Alberto Lo Presti
Il pensiero politico di Roberto Michels fra
democrazia, partito politico e oligarchia
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Le vicende intellettuali di Roberto Michels si possono comprendere
sullo sfondo di una biografia complessa, a volte contraddittoria.
Come sempre accade in casi così articolati, attorno alle
motivazioni del pensiero michelsiano sono sorte numerose
interpretazioni le quali, alla fine, rischiano di complicare
ulteriormente la figura dell’autore, lasciandone una immagine a dir
poco schizofrenica.
Di sicuro, riferirsi alla evoluzione della vita e degli studi di
Michels significa riconoscere una dinamica parabolica, nella quale
dall’impegno militarista – si arruolò a soli diciannove anni
– divenne prestissimo un attivista di sinistra, subendo l’influenza
della socialdemocrazia tedesca, per poi giungere al fascismo, con
entusiasmo e convinzione. Così, abbiamo il Michels tedesco
(nasce a Colonia, studia a Berlino, Monaco, Lipsia) e il Michels
italiano (si stabilisce in Italia e dichiara di sentirsi cittadino
italiano), un Michels socialdemocratico (qualcuno lo vuole
addirittura rivoluzionario) e un Michels fascista, un Michels
impegnato in politica e un Michels scienziato sociale convinto che
la politica non poteva proporre soluzioni democratiche. Su questo
sfondo biografico, si distinguono tre grandi momenti dell’evoluzione
del pensiero michelsiano: il momento sociologico, nel quale Michels
costruisce uno studio sulla struttura dei partiti politici; un
momento politico, relativo all’analisi della socialdemocrazia
tedesca; un momento elitista, sul significato delle organizzazioni
di partiti e le possibilità di espressione democratica di un
sistema politico.
Le idee fondamentali, e più conosciute, di Roberto Michels
ruotano attorno a quella che da più parti è
riconosciuta come legge ferrea dell’oligarchia. Non ci sono
dubbi – secondo Michels - sull’esito politico delle forme del potere
democratico: «La democrazia conduce all’oligarchia. E’ tale
non tanto la nostra tesi, quanto la conclusione dei nostri
studi»[1]. Michels è la figura che chiude il periodo di
fondazione dell’elitismo politico moderno, iniziato con le
produzioni di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto. Seppur eterogenei
nei loro contributi, gli elitisti hanno un tipico modo di rafforzare
epistemologicamente le loro argomentazioni: è necessario – si
legge negli esordi dei libri di Mosca, Pareto e Michels – osservare
scientificamente la politica, e non più semplicemente
pensarla. Di conseguenza, è inevitabile che una volta usciti
dalle oniriche analisi metafisiche sulla politica, inevitabilmente –
a loro giudizio – ci si scontra con la «realtà»,
tanto più «reale» quanto separata dal mondo
fantastico di chi anela alla buona politica fondata sul bene comune
e sugli interessi della comunità. La conseguenza di tale
discorso è, per necessità, una concezione pessimistica
e negativa dei rapporti politici.
Insomma, al pari di Mosca e di Pareto, anche Michels si affretta ad
affrancare la sua riflessione da qualsiasi ambito morale,
giacché le sue conclusioni vogliono avere la pretesa di
essere al di là del Bene e del Male, come dovrebbe essere–
secondo loro – per qualsiasi altra legge sociologica. E’ il
ricorrente problema del mascheramento di una posizione pessimistica
con la totemica pretesa scientificizzante della scienza sociale.
Come se bastasse porsi dal punto di vista dell’osservazione
sociologica per vedere la realtà così com’è, e
non così come ci pare più adeguato vederla per una
nostra precisa predisposizione d’animo. Tanto è vero che la
legge sociologica generale, per Michels, è la legge che vuole
ogni aggregato umano tendere, immanentemente, alla formazione di
oligarchie.
La critica a Michels si è interrogata sull’esito pessimista
dell’evoluzione del suo pensiero, procedendo da interpretazioni
diverse. Ricostruire l’origine dell’opera michelsiana e la tipologia
delle interpretazioni è lo scopo del paragrafo successivo ed
è un momento indispensabile per la comprensione delle idee
forti contenute ne La sociologia del partito politico.
1. L’evoluzione del pensiero michelsiano
La questione principale che ha maggiormente impegnato la letteratura
critica su Michels riguarda il passaggio da una posizione politica
democratica-radicale, nella quale Michels è un attivo
intellettuale militante nella socialdemocrazia tedesca della Seconda
internazionale, alla elaborazione del nucleo principale delle idee
sulla «legge ferrea dell’oligarchia».
Il divario ideologico è enorme. Basta far riferimento al modo
con il quale Leszek Kolakowski indica i tratti essenziali degli
aderenti al marxismo degli anni successivi alla Seconda
internazionale. Fra le altre cose, Kolakowski mette in rilievo che
costoro erano convinti dell’inevitabilità del successo
storico del socialismo, dell’universalità del miglioramento
delle condizioni di accesso all’istruzione e alla politica, che il
socialismo rifletteva gli interessi dell’umanità, che la
lotta rivoluzionaria sarebbe stato il risultato della ribellione
delle classi lavoratrici[2]. In pratica, cosa è accaduto in
Michels che lo ha condotto dalla fiducia nella trasformazione rapida
del mondo, alla rassegnazione verso un mondo che mai potrà
cambiare nella struttura del potere politico?
Uno dei modi tipici di analizzare il cambiamento di Michels è
quello di vederlo come un rivoluzionario romantico deluso. In tal
senso, accertata l’apatia e l’inamovibilità del movimento
socialista, Michels avrebbe riformulato le sue scelte di fondo, le
quali saranno il preludio per la sua conclusiva adesione al
fascismo. Se democrazia non può essere, se trasformazioni e
rivoluzione non saranno mai, allora l’esatto contrario è
vero; così nasce la legge ferrea dell’oligarchia. Per questa
linea interpretativa facciamo riferimento soprattutto
all’introduzione di Juan Linz all’edizione del 1966 de La
sociologia del partito politico, ma anche allo studio di
Arthur Mitzman[3].
Un altro modo di valutare la figura michelsiana è quello di
ridimensionare la sua componente socialrivoluzionaria e inquadrare
lo sviluppo del suo pensiero all’interno di una cultura
socialdemocratica intrisa di positivismo marxista. Questa tesi
interpretativa, sostenuta per esempio da Giordano Sivini[4] e da
Pino Ferraris[5], essenzialmente vuole dimostrare che il salto
ideologico fra il “primo” Michels e il Michels fascista è
meno spericolato di quanto si creda.
Un’ulteriore ipotesi interpretativa intende mettere in luce come
Michels abbia mantenuto inalterata la struttura concettuale della
sua opera, mentre l’approccio motivazionale, tanto ideologico quanto
metodologico, è andato trasformandosi per l’influenza di
autorevoli esponenti quali Gaetano Mosca e Max Weber. In sostanza,
non è stato Michels a cambiare bandiera: è il vento
che ha cominciato a soffiare in direzioni opposte.
E’ Paolo Ciancarelli[6] che ravvisa nel concetto michelsiano di
«partito socialista morale» una delle chiavi di lettura
per comprendere il passaggio fra i “vari” Michels. «Ogni
partito socialista è per se stesso un partito morale –
Dovunque il pensiero socialista penetra in un aggregato di
lavoratori, ivi nasce da esso una seriazione opulenta di fattori
morali»[7]. Per Michels il partito socialista è un
modello ideale di partito, in quanto realizzato sulla
contiguità fra il mondo intellettuale di estrazione borghese
e socialista per scelta vocazionale e interessi della classe
proletaria. Il primo, attraverso un’adeguata azione, riesce a
educare le masse proletarie veicolandone le istanze rivoluzionarie.
Il partito socialista è, quindi, il luogo ideale nel quale si
incontrano la forza della dottrina intellettuale con l’azione
politica della classe operaia e questo connubio costituisce il
tratto morale di questa formazione.
D’altronde, Michels si è costantemente confrontato con la
natura e gli scopi dei partiti politici. E’ stata già
menzionata la sua iniziale militanza nel partito socialdemocratico
tedesco; in un periodo successivo individuabile fra il 1906-1907,
ricordiamo il Michels studioso dei gruppi dirigenti e della
composizione dell’elettorato dei partiti socialisti (soprattutto
italiano e tedesco); nella fase conclusiva riconosciamo la sua opera
sulla Sociologia del partito politico. Ebbene, il concetto di
partito, inteso come partito socialista morale, è il tratto
costante dell’evoluzione del pensiero di Michels. A mutare, secondo
Ciancarelli[8], è l’approccio. Il Michels degli inizi
possedeva un ottimismo originario, espressione della sua
operatività ideologica formata nell’ambito della
socialdemocrazia tedesca. Il Michels finale ha sì
subìto la delusione del fallimento del programma
rivoluzionario, ma uno degli aspetti decisivi utili per comprendere
l’evoluzione delle sue posizioni intellettuali deve necessariamente
far riferimento all’incontro con Max Weber.
Fra Michels e Weber intercorse un fitto scambio epistolare durato
dal 1906 al 1915, anno nel quale si registrò una divergenza
fra i due sulla questione della guerra mondiale. L’incontro con
Weber fu decisivo: Weber era un critico accanito nei confronti della
socialdemocrazia tedesca, in quanto la riteneva un partito
fintamente rivoluzionario che, di fatto, bloccava l’azione delle
masse proletarie. Ci ricorda Wolfgang J.Mommsen: «per quanto
contemplasse teoricamente nelle sue riflessioni la
possibilità di forme sociali socialistiche, Weber non vedeva
in fondo nessuna alternativa reale al sistema economico
capitalistico. Per lui, la “rivoluzione socialista del futuro” non
era che una chimera. Al suo allievo Robert Michels, che, sulla base
di idee umanitarie e radicalmente democratiche, si andava
confrontando col problema di un socialismo liberale, Weber replicava
che l’unica alternativa reale era quella fra un socialismo
sindacalistico in senso tolstoiano, dunque completamente fondato su
un’etica della convinzione, e l’accettazione della civiltà
sulla base dell’adattamento alle condizioni sociologiche della
tecnica, sia questa economica, politica o di un qualsiasi altro
genere»[9].
Nel ripercorrere l’opposizione weberiana alle soluzioni socialiste e
marxiste non ci si deve soffermare solo sulla critica al marxismo
volgare contenuta nelle opere sulla dimensione religiosa dei
fenomeni economici. Il rifiuto weberiano è fondato sul
problema della razionalità degli ordini sociali. Questa,
forse, è l’autentica profezia che Weber riuscì a
elaborare ben prima del consolidamento della monumentale macchina
statale sovietica. Weber era convinto che qualsiasi socialismo
razionale avrebbe riassunto in sé le burocrazie della
società capitalistica e che, anzi, ne avrebbe amplificato
l’azione. Questo perché l’ordinamento socialistico avrebbe
dovuto, per necessità, creare una rigida amministrazione
burocratica, organizzata sulla base di regole ancora più
fisse e formali di quelle della società capitalistica:
«l’esigenza di un’amministrazione continua, rigorosa,
intensiva e su cui si possa fare assegnamento, quale l’ha creata il
capitalismo […] e quale ogni socialismo razionale dovrà
semplicemente accoglierla e accrescerla»[10].
Weber si occupò del movimento socialista non solo a partire
dalle questioni teoriche che il dibattito filosofico e sociologico
produceva nei primi due decenni del ventesimo secolo. Egli
partecipò, quale osservatore, al congresso di Mannheim del
1906 del Partito Socialdemocratico tedesco. L’impressione che ne
ricevette fu estremamente tranquillizzante: il livello di
pericolosità rivoluzionaria dell’SPD era praticamente nullo.
Sullo sfondo di questi eventi lo scambio epistolare fra Weber e
Michels si infittisce e Mommsen ricorda proprio il grande ascendente
che il primo ebbe sul secondo nella valutazione dei fatti in gioco.
Addirittura, rileggendo alcune delle lettere scambiate fra i due,
osserviamo l’ammonimento intellettuale che Weber dirige verso il
Michels a causa dell’entusiasmo che ancora quest’ultimo mostrava nei
confronti dell’esperienza socialista sindacale[11].
Lo stretto rapporto con Weber condurrà Michels a pubblicare i
suoi studi sul Partito socialdemocratico tedesco all’interno dell’
Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, rivista
diretta da Weber, sviluppando due temi principali: la denuncia
dell’ambiguità e della inamovibilità del partito e
l’applicazione ad esso dei criteri di valutazione comparata con gli
altri partiti liberali. In pratica, la classica controversia che
insiste nel mondo socialista è quella relativa
all’appartenenza alla classe borghese dei leaders socialisti. La
questione si propone come urgente proprio a livello dottrinale.
Si ricorderà, infatti, come Marx ebbe modo di esprimersi
nelle celebri pagine del Manifesto del Partito Comunista: «in
tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento
decisivo, il processo di disgregazione all’interno della classe
dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere
così violento, così aspro, che una piccola parte della
classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe
rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l’avvenire. Quindi,
come prima una parte della nobiltà era passata alla
borghesia, così ora una parte della borghesia passa al
proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che
sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento
storico nel suo insieme», ma «fra tutte le classi che
oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto
è una classe realmente rivoluzionaria»[12]. Infatti,
secondo Marx i ceti medi come i piccoli industriali, gli artigiani,
i contadini, i commercianti, lottano contro la borghesia con
l’obiettivo di restaurare un ordine precedente che li vedeva in una
situazione di relativa prosperità. Possono fingere di
accompagnarsi alle istanze rivoluzionarie, ma solo quel che basta
per difendere i propri interessi futuri. E il sottoproletariato,
«putrefazione passiva degli infimi strati della
società», in balìa dei cambiamenti, è
quello che spesso rischia di lasciarsi corrompere per delle
finalità apparentemente rivoluzionarie e in realtà
reazionarie.
Insomma, la questione della leadership non proletaria dei partiti
socialisti e socialdemocratico non era una questione da poco. August
Bebel, a capo del partito socialdemocratico tedesco, era per esempio
un tornitore, mentre non si può dire lo stesso di Kautsky;
addirittura, Franz Mehring, pilastro dell’ortodossia al fianco di
Kautsky, divenne socialdemocratico dopo aver condotto
professionalmente un’esperienza da pubblicista e giornalista per la
stampa liberale.
Da queste premesse scaturisce lo sviluppo della formazione
michelsiana. Da una parte, Weber che lo “istiga” a una posizione
avalutativa, nella quale bisognava abbandonare qualsiasi idea di
soffermarsi su ciò che doveva essere il vero interesse delle
masse proletarie a partire da giudizi di valore; dall’altra, il
fondamentalismo etico di Michels che lo portava a valutare nel
partito socialista morale, sorto sull’alleanza degli intellettuali
con la classe operaia, il concetto centrale della sua riflessione.
