I nostri tempi han distrutto, una volta per sempre, le vecchie e rigide forme dell'aristocrazia. Di conseguenza, anche la vita dei partiti politici, sia nello Stato che nei comuni, mostra - se non altro, in teoria - tendenze democratiche. Infatti i partiti politici si fondono sul principio della maggioranza spesso, sul principio della massa sempre. In tal modo, persino i partiti dell'aristocrazia hanno perduto irrevocabilmente l'aristocratica purezza dei loro principi, e se pure in conformità con la loro natura, rimangono, nella quintessenza, antidemocratici, essi debbon tuttavia, almeno in certi periodi della vita politica, contemperarsi alla democrazia od ostentare cuore democratico.
In paesi ove vige il diritto elettorale generale e pareggiato, il cosiddetto suffragio universale, i partiti dell'aristocrazia non conducono che un'esistenza politica stentata, dovuta unicamente al pane dato loro per carità dalle masse, alle quali essi pur negano in teoria e i diritti e la capacità politica. L'istinto della propria conservazione politica costringe i gruppi dei vecchi dominatori a discendere, nei periodi elettorali, dai superbi loro seggi e a ricorrere agli stessi mezzi democratici e demagogici in uso presso il più giovine e più esteso e più basso degli strati sociali, il proletariato.
Vero è che oggigiorno la nobiltà mantiene la supremazia politica per altra via che non sia quella del Parlamento. Per tenere in pugno le redini politiche dello Stato, la nobiltà non ha bisogno, nella più gran parte delle monarchie, di avere per sé la maggioranza parlamentare. Però, non foss'altro che per iscopi decorativi e per influire sull'opinione pubblica, le occorre pure una rappresentanza parlamentare abbastanza considerevole perché possa incutere rispetto. Ma questa non l'ottiene col proclamare i suoi principi più intimi, né col chiamare a raccolta i suoi pari. Col solo appello agli uomini della sua casta ed agli altri cointeressati economici, un partito di nobili o di latifondisti non conquisterebbe nemmeno uno dei collegi elettorali, non potrebbe far spuntare nemmeno un solo dei suoi candidati.
Per fare adunque atto di presenza in parlamento non c'è, per il ceto dei signori, che un mezzo solo: atteggiarsi a democratico nell'arena elettorale, chiamare fratelli e compagni i contadini ed i lavoratori del suolo, e cercar di persuaderli che i loro interessi economici e sociali concordano coi suoi. L'aristocratico si vede quindi costretto a farsi eleggere in base ad un principio di cui non riconosce i cardini e a cui anzi non può serbare che perenne rancore e indomabile sprezzo. Tutto il suo essere reclama autorità, mantenimento di suffragi ristretti e, ove esso sia in vigore, abolizione del suffragio universale, come diritto che pregiudica le sue tradizionali prerogative. Pur tuttavia sentendo istintivamente che nell'era democratica che ha pervaso le genti, egli rimarrebbe, col proprio principio aristocratico, politicamente isolato né riuscirebbe mai a crearsi una base d'azione pratica come partito politico, l'aristocratico fa di necessità virtù ed implora la massa plebea di dargli la maggioranza. Lo spirito conservativo dell'antica casta dei signori, per quanto profonde sian le sue radici, ha bisogno d'avvilupparsi tutto in un ampio manto dalle pieghe democratiche.
La forma esterna democratica su cui si basa la vita dei partiti politici, fa prender facilmente abbaglio sull'inclinazione all'aristocrazia o, per dir meglio, all’oligarchia, a cui soggiace l'organizzazione d'ogni partito. Il campo di osservazione più adatto ed efficace a chiarire tale tendenza ci è offerto appunto dall’intima essenza dei partiti democratici e, fra questi, del partito socialista-rivoluzionario.
Prescindendo dai periodi elettorali, nei partiti conservatori le tendenze all'oligarchia si manifestano con quella naturale schiettezza che corrisponde al carattere, oligarchico per principio, di essi partiti stessi. Ma anche nei partiti sovversivi appare il medesimo fenomeno, con evidenza non minore. Soltanto, ai cultori di scienza politica l'osservarlo qui dà risultati incontrastabilmente più importanti, giacché i partiti rivoluzionari per la loro origine e le loro finalità rappresentano la negazione di tali tendenze, anzi sono sortì dall'opposizione ad esse. Epperò il constatare simili tendenze anche in seno di questi ultimi è un dato di ben maggiore rilievo per l'immanente presenza di tratti oligarchici in ogni aggregato umano costituitesi per raggiungere scopi di ordine politico od economico.
Le forme di cristallizzazione d'ogni giovine movimento sociale mostrano una fisionomia democratica. In faccia al mondo, tutte le giovani classi che stan per sorgere o per affermarsi, fanno, prima di mettersi in marcia per la conquista del potere, la solenne dichiarazione di voler liberare non tanto se stesse, quanto l’umanità intera dal giogo d'una tirannica minoranza, sostituendo al regime dell’ingiustizia quello della giustizia. Allorché la borghesia si accinse ad ingaggiare la grande lotta contro la nobiltà e il clero, incominciò con la solenne Declaration des Droits de l’homme, e si gettò nella mischia colla parola d’ordine: Egalité, Liberté, Fraternité.
Oggi sentiamo un altro possente movimento di classe, quello dei salariati, annunciare ch'esso approfitta bensì, per condurre la lotta di classe, degli antagonismi esistenti nel seno dell'ordinamento economico odierno, ma che però, subendo più che non facendo la lotta di classe, non si prefigge altro scopo che quello di creare una società senza più distinzioni sociali, umanitaria, fraterna. Senonchè, la vittoriosa borghesia dei Droits de l'Homme ha introdotto, è vero, la repubblica, non però la democrazia; e le parole Liberté, Egalité, Fraternité possono leggersi oggi tutt'al più al sommo della porta delle carceri francesi, e la Comune, che rappresentò il primo tentativo coronato da successo, sia pur solo transitorio, di un governo proletario-socialista, ha salvaguardato, nonostante i suoi principi fondamentali comunistici, la Banque de France, nei tempi di acutissima crisi monetaria, più fedelmente di quanto non l'avrebbe fatto un consorzio d'inflessibili capitalisti.
Delle rivoluzioni, ce ne sono state; dei regimi democratici, no. Senonchè, i partiti socialistico-rivoluzionari e democratici scorgono, in teoria, il loro primo fine essenziale, anzi la loro stessa ragion d'essere, nel combattere tenacemente l'oligarchia in tutte le sue forme. Come allora si spiega ch'essi sviluppino in sé medesimi le tendenze stesse, contro cui muovon guerra? Rispondere senza idee preconcette e per via analitica a tale domanda: ecco il nostro compito.
Una classe che elevi verso la società pretese determinate e si studi di mandare ad effetto tutto un complesso di ideologie e di "ideali ", generati spontaneamente dalle funzioni economiche che essa compie, ha bisogno d'organizzazione tanto nel campo economico quanto nel campo politico.
L'organizzazione che si basi sul principio del minimo mezzo, vale a dire del maggior risparmio possibile d'energia, è l'arma naturale concessa ai deboli nella lotte contro i forti; lotta che non può venir combattuta se non sul terreno della solidarietà. Col dire, anche per combattere le idee degli anarchici individualisti, che gli imprenditori nulla vedon più volentieri che il disgregarsi e il disperdersi delle forze ricollegate dei lavoratori, i socialisti democratici, partigiani fanatici dell'organizzazione, enunciano un argomento che coincide coi risultati dello studio scientifico sulla storia delle classi economiche e dei partiti moderni. Difatti, il singolo individuo, specie se appartenente alle classi lavoratrici si trova senza difesa in balia di chi, in potenzialità economica, sia più forte di lui. II principio dell'organizzazione dev'esser quindi considerato la conditio sine qua non per la capacità delle masse alla propria valorizzazione economica.
Ma a Scilla, che consiste nella mancanza d'organizzazione delle masse, di cui l'avversario avvantaggia, sta di contro il principio dell'organizzazione, che in politica è necessario, ma che cela in sé tutti i pericoli di Cariddi. Infatti la fonte, da cui le correnti conservatrici si spandono nella bassa pianura della democrazia producendovi inondazioni che la devastan al punto di renderla irriconoscibile, si chiama organizzazione. Chi dice organizzazione, dice tendenza all’oligarchia. L'organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici. Il meccanismo dell'organizzazione, col produrre una struttura robusta, provoca nella massa cambiamenti notevoli o addirittura sostanziali.
Gli è che essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti. In origine il duce non è che il servitore della massa. La base dell'organizzazione sta nell’uguaglianza fra tutti gli organizzati. Tutti i membri dell'organizzazione vi godono gli stessi diritti. Tutti sono elettori. Tutti sono eleggibili. In essa il postulato fondamentale dei Droits de l'homme è, in teoria, raggiunto. Tutti gli impieghi vengon coperti in via elettiva, e tutti gli impiegati sottostanno al permanente controllo della collettività e possono venir revocati e destituiti quando che sia. Il principio democratico garantisce a tutti i suoi aderenti, senza eccezione veruna, la possibilità di influire sui comuni destini e, al più gran numero possibile, di partecipare all'amministrazione. Ma il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza inevitabile dell’estendersi dell’organizzazione, induce necessariamente i soci a darsi una così detta direzione tecnica, ed a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e competenza, ai soli capi.
Così i duci, che dapprima non erano se non gli organi esecutivi della volontà della massa, diventano indipendenti, emancipandosi dalla massa stessa. L'organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che ne è governata.
Il partito (o, per dir meglio, ogni organizzazione), purché di salda struttura, è un eccellente terreno per le culture intensive. Quanto più si estende e si dirama il congegno ufficiale del partito, ossia quanti più membri il partito acquista, quanto più le sue casse si riempiono e la sua stampa si diffonde, tanto più il dominio popolare vi perde terreno e viene sostituito dall’onnipossenza delle direzioni, dei comitati e delle commissioni. Specie nei grandi centri industriali, in cui il partito operaio conta alle volte centinaia di migliaia di soci -come, a mò d’esempio, a Berlino -, non è più possibile accudire agli affari di questo corpo gigantesco senza ricorrere al metodo delle rappresentanze fisse e stabili.
Col crescere dell’organizzazione aumentano i compiti degli amministratori, mentre la possibilità di sorvegliarli si restringe e l'ambito degli obblighi e delle diverse sfere d'azione si allarga, si divide e si suddivide ancora. I soci devon rinunciare a poco a poco ma in misura sempre crescente a diriger di persona, nei singoli casi, gli affari dell’amministrazione, e persino a sottoporla poi a controllo. Essi devono affidare tale incarico agli organi a ciò destinati, ai funzionari stipendiati, accontentandosi pertanto di resoconti più che sommari o di delegare dei revisori. Il controllo democratico si ritrae nei limiti di una sfera oltremodo ristretta. Un numero ognora maggiore di funzioni, già esercitate dalle assemblee autonome e sovrane dei soci, passa nelle mani dei fiduciari. Così si innalza un potente edificio, di struttura complessa. Il principio della divisione del lavoro si fa strada e le specializzazioni prendono il sopravvento. Cosi si forma una gerarchia rigorosamente delimitata, con numerose gradazioni. La scrupolosa osservanza della via burocratica diventa l'articolo primo del catechismo in cui i doveri degli aderenti al partito sono annoverati.
La tendenza burocratica ed oligarchica assunta dall'organizzazione dei partiti anche democratici è da considerarsi senza dubbio quale frutto fatale d'una necessità tecnica e pratica. Essa è il prodotto inevitabile del principio stesso dell'organizzazione.
Ma vi è ancora un altro coefficiente, che contribuisce non poco a produrre il medesimo effetto. Il moderno partito politico è altresì un'organizzazione di guerra. Come tale, esso deve piegarsi alle leggi della tattica. Ora, la legge fondamentale della tattica è la prontezza alla battaglia, la indefessa preparazione alla lotta. Senonché, democrazia e prontezza sono concetti assolutamente inconciliabili. Ciò venne riconosciuto già da Ferdinando Lassalle, il grande capo-partito socialista-rivoluzionario, quand'egli propugnò l'idea che la dittatura personale, esistente di fatto nella sua associazione, dovesse venir dichiarata giustificata dalla teoria e proclamata indispensabile in pratica. Egli stabilì esplicitamente che i soci dovevano lasciarsi guidare passivamente dal loro duce e che l'associazione doveva esser simile ad un martello nella mano del suo presidente. Questo era un precetto di necessità politica, specie poi in quei primordi del movimento operaio, ancora puerilmente maldestro; ed era anche l'unico modo per assicurarsi potenza e stima di fronte ai partiti della borghesia. La rapidità delle decisioni restava garantita dal centralismo.
Restava, e resta. Una grande organizzazione è già in sé un ingranaggio di molta pesantezza. Le grandi distanze, e la perdita di tempo che deriverebbe, se si volesse spiegare alle masse i singoli problemi quotidiani che richiedono decisioni rapide, sia pur solo affinché esse acquistino una capacità relativa a farsi un giudizio, comportano l'impossibilità d'un regime democratico nella sua schietta forma originaria, giacché con questo non si potrebbe fare se non una politica di ritardi e di buone occasioni mancate; né in tale modo il partito politico riuscirebbe comunque a conservare la sua attitudine a stringere alleanze politiche e la necessaria duttilità tattica. In altri termini, il regime democratico non è affatto confacente ai bisogni primordiali del partito politico. Al partito che conduca una guerra -ed anche solo una guerriglia – occorre una armatura gerarchica. Senza di che, esso potrebbe paragonarsi alle sterminate orde amorfe e selvagge dei Negri africani, la cui arte guerresca naufraga nella mischia con un qualsiasi battaglione ben disciplinato di soldati addestrati all'europea.
Così adunque -per motivi d'indole tecnico-amministrativa e di tattica – si forma un corpo direttivo di professione, il quale, sulla base di procure, accudisce da padrone agli affari della massa. Le masse delegano un piccolo numero di singoli individui che le rappresenta permanentemente.
Ora l'inizio della formazione d'un corpo direttivo di professione denota il principio della fine della democrazia. E ciò in prima linea per la logica impossibilità dello stesso sistema di rappresentanza.
