power élite che usa i mezzi di comunicazione di massa per affermare e mantenere il proprio potere sulla massa passiva e confusa. Uno degli studi più brillanti del neo-elitismo fu svolto nel 1953 da Floyd Hunter nella città di Atlanta. Per scoprire chi fosse realmente al potere nella città, Hunter svolse un'analisi reputazionale, cioè andò a chiedere ai cittadini chi secondo loro fosse al potere. Ne emerse un quadro in cui le istituzioni locali, i posti di lavoro, le scuole ecc. facevano tutte in qualche modo riferimento a un'élite economica dominante.

Questa visione è stata poi criticata da un'analisi svolta nel 1961 da Robert Dahl nella città di New Heaven, che giunse a conclusioni opposte, vicine alle tesi del pluralismo (di cui Dahl era esponente).

Fondamentale è anche l'apporto di Charles Wright Mills il quale scrive “Le élite del potere” (1956), qui muove contro l'idea dell’America come paradiso dell'uomo comune. La società statunitense è in realtà estremamente chiusa e i poteri reali sono nelle mani di poche persone. Esistono tre élite: quella politica, quella economica e quella militare. Esse si coalizzano per impedire l’accesso al potere a persone estranee a questa cerchia. Ad esempio: la figlia di un generale sposerà il figlio di un grande industriale; da un'élite, insomma, si passa ad un'altra (lampante è il caso di Eisenhower che da generale diventa Presidente degli Stati Uniti).
Quindi Mills afferma che i rappresentanti della élite non giustificano la loro posizione per il possesso di capacità superiori, ma solo perché si sono installati in posti istituzionali di comando, e porta come esempio la scarsa importanza assunta dagli ex-presidenti statunitensi. Per Mills, l'elitismo indica inequivocabilmente il segnale di una degenerazione della democrazia, in quanto lede le garanzie istituzionali.

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La legge ferrea dell'oligarchia

La legge ferrea dell'oligarchia, formulata nel 1911 dal politologo tedesco Robert Michels nel suo libro Sociologia del partito politico, teorizza che tutti i partiti politici si evolvano da una struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da una oligarchia, ovvero da un numero ristretto di dirigenti. Questo deriva dalla necessità di specializzazione, la quale fa sì che un partito si strutturi in modo burocratico, creando dei capi sempre più svincolati dal controllo dei militanti di base. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti si "imborghesisce", allontanandosi dalla base e diventando un'élite compatta dotata di spirito di corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a moderare i propri obiettivi: l'obiettivo fondamentale diventa la sopravvivenza dell'organizzazione, e non la realizzazione del suo programma.

Michels, che elabora le sue tesi principalmente grazie all'osservazione del Partito Socialdemocratico Tedesco, fornisce quattro prove a sostegno della sua tesi:

Il punto di vista di Simon Weil

A conclusione d'un saggio del 1950, Note sur la suppression générale des parties politiques, tradotto da Castelvecchi come "Manifesto per la soppressione dei partiti politici", pp. 80, 6,00, Simone Weil scriveva che «quasi ovunque l'operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all'operazione del pensiero.Si tratta d'una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici, e si è espansa, attraverso tutto il Paese, alla quasi totalità del pensiero. Non è certo che sia possibile rimediare a questa lebbra, che ci sta uccidendo, senza cominciare dalla soppressione dei partiti politici». Erano i partiti in sé, non tanto l'idea politica che li sorreggeva (i partiti, pensava Simone Weil, non hanno alcuna idea, specie politica) quanto i propositi di dominio che li animavano, più o meno morbidi che fossero, a dettare le sue parole d'allarme: «La democrazia, il potere della maggioranza non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati efficaci a torto o a ragione. Se la Repubblica di Weimar, al posto di Hitler, avesse deciso, per vie più rigorosamente parlamentari e legali, di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli con metodi raffinati fino alla morte, le torture non avrebbero avuto un atomo di legittimità in più di quanta ne abbiano adesso.»