2. Democrazia e oligarchia
Nel prendere in esame la maggiore, e più conosciuta, fra le
opere di Michels, ossia La sociologia del partito politico,
bisogna preliminarmente operare un distinguo sulle diverse edizioni
dell’opera. La prima edizione apparve nel 1911, in tedesco, e l’anno
successivo in italiano. Michels rimise mano al lavoro nel 1925,
così giustificandosi: «questa seconda edizione si basa
su di un rifacimento radicale della prima, come lo richiedevano le
mutate circostanze ed alcune nuove importanti pubblicazioni
pertinenti all’argomento trattato»[13]. Forse, definire la
nuova edizione un «rifacimento radicale» della prima
è un po’ troppo. Di sicuro, la seconda edizione mostra una
pacatezza e una moderazione maggiore, mentre i contenuti della prima
sono più diretti e, in alcuni casi, polemici. Per i nostri
scopi, volti alla determinazione della struttura pessimistica
dell’argomentazione elitistica, dobbiamo far riferimento anche alla
prima edizione, quale espressione genuina di uno spirito del tempo,
di un preciso atteggiamento scientifico e pessimistico nei confronti
delle controverse circostanze storiche del panorama politico
italiano e europeo.
L’assunto di Michels muove da un sillogismo. Le moderne democrazie
si fondano sul sistema dei partiti politici e questo significa che
costruire un’analisi scientifica delle democrazie deve poter
significare occuparsi delle organizzazioni dei partiti. Anzi, il
funzionamento dei partiti politici è l’indice migliore che
può argomentare lo stato di salute di una democrazia.
Utilizzando quella che lui a più riprese chiama legge
generale della sociologia, cioè quella che vuole ogni
aggregato umano costruire oligarchie, allora la sorte della
democrazia, che si regge su aggregati come i partiti politici,
è segnata. Infatti, nella concezione di Michels il principio
di sovranità popolare affermato dall’idea di democrazia
è una menzogna. I partiti politici, per la loro stessa
natura, producono leadership di potere in senso oligarchico.
Questo significa, principalmente, che l’analisi delle forme del
potere politico si riduce ad una analisi del diverso grado di potere
oligarchico presente nel sistema politico. Dal potere monarchico,
massimo grado di espressione dell’oligarchia, alla democrazia, nella
quale la numerosità di coloro che appartengono alla classe
dominante si estende in misura maggiore. Impostata così la
riflessione, è ovvio che una democrazia nella quale la classe
al governo fa i propri interessi e non quelli della nazione è
più dannosa rispetto ad una monarchia basata su una larga
rappresentanza del ceto dominante. Ma non si deve credere che
Michels introduca chissà quale criterio storiografico di
demarcazione fra i diversi gradi di espressione del potenziale
oligarchico. Semplicemente, la soluzione dipende dal grado di
riproduzione della classe al potere, di natura conservatrice e
prodigata alla tutela dell’unico motivo reale per la gestione del
pubblico potere: mantenere la posizione di dominio.
Secondo Michels fra aristocrazia e democrazia c’è uno stretto
legame che deve essere messo in rilievo se si vuole procedere
scientificamente alla valutazione degli ordinamenti politici
esistenti. Si tratta di un mutuo rapporto di necessità,
giacché se è vero che l’aristocrazia, che aspira alla
conservazione del potere politico, è costretta a presentarsi
con peculiarità tipiche della democrazia, è
altrettanto vero che il contenuto della democrazia è,
inevitabilmente, penetrato di elementi aristocratici.
Questa oligarchia possiede una capacità di conservarsi
superiore a qualsiasi destino storico e, pur di non perdere la
posizione di dominio, «ama mutar di maschera e di
coccarda» - dice il Michels nella prima edizione della sua
opera - così che «la corrente di pensiero conservatrice
[…] ci appare oggi legata all’assolutismo, domani al
costituzionalismo, dopodomani al parlamentarismo»[14]. Lo
svolgersi della storia politica, in tal senso, è subordinato
alle dinamiche vissute dalla classe al potere politico, e in
particolare dalle trasformazioni del vecchio ceto aristocratico. Le
aristocrazie di un tempo sono ormai sconfitte dall’avvento della
modernità e del sistema dei partiti politici. Di questi
ultimi, anche quelli conservatori devono far riferimento all’azione
della società civile e della massa, per cui devono cedere
qualcosa alla purezza del principio oligarchico: «anche se per
loro natura restano antidemocratici, essi si vedono obbligati,
almeno in determinati periodi della vita politica, a fare
professione di democrazia o anche a ostentare una fede
democratica»[15]. Addirittura, sembra sottolineare Michels,
«l’istinto di autoconservazione che agisce anche in politica,
spinge elementi dei vecchi gruppi dominanti a scendere dall’alto dei
loro posti di privilegio durante il periodo elettorale per dare di
piglio a quegli stessi strumenti democratici e demagogici di cui si
vale la più giovane, numerosa e incolta delle nostre classi
sociali, il proletariato»[16].
E’ sicuramente la seconda parte del rapporto aristocraziademocrazia
ad essere rilevante. Cosa intende Michels quando afferma che il
contenuto della democrazia si compone di elementi tipici della
dottrina aristocratica? Innanzitutto, per «contenuto della
democrazia» Michels non fa riferimento alle regole dell’azione
istituzionale democratica, ma ai tratti teorici tipici del pensiero
democratico così come è stato sviluppato dai filosofi
e dai pensatori politici.
Secondo Michels, la teoria del pensiero liberale non basò,
all’origine, le sue aspirazioni sulle masse. Il suo riferimento
furono i nuovi ceti borghesi, già dominatori nel campo
economico ma che ancora erano esclusi dal potere politico. Preparato
in questo modo, il giudizio non può che essere impietoso: per
i nuovi ceti borghesi «le masse pure e semplici risultavano un
male necessario, sfruttabile unicamente per raggiungere scopi cui
esse erano estranee»[17]. Michels cita una quantità di
storici e filosofi che così interpretano l’evoluzione dei
movimenti liberali e democratici: dalla raccolta di articoli
contenuta ne The Federalist, di Hamilton, Jay e Madison, a Carl von
Rotteck, Friedrich von Raumer, Heinrich von Sybel, Wilhelm Roscher.
In questi pensatori troviamo un’accesa avversità per il ruolo
delle masse nella vita democratica di un Paese. Se la democrazia
può manifestarsi in due modi, cioè come dominio dei
rappresentanti o come dominio della massa, bisogna osservare che
nella storia del pensiero politico i primi sostenitori del
liberalismo hanno percepito la seconda opzione in modo più
negativo. Michels rievoca alcuni di quelle considerazioni più
incisive orientate sull’accidentalità e potenziale
dannosità del coinvolgimento delle masse nelle grandi
dinamiche politiche. Per esempio, la peggiore delle azioni
storiche fu quella compiuta dalla monarchia francese, la quale
costrinse la borghesia ad allearsi con le masse popolari. Ancora,
cita quelle considerazioni di pensatori liberali contrarie al
suffragio universale. Ma sulla critica a queste pretese di
riconoscere nell’azione delle masse un effetto non contemplato nelle
ispirazioni del movimento liberale e borghese si vedano le
considerazioni svolte nel primo capitolo.
Riprendendo un tema caro al Mosca, Michels osserva come alla base
delle dinamiche politiche vi sia una legge uniforme: qualsiasi
gruppo si trovi a gestire il potere politico aspira, e progetta, di
conservare questo dominio trasmettendolo ai propri discendenti.
Emerge in questo frangente la visione antropologica del Michels:
l’uomo sociale agisce sollecitato dai suoi istinti che, in ogni
settore, gli impongono un imperativo, quello di tramandare in
eredità il suo possesso. D’altronde, è questo stesso
principio generale che ha dato origine alla matrice borghese
dell’istituto della famiglia, che nasce con l’indissolubilità
del matrimonio e la condanna dell’adulterio proprio perché,
secondo il Michels, l’uomo che giunge a un certo benessere economico
ha, per istinto, l’esigenza di tramandare in eredità il suo
possesso al figlio legittimo[18]. Includendo negli oggetti di
possesso privato da trasmettere ereditariamente anche il potere
politico, ecco che la dinamica dei gruppi al potere è
praticamente scritta: il gioco delle parti consiste in coloro che
cercano di conservare la propria posizione di dominio e negli altri
che cercano di soppiantare i poteri dei primi.
Si noti bene che, secondo il Michels, questa dinamica è
superiore a ogni istituzione di diritto pubblico, quindi sarebbe
veramente fuorviante – sempre per Michels – credere che nelle
moderne democrazie queste dinamiche perverse non avvengano. Quello
che veramente è tipico del corredo democratico di un assetto
istituzionale consiste nella possibilità che ciascun gruppo
in competizione politica ha di condire la propria posizione
con una buona dose di ipocrisia illimitata. Si scopre, per esempio,
che tutti quelli che, nella modernità, hanno mosso una
opposizione ai privilegi e ai costumi dei vecchi ceti aristocratici
ne hanno, una volta raggiunto il potere, ricopiato le espressioni
tipiche.
Ma un altro modo assai caratteristico di misurare l’illimitata
ipocrisia di chi lotta per conquistare il potere politico è
quello di osservare come si serve dell’etica per i suoi scopi. Tutti
i gruppi contendenti, in pratica, si servono di argomentazioni
etiche volte a dimostrare il bene universale che la loro azione
politica persegue, mentre a vedere meglio non stanno altro che
rincorrendo i propri particolarissimi ed egoistici fini.
Così, nell’arena politica si sente inneggiare alla
liberazione di tutto il genere umano, alla lotta in nome del popolo,
alla volontà di affermare giustizia ed uguaglianza sociale,
mentre si cerca nient’altro che la conquista del proprio dominio.
Ora, in queste riflessioni di Michels si può leggere una
posizione che vuole l’ordinamento democratico un naturale
“amplificatore” di questa tendenza: «nell’era della democrazia
l’etica è un’arma di cui ciascuno può valersi»,
«le democrazie sono parolaie», «il demagogo,
questo frutto spontaneo del terreno democratico, trabocca di
sentimentalità e di commozione sopra i dolori del
popolo»[19].
Il fattore innovativo portato dalla democrazia moderna è
l’organizzazione. In pratica, è attraverso l’organizzazione
che si può impostare il libero conflitto politico fra gruppi
forti e gruppi meno forti, in quanto è l’organizzazione che
riesce a fare della solidarietà fra i deboli aventi uguali
interessi una struttura in grado di competere per il potere
politico. In sintesi, la lotta politica democratica richiede una
certa organizzazione delle parti, la quale consente alle masse di
competere per il potere, ma che produce anche effetti indesiderati,
controproducenti, vale a dire il dilagare dello spirito conservatore
all’interno dell’arena politica. Infatti, quando parliamo di un
partito popolare, di un partito che vuole essere a favore delle
masse, dobbiamo chiarire che esso non può essere direttamente
guidato dalle masse. «Chi dice organizzazione dice tendenza
all’oligarchia»[20]. Infatti, realtà come i partiti
politici hanno bisogno di delegati che sbrighino gli affari correnti
e che possano prendere decisioni immediate. Ai primordi della
formazione di queste strutture partitiche, il delegato è
indissolubilmente legato alla volontà della massa. Ma con la
specializzazione dell’impresa politica, si richiedono ai delegati
maggiori cognizioni e particolari abilità. Ecco che nasce
l’esigenza di formare i delegati del partito, attraverso corsi e
scuole adatti, e il risultato fu quello di creare élites di
aspiranti al comando del partito, comunque dirigenti delle masse. E’
questo processo che fa dei delegati originari sottoposti alla
volontà delle masse, un organismo indipendente ed emancipato
dalla massa. Per tale ragione è implicita l’oligarchia dentro
una qualsiasi organizzazione partitica. In pratica, il meccanismo
dell’organizzazione è tale per cui ogni partito viene diviso
«in una minoranza che dirige ed una maggioranza che è
diretta»[21]. A questo punto si noterà come il Michels
abbia praticamente trasportato l’idea originaria che Mosca aveva
proposto per le realtà politiche in toto all’interno delle
unità del sistema come i partiti politici. La prospettiva
teorica elitista trova in Michels la “quadratura del cerchio”: dal
sistema politico nazionale all’organizzazione di partito, la regola
della formazione dell’élite politica permea tutta la sfera
dell’azione politica. In Michels, ancora, risuona con forza il credo
delle teorie politiche pessimistiche: nell’arena politica gli
individui possiedono un certo numero di interessi di base; il potere
politico è qualcosa per cui lottare e una volta acquisito -
non importa in che modo - si deve difendere, conservare e
tramandare; le idee etiche, i valori, altro non sono che armi per
ingaggiare questa lotta e costruire una parvenza di bontà
universale che possa celare i reali interessi particolari in gioco.
3. L’organizzazione e la conservazione
Lo schema teorico di Michels è lineare nella sua
articolazione: le moderne democrazie richiedono un alto livello di
organizzazione politica e tale organizzazione genera delle strutture
di potere che suddividono anche l’interno dei partiti politici in
una maggioranza che dirige e in una massa diretta.
Michels costruisce una teoria generale delle cause che producono,
nell’organizzazione democratica, l’insorgenza dei meccanismi
dell’oligarchia. Tale teoria affonda le proprie radici in questioni
di carattere psicologico, relativo al comportamento dei leaders
nelle situazioni di potere, e in questioni di psicologia collettiva,
relative alle propensioni delle masse per l’avvento di una
conduzione autorevole della loro vitalità politica. In tal
senso, il ritratto psicologico del membro dell’oligarchia che il
Michels traccia è abbastanza fosco: il leader possiede una
naturale sete di potere tipica in chiunque si lanci nel mondo
politico, prende coscienza del proprio valore e costruisce la
propria abilità, la propria eloquenza e la propria
intelligenza in vista dello scopo della massimizzazione del dominio.
Ma il pessimismo michelsiano raggiunge forse il suo apice nella
considerazione di come le masse siano per definizione apatiche,
abbiano il bisogno di essere comandate, sono pronte ad una
riconoscenza senza limiti nei confronti di chiunque dia loro una
prospettiva, possiedono una tendenza innata alla venerazione dei
capi e al culto della personalità. Se la visione del Michels
si struttura sulla innata propensione dei capi ad emergere a
qualunque costo e sulla incapacità delle masse di non essere
manovrate a piacimento, allora è ovvio che l’intero castello
teorico politico è orientato verso il più assoluto
pessimismo.