Rousseau ed i socialisti francesi della prima metà del secolo XIX hanno enunciato una profonda verità quando sostenevano che una massa che deleghi la propria sovranità, ossia la conferisca ad un esiguo numero di individui, abdica alla sovranità. Egli è che la volontà di un popolo non è conferibile, e nemmeno quella d'un singolo individuo. Ciò vale in grado ancor maggiore per un’epoca, ove la vita politica assume forme di giorno in giorno più complesse, e quindi ogni giorno più insensato diventa il voler “rappresentare” una massa in tutte le miriadi dei più svariatissimi problemi della vita politica ed economica. Rappresentare, significa spacciare la volontà di un singolo per volontà d’una massa. In casi particolari ed in questioni ben delineate e semplici, la identificazione sarà anche conforme a verità. Ma una rappresentanza prolungata significa senz’altro il dominio dei rappresentanti fondato su un equivoco.
Il formarsi d'un gruppo direttivo di professione conduce altresì ad un aumento considerevole della disparità di cultura che intercede tra i condottieri e i condotti. Una lunga esperienza, basata sulla storia, insegna che gli elementi del dominio esercitato dalla minoranza sulla maggioranza vengono formati sopra ogni altra cosa, oltre che dal fattore del denaro e del capitale – superiorità economica -e dal fattore della tradizione e della educazione – superiorità storica – dal fattore della cultura – superiorità intellettuale -. Ora, nei partiti del proletariato ci colpisce al primo sguardo il fenomeno che, in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all'esercito.
Questa superiorità è in prima linea d'ordine puramente formale. In paesi ove lo sviluppo politico ed una spiccata predisposizione psicologica di quella sotto-classe della borghesia, che diremmo intellettuale, fanno affluire al partito dei lavoratori un gran numero di avvocati, di medici e di professori universitari, come in Italia, tale superiorità si constata facilmente. Non ad onta, anzi, appunto a causa della superiore cultura formale da essi acquistata nel campo nemico, e che portano con sé nella loro diserzione nel campo dei proletari, i fuoriusciti della borghesia diventano i capi del proletariato organizzato.
In altri paesi gli strati della borghesia incalzano contro i rivoluzionari con un’intransigenza cosi accanita da additare i propri elementi, passati al partito operaio, al completo boicottaggio sociale e politico; e le classi lavoratrici, in virtù della meravigliosa organizzazione dello Stato, e sotto la pressione della grande industria, che esige dai propri addetti un certo grado d'intelligenza, si trovano in possesso d'una cultura scolastica, sia pure elementare, che esse spesso procurano d'estendere e di completare con diligenti studi privati. In questi ultimi paesi rintracciasi, alla testa dei lavoratori, accanto a un piccolo numero di intellettuali, una immensa maggioranza di ex operai.
Epperò anche questi ex operai non si trovano più al medesimo livello di cultura dei loro antichi compagni. Il meccanismo del partito, col suo gran numero d'impieghi e di cariche onorifìche, offre agli operai la possibilità di far carriera; e spiegando in tal guisa una forza d'attrazione non comune, tende alla trasformazione, intesa in senso sociale, di una schiera di proletari, più o meno intelligenti, innalzandoli alla qualità d'impiegati fissi del partito e mettendoli quindi nelle condizioni di esistenza della piccola borghesia; e ciò col procurare loro, a proprie spese, agio e opportunità di acquistarsi una cultura superiore ed una certa cognizione delle cose della vita pubblica. In tal tirocinio gli ex operai acquistano una routine, che li rende sempre più superiori ai loro mandanti, e fa si che finiscano col perdere il sentimento della propria comunanza colla classe da cui ebbero origine. Fra i capi proletari e l'esercito proletario sorge una vera differenza di classe sociale. In questo modo i lavoratori, colle loro proprie forze, si creano dei nuovi padroni i quali possono contare, nell'arsenale degli strumenti di dominio, come su una delle loro armi più potenti, soprattutto sull'incremento della propria cultura dovuta agli oboli dei loro compagni nelle fabbriche.
Prescindendo dagli anarchici -che in politica esercitano scarsa influenza, e inoltre in parte si oppongono a qualsiasi organizzazione, oppure sono organizzati in organizzazioni così rilassate ed elastiche da non poter esser propriamente considerate come formanti un partito -tutti i partiti hanno un obiettivo parlamentare. La via su cui essi muovono è la via legalitaria ed elettorale; loro scopo immediato è il conseguire influenza in parlamento; loro ultima finalità è la così detta conquista del potere politico. In tale guisa resta spiegato perché anche i rappresentanti dei partiti rivoluzionari entrino a far parte della assemblea legislativa. Ma il lavoro parlamentare che essi vi compiono, dapprima contro voglia, poi con crescente compiacimento ed interesse, li trasporta ancor sempre più lontano dai loro elettori. Le questioni che lor si presentano e che esigono di venir da essi seriamente studiate, hanno per effetto di allargare e di approfondire le loro cognizioni e di aumentare quindi sempre di più il divario tra loro e i compagni rappresentati.
Non è, adunque, soltanto un divario puramente iniziale tra i rappresentanti dei partiti detti rivoluzionari e i loro compagni, che l'attività parlamentare ingrandisce. Addestrandosi nei dettagli della vita politica, nei particolari della legislazione, delle questioni tributarie, delle questioni daziarie e nei problemi della politica estera, i capi acquistano un valore che -almeno finché la massa si attiene alla tattica parlamentare, ma forse anche se vi rinunzia -li rende indispensabili al partito; e ciò per il fatto ch'essi ormai non potrebbero più venir sostituiti senz'altro da altri elementi del partito non facenti parte del meccanismo burocratico perché accudiscono invece alle loro quotidiane occupazioni, che li assorbono completamente.
E così dalle cognizioni di causa vien virtualmente creata, anche in questo campo, una inamovibilità che è in contraddizione coi principi fondamentali della democrazia. Le cognizioni di fatto che innalzano definitivamente i capi al di sopra della massa rendendosela schiava, acquistano una base ancor più salda per i bei modi e pel savoir faire in società, che i deputati imparano nei parlamenti, come pure per lo specializzarsi, frutto in particolar modo del lavoro compiuto nella camera oscura delle commissioni.
E’ naturale ch'essi applichino poi gli stratagemmi, ivi appresi, anche nei loro rapporti col partito. Con ciò riescono facilmente a vincere eventuali correnti loro contrarie: Nell'arte di dirigere le adunanze, di applicare ed interpretare il regolamento e il programma, di presentare opportuni ordini del giorno in momenti opportuni, in breve, negli artifici atti a toglier di mezzo dalla discussione i punti importanti ma loro ostici od anche ad indurre una maggioranza mal disposta a votare in loro favore o, nel caso più sfavorevole, a farla ammutolire, essi sono maestri. Quali relatori e competenti che conoscono persino i più reconditi penetrali del tema che han da trattare, e che a forza di raggiri, parafrasi ed abilità terminologica, san trasformare anche le questioni più semplici e più naturali del mondo in tenebrosi misteri, dè quali essi soli possiedon la chiave, essi sono, in linea intellettuale, del tutto inaccessibili e, in linea tecnica, del tutto incontrollabili da parte delle grandi masse, di cui ognuno di essi si atteggia ad essere "l’esponente teorico".
Essi sono i padroni della situazione. In questa posizione essi vengon vieppiù fortificati dalla fama che si vanno acquistando, sia come oratori, sia come studiosi o conoscitori di determinate materie, sia anche con le attrattive della loro personalità intellettuale oppur soltanto fisica -nella stessa sfera dé loro avversari politici e, per tal modo, anche nell'opinione pubblica. Se le masse organizzate congedassero uno dei loro leaders, generalmente riconosciuto e stimato, il partito dovrebbe subirne la conseguenza con un discredito di non poco momento agli occhi della gente.
Se adunque le masse del partito spingessero le divergenze fra loro ed i duci ch'esse medesime si sono eletti fino al punto della rottura completa, esse rimarrebbero " senza capo" nel doppio senso della parola, anche perché da una simile situazione deriverebbe loro un danno politico incommensurabile. E ciò non soltanto perché esse non dispongono, così senz'altro, di sufficiente qualità e quantità di forze nuove, tali da poter sostituire le forze vecchie che, grazie ad una pratica di decenni, conoscono a fondo la materia politica, ma anche perché alla personale influenza ed alla salda autorità parlamentare dei capi, esse devono buona parte de loro successi nel campo della legislazione sociale e nella sanzione di principi generali di libertà politica. Le masse democratiche si trovano perciò in una posizione senza uscita, dovendo concedere sotto pena di suicidio politico ai loro gros bonnets un potere che, a lungo andare, elimina il caposaldo medesimo della democrazia.
Il più forte diritto dei duci consiste nel fatto che essi sono indispensabili.
Così dunque al primo passo è seguito il secondo. La creazione di un ente direttivo di professione non fu che il preludio del formarsi di una direzione stabile ed inamovibile. Tale sviluppo viene ancora accelerato da certe qualità che son comuni a tutto il genere umano. Ciò che fu iniziato da necessità d'organizzazione, d'amministrazione e di strategia, verrà ultimato da necessità psicologiche. La coscienza della propria forza suole destare la smania di dominio, latente in ogni cuore umano. E’ questa una nozione elementare di psicologia. Di regola, chi giunge ad impadronirsi di un qualsiasi potere, sarà poi sempre intento a rafforzarlo e a consolidarlo, a circondare di nuovi baluardi la posizione acquisita, ed a sottrarsi al dominio e al controllo delle masse.
La naturale sete di comando dei capi viene assecondata dal naturale bisogno della folla di venir guidata, nonché dalla sua indifferenza. Nelle masse vi è proprio un profondo impulso a venerare chi sta in alto. Nel loro primitivo idealismo, esse han bisogno di divinità terrestri, alle quali si attaccano di affetto tanto più cieco, quanto più aspramente la durezza della vita le afferra.
Sovente questo bisogno di adorare è l'unico rocher de bronze che sopravviva alla metamorfosi delle loro convinzioni. Negli ultimi anni, gli operai delle fabbriche della Sassonia son divenuti, da pii protestanti che erano, socialisti-democratici. Può ben darsi che tale evoluzione abbia provocato in essi l'inversione di tutti i valori.
Ma dalla parete del modesto abituro essi non tolsero l'obbligatorio ritratto di Lutero che per sostituirlo con quello di Bebel, appunto come nell'Emilia, ove avendo i lavoratori della terra subito la medesima evoluzione, l'immagine della Madonna non cedette il posto che a quella dell'onorevole Prampolini, o a quella di Enrico Ferri, il "flagellatore della camorra". Sotto le macerie del loro modo di pensare nel passato, la colonna trionfale del bisogno di adorare rimase in piedi ed intatta. Dalla delegazione, prende le mosse e si sviluppa il diritto morale alla delegazione. Chi sia stato delegato una volta, facilmente resta in carica, in quanto non glielo impediscano delle disposizioni statutarie, senza interruzione. L'elezione ad uno scopo determinato si muta in impiego a vita. La consuetudine diventa diritto. Il capo, che per un certo periodo di tempo sia stato successivamente delegato, finisce coll'aspirare alla continuazione della delegazione come a un suo buon diritto. Caso mai gli si negasse di continuare questo diritto, egli minaccia subito rappresaglie, tra le quali il dare le dimissioni è ancora la più innocua; e crea in tal modo gravi imbarazzi ai compagni del suo partito. Ma tali incidenti finiscono quasi sempre -e vedremo in seguito per quali motivi -colla vittoria del capo.
La composizione dei congressi del partito va diventando sempre più stabile. In altre parole: le masse tornano a rieleggere ogni volta i medesimi rappresentanti. Sicché i congressi, più che congressi di un dato partito, sembrano talvolta congressi di impiegati.
Anche i fortunati possessori delle posizioni più eminenti nel partito, che d'altronde vengono distribuite mediante elezioni indirette e che sono di loro natura cariche democratiche sottoposte a continuo mutamento, tentano di prolungare vita natural durante il termine della "procura generale" loro affidata. Lì pure l'incarico diventa un ufficio, e l'ufficio si tramuta in impiego fisso.
Nel regime dei partiti democratici, i capi diventano più inamovibili e più inviolabili di qualsiasi corporazione aristocratica. La durata media del loro ufficio sorpassa di gran lunga la durata media dell'ufficio di ministro negli Stati monarchici. Si è calcolata la durata media dell'ufficio di ministro in Germania a quattro anni ed un terzo. Invece, nella direzione del partito socialista tedesco, vediamo per oltre quarant'anni i medesimi uomini rivestire come capi le cariche ministeriali del partito stesso. La loro riconferma, richiesta dalle disposizioni statutarie dopo un periodo di tempo più o meno lungo, diventa una pura formalità, una cosa che va da sé.
Per capire questo fenomeno, bisogna spiegarlo prendendo in considerazione, più di ogni altra cosa, il gran fattore della tradizione, con la quale le masse rivoluzionarie si sono immedesimate non meno delle consorterie conservatrici. L'attenersi logico ai principi fondamentali della democrazia richiederebbe il non aver riguardo alcuno a tradizioni personali ed a sentimentalismi, ed esigerebbe anzi che la suprema direzione venisse cambiata ogni qual volta fosse necessario, in seguito al cambiamento della maggioranza nel seno del partito diviso in diverse correnti o tendenze.
In tali condizioni le forze vecchie tra i capi dovrebbero ceder il posto alle forze nuove, agli ultimi conquistatori del potere nel partito. D'altronde anche prescindendo da ciò, una massa, imbevuta di principi veramente democratici, dovrebbe forzatamente mirare a non lasciare troppo a lungo le stesse persone in una posizione di autorità e di impedire ch'essi si arrugginiscano acquistando la convinzione di non poter essere che loro gli eletti del popolo.
Invece, il misoneismo della tradizione insieme all'istintivo bisogno di una politica stabile, son causa del fenomeno che il corpo direttivo dei partiti democratici sia, quasi sempre, più l'espressione del passato che del presente. La direzione del partito -come avviene, a mò d'esempio, da oltre trenta anni nel partito socialista tedesco -vien riconfermata non già perché rappresenti, nel momento della riconferma, la risultante delle forze del partito, bensì pel semplice fatto che esiste. E’ la legge d'inerzia o, per servirsi di un termine eufemistico, la legge della stabilità, che prolunga ai capi il mandato sino alla loro morte.