Neanche dentro l’oligarchia soffia il benché minimo vento di
concordia: la lotta fra i leaders può originarsi per
molteplici ragioni, come la distanza generazionale, la diversa
origine sociale, o semplicemente da visioni diverse. Due forme
particolari di lotta sono quelle fra i leaders provenienti dalle
fila del partito e coloro che, invece, hanno raggiunto l’oligarchia
al di fuori di esso; come dice Michels: «tra gli “alti
papaveri di partito” e personalità spesso già famose
che giungono alla ribalta improvvisamente»[22]. Particolare,
ancora, è il confronto fra la leadership di tipo burocratico
e quella di tipo demagogico. In pratica, Michels ci sta indicando
una ulteriore differenziazione nelle minoranze dirigenti dei partiti
moderni: da una parte i leaders eletti che dipendono dal consenso
delle masse, dall’altra i leaders burocratici, che hanno raggiunto
la loro posizione di vertice attraverso il controllo della macchina
del partito. Ma attenzione, alla fine in ogni visione michelsiana
prevale la generale predisposizione alla conservazione del potere,
per cui Michels nota come accada frequentemente che la leadership
burocratica e quella demagogica finiscano per allearsi o
fondersi[23]. La fusione fra i diversi interessi presente nelle
oligarchie diventa evidente quando osserviamo il funzionamento del
meccanismo della cooptazione. I leaders affermati, infatti, ormai
lontani dalla base delle masse, tentano di colmare il vuoto
attraverso la cooptazione di coloro che invece riscuotono il
consenso e che potrebbero insidiare il loro potere. La cooptazione,
solitamente, consiste nell’attribuire a tali figure delle cariche
prive di reali poteri, ma comunque onorifiche. Il risultato è
che «i leaders dell’opposizione ottengono nel partito alte
cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal
modo sono loro precluse le cariche più importanti ed essi
rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter
sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi
condividono ora la responsabilità delle azioni compiute
insieme agli avversari di una volta»[24].
«L’atto finale di questo processo consiste non tanto in una
circulation des élites, quanto in una fusion des
élites»[25]. In questo frangente teorico avviene un
momento interessante di confronto fra la teoria del Michels e quella
del Pareto. Michels sembra proporre una visione alternativa a quella
di Pareto; in realtà è bene precisare che la sua
teoria si sofferma sulla vitalità dei moderni partiti di
massa, vitalità che potremmo dire fissata nel quotidiano,
nella cronaca dei singoli momenti dell’organizzazione partitica (il
congresso, la segreteria, le elezioni). Ecco, forse le strategie e
le tattiche quotidiane possono leggersi utilmente attraverso la
teoria conservatrice di Michels basata sulla tendenza alla fusione
dei gruppi oligarchici, mentre la visione di Pareto, a dire il vero,
è assai più ampia nella considerazione dell’evoluzione
storica delle dinamiche sociali. Pareto fonda, lo ricordiamo, le sue
argomentazioni sull’equilibrio dinamico del sistema sociale,
interpretabile a partire dalla sfera dei residui in attuazione i
quali conferiscono a coloro che meglio riescono a esprimerli una
posizione dominante. Le trasformazioni dei residui, e le conseguenti
sollecitazioni ai gruppi dell’élites, si stagliano in un
orizzonte temporale assai diverso rispetto alle vicissitudini
quotidiane che il Michels osservava nel Partito socialdemocratico
tedesco.
In definitiva, le oligarchie dei partiti politici sono continuamente
minacciate da due forze: una esterna, consistente nell’orientamento
delle masse che potrebbe produrre cambiamenti al vertice se non
stravolgimenti, in caso di ribellione; una interna, dovuta al gioco
di potere partecipato dagli ulteriori sottogruppi differenziati
all’interno dell’oligarchia. In tale situazione, come si può
pretendere – pensa il Michels – che possano esserci comportamenti
virtuosi nell’arena politica? «Ed è da questo che
deriva in tutti i moderni partiti popolari la profonda mancanza di
vero spirito di fratellanza, cioè di fiducia negli uomini, ed
il conseguente stato latente e continuo di belligeranza, quello
“spiritus animi” sempre teso che ha dato luogo alla diffidenza
reciproca dei leaders, diffidenza che è diventata una delle
caratteristiche essenziali della democrazia»[26].
La posizione del Michels è, a questo punto, chiara nelle sue
premesse e nelle sue conclusioni. L’analisi si basa sui processi in
atto nelle democrazie moderne per conquistare il potere politico.
L’organizzazione politica è la novità della
modernità: essa costruisce i percorsi per giungere al potere,
e una volta partecipi del potere ogni individuo, di fatto, smette i
panni del progressista o dell’innovatore per vestire quelli del
conservatore. E’ un processo che non conosce impedimenti e che
soffoca ogni buona propensione verso una politica che costruisca i
buoni ideali. In tal senso, le macchine organizzative dell’arena
politica non si confrontano più sul piano delle visioni
teoriche o idealistiche, piuttosto competono per il consenso di una
certa base elettorale. Gli obiettivi, allora, si trasformano: dagli
assetti desiderabili della società in avvenire all’acquisto
del maggior numero di voti da realizzarsi subito. In tutto questo,
diatribe e risentimenti personali diventano gli eventi tipici della
cronaca quotidiana e ogni riferimento a idealità o a valori
disturba l’incessante lotta fra le fazioni, mentre è
desiderabilissima se può tornare utile nel contenzioso. Anche
il parlamentarismo è uno strumento piegato a queste
«occulte» esigenze: «Parlamentarismo significa
aspirazione al maggior numero possibile di voti»[27], proprio
come «Organizzazione di partito significa aspirazione al
maggior numero possibile di iscritti»[28].
Soprattutto i partiti socialdemocratici pagano un alto costo a
questa dinamica. Sono loro, infatti, che per aumentare il consenso,
tradotto in voti e in inscritti, devono in un certo senso “diluire”
il proprio messaggio ideologico per proporlo favorevolmente anche a
settori non immediatamente identificabili con gli interessi della
classe proletaria. Forse, la maggiore evidenza dell’incongruenza fra
le idealità della socialdemocrazia e la prassi politica
“corrotta” dall’organizzazione si ha quando si esamina il rapporto
del partito con lo Stato. L’ideologia dei partiti socialisti postula
l’estinzione dello Stato nella futura società comunista,
ritenendolo superfluo e strumento di oppressione. Nonostante la
purezza di questa convinzione, tuttavia, Michels osserva come le
pressanti esigenze organizzatrici del partito abbiano, di fatto,
centralizzato le funzioni direttive le quali si esprimono con
efficacia quando riescono a imporre autorità e disciplina.
Per tale via, «il partito politico-rivoluzionario è uno
Stato nello Stato, che in teoria dichiara di perseguire lo scopo di
svuotare e di distruggere lo Stato presente per sostituirlo con uno
Stato completamente diverso»[29]. E’ inarrestabile il declino
del fuoco ideologico dei partiti rivoluzionari: il «dinamismo
rivoluzionario» viene soffocato dalle esigenze di
un’organizzazione politica che deve continuamente richiamare la
propria azione alla prudenza per conservarsi nella stabilità.
E’ in tal modo che la macchina organizzativa del partito
rivoluzionario, creata con lo scopo del sovvertimento dei rapporti
di forza, diviene invece un fine in sé: «l’organo
finisce per prevalere sull’organismo»[30]. Ipoteticamente, il
Michels adombra la possibilità che forse anche Marx, il quale
dovrebbe insorgere contro questo stato di fatto dei partiti
marxisti, forse invece cederebbe di fronte alla tentazione della
gloria promossa da numerosi partiti intitolati al suo nome. Insomma,
il giudizio penoso che vuole le socialdemocrazie e i movimenti
rivoluzionari organizzati come partiti ideologicamente rivoluzionari
ma concretamente conservatori non conosce limiti e, secondo il
Michels, rivela al meglio la reale e inarrestabile tendenza insita
in ogni organizzazione politica.
Michels richiama l’attenzione sull’idea fantasiosa di democrazia e
sulla impossibilità della sua realizzazione ideale. E’
più confacente all’analisi reale dei rapporti politici
prendere atto, attraverso la rilevazione empirica delle loro
manifestazioni, dell’esistenza di una classe politica suddivisibile
in coloro che dominano e in quelli che sono dominati. Passi pure il
principio giuridico di definizione dell’ordinamento democratico:
è, sembra dire il Michels, una buona dichiarazione d’intenti,
ma nulla più. La realtà dei rapporti politici, come ci
insegnano Mosca e Pareto, conferma invece che dalle lotte fra
aristocrazia e popolo fino alle lotte di classe dell’era moderna, la
dinamica politica è interamente articolata sul conflitto per
il potere, sull’eterno antagonismo fra chi comanda e coloro che,
comandati, aspirano a soppiantare i primi.
4. Élites e democrazia
Qual è il destino della democrazia, alla luce del pensiero di
Michels? Michels non produce alcuna visione normativa sulla
questione, in adesione all’insegnamento weberiano della distinzione,
nell’impresa scientifica, fra giudizi di fatto e giudizi di valore.
Michels compie, invece, un’accurata analisi politologica su quelle
che potremmo chiamare “cause fisiologiche” della distanza fra la
teoria della democrazia e la sua realizzazione storica. Il momento
critico potrebbe riassumersi nel capovolgimento della funzione etica
nel discorso michelsiano: se l’ideale di democrazia si riscontra
nell’eticità della partecipazione politica diffusa e per
consenso, il pessimismo michelsiano osserva come questa etica altro
non è che uno strumento per raccogliere fortuna e gloria.
Così, nella lotta – più o meno subdola – per il
potere, «l’etica […] non sarebbe altro che una
finzione»[31]. Insomma, il fatto innegabile, la costante di
ogni trasformazione politica, l’unica universale regola sociologica
rimane la costituzione di una classe politica, di una élite
di potere, in ogni società organizzata.
Gli elementi teorici che sostengono questa concezione possiamo
riassumerli in cinque punti.
Al primo posto, in accordo con la scarsa considerazione che Michels
ha sempre mostrato nei confronti delle masse, troviamo
l’indifferenza e la noncuranza politica della maggioranza. Non ha
senso affermare il principio che vuole il rappresentante politico
collegato e controllato alla sua base elettorale e alla popolazione
intera. Questa è una «leggenda» del
parlamentarismo. Coloro che si occupano della vita politica, fra il
popolo, sono veramente una esigua schiera, e «soltanto
l’egoismo è capace di stimolare gli uomini allo scopo di
preoccuparsi dello Stato, e se ne preoccuperanno infatti appena le
cose andranno molto male per loro»[32].
Ma non è solo questa diffusa apatia delle masse a determinare
l’ineluttabilità della legge dell’oligarchia. Al secondo
posto il Michels cita i meccanismi impliciti nella rappresentanza
politica. Il parlamentarismo pone le basi perché si
costituisca un gruppo che «mediante delegazione» governa
sulla maggioranza. Altro che governo del popolo: è il governo
di quella parte del popolo che rappresenta tutto e tutti. Dice il
Michels: «tra la monarchia e la democrazia, basate tutte e due
sul principio della delegazione, non c’è che una “differenza
di tempo”, insignificantissima, e non d’essenza. Il popolo “sovrano”
si sceglie, invece di un re, tutta una assemblea di piccoli re, ed
incapace di esercitare liberamente il suo dominio sulla cosa
pubblica, esso si lascia spontaneamente confiscare i suoi diritti.
L’unica cosa che la maggioranza si riserba, è quella
sovranità climaterica e derisoria che consiste nell’eleggere,
dopo un dato periodo di tempo, dei nuovi padroni»[33].
Al terzo posto troviamo il ben noto principio
dell’ereditarietà, che vuole qualsiasi classe dirigente
tendere a trasmettere il proprio potere alla discendenza. In ogni
ordinamento politico, allora, non solo si dà l’oligarchia, ma
a parere di Michels «l’aristocrazia si stabilisce in via
automatica, anche in quegli Stati che la escludono»[34].
Il quarto posto è occupato da un tema trattato nel paragrafo
precedente. Esso riguarda lo sviluppo della burocrazia statale al
servizio e a difesa della classe politica. Per giustificarla, il
Michels ricorre all’istinto di conservazione dello Stato moderno,
che si protegge allestendo una cintura attorno a sé di
burocrati il cui interesse coincide con il suo. A dimostrazione
della funzionalità del rapporto fra gli interessi della
burocrazia e quelli dello Stato, il Michels fa notare le
vantaggiosissime condizioni economiche che normalmente vengono
accordate a coloro che lavorano nel settore della pubblica
amministrazione dello Stato.
All’ultimo posto troviamo la propensione dei partiti
socialdemocratici a distaccare una élite proletaria e ad
inserirla dentro la classe politica. Questo processo, innanzitutto,
è un processo spontaneo. L’attivismo dentro il partito
può essere l’occasione per compiere una scalata verso il
successo e gli onori della carriera politica. In questi termini,
l’impegno politico è confrontabile con qualsiasi
attività lavorativa: da esso si può trarre il
sostentamento per la propria vita e un mezzo per dare espressione
alle proprie ambizioni. In questo ambito il Michels fa un paragone
discutibile, accostando la carriera degli elementi proletari
all’interno dei partiti socialdemocratici alla
«carriera» che possono fare gli elementi contadini e
piccoli borghesi all’interno della Chiesa cattolica. Così
come ci sono numerosi Vescovi che provengono da famiglie povere di
lavoratori agricoli, la leadership dei partiti socialdemocratici
è costituita da elementi del mondo proletario. Troppo facile
vanificare il tentativo analogico del Michels, a partire dalla
considerazione che la Chiesa non rappresenta le istanze del mondo
agricolo così come invece i partiti socialdemocratici
promuovono le ragioni del mondo proletario; oppure che le “carriere”
in seno alla Chiesa non rispondono, di sicuro, ai requisiti
richiesti per far concorrere elementi proletari alla leadership in
seno al partito, e così via. L’effetto finale di questo
carrierismo politico, comunque, è la costituzione di una
élite proletaria che subisce una metamorfosi importante, che
per il caso tedesco porta il Michels a considerare che «il
gruppo socialista nel Reichstag, il quale d’origine era proletario,
coll’andar del tempo è diventato un genuino campione della
borghesia»[35].
In conclusione, il pessimismo conduce la riflessione di Michels alla
circolarità dell’interpretazione del rapporto politico fra
élites e masse. In pratica, si crea una oligarchia in seno a
ogni organizzazione politica per via del generale e naturale
disinteresse delle masse per le vicende politiche, e dall’altra
parte si afferma che la diffusa presenza di élites di potere
di fatto esclude le masse allontanandole dall’arena politica in modo
da preservare il potere in coloro che lo occupano e gestiscono. Il
rapporto non ha soluzione; d’altronde, accade sempre così
quando si critica un impianto ideologico – la socialdemocrazia nel
caso del Michels – opponendo un orientamento di pensiero altrettanto
chiuso come il pessimismo politico.