Senonchè un altro momento ancora, eticamente più attraente, coopera alla formazione di tale fenomeno: la gratitudine delle masse verso delle persone la cui opera, in fondo, è stata per esse di non poca utilità e che spesso, per amore della comune "idea", han dovuto subire persecuzioni, esilio e carcere. E’ opinione assai diffusa nelle masse che sarebbero "ingrate" se non riconfermassero sempre di nuovo un duce "benemerito " nelle sue funzioni.
La mentalità speciale che, in tali condizioni, si va formando nei duci, è uguale in tutti i partiti. La differenza di cultura e di competenza, realmente esistente tra i membri del partito, spicca anche nella distribuzione degli incarichi. Forte della propria superiorità routiniére i capi impongono alle masse obbedienza, in nome di quella. Sembra loro cosa rivoltante, che l'esercito degli organizzati agisca in senso contrario alle loro proposte, o non si pieghi alle loro ammonizioni. Di fonte a siffatte disobbedienze, essi non possono trattenersi dall'assumere un tono di vera indignazione. Essi riguardano come grande e deplorevole mancanza di tatto e di educazione da parte delle masse, il fatto che esse non tengano conto dei consigli dei rappresentanti, peccato tanto più grave inquantochè le masse, eleggendoli spontaneamente a capi, li hanno rivestiti, come essi credono, della stessa invulnerabile sovranità popolare.
I capi insistono sull'incapacità della folla a giudicare, per tenerla lontana dagli affari. Essi si convincono che al partito non può convenire che la minoranza dei compagni, avvezzi a seguire e ponderare le questioni politiche, venga sopraffatta dalla maggioranza, composta di coloro che non sono capaci di formarsi un giudizio in casi determinati; e perciò si dichiarano contro il referendum o, almeno, nella vita vissuta del partito, non ne fanno uso.
Per scegliere il momento propizio all'azione, occorre una perspicacia che soltanto pochi dei singoli componenti una massa possiedono, mentre la maggior parte di essi segue le impressioni e gli impulsi del momento. Un gruppo ristretto di impiegati e di fiduciari, che deliberino a porte chiuse, sottratti così all'influsso delle relazioni colorate e svisate della stampa, e dove ciascuno può parlare senza aver da temere che le sue parole vengano riportate nel campo avversario, ha maggiori probabilità di emettere come corpo deliberante un giudizio oggettivo.
Per sostituire, per quanto è possibile, l'elezione diretta con l'indiretta, si mette in campo, oltre ai motivi politici, la struttura complessa dell'organizzazione del partito; mentre per l'organizzazione dello Stato, che pure è tanto più complicata, si propugna, tra gli stessi capisaldi del programma, la legislazione diretta, chiedendo che si dia a ogni singolo cittadino il diritto di proporre leggi o di proporne l'eliminazione.
Quest'antinomia invade tutta la vita del partito. Ogni nuova corrente d'opposizione in seno al partito viene biasimata come se fosse nient'altro che un espediente di demagogia; l'appello diretto alla massa da parte degli elementi non soddisfatti dei dirigenti del partito, per quanto possan esser nobili i motivi che lo provocano, e sebbene esso sia da considerarsi senza dubbio quale diritto fondamentale d'ogni democrazia, viene respinto come scorrettezza o, addirittura, bollato col marchio d'infamia, quale maligno tentativo fatto unicamente per distruggere la disciplina del partito, e dietro istigazione di volgari sobillatori.
Oggetto di particolare zelo è il far sì che le masse, non foss'altro che per motivi tattici, a garanzia della necessaria coesione di fronte al nemico, non abbiano in alcun caso a perdere la fede nei dirigenti che si sono dati. Questo è il criterio, in base al quale ogni severa critica sull'oggettiva manchevolezza del movimento vien tacciata di attentato contro il partito stesso, e gli uomini che fanno capo all'opposizione vengono messi alla gogna come detrattori e nemici del partito e delle masse.
Non è chi non veda come la tattica e la pratica del partito rivoluzionario non si allontanino granché dalla tattica e dalla pratica del governo borghese. Persino la terminologia nella lotta del governo contro i sovversivi e delle lotte del socialismo ufficiale contro i "miserabili" è -riservatis riservandis -identica. I medesimi rimproveri contro i ribelli; i medesimi argomenti a difesa dello statu quo; lì, conservazione dello Stato, qui, conservazione del partito nella sua forma attuale; la medesima confusione di idee nello stabilire il rapporto tra cosa e persona, tra individuo e collettività.
Non v'è quasi capo-partito importante, che non pensi e non agisca e -se è uomo risoluto e di carattere onesto -non dica apertamente: Le parti c'est moi!, parafrasando il motto attribuito al Re Sole.
L'identificazione
del burocrate con tutto il partito, e degli interessi dell'uno
con gli interessi dell'altro, ben spesso non potrebbe esser
più completa. Se il capo viene aggredito, la prima cosa che
egli fa è di riferire l'attacco al partito; e ciò non soltanto
per considerazioni di opportunità, ossia per assicurarsi in
tal modo l'appoggio di tutto l'ente a scopo di atterrare
l'aggressore col peso e colla preponderanza della massa, ma
altresì per ingenua confusione tra la particella e il tutto.
I duci stessi, se rimproverati di contegno antidemocratico, se ne appellano alla volontà delle masse che li tollerano, e quindi alla loro qualità di rappresentanti ed eletti. Fintanto che le masse -essi dicono -ci eleggono e ci rieleggono, noi siamo la legittima manifestazione della volontà delle masse e coincidiamo con essa. La nostra azione è dunque, eo ipso, azione della massa. In teoria, questa difesa è piana e chiara e non ammette contraddizioni di sorta. Ma in pratica, le elezioni dei capi da parte delle masse si compiono con tali metodi, e sotto così forti suggestioni e altre costrizioni morali delle masse stesse, che la loro libertà di decisione appare in sommo grado limitata. E se ciò non appare sempre dalle elezioni, è però un fatto costante nelle rielezioni.
Il sistema democratico nel partito si riduce, in fondo, senza alcun dubbio, al diritto delle masse di scegliersi da sé, in determinati momenti, quei padroni, ai quali esse nel frattempo debbono assoluta obbedienza; al sistema, cioè, che nella storia degli Stati abbiamo imparato a conoscere sotto il nome del sistema plebiscitario o bonapartistico.
L'onnipotenza della burocrazia, liberata del tutto, nella pratica, dall'obbligo di una resa di conti, finisce per innalzarsi a dittatura, poiché essa nella sua qualità di amministratrice del patrimonio del partito, dispone anche di mezzi di natura economica e politica (come la stampa, le casse, la facoltà di pubblicare e diffondere,
o meno, gli scritti degli aderenti al partito, di assumere oratori stipendiali, ecc.); mezzi ch'essa può sempre precludere, e difatti preclude a concorrenti male accetti e agli elementi irrequieti della massa.
In forza di un'evoluzione nel medesimo senso, oggigiorno vediamo anche i capi dei partiti democratici e socialisti rivoluzionari, muniti di ampi poteri, far una politica di propria testa, del tutto indipendente dalla collettività. La generale abitudine di non rispettare le decisioni in questioni di tattica, affidate loro come inviolabili dalla sfera direttiva più vasta (ossia dalle riunione del partito, dai congressi e così via); di non prendere risoluzioni importanti se non en petit comité, sottoponendo poi alla collettività il fatto compiuto (per es. col fissare i congressi dopo le elezioni, in modo che i capi siano gli unici a decidere sul programma elettorale); gli accordi segreti dei capi tra di loro (come in Germania la segreta, anzi clandestina intesa sulle questioni del primo maggio e dello sciopero generale da parte della direzione del partito socialista con la Confederazione generale del lavoro); gli impegni e le convenzioni prese alla chetichella, col governo; l'imposizione del silenzio attorno a certe deliberazioni ed accordi presi, considerata come scorretta soltanto nel caso che sia stata applicata dal basso all'alto ossia alla direzione, e non però dall'alto al basso (ossia di fronte alle masse del partito): ecco i frutti giornalieri e naturali del sistema oligarchico, in vigore anche nei partiti della democrazia.
I capi tendono a rinchiudersi tra di loro, formando una specie di lega o se vogliamo, un trust, circondandosi così d'una alta muraglia, oltre la quale essi non lascian passare che gli elementi loro accetti e loro soggetti. Invece di lasciare questo compito alle elezioni delle masse, essi talvolta cercano di scegliere i loro successori da sé, e di completarsi, in via diretta o indiretta, per mezzo di un opzione autocratica. Già oggi possiam rintracciare i rudimenti di questa evoluzione in tutte le corporazioni socialiste-democratiche ben organizzate tanto che chi predilige il paradosso potrebbe ben sentirsi tentato di valutare questo processo come primo sintomo del passaggio dal sistema del bonapartismo plebiscitario al sistema della monarchia per diritto ereditario.
Tutte le parole usuali per esprimere il dominio della massa o della maggioranza, come sarebbe Stato, cittadinanza, rappresentanza popolare, partito ecc., indicano soltanto un principio legale, soltanto un ideale, uno scopo ma non un fatto reale ed esistente. Alle masse tale differenza sostanziale è ancora del tutto ignota. Il proletario d'oggi subendo l'influenza delle costanti forze di un arte oratoria instancabile, esercitata da elementi eletti dal proletariato stesso, ma a lui superiori per grado di cultura, ha concepito l'idea fissa che gli basti creare un posto nuovo nella burocrazia operaia per un nuovo impiegato o gettare una scheda nell'urna, vale a dire affidare la sua causa economico-sociale ad un avvocato politico, per divenir così egli stesso compartecipe del potere.
La scienza ha il dovere di strappar questa benda dagli occhi delle masse. E ciò per diversi motivi. Per amor delle masse; per amore dell'avvenire della democrazia posto che la democrazia abbia un avvenire -; ma soprattutto per amor di sé stessa, proseguendo una indagine gnoseologica.
Riassumendo quanto abbiamo detto finora, il risultato finale della nostra analisi è il seguente.
La formazione di regimi oligarchici nel seno dei regimi democratici moderni é organica. In altri termini, essa è da considerarsi quale tendenza, alla quale deve soggiacere ogni organizzazione, persino la socialistica, persino la libertaria. Questa tendenza si spiega in parte con la psicologia, cioè coi cambiamenti psichici che le singole personalità subiscono nel corso del loro moto evolutivo nel partito; in parte invece anche, ed anzi in primo luogo, con ciò che si potrebbe chiamare la psicologia dell'organizzazione stessa, vale a dire colle necessità di natura tattica e tecnica, che derivano dal consolidarsi dell'aggregato in ragione diretta del suo procedere disciplinatamente sulla via della politica.
Se vi è una legge sociologica, a cui sottostanno i partiti politici -e prendiamo qui la parola politica nel suo senso più lato -questa legge, ridotta alla sua formula più concisa, non può suonare che all'incirca così: l'organizzazione è la madre della signoria degli eletti sugli elettori.
L'organizzazione di ogni partito rappresenta una potente oligarchia su piede democratico. Dovunque, in essa, si rintracciano elettori ed eletti, ma, pure dovunque, dominio quasi illimitato dei capi eletti sulle masse elettrici. Sulla base democratica s'innalza, nascondendola, la struttura oligarchica dell'edificio.
Resterebbe ancora da indagare se l'essenza oligarchica dell'organizzazione porti fatalmente con sé, o meno, manifestazioni oligarchiche ed una politica oligarchica. Che la politica interna dei partiti organizzati sia conservativa nell'anima, od almeno in procinto di diventarlo, risulta chiaramente senz'altro da quanto abbiamo detto fin qui. Ma ben vi sarebbe forse la possibilità che la politica esterna di questo ente conservativo sia estremamente violenta e radicale; che l'antidemocratico centralizzarsi del potere nelle mani di pochi capi partito non sia che una arma di natura tattica, per poter ancor meglio, al momento dato, stravincere l'avversario; che gli oligarchi abbiano soltanto il compito provvisorio di educare le masse alla rivoluzione, e che quindi il meccanismo dell'organizzazione sia al servizio di un blanquismo applicato e corretto. Eppure, come vedremo subito, a questa possibilità si oppone a sua volta l'essenza del partito organizzato, quale mirante ad ottenere la maggioranza.
Nel seno dei partiti democratici, le lotte per i grandi problemi stan diventando impossibili. L'esame attento e spassionato dei partiti democratici ci dimostra che le grandi divergenze d'opinione e le lotte d'idee si svolgono sempre meno a base di principi e colle pure armi della teoria, ma che esse generalmente tendono, al contrario, a degenerare presto in litigi personali per finire in ultimo, in un modo o nell'altro, con lo sparire, inavvertitamente e completamente, dalla superficie. La politica del quieto vivere è la conseguenza inevitabile d'una organizzazione basata su tendenze burocratiche e di una propaganda che ritiene quale obiettivo suo più importante quello di acquistare il più gran numero possibile di nuovi aderenti, considerando quindi qualsiasi lotta di idee nelle file del partito come una male accetta perturbazione dei suoi compiti principali. Ma il riguardo dovuto agli elementi che hanno appena aderito o stanno per aderire e ai cosiddetti simpatizzanti, che sono ancor molto lontani dalle concezioni del socialismo o della democrazia, non possono non impedire che si faccia una politica a base di principi.
L'ultimo anello della lunga catena di fenomeni, che imprimono all'intima essenza d'un partito politico, quand'anche esso si adorni del titolo di rivoluzionario, un carattere conservativo, scaturisce dai rapporti del partito collo Stato. Sorto allo scopo di prendere il sopravvento sulla potenza centralizzata dello Stato, il partito ha cominciato col centralizzare potentemente se stesso.
Esso s'accinge a diventare un partito di governo, ossia un partito che, organizzato come un governo in miniatura, spera di poter assumere un giorno il governo per davvero. Il partito politico rivoluzionario è uno Stato nello Stato, formatosi con la mira manifesta di minare e poi seppellire lo Stato in vigore, onde sostituirlo finalmente con uno Stato di forma sostanzialmente diversa.
Solo a
questo fine, adunque, diretto apertamente contro lo Stato
attuale, il partito si serve, in teoria, dell'organizzazione,
la quale ha diritto di esistere unicamente perché intesa a
preparare sistematicamente, con i metodo correnti, secondo
tutte le regole dell'arte della guerra, e con i mezzi più
adatti allo scopo e, nello stesso tempo, più spicci, la
demolizione dell'organizzazione dello Stato nella odierna sua
forma. Il partito sovversivo organizza nei suoi quadri la
rivoluzione sociale. Di qui tutti i suoi sforzi quotidiani
allo scopo di fortificare le sue posizioni, di accrescere il
numero dei suoi aderenti, di estendere il suo meccanismo
burocratico, di accumulare i suoi capitali. Ogni nuovo
amministratore, ogni nuovo segretario di partito, che venga
assunto al suo servizio, costituisce in teoria un nuovo agente
della rivoluzione; ogni nuova sezione è un nuovo battaglione;
ogni nuovo biglietto da mille, sia esso ottenuto da
contribuzioni di soci o guadagnato per mezzo della stampa, o
proveniente da oboli dovuti alla generosità di ricchi
mecenati, è, in teoria, un baluardo in più nella lunga e
costosa guerra contro l'avversario.
Ma i capi di questo corpo rivoluzionario, in mezzo allo Stato autoritario -che adotta mezzi identici ed è pervaso dallo stesso spirito di ferrea disciplina – non possono fare a meno di comprendere che, di fronte all'organizzazione ufficiale dello Stato, la organizzazione loro, per quanti miracoli possa compiere, non è tuttavia che una monca edizioncella stereotipata dello Stato. A meno dell'avverarsi di avvenimenti straordinari, per molti decenni ancora ogni tentativo di mettere a prova la sua forza dinamica necessariamente finirà in una rovinosa sconfitta. La conseguenza logica di tale constatazione rende manifesto proprio il fenomeno opposto a quella speranza giovanile, dalla quale i fondatori del partito si eran lasciati guidare nei bei tempi della sua giovinezza.
Infatti, il partito, col crescere della forza e della potenza della sua organizzazione, avrebbe dovuto guadagnare pure in potenza rivoluzionaria. Invece vale l'osservazione contraria: vi è un intimo nesso fra il crescere del partito ed il crescere della prudenza e della timidezza della sua politica. Divenuto grande, il partito, continuamente minacciato dallo Stato nella sua esistenza, e perciò da lui dipendente, si sforza continuamente di evitare tutto quanto potrebbe irritarlo oltre misura. D'improvviso, il sentimento della responsabilità incomincia ad agitarlo da cima a fondo. Al fine di scansare ogni conflitto acuto collo Stato, il partito prende ad opporsi, con tutta l'autorità di cui dispone, alle tendenze radicali sopravissute nel suo seno, e che aveva finora lasciate vivacchiare tranquillamente.
Nei suoi giovani anni, il partito non si stancava mai di mettere in luce il suo carattere rivoluzionario; e rivoluzionario non soltanto per la natura della sua meta, ma anche per la scelta dei suoi mezzi, pur non preferendoli per principio. Ma, fattosi vecchio e caduco o, per dirla con termini eufemistici, più maturo in politica, esso non indugia a modificare la sua originaria professione di fede, affermandosi rivoluzionario soltanto "nel miglior senso della parola". Ossia dunque, rivoluzionario non più nei mezzi -ed è di questi soltanto che si interessano gli organi di difesa dello Stato -ma puramente nella teoria grigia e sulla carta.
Lo stesso partito che, tempo addietro, non aveva avuto paura di proclamare ad alta voce, al cospetto dei fucili ancora fumanti dell'esercito che aveva domato Parigi, la sua entusiastica solidarietà coi Comunardi, non esita a biasimare di fronte al mondo intero la propaganda antimilitaristica in tutte le sue forme, col pretesto che essa potrebbe mettere qualche militante in conflitto col Codice penale, e sostenendo di non potere assumere la responsabilità delle conseguenze che eventualmente derivassero da questo cozzo con la legge.
E’ chiaro, e la storia del movimento internazionale dei lavoratori corrobora con numerosi esempi la nostra tesi, che la crescente organizzazione del partito non vale che ad immobilizzarlo sempre più. Esso perde cioè il suo impeto rivoluzionario, diventa pigro e pesante, non soltanto nell'agire, ma persino nel pensare. Si fissa in grado sempre maggiore alla cosiddetta "antica e gloriosa tattica", ossia a quella tattica che lo ha reso grande e grosso, e la sua paura di fare una mossa aggressiva, di qualsiasi genere, si dimostra sempre più invincibile. In altre parole: il possesso manifesta, anche rispetto al partito, le tendenze conservatrici che gli sono inerenti.
Per mezzo secolo, gli uomini del partito socialista tedesco hanno faticato e sudato per creare un'organizzazione modello riuscendo ad organizzare tre milioni d'uomini e creando una burocrazia che può gareggiare, per scrupolosità, puntualità e subordinazione gerarchica, persino con quella dello Stato; le casse son piene; è stato creato un complesso di interessi finanziari e sentimentali nel paese intero. Una tattica energica ed audace metterebbe tutto ciò in gioco: il frutto del lavoro di molti decenni, l’esistenza economico-sociale di molti capi e sottocapi del partito; minaccerebbe, insomma, l'esistenza del partito stesso. Questa ipotesi diventa a poco a poco quasi inconcepibile. L'amore per l'opera compiuta, il personale egoismo di vere caterve di probi padri di famiglia che dipendono, sia socialmente, che economicamente, quasi interamente dall'esistenza del partito e che sono dominati dalla paura di perdere l'impiego e del conseguente dissesto economico in seguito allo scioglimento del partito da parte dello Stato, misura possibile in caso di guerra aperta, insomma, un misto di sentimentalismo ingiustificato e di giustificato egoismo, si rivoltano contro quel pensiero con egual forza.
Così l'organizzazione, già mezzo allo scopo, diventa scopo essa stessa. Come legge suprema del partito, si forma la tendenza ad allontanare da sé tutto quanto possa turbare l'ingranaggio dell'organismo, o se non altro minacciarne la forma esterna, l'organizzazione, che costituisce sempre più il nerbo della sua vita. Costretto a prendere la propria difensiva, il partito deve preferire di perdere alcune delle eminenti posizioni conquistate, di rinunciare ad inveterati diritti piuttosto che esporsi all'offensiva dell'avversario con mezzi di difesa che lo potrebbero "compromettere".
Man mano che si sviluppa il suo bisogno di pace, il partito perde il dente viperino della rivoluzione e diventa un buon partito conservatore che si serve ancora, è vero, della sua terminologia rivoluzionaria -anche qui l'effetto sopravvive alla causa -, ma che, in pratica, adempie nella migliore delle ipotesi alle mansioni di un opposizione costituzionale.
Qui si impone un altro e decisivo quesito: la malattia oligarchica dei partiti democratici è incurabile? E’ impossibile che un partito democratico faccia una politica democratica, e che un partito rivoluzionario faccia una politica rivoluzionaria? Non soltanto il socialismo, ma la stessa politica socialista, sarebbe una utopia? A queste domande convien rispondere succintamente.
Entro un limite assai ristretto, anche il partito democratico oligarchicamente guidato potrà certo influire sullo Stato in senso democratico, sebbene l'adempimento di questo compito si arresti nel punto stesso, in cui le classi dominanti sono riuscite ad attirare a sé l’opposizione dell’estrema sinistra per farla collaborare col Governo. Ma anche un tale lavoro non procederà che assai lentamente e sarà spesso interrotto; ed i suoi limiti coincideranno con le leggi ferree dell'oligarchia. L'organizzazione politica conduce al potere. Ma il potere è di sua natura conservatore.
E’ vero che, talvolta, vediamo l'oligarchia dei duci improvvisamente infrangersi. Le masse si sollevano e rifiutano obbedienza. Imperocché, dietro a questi avvenimenti si cela quasi sempre soltanto la lotta per la conquista del potere fra un gruppo di duci ed un altro. Dirimpetto alle masse sole, il duce non soccombe mai. Nel solo caso che le masse trovino un duce nuovo e più forte, è possibile che l'antico duce venga fatto cadere.
Ma se i capi si stringono compatti di fronte alle masse, l'esperienza storica ci autorizza a dire che, fino ad oggi, i gruppi oligarchici sono usciti vittoriosi da questi cimenti. Nelle grandi lotte politiche ed economiche intraprese, nel sistema democratico, dalle masse contro la volontà dei loro capi, questi hanno riconquistato ben presto il sopravvento e, all'occorrenza, passando sopra le formali deliberazioni della massa, hanno decretato dall'alto in basso di venire, negli scioperi, a patti col nemico e di riprendere il lavoro contro l'espressa volontà delle masse, facendo strappo così a tutti i principi della democrazia e disprezzando tutti i legami giuridici, logici ed economici che legano i duci stipendiati alle masse che li pagano. Contro tali inversioni troppo apparenti che intercedono tra il mandante e il mandatario, le masse certo hanno mormorato sovente, ma ribellate non si sono mai, perché non trovavano in loro la forza di punire la duplice violazione dei loro diritti; perciò dopo che il loro furore democratico si era sfogato in alcune assemblee agitate e turbolente, non hanno mancato di coprire l'oligarchia dei loro duci con la democratica foglia di fico dell'approvazione postuma del fatto compiuto.
Nulla fa supporre che questo potere dell'oligarchia nella vita dei partiti, constatato in via empirica, possa venire, in un tempo lontano, spezzato. L'indipendenza dei capi cresce a misura ch'essi diventano indispensabili e che la potenza e la solidità economica della loro posizione esercitano sulle masse un fascino sempre maggiore e stimolano l'amor proprio degli elementi più intelligenti tra i proletari stessi ad entrare nella privilegiata burocrazia del movimento. In tal modo sempre più si rarefanno le forze scelte, atte e volonterose di guidare l'opposizione latente nel partito contro i capi.
Certo, di tanto in tanto le masse si rivolteranno ancora; ma i duci metteranno sempre nuovo freno all'energia collettiva. Soltanto una cieca politica della classe politica, che finisca col tender troppo la corda, spingerebbe le masse di un partito sulla scena della storia, quali attrici spontanee ed autonome, distruggendo la potenza e l'autorità degli oligarchi democratici; poiché un'azione diretta dalle masse non potrà mai aver luogo che contro la volontà dei capi. Prescindendo da tali interruzioni passeggere, l'evoluzione naturale o normale dell'organizzazione imprimerà in avvenire, come per il passato, anche al partito socialista -rivoluzionario più spinto, il marchio conservatore.
Tale è la legge fondamentale dello sviluppo organico dei partiti politici. L'evoluzione stessa rende irrisoria ogni misura profilattica che tenda ad ostacolare il formarsi dell'oligarchia. Se vi sono statuti o regolamenti destinati a porre argine al dominio dei duci, non saranno i duci, ma bensì le leggi a cedere, a poco a poco, il campo.
Le vicende intellettuali di Roberto Michels si possono
comprendere sullo sfondo di una biografia complessa, a volte
contraddittoria. Come sempre accade in casi così articolati,
attorno alle motivazioni del pensiero michelsiano sono sorte
numerose interpretazioni le quali, alla fine, rischiano di
complicare ulteriormente la figura dell’autore, lasciandone
una immagine a dir poco schizofrenica.
Di sicuro, riferirsi alla evoluzione della vita e degli studi
di Michels significa riconoscere una dinamica parabolica,
nella quale dall’impegno militarista – si arruolò a soli
diciannove anni – divenne prestissimo un attivista di
sinistra, subendo l’influenza della socialdemocrazia tedesca,
per poi giungere al fascismo, con entusiasmo e convinzione.
Così, abbiamo il Michels tedesco (nasce a Colonia, studia a
Berlino, Monaco, Lipsia) e il Michels italiano (si stabilisce
in Italia e dichiara di sentirsi cittadino italiano), un
Michels socialdemocratico (qualcuno lo vuole addirittura
rivoluzionario) e un Michels fascista, un Michels impegnato in
politica e un Michels scienziato sociale convinto che la
politica non poteva proporre soluzioni democratiche. Su questo
sfondo biografico, si distinguono tre grandi momenti
dell’evoluzione del pensiero michelsiano: il momento
sociologico, nel quale Michels costruisce uno studio sulla
struttura dei partiti politici; un momento politico, relativo
all’analisi della socialdemocrazia tedesca; un momento
elitista, sul significato delle organizzazioni di partiti e le
possibilità di espressione democratica di un sistema politico.
Le idee fondamentali, e più conosciute, di Roberto Michels
ruotano attorno a quella che da più parti è riconosciuta come
legge ferrea dell’oligarchia. Non ci sono dubbi – secondo
Michels - sull’esito politico delle forme del potere
democratico: «La democrazia conduce all’oligarchia. E’ tale
non tanto la nostra tesi, quanto la conclusione dei nostri
studi»[1]. Michels è la figura che chiude il periodo di
fondazione dell’elitismo politico moderno, iniziato con le
produzioni di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto. Seppur
eterogenei nei loro contributi, gli elitisti hanno un tipico
modo di rafforzare epistemologicamente le loro argomentazioni:
è necessario – si legge negli esordi dei libri di Mosca,
Pareto e Michels – osservare scientificamente la politica, e
non più semplicemente pensarla. Di conseguenza, è inevitabile
che una volta usciti dalle oniriche analisi metafisiche sulla
politica, inevitabilmente – a loro giudizio – ci si scontra
con la «realtà», tanto più «reale» quanto separata dal mondo
fantastico di chi anela alla buona politica fondata sul bene
comune e sugli interessi della comunità. La conseguenza di
tale discorso è, per necessità, una concezione pessimistica e
negativa dei rapporti politici.
Insomma, al pari di Mosca e di Pareto, anche Michels si
affretta ad affrancare la sua riflessione da qualsiasi ambito
morale, giacché le sue conclusioni vogliono avere la pretesa
di essere al di là del Bene e del Male, come dovrebbe essere–
secondo loro – per qualsiasi altra legge sociologica. E’ il
ricorrente problema del mascheramento di una posizione
pessimistica con la totemica pretesa scientificizzante della
scienza sociale. Come se bastasse porsi dal punto di vista
dell’osservazione sociologica per vedere la realtà così com’è,
e non così come ci pare più adeguato vederla per una nostra
precisa predisposizione d’animo. Tanto è vero che la legge
sociologica generale, per Michels, è la legge che vuole ogni
aggregato umano tendere, immanentemente, alla formazione di
oligarchie.
La critica a Michels si è interrogata sull’esito pessimista
dell’evoluzione del suo pensiero, procedendo da
interpretazioni diverse. Ricostruire l’origine dell’opera
michelsiana e la tipologia delle interpretazioni è lo scopo
del paragrafo successivo ed è un momento indispensabile per la
comprensione delle idee forti contenute ne La sociologia del
partito politico.