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NOTE
[1] R. Michels, 1911, tr.it., 1912, p.XIII.
[2] Kolakowski L., 1977; tr.it., 1983, pp.10-11.
[3] A. Mitzman, 1973.
[4] G. Sivini, “Introduzione” a R. Michels, 1980.
[5] P. Ferraris, 1982, 1985.
[6] P. Ciancarelli, 2000.
[7] R.Michels, 1905; tr.it., 1908, p.276.
[8] P. Ciancarelli, 2000, p.11.
[9] W. J. Mommsen, 1974; tr.it., 1993, p.184.
[10] M. Weber, 1922; tr.it., 1995, vol.1, p.218.
[11] W.J. Mommsen, 1974; tr.it., 1993, p.189.
[12] K. Marx, 1848; tr.it., 1948, p.113.
[13] R. Michels, 1926; tr.it., 1966, p.18.
[14] R. Michels, 1924; tr.it., 1966, p.27.
[15] Ibid.
[16] Ibidem, p.32.
[17] Ibidem, p.35.
[18] Ibidem, p.41.
[19] Ibidem, pp. 16-17.
[20] Ibidem, p. 33.
[21] Ibid.
[22] R. Michels, ***, p.260.
[23] Ibid.
[24] Ibidem, p.270.
[25] Ibidem, p.275.
[26] Ibidem, pp.261-262.
[27] Ibidem, p.487.
[28] Ibid.
[29] Ibidem, p.488.
[30] Ibidem, p.495.
[31] R. Michels, 1907; ora in 1989, p.432.
[32] Ibidem, p.436.
[33] Ibidem, p.438.
[34] Ibidem, p.439.
[35] Ibidem, p.447.
*
Dipartimento di
Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS
Working paper n. 165 May
2010
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDR
Corrado Malandrino
Il pensiero di Roberto Michels sull’oligarchia, la classe politica e
il capo carismatico. Dal Corso di sociologia politica (1927) ai
Nuovi studi sulla classe politica (1936)
1. Premessa
In un intervento destinato a sviluppare il tema della critica di
Gramsci alla sociologia michelsiana del partito1, dal quale per
collegamento storico e logico-contenutistico il presente contributo
prende le mosse facendo esso parte di una sistematica
Michelsforschung, scrivevo che a partire dalla sua riscoperta negli
anni cinquanta-sessanta2 si sa bene che Michels – sulle orme di
quella che lui stesso amava definire la “scuola mosco-paretiana”3 –
si qualificò come uno dei più acuti osservatori
elitisti della crisi oligarchica novecentesca della forma-partito in
regime di democrazia.
La principale tesi michelsiana – che diede luogo alla enunciazione
della nota “legge ferrea dell’oligarchia” -, facendo tesoro della
distinzione moschiana tra governanti e governati e dei suggerimenti
avuti da Weber sul problema della burocrazia, s’incentrò
sull'ineluttabile spaccatura tra masse e capi, tra dirigenti e
diretti, che prelude nella ricostruzione michelsiana alla
degenerazione burocratico-oligarchica del partito democratico e
socialista-democratico. Questa tesi fu applicata non solo
all’analisi specifica del partito in regime politico democratico, ma
fu adottata anche per la critica della teoria dell'organizzazione
del partito politico e generalizzata a ogni tipo di partito, anche
in regimi socialista e comunista, trovando oppositori tra i teorici
socialdemocratici nella Seconda Internazionale prima della Grande
guerra, e soprattutto dopo, nella Zwischenkriegszeit, negli
esponenti più avvertiti del rivivificato marxismo della Terza
Internazionale e del comunismo europeo. Non ci sarebbe molto da
aggiungere, in merito al tema, alle interessanti notazioni (solo per
citare alcuni nomi) di Gallino, Pizzorno, Ripepe, Sartori, Sola in
Italia, e di Conze, Eldersveld, Duverger, Linz, Lipset, fuori
d'Italia.4
Sarebbe antieconomico ripercorrere l'affollato susseguirsi di
interventi, brevissimi alcuni, più approfonditi altri, di
illustri sociologi, scienziati politici, storici, filosofi, che si
sono avvicendati nella discussione da più punti di vista. Sul
punto si può concludere che – grazie a questa messe di studi
-la teoria michelsiana della degenerazione oligarchica della forma
partito e del regime democratico, relativamente alla formulazione
datane nel primo ventennio del Novecento, sia diventato un classico.
Mi sembra di maggior interesse domandarsi (e indagare) che ne
è stato di essa nella seconda metà degli anni venti e
negli anni trenta, per verificare se lo sviluppo delle ultime
riflessioni di Michels sull’oligarchia carismatica, in quanto
caratterizzata appunto dal carisma del “capo” totalitario del
regime, abbia aggiunto qualcosa di essenzialmente nuovo e
significativo a questa dottrina politica.
2. La critica di Gramsci
Michels è stato oggetto di molte critiche, di metodo e di
contenuto, da parte della cultura democratica del secondo
dopoguerra, forse anche di "pregiudizi" non correttamente fondati
come sostiene Ettore Albertoni5, anche se nella specifica materia di
cui ci si occupa qui egli sembrerebbe riguadagnare considerazione,
come ha rilevato Eugenio Ripepe in un saggio del 1989 dedicato a
Roberto Michels oggi6, in parte autocritico rispetto alle sue
riflessioni dell'inizio degli anni settanta7, nell 'ambito degli
studi sull'elitismo.
L’ingenerosità delle stroncature mosse da Gramsci a Michels
e, in alcuni casi, le sue imprecisioni derivarono con ogni
probabilità proprio dal mancato e perspicuo riferimento al
maggior testo michelsiano, come ho cercato di dimostrare nel saggio
citato in apertura. L'avversione gramsciana contro Michels
scaturì da un insieme di valutazioni che non riguardavano
tanto, o solo, la questione partito, e che rimandavano invece a un
quadro reso più complesso da altri fattori, tra cui quello
del “nazionalismo italiano” esibito da Michels e il suo ruolo di
“ambasciatore” e propagandista del regime fascista ebbero decisiva
importanza.8
Ma, per restare al tema di oggi, si potrebbe appunto iniziare
coll’analisi gramsciana della sociologia michelsiana del partito che
prendeva le mosse non già dal classico riedito nel 1924 in
Italia (che Gramsci fece acquistare, ma non lesse in modo puntuale e
arricchendo la sua lettura con i commenti che usava consegnare ai
Quaderni9), bensì dalla lettura dell 'articolo michelsiano
del 1928 sulla “classificazione dei partiti politici”10, che
corrisponde – questo sì - ai rilievi comparsi nei Quaderni.
Questo articolo introduceva, con il Corso di sociologia politica
dell’anno precedente11, l’elemento carismatico prima assente, nella
dottrina michelsiana dell’oligarchia. Si noterà che il titolo
di questo articolo, nelle edizioni inglese e italiana, connetteva
più sobriamente e tecnicamente "le partis politiques" non con
la "contrainte sociale" del titolo francese, ma con "the
sociological character" e con il concetto della "classificazione dei
partiti politici". Poiché i testi erano pressoché
identici, Michels voleva sottolineare nel titolo aspetti differenti
per destinatari diversi. Ma la sostanza non cambiava, essendo
effettivamente l'elaborazione mirata a elencare e a giustificare in
modo rapido una serie di definizioni tipologiche di partiti
politici. Una volta enunciato il carattere di "fazione", comunque
intrinseco al concetto generale di partito, e aver ricordato
weberianamente le cause e la finalità dell'organizzazione
partitica, in quanto associazione di lotta tendente alla conquista
del potere (Machtstreben )12, e a farsi Stato nello Stato, Michels
tratteggiava una lista di tipi di partito, né completa
né esauriente nelle singole definizioni.
Gramsci inseriva nel suo riassunto dell’articolo tra parentesi vari
punti interrogativi o commenti (del tipo "inesatto") laddove
riscontrava nel filo espositivo michelsiano risvolti sui quali
ironizzare, oscurità, oppure salti logici o storici. Ma
appariva evidente che l'aspetto dell'articolo che lo impressionava
di più era la parte legata al capo carismatico, culminante
nella celebrazione di Mussolini in quanto incarnante la figura
storica del "duce" del partito e dello Stato a direzione
carismatica. Un Gramsci palesemente irritato scriveva che Michels
"ha fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata
del «capo charismatico» che probabilmente [occorrerebbe
confrontare] era già nel Weber". 13 Gramsci ignorava in quel
momento che effettivamente Michels, in più passi, aveva
già riconosciuto il suo debito intellettuale nei confronti di
Weber, arrogandosi semmai (sbagliando, perché in
realtà andava oltre Weber senza capirne a fondo la teoria del
carisma14) il merito di averne applicato le teorie all'esperienza
del duce del fascismo.
Al termine della sua sintesi Gramsci faceva comunque alcune
critiche, di metodo e di contenuto, sulla "classificazione dei
partiti del Michels", che era giudicata "molto superficiale e
sommaria, per caratteri esterni e generici". 15 Ricordava che
accanto ai tre tipi generali: 1) partiti carismatici; 2) partiti di
classe; 3) partiti dottrinari (con l'aggiunta dei partiti
confessionali e di quelli nazionali), sarebbe occorso menzionare
anche i partiti repubblicani in regime monarchico e i partiti
monarchici in regime repubblicano. Ciò ricordato, però
a Gramsci sembrava ancora necessario dire che "l'articolo [era]
pieno di parole vuote e imprecise", 16 e che in definitiva "le idee
di Michels sui partiti politici [erano] abbastanza confuse e
schematiche, ma [erano] interessanti come raccolta di materiale
grezzo e di osservazioni empiriche e disparate"; che "gli errori di
fatto non [erano] pochi", che "le sue scritture [erano] zeppe di
citazioni bibliografiche, in buona parte oziose e ingombranti" e
così via. 17
Sul metodo di Michels Gramsci sentenziava: "La pura
descrittività e classificazione esterna della vecchia
sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di
queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia
intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia
amabile scetticismo da salotto o da caffé reazionario che ha
sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del
sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo". 18 Occorre
sottolineare, en passant, che il riferimento plurale di Gramsci "a
queste scritture" di Michels faceva capire che si riferiva non solo
all'articolo del 1928, che in quel luogo era il principale imputato,
ma ad altri scritti che il capo comunista aveva in carcere e stava
leggendo nel periodo. Queste non potevano che essere Francia
contemporanea 19 e il citato Corso di sociologia politica, e non la
Sociologia del 1911, come vari interpreti hanno sostenuto. In
effetti i rilievi sull'affastellamento aneddotico e delle citazioni
bibliografiche sembrano corrispondere soprattutto al carattere
miscellaneo e disorganico del volume sulla Francia, tenuto conto che
viceversa il Corso appare in proposito assai più conciso e
lineare. A prescindere da tale osservazione, appare evidente che
quando Gramsci parlava delle idee sui partiti si riferiva ancora una
volta all'articolo francese del 1928, e, all'interno di questo,
soprattutto alle elucubrazioni sulla tipologia del partito
carismatico, che vi occupava grande spazio, opportunisticamente
orientato all'elogio del carisma mussoliniano e in linea con la
definizione di quell'elitismo carismatico che appariva esser
l'ultima sua sintesi, mancata secondo la maggior parte degli
interpreti.
In effetti, sorvolando sull'astiosità e sul sarcasmo
comprensibili nella cultura militante del capo comunista – il quale
scriveva all’interno di un carcere in cui lo stesso capo carismatico
elogiato da Michels, con proprio ordine diretto, lo aveva fatto
piombare in spregio a ogni anglosassone habeas corpus per impedirgli
di pensare e di agire -, le critiche di Gramsci, se riferite
all'articolo del 1928, sembrano giustificate poiché
l'articolo di Michels si presentava meramente enunciativo, irritante
in molti passaggi declamatori, privo di approfondimento, rapido e
fuggevole nei giudizi. Come se Michels sentisse di non aver
più nulla da dimostrare, avendo già detto tutto nel
suo gran libro del 1911 e in altre pubblicazioni che del resto erano
da lui richiamate. Il suo articolo, insomma, sembrava avere
intenzionalmente carattere meramente ripetitivo, ritenendo forse
egli d'aver portato nelle ricerche precedenti l'onere della prova
scientifica.
3. Gli altri scritti michelsiani sull’oligarchia carismatica
Sotto questo aspetto è del tutto fondato supporre che, agli
occhi di Michels nel 1928, l'articolo si ponesse in rapporto di
continuità, pur con tutte le differenti sfumature, con le
ricerche precedenti. Ma a fronte di un esame oggettivo – dal quale
risulta la novità dell’elemento carismatico giocato
pesantemente in funzione di appoggio alla dittatura mussoliniana
-bisogna invece concludere che tale posizione dell'autore, pur
coerente con la sua storia politica più che scientifica, non
appare del tutto giustificata. Specie se si leggono gli scritti
successivi dedicati a questo tema. In proposito occorre infatti
precisare che l'articolo del 1928 non corrisponde -se non
nell'assunto fondamentale, genericamente riaffermato, del carattere
oligarchico del partito -ai contenuti e al senso dell'originale
Sociologia del partito politico, nella quale non vi è nemmeno
una pagina dedicata al tema del partito carismatico in quanto tale.
Questo concetto era estraneo al Michels del 1911 e non emerge
significativamente nel 1924, così come quello del duce
carismatico (pur essendovi beninteso molte pagine che si occupano
dei capi). Nella Soziologie del 1911 non si procedeva a una
sistematica classificazione dei partiti.
Gli studiosi finora ricordati hanno molto discusso su cosa sia, in
effetti la Soziologie (e non è qui possibile riprendere tale
dibattito nella sua interezza, salvo allacciarsi ad alcune
considerazioni). Fra le differenti letture proposte, neppure una si
attaglia all'orientamento dell'articolo del '28, che appar essere
sostanzialmente una rapida e insipida rielaborazione della questione
del partito politico, dal quale emerge come aspetto vivificante
soprattutto il motivo del “duce carismatico”. Mentre, in genere, del
precedente capolavoro michelsiano si è apprezzato il
carattere ampio e lo spessore analitico, sotto il profilo dei
materiali storico- politici e sociali utilizzati. Secondo lo studio
di Sola20, che è tra le elaborazioni di scienza politica
più informate, complete e organiche dei vari aspetti del
pensiero elitista michelsiano, "il tema di fondo della ricerca
michelsiana consiste nell'elaborazione di una più ampia
sociologia dell'azione dirigente e della leadership: di essa tanto
la sociologia della «direzione politica» quanto la
sociologia dell'«oligarchia» rappresentano solo dei
momenti particolari".