1. L’evoluzione del pensiero michelsiano
La questione principale che ha maggiormente impegnato la
letteratura critica su Michels riguarda il passaggio da una
posizione politica democratica-radicale, nella quale Michels è
un attivo intellettuale militante nella socialdemocrazia
tedesca della Seconda internazionale, alla elaborazione del
nucleo principale delle idee sulla «legge ferrea
dell’oligarchia».
Il divario ideologico è enorme. Basta far riferimento al modo
con il quale Leszek Kolakowski indica i tratti essenziali
degli aderenti al marxismo degli anni successivi alla Seconda
internazionale. Fra le altre cose, Kolakowski mette in rilievo
che costoro erano convinti dell’inevitabilità del successo
storico del socialismo, dell’universalità del miglioramento
delle condizioni di accesso all’istruzione e alla politica,
che il socialismo rifletteva gli interessi dell’umanità, che
la lotta rivoluzionaria sarebbe stato il risultato della
ribellione delle classi lavoratrici[2]. In pratica, cosa è
accaduto in Michels che lo ha condotto dalla fiducia nella
trasformazione rapida del mondo, alla rassegnazione verso un
mondo che mai potrà cambiare nella struttura del potere
politico?
Uno dei modi tipici di analizzare il cambiamento di Michels è
quello di vederlo come un rivoluzionario romantico deluso. In
tal senso, accertata l’apatia e l’inamovibilità del movimento
socialista, Michels avrebbe riformulato le sue scelte di
fondo, le quali saranno il preludio per la sua conclusiva
adesione al fascismo. Se democrazia non può essere, se
trasformazioni e rivoluzione non saranno mai, allora l’esatto
contrario è vero; così nasce la legge ferrea dell’oligarchia.
Per questa linea interpretativa facciamo riferimento
soprattutto all’introduzione di Juan Linz all’edizione del
1966 de La sociologia del partito politico, ma anche allo
studio di Arthur Mitzman[3].
Un altro modo di valutare la figura michelsiana è quello di
ridimensionare la sua componente socialrivoluzionaria e
inquadrare lo sviluppo del suo pensiero all’interno di una
cultura socialdemocratica intrisa di positivismo marxista.
Questa tesi interpretativa, sostenuta per esempio da Giordano
Sivini[4] e da Pino Ferraris[5], essenzialmente vuole
dimostrare che il salto ideologico fra il “primo” Michels e il
Michels fascista è meno spericolato di quanto si creda.
Un’ulteriore ipotesi interpretativa intende mettere in luce
come Michels abbia mantenuto inalterata la struttura
concettuale della sua opera, mentre l’approccio motivazionale,
tanto ideologico quanto metodologico, è andato trasformandosi
per l’influenza di autorevoli esponenti quali Gaetano Mosca e
Max Weber. In sostanza, non è stato Michels a cambiare
bandiera: è il vento che ha cominciato a soffiare in direzioni
opposte.
E’ Paolo Ciancarelli[6] che ravvisa nel concetto michelsiano
di «partito socialista morale» una delle chiavi di lettura per
comprendere il passaggio fra i “vari” Michels. «Ogni partito
socialista è per se stesso un partito morale – Dovunque il
pensiero socialista penetra in un aggregato di lavoratori, ivi
nasce da esso una seriazione opulenta di fattori morali»[7].
Per Michels il partito socialista è un modello ideale di
partito, in quanto realizzato sulla contiguità fra il mondo
intellettuale di estrazione borghese e socialista per scelta
vocazionale e interessi della classe proletaria. Il primo,
attraverso un’adeguata azione, riesce a educare le masse
proletarie veicolandone le istanze rivoluzionarie. Il partito
socialista è, quindi, il luogo ideale nel quale si incontrano
la forza della dottrina intellettuale con l’azione politica
della classe operaia e questo connubio costituisce il tratto
morale di questa formazione.
D’altronde, Michels si è costantemente confrontato con la
natura e gli scopi dei partiti politici. E’ stata già
menzionata la sua iniziale militanza nel partito
socialdemocratico tedesco; in un periodo successivo
individuabile fra il 1906-1907, ricordiamo il Michels studioso
dei gruppi dirigenti e della composizione dell’elettorato dei
partiti socialisti (soprattutto italiano e tedesco); nella
fase conclusiva riconosciamo la sua opera sulla Sociologia del
partito politico. Ebbene, il concetto di partito, inteso come
partito socialista morale, è il tratto costante
dell’evoluzione del pensiero di Michels. A mutare, secondo
Ciancarelli[8], è l’approccio. Il Michels degli inizi
possedeva un ottimismo originario, espressione della sua
operatività ideologica formata nell’ambito della
socialdemocrazia tedesca. Il Michels finale ha sì subìto la
delusione del fallimento del programma rivoluzionario, ma uno
degli aspetti decisivi utili per comprendere l’evoluzione
delle sue posizioni intellettuali deve necessariamente far
riferimento all’incontro con Max Weber.
Fra Michels e Weber intercorse un fitto scambio epistolare
durato dal 1906 al 1915, anno nel quale si registrò una
divergenza fra i due sulla questione della guerra mondiale.
L’incontro con Weber fu decisivo: Weber era un critico
accanito nei confronti della socialdemocrazia tedesca, in
quanto la riteneva un partito fintamente rivoluzionario che,
di fatto, bloccava l’azione delle masse proletarie. Ci ricorda
Wolfgang J.Mommsen: «per quanto contemplasse teoricamente
nelle sue riflessioni la possibilità di forme sociali
socialistiche, Weber non vedeva in fondo nessuna alternativa
reale al sistema economico capitalistico. Per lui, la
“rivoluzione socialista del futuro” non era che una chimera.
Al suo allievo Robert Michels, che, sulla base di idee
umanitarie e radicalmente democratiche, si andava confrontando
col problema di un socialismo liberale, Weber replicava che
l’unica alternativa reale era quella fra un socialismo
sindacalistico in senso tolstoiano, dunque completamente
fondato su un’etica della convinzione, e l’accettazione della
civiltà sulla base dell’adattamento alle condizioni
sociologiche della tecnica, sia questa economica, politica o
di un qualsiasi altro genere»[9]. Nel ripercorrere
l’opposizione weberiana alle soluzioni socialiste e marxiste
non ci si deve soffermare solo sulla critica al marxismo
volgare contenuta nelle opere sulla dimensione religiosa dei
fenomeni economici. Il rifiuto weberiano è fondato sul
problema della razionalità degli ordini sociali. Questa,
forse, è l’autentica profezia che Weber riuscì a elaborare ben
prima del consolidamento della monumentale macchina statale
sovietica. Weber era convinto che qualsiasi socialismo
razionale avrebbe riassunto in sé le burocrazie della società
capitalistica e che, anzi, ne avrebbe amplificato l’azione.
Questo perché l’ordinamento socialistico avrebbe dovuto, per
necessità, creare una rigida amministrazione burocratica,
organizzata sulla base di regole ancora più fisse e formali di
quelle della società capitalistica: «l’esigenza di
un’amministrazione continua, rigorosa, intensiva e su cui si
possa fare assegnamento, quale l’ha creata il capitalismo […]
e quale ogni socialismo razionale dovrà semplicemente
accoglierla e accrescerla»[10].
Weber si occupò del movimento socialista non solo a partire
dalle questioni teoriche che il dibattito filosofico e
sociologico produceva nei primi due decenni del ventesimo
secolo. Egli partecipò, quale osservatore, al congresso di
Mannheim del 1906 del Partito Socialdemocratico tedesco.
L’impressione che ne ricevette fu estremamente
tranquillizzante: il livello di pericolosità rivoluzionaria
dell’SPD era praticamente nullo. Sullo sfondo di questi eventi
lo scambio epistolare fra Weber e Michels si infittisce e
Mommsen ricorda proprio il grande ascendente che il primo ebbe
sul secondo nella valutazione dei fatti in gioco. Addirittura,
rileggendo alcune delle lettere scambiate fra i due,
osserviamo l’ammonimento intellettuale che Weber dirige verso
il Michels a causa dell’entusiasmo che ancora quest’ultimo
mostrava nei confronti dell’esperienza socialista
sindacale[11].
Lo stretto rapporto con Weber condurrà Michels a pubblicare i
suoi studi sul Partito socialdemocratico tedesco all’interno
dell’ Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, rivista
diretta da Weber, sviluppando due temi principali: la denuncia
dell’ambiguità e della inamovibilità del partito e
l’applicazione ad esso dei criteri di valutazione comparata
con gli altri partiti liberali. In pratica, la classica
controversia che insiste nel mondo socialista è quella
relativa all’appartenenza alla classe borghese dei leaders
socialisti. La questione si propone come urgente proprio a
livello dottrinale. Si ricorderà, infatti, come Marx ebbe modo
di esprimersi nelle celebri pagine del Manifesto del Partito
Comunista: «in tempi nei quali la lotta delle classi si
avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione
all’interno della classe dominante, di tutta la vecchia
società, assume un carattere così violento, così aspro, che
una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e
si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in
mano l’avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà
era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia
passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi
borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza
teorica del movimento storico nel suo insieme», ma «fra tutte
le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il
proletariato soltanto è una classe realmente
rivoluzionaria»[12]. Infatti, secondo Marx i ceti medi come i
piccoli industriali, gli artigiani, i contadini, i
commercianti, lottano contro la borghesia con l’obiettivo di
restaurare un ordine precedente che li vedeva in una
situazione di relativa prosperità. Possono fingere di
accompagnarsi alle istanze rivoluzionarie, ma solo quel che
basta per difendere i propri interessi futuri. E il
sottoproletariato, «putrefazione passiva degli infimi strati
della società», in balìa dei cambiamenti, è quello che spesso
rischia di lasciarsi corrompere per delle finalità
apparentemente rivoluzionarie e in realtà reazionarie.
Insomma, la questione della leadership non proletaria dei
partiti socialisti e socialdemocratico non era una questione
da poco. August Bebel, a capo del partito socialdemocratico
tedesco, era per esempio un tornitore, mentre non si può dire
lo stesso di Kautsky; addirittura, Franz Mehring, pilastro
dell’ortodossia al fianco di Kautsky, divenne
socialdemocratico dopo aver condotto professionalmente
un’esperienza da pubblicista e giornalista per la stampa
liberale.
Da queste premesse scaturisce lo sviluppo della formazione
michelsiana. Da una parte, Weber che lo “istiga” a una
posizione avalutativa, nella quale bisognava abbandonare
qualsiasi idea di soffermarsi su ciò che doveva essere il vero
interesse delle masse proletarie a partire da giudizi di
valore; dall’altra, il fondamentalismo etico di Michels che lo
portava a valutare nel partito socialista morale, sorto
sull’alleanza degli intellettuali con la classe operaia, il
concetto centrale della sua riflessione.
2. Democrazia e oligarchia
Nel prendere in esame la maggiore, e più conosciuta, fra le
opere di Michels, ossia La sociologia del partito politico,
bisogna preliminarmente operare un distinguo sulle diverse
edizioni dell’opera. La prima edizione apparve nel 1911, in
tedesco, e l’anno successivo in italiano. Michels rimise mano
al lavoro nel 1925, così giustificandosi: «questa seconda
edizione si basa su di un rifacimento radicale della prima,
come lo richiedevano le mutate circostanze ed alcune nuove
importanti pubblicazioni pertinenti all’argomento
trattato»[13]. Forse, definire la nuova edizione un
«rifacimento radicale» della prima è un po’ troppo. Di sicuro,
la seconda edizione mostra una pacatezza e una moderazione
maggiore, mentre i contenuti della prima sono più diretti e,
in alcuni casi, polemici. Per i nostri scopi, volti alla
determinazione della struttura pessimistica
dell’argomentazione elitistica, dobbiamo far riferimento anche
alla prima edizione, quale espressione genuina di uno spirito
del tempo, di un preciso atteggiamento scientifico e
pessimistico nei confronti delle controverse circostanze
storiche del panorama politico italiano e europeo.
L’assunto di Michels muove da un sillogismo. Le moderne
democrazie si fondano sul sistema dei partiti politici e
questo significa che costruire un’analisi scientifica delle
democrazie deve poter significare occuparsi delle
organizzazioni dei partiti. Anzi, il funzionamento dei partiti
politici è l’indice migliore che può argomentare lo stato di
salute di una democrazia. Utilizzando quella che lui a più
riprese chiama legge generale della sociologia, cioè quella
che vuole ogni aggregato umano costruire oligarchie, allora la
sorte della democrazia, che si regge su aggregati come i
partiti politici, è segnata. Infatti, nella concezione di
Michels il principio di sovranità popolare affermato dall’idea
di democrazia è una menzogna. I partiti politici, per la loro
stessa natura, producono leadership di potere in senso
oligarchico.
Questo significa, principalmente, che l’analisi delle forme
del potere politico si riduce ad una analisi del diverso grado
di potere oligarchico presente nel sistema politico. Dal
potere monarchico, massimo grado di espressione
dell’oligarchia, alla democrazia, nella quale la numerosità di
coloro che appartengono alla classe dominante si estende in
misura maggiore. Impostata così la riflessione, è ovvio che
una democrazia nella quale la classe al governo fa i propri
interessi e non quelli della nazione è più dannosa rispetto ad
una monarchia basata su una larga rappresentanza del ceto
dominante. Ma non si deve credere che Michels introduca chissà
quale criterio storiografico di demarcazione fra i diversi
gradi di espressione del potenziale oligarchico.
Semplicemente, la soluzione dipende dal grado di riproduzione
della classe al potere, di natura conservatrice e prodigata
alla tutela dell’unico motivo reale per la gestione del
pubblico potere: mantenere la posizione di dominio.
Secondo Michels fra aristocrazia e democrazia c’è uno stretto
legame che deve essere messo in rilievo se si vuole procedere
scientificamente alla valutazione degli ordinamenti politici
esistenti. Si tratta di un mutuo rapporto di necessità,
giacché se è vero che l’aristocrazia, che aspira alla
conservazione del potere politico, è costretta a presentarsi
con peculiarità tipiche della democrazia, è altrettanto vero
che il contenuto della democrazia è, inevitabilmente,
penetrato di elementi aristocratici.
Questa oligarchia possiede una capacità di conservarsi
superiore a qualsiasi destino storico e, pur di non perdere la
posizione di dominio, «ama mutar di maschera e di coccarda» -
dice il Michels nella prima edizione della sua opera - così
che «la corrente di pensiero conservatrice […] ci appare oggi
legata all’assolutismo, domani al costituzionalismo,
dopodomani al parlamentarismo»[14]. Lo svolgersi della storia
politica, in tal senso, è subordinato alle dinamiche vissute
dalla classe al potere politico, e in particolare dalle
trasformazioni del vecchio ceto aristocratico. Le aristocrazie
di un tempo sono ormai sconfitte dall’avvento della modernità
e del sistema dei partiti politici. Di questi ultimi, anche
quelli conservatori devono far riferimento all’azione della
società civile e della massa, per cui devono cedere qualcosa
alla purezza del principio oligarchico: «anche se per loro
natura restano antidemocratici, essi si vedono obbligati,
almeno in determinati periodi della vita politica, a fare
professione di democrazia o anche a ostentare una fede
democratica»[15]. Addirittura, sembra sottolineare Michels,
«l’istinto di autoconservazione che agisce anche in politica,
spinge elementi dei vecchi gruppi dominanti a scendere
dall’alto dei loro posti di privilegio durante il periodo
elettorale per dare di piglio a quegli stessi strumenti
democratici e demagogici di cui si vale la più giovane,
numerosa e incolta delle nostre classi sociali, il
proletariato»[16].
E’ sicuramente la seconda parte del rapporto
aristocraziademocrazia ad essere rilevante. Cosa intende
Michels quando afferma che il contenuto della democrazia si
compone di elementi tipici della dottrina aristocratica?
Innanzitutto, per «contenuto della democrazia» Michels non fa
riferimento alle regole dell’azione istituzionale democratica,
ma ai tratti teorici tipici del pensiero democratico così come
è stato sviluppato dai filosofi e dai pensatori politici.
Secondo Michels, la teoria del pensiero liberale non basò,
all’origine, le sue aspirazioni sulle masse. Il suo
riferimento furono i nuovi ceti borghesi, già dominatori nel
campo economico ma che ancora erano esclusi dal potere
politico. Preparato in questo modo, il giudizio non può che
essere impietoso: per i nuovi ceti borghesi «le masse pure e
semplici risultavano un male necessario, sfruttabile
unicamente per raggiungere scopi cui esse erano estranee»[17].
Michels cita una quantità di storici e filosofi che così
interpretano l’evoluzione dei movimenti liberali e
democratici: dalla raccolta di articoli contenuta ne The
Federalist, di Hamilton, Jay e Madison, a Carl von Rotteck,
Friedrich von Raumer, Heinrich von Sybel, Wilhelm Roscher. In
questi pensatori troviamo un’accesa avversità per il ruolo
delle masse nella vita democratica di un Paese. Se la
democrazia può manifestarsi in due modi, cioè come dominio dei
rappresentanti o come dominio della massa, bisogna osservare
che nella storia del pensiero politico i primi sostenitori del
liberalismo hanno percepito la seconda opzione in modo più
negativo. Michels rievoca alcuni di quelle considerazioni più
incisive orientate sull’accidentalità e potenziale dannosità
del coinvolgimento delle masse nelle grandi dinamiche
politiche. Per esempio, la peggiore delle azioni
storiche fu quella compiuta dalla monarchia francese, la quale
costrinse la borghesia ad allearsi con le masse popolari.
Ancora, cita quelle considerazioni di pensatori liberali
contrarie al suffragio universale. Ma sulla critica a queste
pretese di riconoscere nell’azione delle masse un effetto non
contemplato nelle ispirazioni del movimento liberale e
borghese si vedano le considerazioni svolte nel primo
capitolo.
Riprendendo un tema caro al Mosca, Michels osserva come alla
base delle dinamiche politiche vi sia una legge uniforme:
qualsiasi gruppo si trovi a gestire il potere politico aspira,
e progetta, di conservare questo dominio trasmettendolo ai
propri discendenti. Emerge in questo frangente la visione
antropologica del Michels: l’uomo sociale agisce sollecitato
dai suoi istinti che, in ogni settore, gli impongono un
imperativo, quello di tramandare in eredità il suo possesso.
D’altronde, è questo stesso principio generale che ha dato
origine alla matrice borghese dell’istituto della famiglia,
che nasce con l’indissolubilità del matrimonio e la condanna
dell’adulterio proprio perché, secondo il Michels, l’uomo che
giunge a un certo benessere economico ha, per istinto,
l’esigenza di tramandare in eredità il suo possesso al figlio
legittimo[18]. Includendo negli oggetti di possesso privato da
trasmettere ereditariamente anche il potere politico, ecco che
la dinamica dei gruppi al potere è praticamente scritta: il
gioco delle parti consiste in coloro che cercano di conservare
la propria posizione di dominio e negli altri che cercano di
soppiantare i poteri dei primi.
Si noti bene che, secondo il Michels, questa dinamica è
superiore a ogni istituzione di diritto pubblico, quindi
sarebbe veramente fuorviante – sempre per Michels – credere
che nelle moderne democrazie queste dinamiche perverse non
avvengano. Quello che veramente è tipico del corredo
democratico di un assetto istituzionale consiste nella
possibilità che ciascun gruppo in competizione politica ha di
condire la propria posizione con una buona dose di
ipocrisia illimitata. Si scopre, per esempio, che tutti quelli
che, nella modernità, hanno mosso una opposizione ai privilegi
e ai costumi dei vecchi ceti aristocratici ne hanno, una volta
raggiunto il potere, ricopiato le espressioni tipiche.
Ma un altro modo assai caratteristico di misurare l’illimitata
ipocrisia di chi lotta per conquistare il potere politico è
quello di osservare come si serve dell’etica per i suoi scopi.
Tutti i gruppi contendenti, in pratica, si servono di
argomentazioni etiche volte a dimostrare il bene universale
che la loro azione politica persegue, mentre a vedere meglio
non stanno altro che rincorrendo i propri particolarissimi ed
egoistici fini. Così, nell’arena politica si sente inneggiare
alla liberazione di tutto il genere umano, alla lotta in nome
del popolo, alla volontà di affermare giustizia ed uguaglianza
sociale, mentre si cerca nient’altro che la conquista del
proprio dominio. Ora, in queste riflessioni di Michels si può
leggere una posizione che vuole l’ordinamento democratico un
naturale “amplificatore” di questa tendenza: «nell’era della
democrazia l’etica è un’arma di cui ciascuno può valersi», «le
democrazie sono parolaie», «il demagogo, questo frutto
spontaneo del terreno democratico, trabocca di sentimentalità
e di commozione sopra i dolori del popolo»[19].
Il fattore innovativo portato dalla democrazia moderna è
l’organizzazione. In pratica, è attraverso l’organizzazione
che si può impostare il libero conflitto politico fra gruppi
forti e gruppi meno forti, in quanto è l’organizzazione che
riesce a fare della solidarietà fra i deboli aventi uguali
interessi una struttura in grado di competere per il potere
politico. In sintesi, la lotta politica democratica richiede
una certa organizzazione delle parti, la quale consente alle
masse di competere per il potere, ma che produce anche effetti
indesiderati, controproducenti, vale a dire il dilagare dello
spirito conservatore all’interno dell’arena politica. Infatti,
quando parliamo di un partito popolare, di un partito che
vuole essere a favore delle masse, dobbiamo chiarire che esso
non può essere direttamente guidato dalle masse. «Chi dice
organizzazione dice tendenza all’oligarchia»[20]. Infatti,
realtà come i partiti politici hanno bisogno di delegati che
sbrighino gli affari correnti e che possano prendere decisioni
immediate. Ai primordi della formazione di queste strutture
partitiche, il delegato è indissolubilmente legato alla
volontà della massa. Ma con la specializzazione dell’impresa
politica, si richiedono ai delegati maggiori cognizioni e
particolari abilità. Ecco che nasce l’esigenza di formare i
delegati del partito, attraverso corsi e scuole adatti, e il
risultato fu quello di creare élites di aspiranti al comando
del partito, comunque dirigenti delle masse. E’ questo
processo che fa dei delegati originari sottoposti alla volontà
delle masse, un organismo indipendente ed emancipato dalla
massa. Per tale ragione è implicita l’oligarchia dentro una
qualsiasi organizzazione partitica. In pratica, il meccanismo
dell’organizzazione è tale per cui ogni partito viene diviso
«in una minoranza che dirige ed una maggioranza che è
diretta»[21]. A questo punto si noterà come il Michels abbia
praticamente trasportato l’idea originaria che Mosca aveva
proposto per le realtà politiche in toto all’interno delle
unità del sistema come i partiti politici. La prospettiva
teorica elitista trova in Michels la “quadratura del cerchio”:
dal sistema politico nazionale all’organizzazione di partito,
la regola della formazione dell’élite politica permea tutta la
sfera dell’azione politica. In Michels, ancora, risuona con
forza il credo delle teorie politiche pessimistiche:
nell’arena politica gli individui possiedono un certo numero
di interessi di base; il potere politico è qualcosa per cui
lottare e una volta acquisito - non importa in che modo - si
deve difendere, conservare e tramandare; le idee etiche, i
valori, altro non sono che armi per ingaggiare questa lotta e
costruire una parvenza di bontà universale che possa celare i
reali interessi particolari in gioco.
3. L’organizzazione e la conservazione
Lo schema teorico di Michels è lineare nella sua
articolazione: le moderne democrazie richiedono un alto
livello di organizzazione politica e tale organizzazione
genera delle strutture di potere che suddividono anche
l’interno dei partiti politici in una maggioranza che dirige e
in una massa diretta.
Michels costruisce una teoria generale delle cause che
producono, nell’organizzazione democratica, l’insorgenza dei
meccanismi dell’oligarchia. Tale teoria affonda le proprie
radici in questioni di carattere psicologico, relativo al
comportamento dei leaders nelle situazioni di potere, e in
questioni di psicologia collettiva, relative alle propensioni
delle masse per l’avvento di una conduzione autorevole della
loro vitalità politica. In tal senso, il ritratto psicologico
del membro dell’oligarchia che il Michels traccia è abbastanza
fosco: il leader possiede una naturale sete di potere tipica
in chiunque si lanci nel mondo politico, prende coscienza del
proprio valore e costruisce la propria abilità, la propria
eloquenza e la propria intelligenza in vista dello scopo della
massimizzazione del dominio. Ma il pessimismo michelsiano
raggiunge forse il suo apice nella considerazione di come le
masse siano per definizione apatiche, abbiano il bisogno di
essere comandate, sono pronte ad una riconoscenza senza limiti
nei confronti di chiunque dia loro una prospettiva, possiedono
una tendenza innata alla venerazione dei capi e al culto della
personalità. Se la visione del Michels si struttura sulla
innata propensione dei capi ad emergere a qualunque costo e
sulla incapacità delle masse di non essere manovrate a
piacimento, allora è ovvio che l’intero castello teorico
politico è orientato verso il più assoluto pessimismo.
Neanche dentro l’oligarchia soffia il benché minimo vento di
concordia: la lotta fra i leaders può originarsi per
molteplici ragioni, come la distanza generazionale, la diversa
origine sociale, o semplicemente da visioni diverse. Due forme
particolari di lotta sono quelle fra i leaders provenienti
dalle fila del partito e coloro che, invece, hanno raggiunto
l’oligarchia al di fuori di esso; come dice Michels: «tra gli
“alti papaveri di partito” e personalità spesso già famose che
giungono alla ribalta improvvisamente»[22]. Particolare,
ancora, è il confronto fra la leadership di tipo burocratico e
quella di tipo demagogico. In pratica, Michels ci sta
indicando una ulteriore differenziazione nelle minoranze
dirigenti dei partiti moderni: da una parte i leaders eletti
che dipendono dal consenso delle masse, dall’altra i leaders
burocratici, che hanno raggiunto la loro posizione di vertice
attraverso il controllo della macchina del partito. Ma
attenzione, alla fine in ogni visione michelsiana prevale la
generale predisposizione alla conservazione del potere, per
cui Michels nota come accada frequentemente che la leadership
burocratica e quella demagogica finiscano per allearsi o
fondersi[23]. La fusione fra i diversi interessi presente
nelle oligarchie diventa evidente quando osserviamo il
funzionamento del meccanismo della cooptazione. I leaders
affermati, infatti, ormai lontani dalla base delle masse,
tentano di colmare il vuoto attraverso la cooptazione di
coloro che invece riscuotono il consenso e che potrebbero
insidiare il loro potere. La cooptazione, solitamente,
consiste nell’attribuire a tali figure delle cariche prive di
reali poteri, ma comunque onorifiche. Il risultato è che «i
leaders dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e
onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono
loro precluse le cariche più importanti ed essi rimangono nei
secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare
di diventare un giorno maggioranza; per contro essi
condividono ora la responsabilità delle azioni compiute
insieme agli avversari di una volta»[24].
«L’atto finale di questo processo consiste non tanto in una
circulation des élites, quanto in una fusion des élites»[25].
In questo frangente teorico avviene un momento interessante di
confronto fra la teoria del Michels e quella del Pareto.
Michels sembra proporre una visione alternativa a quella di
Pareto; in realtà è bene precisare che la sua teoria si
sofferma sulla vitalità dei moderni partiti di massa, vitalità
che potremmo dire fissata nel quotidiano, nella cronaca dei
singoli momenti dell’organizzazione partitica (il congresso,
la segreteria, le elezioni). Ecco, forse le strategie e le
tattiche quotidiane possono leggersi utilmente attraverso la
teoria conservatrice di Michels basata sulla tendenza alla
fusione dei gruppi oligarchici, mentre la visione di Pareto, a
dire il vero, è assai più ampia nella considerazione
dell’evoluzione storica delle dinamiche sociali. Pareto fonda,
lo ricordiamo, le sue argomentazioni sull’equilibrio dinamico
del sistema sociale, interpretabile a partire dalla sfera dei
residui in attuazione i quali conferiscono a coloro che meglio
riescono a esprimerli una posizione dominante. Le
trasformazioni dei residui, e le conseguenti sollecitazioni ai
gruppi dell’élites, si stagliano in un orizzonte temporale
assai diverso rispetto alle vicissitudini quotidiane che il
Michels osservava nel Partito socialdemocratico tedesco.