Della ricerca sociologico-politica michelsiana, è bene
ricordarlo, si sottolinea sempre il suo essere il punto terminale di
una maturazione decennale21, basata su esperienze dirette personali
e su una vasta indagine intellettuale su un modello di partito,
quello socialdemocratico, che troppo rapidamente -sulla scorta di
una critica "radicale di sinistra" successiva, alla quale l'opera di
Michels diede avvio - viene scambiato per una mera macchina
burocratica. La Spd fu anche e prima di tutto, specie prima della
controversia revisionista, una ecclesia militans, un partito di
militanti e di elettori aderenti che avevano saputo ricreare un
mondo culturale separato, ma completo. Non a caso gli intellettuali
giocavano un ruolo complesso al suo interno nella creazione del
circolo dell'informazione-formazione, di cui Michels nella sua
Sociologia tien conto.
Si è lontani - nel caso della Sociologia del partito - da
ogni forma di riduzionismo psicologico, tecnico e
dall’estremizzazione carismatico-mussoliniana tentata dal Michels
fascista22. Al contrario dell'articolo del '28, la Sociologia non si
caratterizza per l'analisi elitistico-carismatica della
forma-partito (e della forma di Stato), ma descrive il partito come
un organismo polivalente ("organizzazione, Stato nello Stato,
impresa economica, organismo sociale"23), e certamente come
organismo politico complesso anche al livello della Führertum
(ma senza l'appiattimento su di un unico Führer, ossia di un
Duce carismatico alla Mussolini). Sempre citando Sola, la Sociologia
del 1911 è una "scienza analitica del partito politico" e ha
carattere eminentemente "realistico"24, mentre l 'articolo del 1928
si presenta con il marchio della sintesi definitoria, della
verità apodittica e dell'autoreferenzialità
carismatica. Per dimostrare tale assunto val la pena procedere
all’analisi degli altri scritti in cui Michels parla dell’oligarchia
carismatica cercando di strutturare meglio il suo discorso. Questi
sono rintracciabili sostanzialmente (tralasciando certi scrittarelli
troppo scopertamente apologetici del regime) in tre testi: il citato
Corso di sociologia politica del 1927, gli Studi sulla democrazia e
l’autorità del 1933 e i Nuovi studi sulla classe politica del
1936, l’ultimo anno della vita di Michels. 25
3.1. La direzione carismatica dello Stato
Il Corso di sociologia politica rappresenta una fusione di materiali
didattici rielaborati per una loro presentazione in veste più
scientifica. È costituito di quattro lunghi capitoli dedicati
rispettivamente al fattore economico, alla élite, alle
tendenze democratiche e alle controtendenze aristocratiche e,
infine, alla direzione carismatica nella vita pubblica. Seguiamo il
ragionamento di Michels sul tema in questione traendolo dalle varie
notazioni sparse qua e là. Esso parte dal dato di fatto (e
dal principio) della continua rotazione delle élites nei
regimi democratici. Nota Michels che tale carattere nell’offrire
garanzie di accesso al potere alle varie élites nel tempo,
produce altresì rotture della continuità dell’azione
di governo, disfunzionamenti, insicurezze e comportamenti
asimmetrici nella gestione della cosa pubblica. Di contro, il
fenomeno della permanenza stabile di una ”robusta élite unica
al potere” – che certo appare più efficiente e sicura
nell’azione di governo -assume necessariamente “caratteri
antidemocratici” (qui è trasparente il richiamo
all’acquistata supremazia dell’élite fascista, ma anche alla
minoranza bolscevica26), ed è avversata dalle altre
élites minori, che sostengono ovviamente il ritorno al
principio della pluralità delle élites e della loro
circolazione. Tale opposizione è favorita dalla tendenza al
pluralismo che è molto forte nella formazione e nella vita
delle élites economiche.
Tuttavia, il consolidamento del concetto dell’unicità
dell’élite al potere, che è dato vedere nella storia
recente, continua Michels, si basa sul presupposto della critica
generalizzata alla democrazia borghese che è ormai vecchia di
un secolo, se vi si includono le prime contestazione del principio
liberaldemocratico da parte dei teorici del socialismo. Sulla base
di tale affermazione, in realtà Michels opera un collegamento
molto discutibile tra tutte le teorie socialiste progressiste,
antiborghesi e antiliberali, e l’elitismo ultraliberale e
conservatore, arrivando senza soluzione di continuità fino a
quello della scuola mosco-paretiana. Tale linea critica antiliberale
e antidemocratica porterebbe, nell’interpretazione di Michels, alla
demistificazione del principio della maggioranza in quanto
fondamento rappresentativo e di massa del sistema
liberaldemocratico, in quanto esso non assicurerebbe affatto agli
elettori il controllo democratico dei governi, i quali restano
invece sempre, come affermato da Mosca, espressione di una minoranza
organizzata. Come insegnano le teorie elitiste, l’esercizio del
potere delle varie classi politiche democratiche rimane
invariabilmente frutto di “tortuosi intrighi di corridoi”. Al
contrario, l’élite unica, insediatasi saldamente e
monopolisticamente al potere, eserciterebbe secondo il sociologo
italo-tedesco un dominio “franco, chiaro, concreto e diretto”. 27
Se questo è vero, continua Michels, tuttavia “l’élite
antidemocratica non può fare appieno astrazione dal principio
di massa” nell’era della “mobilitazione” delle stesse in nome del
patriottismo popolare. “Dato il risveglio delle folle operaie e
contadinesche non è possibile nell’era presente – e i fatti,
sottolinea Michels, forniscono a questa asserzione un’abbondante
documentazione – che l’élite possa affermarsi vittoriosa
senza il continuo tacito consenso delle masse, dalle quali, sotto
vari aspetti, dipende la sua sorte”. 28 A conclusione di questo
ragionamento, il sociologo italo-tedesco sottolinea che si determina
dai fatti stessi una contraddizione, “un’antinomia non tragica, ma
fatale”, per l’élite antidemocratica: da un lato, nel dover
essa mantener indefinitamente il potere senza apparente mandato
rappresentativo di consenso, concesso nelle forme elettorali
democratiche usuali; dall’altro, nell’aver però sempre
bisogno di un consenso forte da parte delle masse, anche se non
manifestato attraverso il suffragio tradizionale, per legittimare il
proprio diritto al potere e la propria autorità. [Per inciso:
questa considerazione ci fa capire quanto poco Michels credesse alla
validità delle elezioni coatte nel regime del partito unico
nel quale viveva e di cui si era fatto sostenitore…]. Formulato in
tal modo il problema di fronte al quale si trovava a suo avviso
“l’élite antidemocratica” fascista, Michels introduce, per
risolvere tale antinomia, la nota argomentazione weberiana dei tipi
puri di potere legittimo: il potere legale-razionale, il potere
tradizionale e infine il potere carismatico. 29
Nel terzo tipo di potere Michels afferma di trovare la soluzione
dell’antinomia da lui rilevata. In quest’ultimo caso, scrive infatti
Michels, “la legittimità [è] basata sulla
sottomissione spontanea e volontaria delle masse al governo di
persone dotate di qualità congenite straordinarie, ritenute
talora addirittura soprannaturali e, comunque, sempre superiori di
molto al livello generale, per virtù delle quali esse persone
sono stimate capaci (e spesso lo sono) di compiere grandi cose, ed
anche miracolose. Epperò avviene che questi uomini sembrano
in fondo designati nientemeno che da Dio stesso. Esempi: il profeta,
il Duce”. 30 En passant, il sociologo italo-tedesco nota (citando
genericamente Vincenzo Cuoco) che il presupposto del sorgere di duci
(guide politiche) è dato proprio dalla circolazione delle
élites nelle democrazie. Ovvero, proprio dalle loro lotte
interminabili emerge infine una figura dotata di qualità
carismatiche che pone loro fine instaurando un più fermo
dominio. Proprio “l’istituzione del Duce” costituisce il caposaldo
della “nuova teoria dell’élite”. Questa figura infatti
conferisce non solo nuova sicurezza, rapidità, abilità
e disinvoltura all’esercizio del comando, ma dà
all’élite antidemocratica un fondamentale rapporto con la
massa di cui prima era carente.
Al proposito, l’esempio storico citato da Michels per avvalorare il
suo argomento è quello di Oliver Cromwell, il capo
carismatico della prima rivoluzione inglese citato anche da Weber,
ripreso icasticamente quando impone al Parlamento l’istituzione del
suo protettorato. Al di là delle divagazioni alle quali
indulge, il fatto sostanziale sottolineato da Michels sembra essere
l’elemento di inimitabile “genialità” apportato dall’uomo
carismatico nel tenere il timone del potere e nel suo rapportarsi
direttamente con le masse (che Michels richiama spesso, con evidente
distorsione del suo significato, come “opinione pubblica”). Si
formerebbe così una “fede collettiva” delle masse nei
confronti del duce, un canale di comunicazione diretta che
può assumere “forma spiccatamente mistica”. “Alla fede nella
propria missione – scrive Michels – si congiunge, nel duce
carismatico, nato qual è dalle masse, il bisogno di rimanere
colle masse in continuo contatto. Ne scaturisce un fenomeno
storico-politico di sommo momento”. 31
A questo punto il discorso michelsiano da ‘teorico’ si fa storico, o
cronachistico, in quanto la tipica figura del duce di cui ha
trattato fino a quel momento viene ricondotta sempre più alla
misura e alla figura reale del Duce italiano, il “Capitano Nuovo”
che l’Italia – proclama Michels -ha trovato nei “tempi tempestosi”,
il Capo del Governo che “parla e traduce in forma nuda lineare e
lampante cotesta sua nuova consapevolezza, contenente i propositi
della moltitudine, mentre questa stessa freneticamente acclama,
rispondendo alla voce profonda della propria coscienza, o perlomeno,
diremo noi, di quella, anche più profonda, della propria
subcoscienza”. 32 A queste affermazioni, seguono infine notazioni
sul carattere e sulle regole di comportamento del “duce”: il duce,
pur se deve mantenere il contatto con le masse, deve comunque
rimanerne “distinto”, non condividerne i difetti, deve star al di
sopra di simpatie e antipatie e di certe debolezze umane, per
mantenere intatto il suo ascendente (“per non essere massificato,
conviene che egli ogni tanto si smassifichi ”33, scrive testualmente
l’autore); il duce deve essere “buono”, non nel senso sentimentale,
ma dedito al bene della cosa pubblica, incondizionatamente devoto a
essa; deve sfuggire alle tentazioni costanti della megalomania
(sic!); deve agire limitatamente attraverso la burocrazia di
carriera, ma scegliere i propri collaboratori al di fuori della
cerchia dei ceti governativi e amministrativi, anch’essi “secondo la
loro qualificazione carismatica” e in base alla sua ispirazione
(decidendo autonomamente di toglier loro l’incarico se vien meno la
loro attitudine al carisma); il duce infine dev’esser alieno dallo
stringere compromessi. Il duce insomma instaura la sua dittatura e
non vi è da attendersi che di sua spontanea volontà la
faccia cessare o abdichi: “il duce carismatico non abdica neppure
quando l’acqua gli giunge alla gola. Poiché appunto nella sua
prontezza di morire sta un suo elemento di forza e di trionfo”. 34
Solo la perdita del carisma può giustificare un’eventuale
abdicazione, che equivale al suo suicidio politico.
Nel capitolo sulla “fatalità” della classe politica compreso
negli Studi sulla democrazia e sull’autorità, Michels
invero non aggiunge nulla a quanto già detto, semmai
sottolinea la capacità della guida carismatica di restringere
e controllare -meglio di quanto non sia capace di fare la direzione
di tipo liberaldemocratico – l’onnipresente burocrazia (che è
all’origine dell’impossibilità di attuazione del tipo
rousseauiano di democrazia dal quale Michels fa partire il suo
ragionamento nella Soziologie). Infine, nell’ultimo suo scritto del
1936, i Nuovi studi sulla classe politica, ribadisce le tesi
sopraddette, sentenziando che “nei partiti gerarchici il capitanato
diventa un principio, il carisma rimpiazza la continua elezione e
rielezione degli eletti da parte delle masse” e rincarando la dose
sul dato di fatto che comunque “anche nei paesi e nei partiti
democratici che negano il carisma, esiste una dittatura dei capi,
anche se la democrazia formale cerca di nascondere l’effettivo
processo. Il rapido cambio tra i capi [nei sistemi
liberaldemocratici, n.d.r.] trae in inganno gl’inesperti circa il
vero carattere di dominio. Giacché non sono le masse a
rovesciare i capi, ma i capi nuovi che delle masse a tal uopo si
valgono”. 35 Accanto a tali affermazioni drastiche che sono lontane
dallo spirito empirico e scientifico delle prime opere sulla
sociologia del partito, Michels pone alcuni cenni sul tratto
“volitivo” dell’oligarchia carismatica, un carattere volontaristico,
fatto di nicciana volontà di potenza. Lo fa con il consueto
taglio storico piuttosto che con un completo approccio teorico,
anche se qui e là compaiono echi e citazioni di teorici come
Nietzsche e Weber.
La volontà di dominio, scrive, e la storica necessità
di competenza compresa in senso carismatico si uniscono presso molti
popoli nel dopoguerra per il desiderio di trovare “nella vita
politica ed anche nell’industria e nei traffici un capo: forte,
incoronato non già dalla capigliatura incanutita dagli anni,
e neppure fatalmente da avite ed accumulate tradizioni, ma da
giovanile capacità di comando [come non cogliere qui l’eco
machiavelliano dei giovani che battono la fortuna che è
donna, n.d.r.], una scelta ispirata e confermata dal numero e dallo
stato d’animo delle masse dei seguaci”. Insomma sta a cuore a
Michels di separare la giustificazione elettorale ed economica dalla
scelta del capo carismatico, cosa che esula dalle normali e
tradizionali procedure di reclutamento della dirigenza politica.
“Laddove la nuova classe politica si forma intorno a un capo
carismatico e a un gruppo carismatico – scrive -, vale a dire nato
all’infuori della cerchia tradizionale, ereditaria o plutocratica,
ma dotato di forte ingegno e foriere di una missione trascendentale,
perché capace d’ispirare ai suoi seguaci una fiducia e una
fede che rasentano il divino ed il soprannaturale, fa difetto ogni
nesso iniziale coi fattori economici”. 36 A maggior riprova cita
Weber in tedesco: “Reines Charisma ist spezifisch wirtschaftsfremd”.
37 Ovvero, il carisma puro è spiccatamente estraneo
all’economia. Anche se, come fa notare lo stesso Weber, corrono
vincoli pecuniari tra il capo carismatico e i suoi fedeli (come
donazioni, stipendi fissi, ecc.), il carattere essenziale del
carisma sta, conclude Michels, “nella brama del dominio, nelle fede
indomita, nel coraggio fisico”. 38
Detto questo, come è nel suo stile degli ultimi anni, Michels
trapassa in altre notazioni di colore, talora oziose, sperdendo il
tenue filo teorico dipanato. Verso la fine del capitolo, per
riprendere l’argomento del “coefficiente volitivo”, non trova di
meglio che ricondurre la propietà di tale carattere ai
soggetti storici che meglio l’impersonano, ossia il fascismo
italiano e il nazionalsocialismo tedesco, i quali – scrive -“lungi
dal presentare manifestazioni storiche parallele, hanno tuttavia in
comune di essere dei movimenti che si sono fatti strada con metodi
rivoluzionari ed in antitesi all’intellettualismo accademico ed alla
massoneria imperante. Intanto – conclude -segnano una vittoria della
corrente volitiva e politica, tengono domo l’accademismo puro e
mettono freno all’economismo unilaterale [sic!]”. 39
3.2. Confronto tra la teoria weberiana e quella michelsiana del
potere carismatico
Si ha in queste conclusioni qualcosa di sostanzialmente diverso da
una teoria scientifica e da una mera giustificazione del fascismo
carismatico, si ha la traccia un approdo pieno di Michels al regime
dittatoriale mussoliniano. Si ha in questo passaggio anche un
distacco profondo dall’originale dottrina weberiana (ma, vorrei
aggiungere, dalla stessa Soziologie originaria michelsiana). Vorrei
però, prima di trarre alcune conclusioni inerenti
l’interpretazione del pensiero e della prassi politica di Michels,
soffermarmi brevemente sul confronto tra le formulazioni weberiane e
quelle michelsiane in tema di carisma, tema sul quale il più
recente e convincente studio critico è senz’altro quello
citato di Francesco Tuccari sui Dilemmi della democrazia moderna. Mi
sembrano persuasivi i giudizi di Tuccari (e il precedente di
Portinaro) sui limiti della trattazione michelsiana della dottrina
del carisma. 40
Apparentemente Michels rispetta la lettera della dottrina weberiana
sul carisma, ricavata come si evince dalle citazioni predette dalla
postuma edizione degli studi di Economia e società. Weber, in
effetti, tratteggia qui il potere carismatico come “una relazione
sociale di carattere specificamente straordinario e puramente
personale” possibile in virtù del “dono di grazia” posseduto
dal tipo umano carismatico. Se si legge la famosa conferenza
monacense sulla Politica come professione41, si trovano espressioni
simili sulla straordinarietà del potere carismatico, che sul
piano politico è inteso come “dominazione in forza della
dedizione del seguace al carisma puramente personale del capo”;
ovvero, sulla spontaneità e dedizione dei seguaci del carisma
(e dell’uomo carismatico stesso al suo carisma). Chiarendo infatti
il senso intimo della “dedizione” dei seguaci e dell’uomo
carismatico, Weber scrive che “la dedizione al carisma del profeta o
del capo in guerra o del grande demagogo nella ecclesia o nel
parlamento significa che egli personalmente è per gli altri
uomini un capo per vocazione intima, e che costoro lo seguono non in
forza del costume o della legge, ma perché credono in lui.
Dal canto suo, egli vive per la sua causa, tende con ogni sforzo
alla sua opera […]”. 42
Ciò che invece è ben diverso in Weber dalla riduzione
michelsiana della dottrina carismatica è, innanzi tutto,
l’ampiezza della definizione del potere carismatico, che Weber
deriva dagli studi sulla sociologia delle religioni e che quindi
applica a una serie di tipi carismatici, che non sono invece ripresi
da Michels (interessato com’è a una sola espressione del tipo
carismatico). Ma la maggiore differenza, anche teorica, da rilevare
sta nell’uso che Michels fa della dottrina del carisma. Nel suo
pensiero, il duce carismatico (che non è il grande demagogo
parlamentare che soprattutto ha in testa Weber, ma tende ad
assomigliare molto al meneur des foules di Le Bon) ha soprattutto la
funzione di risolvere l’antinomia verificatasi nel caso
dell’insediamento stabile dell’élite antidemocratica al
potere, ha insomma la funzione, grazie al suo rapporto “sintonico”
con le masse, di ovviare al problema della legittimazione di massa
carente nell’élite antidemocratica dittatoriale. Ciò
fatto, il duce carismatico resta fissato per sempre a tale funzione.
Quindi il carisma del duce rende “carismatica”
l’élite-oligarchia che viene cristallizzata in questa forma e
figura, non ha più ulteriore evoluzione. Con tale fondamento
si può affermare a questo punto che Michels sia teorico
dell’elitismo carismatico e di una nuova forma di democrazia (che
però della democrazia ha solo il nome). 43
Ben diversamente stanno le cose per la teoria weberiana. Come
è chiaramente spiegato in Economia e società, il
carisma rompe nel suo farsi il corso della tradizione e della
legalità statuali, ma dopo una fase di acuto protagonismo
dell’uomo carismatico, il suo potere tende in qualche modo a darsi
una legittimazione legalitaria e a rientrare gradualmente nella
forma di potere legale-razionale. 44 Di qui la figura del presidente
carismatico in un regime presidenziale, democratico-plebiscitario,
ma tendenzialmente decentrato e federale, che rappresenta l’approdo
politico della dottrina costituzionale weberiana. Non vi è in
Weber alcun cenno a un protrarsi indefinito del “rapporto sintonico”
tra duce e masse come elemento teorico fondamentale di
giustificazione di un regime dittatoriale (la “nuova democrazia”) e
di una “nuova teoria dell’élite” che prevede in realtà
la sopravvivenza di un’unica élite antidemocratica al potere,
come sostiene invece Michels.
4. Conclusione: il carisma machiavellico del Duce secondo l’ultimo
Michels
Dalle asserzioni di Michels sul potere oligarchico-carismatico e sul
“coefficiente volitivo” si comprende come egli si volesse sempre
più qualificare come “intellettuale organico” (per usare in
senso lato una categoria gramsciana) del fascismo. 45 Questo intento
aveva a che fare molto più con il suo progetto di vita
professionale e pubblica che non con approfonditi elementi di
scienza politica. Per esempio il personaggio di Michels coincideva
col profilo del “collaboratore carismatico” del Duce, da trarsi
fuori della stretta cerchia governativa e burocratica. Questo ci
suggerisce il Michels autore degli articoli e dei libri dei tardi
anni venti e trenta, quando, rientrato in Italia sotto la protezione
personale del Duce e con in tasca la tessera del PNF dopo il lungo
periodo di Basilea, nella fascistissima Università di
Perugia, come ordinario di Economia generale e corporativa, Michels
procurava di rappresentare e onorare con frequenti viaggi all’estero
l’immagine culturale del regime in Europa (su questo capitolo
“accademico” della biografia michelsiana fornisce dati anche il
contributo del 1992 di Maria Cristina Giuntella nel volume sul
“fascismo e l’inquadramento degli atenei”46). Ma questa notazione
non basta a capirne l’intima vocazione finale, che si radica
soprattutto col ricercato legame diretto col Duce.
Non appare casuale il fatto che in quegli anni Michels sviluppasse
in modo accentuato (per usare un eufemismo) un’interpretazione
‘machiavellista’ della figura carismatica del Duce-principe,
rinnovatore e salvatore della patria italiana. Ho richiamato questo
tema in un articolo che utilizza alcune riflessioni fatte già
da Di Nucci. 47 Da questi articoli e da quello di Aldo G. Ricci
(Michels e Mussolini) 48 emergerebbe soprattutto una
strumentalizzazione di sapore propagandistico della figura del
“segretario fiorentino”, elevato da Michels (o si dovrebbe dire
“abbassato”?) a “icona” nel santuario dei padri culturali
dell’Italia fascista. Ricci e Di Nucci si soffermano soprattutto sul
testo di una conferenza tenuta da Michels nel 1929 nella sua
città natale, Colonia, in cui si fa risalire a Machiavelli –
cito le parole di Michels -la “lunga tradizione di vitalità
politica e culturale” dalla quale sgorgano “le fonti intellettuali
del fascismo”49. In Machiavelli, secondo Michels, “già si
trova il pensiero del Duce, condottiero irruento, spontaneo,
individuale, forte non di un potere ereditato, ma per proprie
virtù. Altra analogia fra Mussolini e Machiavelli è la
devozione entusiasta per la Patria”. Non per caso Mussolini aveva in
animo di scrivere una dissertazione accademica su Machiavelli,
studio per il momento rimasto frammentario e incompiuto50. Si
potrebbe azzardare un commento: forse, tenuto conto che Michels
sapeva bene che le sintesi delle sue conferenze venivano
regolarmente depositate sul tavolo di lavoro del Duce, il quale ne
era fedele lettore e postillatore, questo poteva essere anche un
modo per insufflare subliminalmente al potente protettore la
possibilità di affidare allo stesso Michels – che avrebbe
assolto con entusiasmo a tale dovere – la curatela dell’eventuale
opera organica mussoliniana su Machiavelli... Questa parrebbe
retorica cortigiana, non lontana - quando imbastisce simili paragoni
o apparentamenti - dalla categoria del “servo encomio” dedicato al
“principe” dell’Italia fascista.
Apparirebbe persino benigna, sotto questo profilo, la talvolta
ingenerosa e stroncante critica di Gramsci al “lorianismo”, di cui
s’impregna nel periodo fascista il metodo scientifico del Michels
sociologo, le cui scritture – scrive Gramsci nei Quaderni del
carcere – “sono oziose e ingombranti”, piene di “truismi” appoggiati
all’autorità degli scrittori più disparati51. Questa
attitudine poco gloriosa dell’ultimo Michels ricorre anche nel
libro, chiaramente condizionato dagli obiettivi della politica
culturale fascista, pubblicato nel 1930 in Svizzera e in Germania
con il titolo Italien von heute52. Qui prende forma lo stesso tipo
di riproposizione della figura (più che dell’opera) del
Machiavelli. Anche se, occorre notarlo, emergono alcuni elementi di
maggior interesse dal punto di vista del pensiero politico, che
fanno pensare a riflessioni meno occasionali. Laddove per esempio
è scritto che “l’Italia ha fatto nascere con Machiavelli il
maestro della dittatura rivoluzionaria patriottica e del realismo
dell’arte dello Stato”53.
Questo tipo di “machiavellismo”, che per Michels costituisce
un’irrinunciabile conquista della scienza politica, fu abbandonato
dagli italiani dei secoli successivi in quanto “del tutto
immorale”54, ma è invece – secondo il Michels fascista -alla
base delle correnti imperialiste dell’Italia moderna e infine
è collocato come “principio strutturale del fascismo”:
infatti, conclude Michels, “da Machiavelli [il fascismo] ricevette
la dottrina del capo dittatoriale carismatico di conio messianico
che non ha ereditato il proprio potere”. Credo sia interessante –
anche se non si capisce ancora quanto fondato – questo primo cenno
alla relazione “machiavelliana” tra arte dello Stato e dottrina
della dittatura carismatica di sapore schmittiano. Tuttavia il
riferimento farebbe pensare ancora una volta, nella stringatezza e
mancanza di sviluppo, a una frase buttata lì, con intenzione
propagandistica e celebrativa della figura del Duce, più che
con reale intento scientifico.
Note
1 Cfr. C. Malandrino, Gramsci e la Sociologia del partito
politico di Michels, in Gramsci: il partito politico nei Quaderni, a
cura di S. Mastellone e G. Sola, Firenze, CET, 2001, pp. 115-140. A
questo articolo si rinvia per il necessario contesto di riferimenti
dottrinali e bibliografici che hanno caratterizzato la discussione
sulla sociologia michelsiana del partito politico nella seconda
metà del Novecento. Per ciò che concerne il capolavoro
michelsiano, cfr. R. Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der
modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen
Tendenzen des Gruppenlebens, Leipzig, Dr. Werner Klinkhardt,
Philosophischsoziologische Bücherei, Band XXI, 1911 (prima
ediz. it. Torino, UTET, 1912). Si ebbe una seconda ristampa
stereotipa italiana nel 1924 sempre per i tipi della UTET. La
seconda edizione tedesca, con una nuova introduzione e aggiunte
dell'autore, avvenne nel 1925 (Stuttgart, A. Kröner). Ved.
anche le più recenti riedizioni italiana (La sociologia del
partito politico nella democrazia moderna, a cura di J. J. Linz,
Bologna, Il Mulino, 1966, che si giova di un’importante studio
introduttivo del Linz stesso) e tedesca (Soziologie des
Parteiwesens,a cura di F. R. Pfetsch, Stuttgart, Kröner, 1989).
2 Cfr. tra le riletture meno lontane nel tempo: D. Fisichella, R.
Michels, il partito di massa ed il problema della democrazia, in G.
Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella belle
époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra '800 e
'900, Milano, Giuffré, 1990, pp. 743-752; F. Tuccari, I
dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels,
Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 219-282 e 309-339.
3 Cfr. R. Michels, Studi sulla democrazia e sull’autorità,
Firenze, La Nuova Italia, 1933, consultato in Id., Antologia di
scritti sociologici, a cura di G. Sivini, Bologna, Il Mulino, 1980,
p. 200. Sul rapporto del pensiero michelsiano con le eredità
intellettuali di Mosca e Pareto cfr. in generale J. H. Meisel, The
Myth of the Ruling Class. G. Mosca and the «Elite», Ann
Arbor, Michigan, 1958; G. Sola, Organizzazione, partito, classe
politica e legge ferrea dell'oligarchia in R. Michels, Genova, ECIG,
1972; P. P. Portinaro, R. Michels e V. Pareto. La formazione e la
crisi della sociologia politica, "Annali della Fondazione L.
Einaudi", Torino, 1977, XI, pp. 99142; Id., Tipologie politiche e
sociologia dello stato. G. Mosca e M. Weber, ivi, 1978, XII, pp.
405-438; E. De Mas, L'Italia tra Ottocento e Novecento e le origini
della scienza politica (Mosca, Michels, Ferrero, Rensi), Lecce, 1981
(ma ved. di De Mas anche le interessanti considerazioni svolte nel
saggio Il giudizio di Michels su G. Mosca nel 1929, in R. Michels:
economia sociologia politica, a cura di R. Faucci, Torino,
Giappichelli, 1989, pp. 163-174); di Albertoni, oltre allo scritto
cit., cfr. anche la Prefazione al primo tomo del vol. V
dell'«Archivio internazionale G. Mosca per lo studio della
classe politica» intitolato: Elitismo e democrazia nella
cultura politica del Nord-America (Stati Uniti -Canada -Messico),
Milano, Giuffré, 1989, pp. XI-LXII; P. Ferraris, L'influenza
di G. Mosca su R. Michels, "Quaderni dell'Istituto di studi
economici e sociali", Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Camerino, 1/1983, pp. 31-57; C.