In definitiva, le oligarchie dei partiti politici sono
continuamente minacciate da due forze: una esterna,
consistente nell’orientamento delle masse che potrebbe
produrre cambiamenti al vertice se non stravolgimenti, in caso
di ribellione; una interna, dovuta al gioco di potere
partecipato dagli ulteriori sottogruppi differenziati
all’interno dell’oligarchia. In tale situazione, come si può
pretendere – pensa il Michels – che possano esserci
comportamenti virtuosi nell’arena politica? «Ed è da questo
che deriva in tutti i moderni partiti popolari la profonda
mancanza di vero spirito di fratellanza, cioè di fiducia negli
uomini, ed il conseguente stato latente e continuo di
belligeranza, quello “spiritus animi” sempre teso che ha dato
luogo alla diffidenza reciproca dei leaders, diffidenza che è
diventata una delle caratteristiche essenziali della
democrazia»[26].
La posizione del Michels è, a questo punto, chiara nelle sue
premesse e nelle sue conclusioni. L’analisi si basa sui
processi in atto nelle democrazie moderne per conquistare il
potere politico. L’organizzazione politica è la novità della
modernità: essa costruisce i percorsi per giungere al potere,
e una volta partecipi del potere ogni individuo, di fatto,
smette i panni del progressista o dell’innovatore per vestire
quelli del conservatore. E’ un processo che non conosce
impedimenti e che soffoca ogni buona propensione verso una
politica che costruisca i buoni ideali. In tal senso, le
macchine organizzative dell’arena politica non si confrontano
più sul piano delle visioni teoriche o idealistiche, piuttosto
competono per il consenso di una certa base elettorale. Gli
obiettivi, allora, si trasformano: dagli assetti desiderabili
della società in avvenire all’acquisto del maggior numero di
voti da realizzarsi subito. In tutto questo, diatribe e
risentimenti personali diventano gli eventi tipici della
cronaca quotidiana e ogni riferimento a idealità o a valori
disturba l’incessante lotta fra le fazioni, mentre è
desiderabilissima se può tornare utile nel contenzioso. Anche
il parlamentarismo è uno strumento piegato a queste «occulte»
esigenze: «Parlamentarismo significa aspirazione al maggior
numero possibile di voti»[27], proprio come «Organizzazione di
partito significa aspirazione al maggior numero possibile di
iscritti»[28]. Soprattutto i partiti socialdemocratici pagano
un alto costo a questa dinamica. Sono loro, infatti, che per
aumentare il consenso, tradotto in voti e in inscritti, devono
in un certo senso “diluire” il proprio messaggio ideologico
per proporlo favorevolmente anche a settori non immediatamente
identificabili con gli interessi della classe proletaria.
Forse, la maggiore evidenza dell’incongruenza fra le idealità
della socialdemocrazia e la prassi politica “corrotta”
dall’organizzazione si ha quando si esamina il rapporto del
partito con lo Stato. L’ideologia dei partiti socialisti
postula l’estinzione dello Stato nella futura società
comunista, ritenendolo superfluo e strumento di oppressione.
Nonostante la purezza di questa convinzione, tuttavia, Michels
osserva come le pressanti esigenze organizzatrici del partito
abbiano, di fatto, centralizzato le funzioni direttive le
quali si esprimono con efficacia quando riescono a imporre
autorità e disciplina. Per tale via, «il partito
politico-rivoluzionario è uno Stato nello Stato, che in teoria
dichiara di perseguire lo scopo di svuotare e di distruggere
lo Stato presente per sostituirlo con uno Stato completamente
diverso»[29]. E’ inarrestabile il declino del fuoco ideologico
dei partiti rivoluzionari: il «dinamismo rivoluzionario» viene
soffocato dalle esigenze di un’organizzazione politica che
deve continuamente richiamare la propria azione alla prudenza
per conservarsi nella stabilità. E’ in tal modo che la
macchina organizzativa del partito rivoluzionario, creata con
lo scopo del sovvertimento dei rapporti di forza, diviene
invece un fine in sé: «l’organo finisce per prevalere
sull’organismo»[30]. Ipoteticamente, il Michels adombra la
possibilità che forse anche Marx, il quale dovrebbe insorgere
contro questo stato di fatto dei partiti marxisti, forse
invece cederebbe di fronte alla tentazione della gloria
promossa da numerosi partiti intitolati al suo nome. Insomma,
il giudizio penoso che vuole le socialdemocrazie e i movimenti
rivoluzionari organizzati come partiti ideologicamente
rivoluzionari ma concretamente conservatori non conosce limiti
e, secondo il Michels, rivela al meglio la reale e
inarrestabile tendenza insita in ogni organizzazione politica.
Michels richiama l’attenzione sull’idea fantasiosa di
democrazia e sulla impossibilità della sua realizzazione
ideale. E’ più confacente all’analisi reale dei rapporti
politici prendere atto, attraverso la rilevazione empirica
delle loro manifestazioni, dell’esistenza di una classe
politica suddivisibile in coloro che dominano e in quelli che
sono dominati. Passi pure il principio giuridico di
definizione dell’ordinamento democratico: è, sembra dire il
Michels, una buona dichiarazione d’intenti, ma nulla più. La
realtà dei rapporti politici, come ci insegnano Mosca e
Pareto, conferma invece che dalle lotte fra aristocrazia e
popolo fino alle lotte di classe dell’era moderna, la dinamica
politica è interamente articolata sul conflitto per il potere,
sull’eterno antagonismo fra chi comanda e coloro che,
comandati, aspirano a soppiantare i primi.
4. Élites e democrazia
Qual è il destino della democrazia, alla luce del pensiero di
Michels? Michels non produce alcuna visione normativa sulla
questione, in adesione all’insegnamento weberiano della
distinzione, nell’impresa scientifica, fra giudizi di fatto e
giudizi di valore. Michels compie, invece, un’accurata analisi
politologica su quelle che potremmo chiamare “cause
fisiologiche” della distanza fra la teoria della democrazia e
la sua realizzazione storica. Il momento critico potrebbe
riassumersi nel capovolgimento della funzione etica nel
discorso michelsiano: se l’ideale di democrazia si riscontra
nell’eticità della partecipazione politica diffusa e per
consenso, il pessimismo michelsiano osserva come questa etica
altro non è che uno strumento per raccogliere fortuna e
gloria. Così, nella lotta – più o meno subdola – per il
potere, «l’etica […] non sarebbe altro che una finzione»[31].
Insomma, il fatto innegabile, la costante di ogni
trasformazione politica, l’unica universale regola sociologica
rimane la costituzione di una classe politica, di una élite di
potere, in ogni società organizzata.
Gli elementi teorici che sostengono questa concezione possiamo
riassumerli in cinque punti.
Al primo posto, in accordo con la scarsa considerazione che
Michels ha sempre mostrato nei confronti delle masse, troviamo
l’indifferenza e la noncuranza politica della maggioranza. Non
ha senso affermare il principio che vuole il rappresentante
politico collegato e controllato alla sua base elettorale e
alla popolazione intera. Questa è una «leggenda» del
parlamentarismo. Coloro che si occupano della vita politica,
fra il popolo, sono veramente una esigua schiera, e «soltanto
l’egoismo è capace di stimolare gli uomini allo scopo di
preoccuparsi dello Stato, e se ne preoccuperanno infatti
appena le cose andranno molto male per loro»[32].
Ma non è solo questa diffusa apatia delle masse a determinare
l’ineluttabilità della legge dell’oligarchia. Al secondo posto
il Michels cita i meccanismi impliciti nella rappresentanza
politica. Il parlamentarismo pone le basi perché si
costituisca un gruppo che «mediante delegazione» governa sulla
maggioranza. Altro che governo del popolo: è il governo di
quella parte del popolo che rappresenta tutto e tutti. Dice il
Michels: «tra la monarchia e la democrazia, basate tutte e due
sul principio della delegazione, non c’è che una “differenza
di tempo”, insignificantissima, e non d’essenza. Il popolo
“sovrano” si sceglie, invece di un re, tutta una assemblea di
piccoli re, ed incapace di esercitare liberamente il suo
dominio sulla cosa pubblica, esso si lascia spontaneamente
confiscare i suoi diritti. L’unica cosa che la maggioranza si
riserba, è quella sovranità climaterica e derisoria che
consiste nell’eleggere, dopo un dato periodo di tempo, dei
nuovi padroni»[33].
Al terzo posto troviamo il ben noto principio
dell’ereditarietà, che vuole qualsiasi classe dirigente
tendere a trasmettere il proprio potere alla discendenza. In
ogni ordinamento politico, allora, non solo si dà
l’oligarchia, ma a parere di Michels «l’aristocrazia si
stabilisce in via automatica, anche in quegli Stati che la
escludono»[34].
Il quarto posto è occupato da un tema trattato nel paragrafo
precedente. Esso riguarda lo sviluppo della burocrazia statale
al servizio e a difesa della classe politica. Per
giustificarla, il Michels ricorre all’istinto di conservazione
dello Stato moderno, che si protegge allestendo una cintura
attorno a sé di burocrati il cui interesse coincide con il
suo. A dimostrazione della funzionalità del rapporto fra gli
interessi della burocrazia e quelli dello Stato, il Michels fa
notare le vantaggiosissime condizioni economiche che
normalmente vengono accordate a coloro che lavorano nel
settore della pubblica amministrazione dello Stato.
All’ultimo posto troviamo la propensione dei partiti
socialdemocratici a distaccare una élite proletaria e ad
inserirla dentro la classe politica. Questo processo,
innanzitutto, è un processo spontaneo. L’attivismo dentro il
partito può essere l’occasione per compiere una scalata verso
il successo e gli onori della carriera politica. In questi
termini, l’impegno politico è confrontabile con qualsiasi
attività lavorativa: da esso si può trarre il sostentamento
per la propria vita e un mezzo per dare espressione alle
proprie ambizioni. In questo ambito il Michels fa un paragone
discutibile, accostando la carriera degli elementi proletari
all’interno dei partiti socialdemocratici alla «carriera» che
possono fare gli elementi contadini e piccoli borghesi
all’interno della Chiesa cattolica. Così come ci sono numerosi
Vescovi che provengono da famiglie povere di lavoratori
agricoli, la leadership dei partiti socialdemocratici è
costituita da elementi del mondo proletario. Troppo facile
vanificare il tentativo analogico del Michels, a partire dalla
considerazione che la Chiesa non rappresenta le istanze del
mondo agricolo così come invece i partiti socialdemocratici
promuovono le ragioni del mondo proletario; oppure che le
“carriere” in seno alla Chiesa non rispondono, di sicuro, ai
requisiti richiesti per far concorrere elementi proletari alla
leadership in seno al partito, e così via. L’effetto finale di
questo carrierismo politico, comunque, è la costituzione di
una élite proletaria che subisce una metamorfosi importante,
che per il caso tedesco porta il Michels a considerare che «il
gruppo socialista nel Reichstag, il quale d’origine era
proletario, coll’andar del tempo è diventato un genuino
campione della borghesia»[35].
In conclusione, il pessimismo conduce la riflessione di
Michels alla circolarità dell’interpretazione del rapporto
politico fra élites e masse. In pratica, si crea una
oligarchia in seno a ogni organizzazione politica per via del
generale e naturale disinteresse delle masse per le vicende
politiche, e dall’altra parte si afferma che la diffusa
presenza di élites di potere di fatto esclude le masse
allontanandole dall’arena politica in modo da preservare il
potere in coloro che lo occupano e gestiscono. Il rapporto non
ha soluzione; d’altronde, accade sempre così quando si critica
un impianto ideologico – la socialdemocrazia nel caso del
Michels – opponendo un orientamento di pensiero altrettanto
chiuso come il pessimismo politico.
Bibliografia
Ciancarelli P.,
2000, Sulla genesi del concetto di oligarchia in Michels: una
reinterpretazione storico-critica, Working Paper 41, stampato
presso il Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche,
politiche e sociali dell’Università degli Studi di Siena.
Ferraris P.,
1982, “Roberto Michels politico (1901-1907), in Quaderni
dell’Istituto di studi economici e sociali, Camerino,
Università di Camerino, n.1.
1985, “Ancora su Michels politico attraverso le lettere di
Karl Kautsky”, in Quaderni dell’Istituto di studi economici e
sociali, Camerino, Università di Camerino, n.4.
Kolakowski L.,
1977, Glowne Nurty Marksizmu, II, Paris, Instytut Literacki;
tr.it., Il periodo aureo. Nascita sviluppo dissoluzione del
marxismo, Milano, SugarCo, 1983.
Marx K.,
1848, Das Kommunistische Manifest, in Marx-Engels, Werke,
Berlin, Dietz Verlag, 1956; tr.it., Manifesto del Partito
Comunista, Torino, Einaudi, 1948.
Michels R.,
1905, “Proletariat und Bourgeoisie in der sozialistischen
Bewegung Italiens. Studien zu einer Klassen und Berfusanalyse
des Sozialismus in Italien”, in Archiv für Sozialwissenschaft
und Sozialpolitik, XXI, pp.347-416; XXII, 1906, pp.80-125,
424-466, 664-720; tr.it., Il proletariato e la borghesia nel
movimento socialista italiano. Saggio di scienza
sociografico-politica, Torino, Bocca, 1908.
1907, “L’oligarchia organica costituzionale. Nuovi studi sulla
classe politica”, in La Riforma sociale. Rassegna di Scienze
Sociali e Politiche, a.XIV, vol.XVIII, fasc.12, dicembre 1907;
ora nella raccolta di saggi di E.A.Albertoni, Potere e
oligarchie, Milano, Giuffrè, 1989.
1909, “Der konservative Grundzug der Partei-Organization”, in
Monatschrift für Soziologie, I, pp.228-316: tr.it., “La
democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia”, in Rassegna
contemporanea, III, 1910, n. 5, pp.259-283; apparso ancora in
R. Michels, “La democrazia e la legge ferrea delle élites”, in
Studi sulla democrazia e sull’autorità, Firenze, Barbera,
1933.
1911, Zur Soziologie des Parteiwesens, Leipzig, Dr.Werner
Klinkhard; tr.it., La sociologia del partito politico nella
Democrazia moderna. Studi sulle tendenze oligarchiche degli
aggregati politici, Torino, Utet, 1912.
1925, seconda edizione tedesca riveduta e accresciuta de Zur
Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie.
Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des
Gruppenlebens, Stuttgart, Alfred Kröner Verlag; tr.it., La
sociologia del partito politico, Bologna, il Mulino, 1966.
1980, Antologia di scritti sociologici, Bologna, il Mulino.