Mongardini, L'opera di R. Michels e la sociologia italiana, "Annali
di sociologia/Soziologisches Jahrbuch”, Università di Trento,
2.1986, I, pp. 73-84. Ved. infine C. Malandrino, Patriottismo,
nazione e democrazia nel carteggio Mosca-Michels, in “Annali della
Fondazione Luigi Einaudi”, Torino, 2004, pp. 211-226.
4 Per una “bibliografia scelta”, ma esauriente, sugli autori citati
cfr. R. Michels, Potere e oligarchie. Antologia 1900-1910, a cura e
con intr. di E. A. Albertoni, apparato bibibliografico di V. Ravasi,
Milano, Giuffré, 1989, pp. 109-122.
5 Ivi, p. 4.
6 Ved. in Roberto Michels: economia, sociologia, politica, cit., pp.
7-22.
7 Cfr. E. Ripepe, Gli elitisti italiani, vol. I, Mosca Pareto
Michels, Pisa, Pacini, 1974, pp. 459-548.
8 Cfr. L. Di Nucci, Roberto Michels «ambasciatore»
fascista, “Storia contemporanea”, XXIII, n. 1, 1992, pp. 91-103.
9 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 1975.
10 Cfr. R. Michels, Saggio di classificazione dei partiti politici,
"Rivista internazionale di filosofia del diritto", VIII, 1928, n. 2,
pp. 162-178 (ripubblicato in Michels, Antologia di scritti
sociologici, cit., pp. 177-195); Si tratta praticamente dello stesso
testo edito da Michels in inglese col titolo Some reflections on the
sociological character of political parties, "The American Political
Science Review", XXI, 1927, n. 1, pp. 753-772; e in francese col
titolo Les partis politiques et la contrainte sociale, "Mercure de
France", 1928, pp. 513-535.
11 Cfr. R. Michels, Corso di sociologia politica, Milano, Istituto
Editoriale Scientifico, 1927.
12 La citazione di Weber è tratta da parte di Michels (nota
1, p. 513) dall'opera Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der
Sozialökonomik, III, 2 éd., Tübingen, 1925, Mohr,
p. 167, 639: "D'après Max Weber, le parti politique a son
origine de deux sortes de causes. Ce serait, en premier lieu, une
société spontanée de propagande et d'agitation
visant l'obtention de la puissance, afin de procurer par cela
même à ses adhérents actifs (militants) des
chances morales et matérielles pour la réalisation de
buts objectifs ou d'avantages personnels, ou encore des deux
à la fois. Par conséquent, l'orientation
générale des partis politiques consiste dans le
Machtstreben, soit personnel, soit impersonnel. Dans le premier cas,
les partis personnels seraient basés sur la protection
accordée a des inférieurs par un homme puissant. Dans
l'histoire des partis politiques, les cas de ce genre sont
fréquents". Più avanti (nota 4 bis, p. 515) Michels
cita sempre Weber, op. cit., p. 140, per caratterizzare il partito
carismatico: "Lorsque le chef exerce une influence sur ses
adhérents par des qualités si éminentes
qu'elles leurs semblent surnaturelles, on peut le qualifier de chef
charismatique".
13 Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., Q.2, par. 75, p. 231.
14 Cfr. Portinaro, Teoria del partito, elitismo carismatico e
psicologia delle masse, in R. Michels tra politica e sociologia, a
cura di G.B. Furiozzi, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1984, pp.
275-299; Tuccari, Il leader politico e l'eroe carismatico. Carisma e
democrazia nell'opera politica e sociologica di M. Weber e di R.
Michels, "Annali di sociologia -Soziologisches Jahrbuch", 9.1993,
II, pp. 77-99. A p. 282 Portinaro scrive: "L'accostamento delle
nozioni di classe politica e direzione carismatica servì in
realtà a Michels per legittimare un regime autoritario, non
per definire un nuovo strumento d'analisi sociologica".
15 Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., Q. 2, par. 75, p. 234.
16 Ivi, p. 235.
17 Ivi, p. 237.
18 Ivi, p. 238.
19 R. Michels, Francia contemporanea. Studi, ricerche, problemi,
aspetti, Milano, Corbaccio, 1927.
20 Cfr. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge
ferrea dell'oligarchia in Roberto Michels, cit., p. 235.
21 Cfr. le considerazioni di Albertoni, Introduzione a R. Michels,
Potere e oligarchie, cit., pp. 30-31.
22 Tuccari, I dilemmi della democrazia, cit., p. 251, ha
sottolineato che essa è meno una Parteiensoziologie e
più un'analisi sociologica, fondata su una ricerca
storico-politica, sul formarsi dei partiti socialdemocratici europei
e in particolare della SPD (p. 251). Ma certamente la Soziologie
è estranea al viraggio assolutamente carismatico-fascista
dato nell'articolo del 1928. Su ciò concordano generalmente
gli studiosi del pensiero michelsiano finora citati.
23 Cfr. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge
ferrea dell'oligarchia in Roberto Michels, cit., p. 131-135.
24 Ivi, pp. 9-10.
25 Cfr. R. Michels, Studi sulla democrazia e l’autorità,
Firenze, La Nuova Italia, 1933; Nuovi studi sulla classe politica,
Milano-Genova-Roma-Napoli, Società Anonima Editrice Dante
Alighieri, 1936 (le pp. 150-180 di quest’opera sono recentemente
riprodotte senza apparato critico, in quanto “classics”, in
“élites e storia”, febbraio 2001, I, pp. 153-165).
26 Cfr. Michels, Corso di sociologia politica, cit., consultato in
Antologia di scritti sociologici, a cura di G. Sivini, cit., p. 230.
27 Ivi, p. 229.
28 Ivi, p. 230.
29 È interessante notare come Michels recepisca in questo
luogo la teoria weberiana del carisma in modo letteralmente fedele –
ma inquadrandola e interpretandola in maniera più angusta e
sostanzialmente distorcente -, come si constaterà
confrontandone nel prossimo paragrafo la versione che qui se ne
dà con le formulazioni originali di Weber.
30 Ivi, pp. 231-232. Michels riprende la formulazione della teoria
carismatica weberiana da Wirtschfat und Gesellschaft, 2ª ed.,
Tubingen, Siebeck, 1925.
31 Ivi, p. 235. Si tratta di quello che Tuccari ha definito “il
rapporto sintonico tra il Duce e le masse”.
32 Ibidem. 33 Ivi, p. 236. 34 Ivi, p. 238.
35 Cfr. Michels, Nuovi studi sulla classe politica, cit., pp.
157-158.
36 Ivi, pp. 167-168.
37 Cfr. M. Weber, Wirtschfat und Gesellschaft, 2ª ed.,
Tubingen, Siebeck, 1925, p. 142.
38 Cfr. Michels, Nuovi studi sulla classe politica, cit., p. 168.
39 Ivi, p. 178.
40 Cfr. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna, cit., pp. 318 e
325-339, in particolare a p. 318 Tuccari rileva che la teoria del
“Duce carismatico” di Michels è “strutturalmente differente
da quella elaborata da Weber in Wirtschaft und Gesellschaft, e che
è tale proprio in relazione al problema di una definizione di
una democrazia moderna”. Portinaro in Teoria del partito, elitismo
carismatico e psicologia delle masse, cit., pp. 275-299, sostiene
che Michels con la sua teoria del capo carismatico rimase molto
più vicino a Le Bon che a Weber. Sivini invece parla di
“abile uso del concetto weberiano di carisma” (cit., pp. 44-45),
formula con cui si può concordare solo se si vuol dire che
Michels spinge il concetto di carisma oltre i limiti dell’accezione
weberiana e lo strumentalizza a fini certo non weberiani.
41 Cfr. M. Weber, Politik als Beruf (1919), ora in Id., Il lavoro
intellettuale come professione, a cura di D. Cantimori, Torino,
Einaudi, 1973, pp. 47-121.
42 Ivi, pp. 50-51.
43 Correttamente Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna, cit.,
p. 336 scrive: “Le implicazioni teoriche di questo nuovo
«elitismo carismatico» sono fondamentalmente due. In
primo luogo, l’adesione a una «teoria consensuale che,
più che sulla votazione pubblica, poggia sulla pubblica
opinione». In secondo luogo, l’accettazione dell’élite
unica contro il sistema delle élites al plurale tipico dei
sistemi inautenticamente democratici e maggioritari”.
44 Ivi, p. 338: “Ciò che a Michels sfugge del tutto […]
è il fatto che il potere carismatico genuino rappresenta per
Weber una forma «premoderna» delle relazioni di dominio,
che giunge al termine del proprio percorso nell’epoca della
cosiddetta «illuminazione carismatica della ragione» […]
La democrazia moderna – Weber lo ripete in tutti i modi e con i
linguaggi più diversi – è e non può che essere
una democrazia plebiscitaria, ed è per questo che viene
ricondotta alla categoria del potere carismatico. Tuttavia è
tale sempre e soltanto sul terreno di libere elezioni e di un
sistema di partiti al plurale”.
45 A tal proposito mi sembra distorcente l’interpretazione
rilasciata da Giordano Sivini nell’introduzione all’Antologia di
scritti sociologici michelsiana, cit., p. 41, secondo la quale “dopo
il distacco dal socialismo rivoluzionario Michels in realtà
non dimentica più l’insegnamento di Mosca e Weber sulla
necessità di una separatezza tra attività scientifica
e coinvolgimento politico; ma proprio per questo gli riesce di far
discendere la legittimazione del fascismo – mantenendo una totale
autonomia intellettuale – direttamente dalla propria teorizzazione
elitistica”. In verità, ben diversamente testimoniano le
ultime elaborazioni michelsiane sul tema dell’oligarchia carismatica
e le carte d’archivio. Inoltre, il carteggio tra Michels e il genero
Mario Einaudi (citato da Sivini sulla base di una testimonianza
orale di quest’ultimo, nel quale il sociologo italo-tedesco avrebbe
testimoniato negli ultimi anni di vita un’opposizione marcata al
fascismo espansionista e bellicoso), al contrario non pare
corroborare la tesi di un Michels critico del regime. Ho potuto
leggere il carteggio in questione per l’intervento dei figli di
Mario, Luigi e Roberto Einaudi, che ringrazio sentitamente. Il
carteggio è in effetti interessante per alcuni particolari
della biografia privata e intellettuale di Michels, ma non autorizza
assolutamente l’idea di un Michels contrario al regime, tutto al
contrario. Vi è in effetti una sola lettera non datata, ma
certamente collocabile nell’estate del 1935 per un riferimento al 16
agosto di quell’anno, in cui Michels lamenta l’imminenza della
guerra di aggressione dell’Italia contro l’impero etiopico. Egli
scrive: “Tutto in me si ribella contro la guerra, ed è
inutile ch’io entri nei particolari. Il mio atteggiamento, inutile
aggiungere anche quello, sarà sempre unicamente italiano, ma
ciò non toglie che sono addoloratissimo che questa
italianità non coincida sempre con gli interessi
dell’umanità”. Certo questa riflessione in stile ambiguamente
nazionalmazziniano si adatta al pensiero di Michels sviluppatosi fin
dagli anni della guerra di Libia e della prima guerra mondiale (cfr.
C. Malandrino, Lettere di Roberto Michels e di Augustin Hamon
(1902-1917), “Annali della Fondazione L. Einaudi”, Torino, 1989,
vol. XXII, pp. 502-508 e 542 ss.). Ma è troppo poco per
giustificare una presa di posizione critica verso il fascismo. Anzi
Michels aggiunge: “Con ciò non voglio dire che gli inglesi
non abbiano dato il peggior degli esempi possibile”, quasi con
l’intento di giustificare l’atteggiamento del regime; poi nelle
lettere successive non dirà più nulla in merito.
Michels ebbe sempre un debole per l’imperialismo italiano, che lo
traghettò all’approdo mussoliniano. Il suo rammarico verteva
sul fatto che anche l’Italia cadesse nella tragica fatalità
della “legge di trasgressione” da lui teorizzata, secondo cui il i
paesi che lottano per l’indipendenza, una volta raggiuntala, si
propongono necessariamente fini imperiali. Condivido perciò
la tesi espressa da Sivini a p. 47 che “l’approdo teoretico di
Michels al fascismo non è direttamente rinvenibile nel
cambiamento di campo dal socialismo rivoluzionario all’elitismo”: ma
ciò è vero solo perché, infatti, in mezzo
c’è tutta l’elaborazione sul patriottismo nazionalista (di
cui Sivini non parla; cfr in proposito C. Malandrino, Pareto e
Michels: riflessioni sul sentimento del patriottismo, in Id, R.
Marchionatti (a cura), Economia, sociologia e politica nell'opera di
V. Pareto, Studi della Fondazione L. Einaudi, Firenze, Olschki, 1999
e Id., Patriottismo, nazione e democrazia nel carteggio
Mosca-Michels, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, Torino,
2004) e dell’oligarchia carismatica, la quale ultima fornisce
davvero la cifra ideologica dell’adesione di Michels al fascismo
mussoliniano.
46 Cfr. M. C. Giuntella, Autonomia e nazionalizzazione
dell’Università. Il fascismo e l’inquadramento degli Atenei,
Roma, Edizioni Studium, 1992, pp. 109-121.
47 Cfr. C. Malandrino, Michels ‘machiavellian’ o interprete di
Machiavelli?, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero
poltico del secolo XX, a cura di C. Vivanti e L. M. Bassani, Milano,
Giuffré, 2005, pp. 177-194.
48 Cfr. in G. B. Furiozzi (a cura di), Roberto Michels tra politica
e sociologia, Firenze, CET, 1984, pp. 253-263.
49 I testi citati sono in Di Nucci, Michels
«ambasciatore» fascista, cit., p. 100 e in Ricci,
Michels e Mussolini, cit., p. 261.
50 Probabilmente Michels si riferiva agli sviluppi del Preludio al
Machiavelli, che Mussolini aveva preparato nel 1924 in previsione
del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza
nell’Università di Bologna. Ricci, op. cit., p. 257, ricorda
che Michels trascorse l’intero pomeriggio della giornata di Pasqua
1924 con Mussolini, che nell’occasione gli parlò dei suoi
studi sul Machiavelli finalizzati appunto all’obiettivo della
laurea. Poiché tale conferimento non ebbe luogo, il testo fu
pubblicato sulla rivista fascista “Gerarchia”, cfr. R. De Felice,
Mussolini il fascista. La conquista del potere 1925-1926, Torino,
Einaudi, 1966, p. 465.
*
Wikipedia
Elitismo
L'elitismo è una teoria politica basata sul principio
minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano ad
una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino
eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini
interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia,
classe politica, oligarchia.
I presupposti dell'elitismo
Il punto di forza dell'élite è nell'atomizzazione
della massa. Secondo l'elitismo la massa è confusa, dispersa,
incapace di organizzarsi. Su questo caos si fonda la forza
dell'élite, che è invece organizzata e in questo modo
ottiene e mantiene il suo potere. C'è dunque una critica
verso la democrazia, ma non è una critica che scaturisce da
un giudizio di valore, bensì una critica quasi ontologica: la
democrazia, semplicemente, non può esistere, poiché il
popolo non ha le capacità di autogovernarsi e nel momento in
cui si organizza esso porta automaticamente un'élite a
prendere il potere. Si parla di a-democraticità
dell'elitismo, non di anti-democraticità. Per forza di cose,
gli elitisti criticano anche la visione del liberalismo basato sulla
separazione dei poteri (appunto perché il potere è
invece monopolizzato), e criticano il socialismo perché
ritengono che la società - ben lungi dall'essere divisa in
classi - sia frammentata e atomizzata. La visione elitista si
contrappone infine radicalmente a quella del pluralismo:
quest'ultimo infatti ritiene che il potere sia largamente
distribuito (e non monopolizzato) tra gruppi che si equilibrano
(senza quindi formare élite). Al momento della sua nascita la
teoria dell'elitismo (se pur di matrice scientifica) era connotata
da una forte valenza ideologica, in contrapposizione con le teorie
della democrazia radicale e con il marxismo. Il fatto che i
governanti fossero minoranza e i governati maggioranza non è
una cosa nuova (lo stesso Saint-Simon lo afferma); l'elitismo
però, conferisce dignità scientifica a questa costante
storica già osservata. Il fenomeno è proposto come
qualcosa di ineluttabile nella storia della politica: i vecchi modi
di considerare il governo (tripartizioni di Aristotele e Montesquieu
e bipartizione di Machiavelli) sono considerati, secondo questa
visione, obsoleti: sostanzialmente il sistema politico si fonda
sempre sulla dicotomia massa-élite.
Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto
Gli studiosi italiani del primo Novecento, Gaetano Mosca e Vilfredo
Pareto, furono i fondatori dell'elitismo (si parla di: scuola
elitista italiana).
Mosca, che usava il termine classe politica per riferirsi
all'élite, propose il criterio delle tre C per descrivere il
funzionamento dei detentori del potere:
- Consapevolezza; i membri della classe politica
sono infatti consapevoli delle loro comuni posizioni politiche,
sociali ed economiche e dello stato frammentato della massa.
- Coesione; a differenza della masse, i membri della
classe politica si alleano e si organizzano.
- Cospirazione; i membri della classe politica
mascherano il loro governo sulla massa, nascondono il fatto che
vi sia un'élite al potere.
Pareto, che operazionalizzò la teoria elitista anche in
logica e in matematica, riteneva che i membri delle élite
fossero davvero i membri migliori di una società e fossero
quindi legittimati a governarla. Per questo egli utilizza il termine
aristocrazia. A differenza di Mosca ritiene che il potere non sia
monopolizzato da una sola élite, ma che in ogni ambito della
società (in ogni sua sotto-struttura) via sia
un'élite: in ambito economico, culturale, militare ecc.
Pareto, inoltre, riprendendo una differenziazione già
compiuta dal Machiavelli, distingue tra un'élite di leoni e
un'élite di volpi. I primi usano la coercizione, la forza (la
macht weberiana) per comandare; i secondi usano la persuasione e il
mascheramento (la herrschaft). Alla lunga sono le élite di
volpi a perdurare, perché il loro potere poggia su una
legittimità più stabile e duratura. Più che dai
problemi di formazione e di costituzione delle élite, Pareto
è tuttavia interessato a come le élite vengono
sostituite da altre élite. A suo parere esse non sono infatti
destinate a durare nel tempo, ma ad essere sostituite; la storia
è "cimitero di élite”.
Robert Michels
Robert Michels fu il più controverso tra gli elitisti, ma i
suoi studi diedero anche la prova dell'esattezza della tesi
elitista. Allievo di Max Weber, fu socialista e membro del Partito
socialdemocratico tedesco, nella corrente anarco-sindacalista.
Tuttavia, nel suo studio Sociologia del partito politico (1912),
egli afferma che persino nel partito socialdemocratico ci sono
élite che comandano, perché ovunque vi sia
organizzazione vi è anche oligarchia. È
l'organizzazione stessa che produce oligarchia, è nel momento
stesso in cui si tenta di dare ordine sociale al caos della massa
che tende a prevalere un'élite. Lo studio di Michels,
riscontrabile poi in molti altri partiti storici (anche se è
stato poi criticato e rivisto in seguito) mostra poi come le
oligarchie partitiche finiscono per diventare più moderate
delle masse che rappresentano, diventano classiste e gelose del loro
potere, si imborghesiscono e portano il partito alla moderazione e
all'allontanamento dalle ideologie radicali di partenza. Michels si
avvicinò poi al fascismo nell'ultima parte della sua vita,
che trascorse in Italia. La tesi di Michels è stata
denominata "legge ferrea dell’oligarchia"*: l’organizzazione
è la madre del predominio degli eletti sugli elettori. Chi
dice organizzazione dice oligarchia.
Elitismo e fascismo
Da molti, soprattutto in seguito alla Seconda guerra mondiale,
l'elitismo è stato criticato per una sua vicinanza ideologica
ai fascismi. In realtà l'elitismo è una teoria
politica descrittiva più che prescrittiva, cioè si
limita a descrivere la realtà sociale che si delinea con la
presenza dell'elitismo, senza proporre una sua visione, un metodo,
delle regole da seguire. È innegabile tuttavia una vicinanza
di pensiero. Michels, ad esempio, ebbe molti rapporti con Mussolini,
esaltandolo anche in alcuni suoi scritti più tardi. Tuttavia
Gaetano Mosca non aderì al fascismo, pur essendo un
conservatore, ed anzi l'esperienza mussoliniana lo portò a
moderare la teoria elitista. Nel secondo dopoguerra, tuttavia,
l'elitismo classico fu sommerso da critiche di vicinanza al fascismo
e rinacque in una corrente più moderata negli USA.
Traspare da questi autori un certo timore per il socialismo
egualitario; si ha il sentore che la società stia correndo
verso l'egualitarismo (percepito perciò da questi come un
valore negativo) e si sente il bisogno di porre un freno
all’iperdemocraticismo. Nella società si stanno affermando le
istanze del darwinismo politico che inducono a considerare la
politica secondo una visione ristretta. Le stesse rivoluzioni
vengono spiegate e interpretate in chiave elitista: esse non sono
altro che la sostituzione della classe dirigente; il popolo è
solo strumentale a questa dinamica, le masse sono uno strumento di
manovra in mano alle élite politiche in ascesa. Si vuole
ribaltare la filosofia della storia la quale affermava che le masse
stessero andando verso il potere (rivoluzione, moti del 1848,
etc...): le rivoluzioni non sono l'avvicinamento delle masse al
potere, bensì lo strumento per il ricambio dirigenziale
utilizzato dalle élite. A partire dagli anni ’20, con la
pubblicazione della seconda edizione ampliata degli Elementi di
scienza della politica di Mosca, la teoria della classe politica
viene imponendosi per il suo valore scientifico e non per la sua
connotazione ideologica: non è più una teoria
destinata a circoli ultraconservatori ma è avvicinata anche
da sinceri democratici.
Il neo-elitismo
In seguito alla seconda stesura degli "Elementi di scienza politica"
di Mosca prende via un nuovo approccio all'elitismo. Nella seconda
edizione dell’opera moschiana si evidenzia come le classi politiche
possano trarre alimento dalle classi inferiori: la teoria delle
élite si può perciò conciliare con una visione
democratica ; il potere si configura cioè come
liberal-democratico (dal basso all’alto: classe politica allargata)
e non come autocratico (dall’alto al basso).
La teoria elitista è un prodotto della scienza politica
italiana, italiani sono anche i due maggiori interpreti democratici
e liberali della teoria: Guido Dorso e Filippo Burzio. Dorso
sostiene che in ogni società esista un'élite e
descrive quali rapporti debbano intercorrere tra classe politica e
resto della popolazione. La classe politica deve essere sempre
pronta ad accogliere in sé nuovi elementi, essa deve essere
scelta dal basso e l’autogoverno locale deve contribuire a questa
selezione. Burzio esalta il ruolo delle minoranze, le quali
però, secondo lui, si devono proporre e non imporre.
Centrale rispetto alla teoria elitista è anche la figura di
Harold Lasswell, il quale introduce la teoria all’interno del
dibattito politologico americano. Egli pubblica nel 1936 “Chi
ottiene che cosa, quando e come”; in questo libro sostiene che chi
studia la politica si deve occupare esclusivamente delle
élite. La massa non è di nessun interesse per uno
studioso della politica. In “Potere e società” formula una
scala gerarchica delle élite: l’élite più
importante è quella che detiene il potere, esiste però
anche un'élite di tecnici e probabilmente, visto che il mondo
si sta sviluppando tecnologicamente, essa andrà ad acquisire
sempre più importanza.
Una nuova versione dell'elitismo si è sviluppata dal secondo
dopoguerra negli Stati Uniti. Il neo-elitismo parte dello studio di
James Burnham dal titolo I neo-machiavellici, proponendo una visione
anti-statalista. Burnham scrive “La rivoluzione dei manager”, qui
riprende la teoria delle élite e prefigura che la futura
classe al comando sarà la classe dei manager: non coloro che
detengono la proprietà delle industrie ma coloro che hanno il
brainpower per riuscire a portarle avanti deterrà il potere.
Altri studiosi hanno invece parlato di una power élite che
usa i mezzi di comunicazione di massa per affermare e mantenere il
proprio potere sulla massa passiva e confusa. Uno degli studi
più brillanti del neo-elitismo fu svolto nel 1953 da Floyd
Hunter nella città di Atlanta. Per scoprire chi fosse
realmente al potere nella città, Hunter svolse un'analisi
reputazionale, cioè andò a chiedere ai cittadini chi
secondo loro fosse al potere. Ne emerse un quadro in cui le
istituzioni locali, i posti di lavoro, le scuole ecc. facevano tutte
in qualche modo riferimento a un'élite economica dominante.
Questa visione è stata poi criticata da un'analisi svolta nel
1961 da Robert Dahl nella città di New Heaven, che giunse a
conclusioni opposte, vicine alle tesi del pluralismo (di cui Dahl
era esponente).
Fondamentale è anche l'apporto di Charles Wright Mills il
quale scrive “Le élite del potere” (1956), qui muove contro
l'idea dell’America come paradiso dell'uomo comune. La
società statunitense è in realtà estremamente
chiusa e i poteri reali sono nelle mani di poche persone. Esistono
tre élite: quella politica, quella economica e quella
militare. Esse si coalizzano per impedire l’accesso al potere a
persone estranee a questa cerchia. Ad esempio: la figlia di un
generale sposerà il figlio di un grande industriale; da
un'élite, insomma, si passa ad un'altra (lampante è il
caso di Eisenhower che da generale diventa Presidente degli Stati
Uniti).
Quindi Mills afferma che i rappresentanti della élite non
giustificano la loro posizione per il possesso di capacità
superiori, ma solo perché si sono installati in posti
istituzionali di comando, e porta come esempio la scarsa importanza
assunta dagli ex-presidenti statunitensi. Per Mills, l'elitismo
indica inequivocabilmente il segnale di una degenerazione della
democrazia, in quanto lede le garanzie istituzionali.
*
La legge ferrea dell'oligarchia
La legge ferrea dell'oligarchia, formulata nel 1911 dal politologo
tedesco Robert Michels nel suo libro Sociologia del partito
politico, teorizza che tutti i partiti politici si evolvano da una
struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da
una oligarchia, ovvero da un numero ristretto di dirigenti. Questo
deriva dalla necessità di specializzazione, la quale fa
sì che un partito si strutturi in modo burocratico, creando
dei capi sempre più svincolati dal controllo dei militanti di
base. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti si "imborghesisce",
allontanandosi dalla base e diventando un'élite compatta
dotata di spirito di corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a
moderare i propri obiettivi: l'obiettivo fondamentale diventa la
sopravvivenza dell'organizzazione, e non la realizzazione del suo
programma.
Michels, che elabora le sue tesi principalmente grazie
all'osservazione del Partito Socialdemocratico Tedesco, fornisce
quattro prove a sostegno della sua tesi:
- La democrazia non è concepibile senza una
qualche organizzazione.
- L'organizzazione genera una solida struttura di potere
che finisce per dividere qualsiasi partito o sindacato in una
minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza
diretta dalla prima.
- Lo sviluppo di un'organizzazione produce
burocratizzazione e centralizzazione, che creano una leadership
stabile, che col tempo si trasforma in una casta chiusa e
inamovibile.
- L'insorgenza dell'oligarchia deriva anche da fattori
psicologici, in particolare la "naturale sete di potere" di chi
fa politica e il "bisogno" delle persone di essere comandate.
Il punto di vista di Simon Weil
A conclusione d'un saggio del 1950, Note sur la suppression
générale des parties politiques, tradotto da
Castelvecchi come "Manifesto per la soppressione dei partiti
politici", pp. 80, 6,00, Simone Weil scriveva che «quasi
ovunque l'operazione di prendere partito, di prendere posizione pro
o contro, si è sostituita all'operazione del pensiero.Si
tratta d'una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici, e
si è espansa, attraverso tutto il Paese, alla quasi
totalità del pensiero. Non è certo che sia possibile
rimediare a questa lebbra, che ci sta uccidendo, senza cominciare
dalla soppressione dei partiti politici». Erano i partiti in
sé, non tanto l'idea politica che li sorreggeva (i partiti,
pensava Simone Weil, non hanno alcuna idea, specie politica) quanto
i propositi di dominio che li animavano, più o meno morbidi
che fossero, a dettare le sue parole d'allarme: «La
democrazia, il potere della maggioranza non sono un bene. Sono mezzi
in vista del bene, stimati efficaci a torto o a ragione. Se la
Repubblica di Weimar, al posto di Hitler, avesse deciso, per vie
più rigorosamente parlamentari e legali, di mettere gli ebrei
nei campi di concentramento e di torturarli con metodi raffinati
fino alla morte, le torture non avrebbero avuto un atomo di
legittimità in più di quanta ne abbiano adesso.»