Mitzman A.,
1973, Sociology and Estrangement: Three Sociologists of
Imperial Germany, New York.
Mommsen W.J.,
1974, Max Weber und die deutsche Politik, 1890-1920, Tübingen,
J.C.B. Mohr; tr.it., Max Weber e la politica tedesca, Bologna,
il Mulino, 1993.
Sivini G.,
1980,“Introduzione” in R. Michels, Antologia di scritti
sociologici, Bologna, il Mulino, 1980.
Weber M.,
1922, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr; tr.it.,
Economia e società, Milano, Comunità, 1995, 5 voll.
NOTE
[1] R. Michels, 1911, tr.it., 1912, p.XIII.
[2] Kolakowski L., 1977; tr.it., 1983, pp.10-11.
[3] A. Mitzman, 1973.
[4] G. Sivini, “Introduzione” a R. Michels, 1980.
[5] P. Ferraris, 1982, 1985.
[6] P. Ciancarelli, 2000.
[7] R.Michels, 1905; tr.it., 1908, p.276.
[8] P. Ciancarelli, 2000, p.11.
[9] W. J. Mommsen, 1974; tr.it., 1993, p.184.
[10] M. Weber, 1922; tr.it., 1995, vol.1, p.218.
[11] W.J. Mommsen, 1974; tr.it., 1993, p.189.
[12] K. Marx, 1848; tr.it., 1948, p.113.
[13] R. Michels, 1926; tr.it., 1966, p.18.
[14] R. Michels, 1924; tr.it., 1966, p.27.
[15] Ibid.
[16] Ibidem, p.32.
[17] Ibidem, p.35.
[18] Ibidem, p.41.
[19] Ibidem, pp. 16-17.
[20] Ibidem, p. 33.
[21] Ibid.
[22] R. Michels, ***, p.260.
[23] Ibid.
[24] Ibidem, p.270.
[25] Ibidem, p.275.
[26] Ibidem, pp.261-262.
[27] Ibidem, p.487.
[28] Ibid.
[29] Ibidem, p.488.
[30] Ibidem, p.495.
[31] R. Michels, 1907; ora in 1989, p.432.
[32] Ibidem, p.436.
[33] Ibidem, p.438.
[34] Ibidem, p.439.
[35] Ibidem, p.447.
***
Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive –
POLIS
Department of Public Policy and Public Choice – POLIS
Working paper n. 165 May 2010
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro”
ALESSANDRIA
Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione
n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria
Corrado Malandrino
Il pensiero di Roberto Michels sull’oligarchia, la classe
politica e il capo carismatico. Dal Corso di sociologia
politica (1927) ai Nuovi studi sulla classe politica (1936)
1. Premessa
In un intervento destinato a sviluppare il tema della critica
di Gramsci alla sociologia michelsiana del partito1, dal quale
per collegamento storico e logico-contenutistico il presente
contributo prende le mosse facendo esso parte di una
sistematica Michelsforschung, scrivevo che a partire dalla sua
riscoperta negli anni cinquanta-sessanta2 si sa bene che
Michels – sulle orme di quella che lui stesso amava definire
la “scuola mosco-paretiana”3 – si qualificò come uno dei più
acuti osservatori elitisti della crisi oligarchica
novecentesca della forma-partito in regime di democrazia. La
principale tesi michelsiana – che diede luogo alla
enunciazione della nota “legge ferrea dell’oligarchia” -,
facendo tesoro della distinzione moschiana tra governanti e
governati e dei suggerimenti avuti da Weber sul problema della
burocrazia, s’incentrò sull'ineluttabile spaccatura tra masse
e capi, tra dirigenti e diretti, che prelude nella
ricostruzione michelsiana alla degenerazione
burocratico-oligarchica del partito democratico e
socialista-democratico. Questa tesi fu applicata non solo
all’analisi specifica del partito in regime politico
democratico, ma fu adottata anche per la critica della teoria
dell'organizzazione del partito politico e generalizzata a
ogni tipo di partito, anche in regimi socialista e comunista,
trovando oppositori tra i teorici socialdemocratici nella
Seconda Internazionale prima della Grande guerra, e
soprattutto dopo, nella Zwischenkriegszeit, negli esponenti
più avvertiti del rivivificato marxismo della Terza
Internazionale e del comunismo europeo. Non ci sarebbe molto
da aggiungere, in merito al tema, alle interessanti notazioni
(solo per citare alcuni nomi) di Gallino, Pizzorno, Ripepe,
Sartori, Sola in Italia, e di Conze, Eldersveld, Duverger,
Linz, Lipset, fuori d'Italia.4 Sarebbe antieconomico
ripercorrere l'affollato susseguirsi di interventi, brevissimi
alcuni, più approfonditi altri, di illustri sociologi,
scienziati politici, storici, filosofi, che si sono
avvicendati nella discussione da più punti di vista. Sul punto
si può concludere che – grazie a questa messe di studi -la
teoria michelsiana della degenerazione oligarchica della forma
partito e del regime democratico, relativamente alla
formulazione datane nel primo ventennio del Novecento, sia
diventato un classico. Mi sembra di maggior interesse
domandarsi (e indagare) che ne è stato di essa nella seconda
metà degli anni venti e negli anni trenta, per verificare se
lo sviluppo delle ultime riflessioni di Michels
sull’oligarchia carismatica, in quanto caratterizzata appunto
dal carisma del “capo” totalitario del regime, abbia aggiunto
qualcosa di essenzialmente nuovo e significativo a questa
dottrina politica.
2. La critica di Gramsci
Michels è stato oggetto di molte critiche, di metodo e di
contenuto, da parte della cultura democratica del secondo
dopoguerra, forse anche di "pregiudizi" non correttamente
fondati come sostiene Ettore Albertoni5, anche se nella
specifica materia di cui ci si occupa qui egli sembrerebbe
riguadagnare considerazione, come ha rilevato Eugenio Ripepe
in un saggio del 1989 dedicato a Roberto Michels oggi6, in
parte autocritico rispetto alle sue riflessioni dell'inizio
degli anni settanta7, nell 'ambito degli studi sull'elitismo.
L’ingenerosità delle stroncature mosse da Gramsci a Michels e,
in alcuni casi, le sue imprecisioni derivarono con ogni
probabilità proprio dal mancato e perspicuo riferimento al
maggior testo michelsiano, come ho cercato di dimostrare nel
saggio citato in apertura. L'avversione gramsciana contro
Michels scaturì da un insieme di valutazioni che non
riguardavano tanto, o solo, la questione partito, e che
rimandavano invece a un quadro reso più complesso da altri
fattori, tra cui quello del “nazionalismo italiano” esibito da
Michels e il suo ruolo di “ambasciatore” e propagandista del
regime fascista ebbero decisiva importanza.8 Ma, per restare
al tema di oggi, si potrebbe appunto iniziare coll’analisi
gramsciana della sociologia michelsiana del partito che
prendeva le mosse non già dal classico riedito nel 1924 in
Italia (che Gramsci fece acquistare, ma non lesse in modo
puntuale e arricchendo la sua lettura con i commenti che usava
consegnare ai Quaderni9), bensì dalla lettura dell 'articolo
michelsiano del 1928 sulla “classificazione dei partiti
politici”10, che corrisponde – questo sì - ai rilievi comparsi
nei Quaderni. Questo articolo introduceva, con il Corso di
sociologia politica dell’anno precedente11, l’elemento
carismatico prima assente, nella dottrina michelsiana
dell’oligarchia. Si noterà che il titolo di questo articolo,
nelle edizioni inglese e italiana, connetteva più sobriamente
e tecnicamente "le partis politiques" non con la "contrainte
sociale" del titolo francese, ma con "the sociological
character" e con il concetto della "classificazione dei
partiti politici". Poiché i testi erano pressoché identici,
Michels voleva sottolineare nel titolo aspetti differenti per
destinatari diversi. Ma la sostanza non cambiava, essendo
effettivamente l'elaborazione mirata a elencare e a
giustificare in modo rapido una serie di definizioni
tipologiche di partiti politici. Una volta enunciato il
carattere di "fazione", comunque intrinseco al concetto
generale di partito, e aver ricordato weberianamente le cause
e la finalità dell'organizzazione partitica, in quanto
associazione di lotta tendente alla conquista del potere
(Machtstreben )12, e a farsi Stato nello Stato, Michels
tratteggiava una lista di tipi di partito, né completa né
esauriente nelle singole definizioni. Gramsci inseriva nel suo
riassunto dell’articolo tra parentesi vari punti interrogativi
o commenti (del tipo "inesatto") laddove riscontrava nel filo
espositivo michelsiano risvolti sui quali ironizzare,
oscurità, oppure salti logici o storici. Ma appariva evidente
che l'aspetto dell'articolo che lo impressionava di più era la
parte legata al capo carismatico, culminante nella
celebrazione di Mussolini in quanto incarnante la figura
storica del "duce" del partito e dello Stato a direzione
carismatica. Un Gramsci palesemente irritato scriveva che
Michels "ha fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata
del «capo charismatico» che probabilmente [occorrerebbe
confrontare] era già nel Weber". 13 Gramsci ignorava in quel
momento che effettivamente Michels, in più passi, aveva già
riconosciuto il suo debito intellettuale nei confronti di
Weber, arrogandosi semmai (sbagliando, perché in realtà andava
oltre Weber senza capirne a fondo la teoria del carisma14) il
merito di averne applicato le teorie all'esperienza del duce
del fascismo. Al termine della sua sintesi Gramsci faceva
comunque alcune critiche, di metodo e di contenuto, sulla
"classificazione dei partiti del Michels", che era giudicata
"molto superficiale e sommaria, per caratteri esterni e
generici". 15 Ricordava che accanto ai tre tipi generali: 1)
partiti carismatici; 2) partiti di classe; 3) partiti
dottrinari (con l'aggiunta dei partiti confessionali e di
quelli nazionali), sarebbe occorso menzionare anche i partiti
repubblicani in regime monarchico e i partiti monarchici in
regime repubblicano. Ciò ricordato, però a Gramsci sembrava
ancora necessario dire che "l'articolo [era] pieno di parole
vuote e imprecise", 16 e che in definitiva "le idee di Michels
sui partiti politici [erano] abbastanza confuse e schematiche,
ma [erano] interessanti come raccolta di materiale grezzo e di
osservazioni empiriche e disparate"; che "gli errori di fatto
non [erano] pochi", che "le sue scritture [erano] zeppe di
citazioni bibliografiche, in buona parte oziose e ingombranti"
e così via. 17 Sul metodo di Michels Gramsci sentenziava: "La
pura descrittività e classificazione esterna della vecchia
sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di
queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia
intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia
amabile scetticismo da salotto o da caffé reazionario che ha
sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del
sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo". 18 Occorre
sottolineare, en passant, che il riferimento plurale di
Gramsci "a queste scritture" di Michels faceva capire che si
riferiva non solo all'articolo del 1928, che in quel luogo era
il principale imputato, ma ad altri scritti che il capo
comunista aveva in carcere e stava leggendo nel periodo.
Queste non potevano che essere Francia contemporanea 19 e il
citato Corso di sociologia politica, e non la Sociologia del
1911, come vari interpreti hanno sostenuto. In effetti i
rilievi sull'affastellamento aneddotico e delle citazioni
bibliografiche sembrano corrispondere soprattutto al carattere
miscellaneo e disorganico del volume sulla Francia, tenuto
conto che viceversa il Corso appare in proposito assai più
conciso e lineare. A prescindere da tale osservazione, appare
evidente che quando Gramsci parlava delle idee sui partiti si
riferiva ancora una volta all'articolo francese del 1928, e,
all'interno di questo, soprattutto alle elucubrazioni sulla
tipologia del partito carismatico, che vi occupava grande
spazio, opportunisticamente orientato all'elogio del carisma
mussoliniano e in linea con la definizione di quell'elitismo
carismatico che appariva esser l'ultima sua sintesi, mancata
secondo la maggior parte degli interpreti. In effetti,
sorvolando sull'astiosità e sul sarcasmo comprensibili nella
cultura militante del capo comunista – il quale scriveva
all’interno di un carcere in cui lo stesso capo carismatico
elogiato da Michels, con proprio ordine diretto, lo aveva
fatto piombare in spregio a ogni anglosassone habeas corpus
per impedirgli di pensare e di agire -, le critiche di
Gramsci, se riferite all'articolo del 1928, sembrano
giustificate poiché l'articolo di Michels si presentava
meramente enunciativo, irritante in molti passaggi
declamatori, privo di approfondimento, rapido e fuggevole nei
giudizi. Come se Michels sentisse di non aver più nulla da
dimostrare, avendo già detto tutto nel suo gran libro del 1911
e in altre pubblicazioni che del resto erano da lui
richiamate. Il suo articolo, insomma, sembrava avere
intenzionalmente carattere meramente ripetitivo, ritenendo
forse egli d'aver portato nelle ricerche precedenti l'onere
della prova scientifica.
3. Gli altri scritti michelsiani sull’oligarchia carismatica
Sotto questo aspetto è del tutto fondato supporre che, agli
occhi di Michels nel 1928, l'articolo si ponesse in rapporto
di continuità, pur con tutte le differenti sfumature, con le
ricerche precedenti. Ma a fronte di un esame oggettivo – dal
quale risulta la novità dell’elemento carismatico giocato
pesantemente in funzione di appoggio alla dittatura
mussoliniana -bisogna invece concludere che tale posizione
dell'autore, pur coerente con la sua storia politica più che
scientifica, non appare del tutto giustificata. Specie se si
leggono gli scritti successivi dedicati a questo tema. In
proposito occorre infatti precisare che l'articolo del 1928
non corrisponde -se non nell'assunto fondamentale,
genericamente riaffermato, del carattere oligarchico del
partito -ai contenuti e al senso dell'originale Sociologia del
partito politico, nella quale non vi è nemmeno una pagina
dedicata al tema del partito carismatico in quanto tale.
Questo concetto era estraneo al Michels del 1911 e non emerge
significativamente nel 1924, così come quello del duce
carismatico (pur essendovi beninteso molte pagine che si
occupano dei capi). Nella Soziologie del 1911 non si procedeva
a una sistematica classificazione dei partiti. Gli studiosi
finora ricordati hanno molto discusso su cosa sia, in effetti
la Soziologie (e non è qui possibile riprendere tale dibattito
nella sua interezza, salvo allacciarsi ad alcune
considerazioni). Fra le differenti letture proposte, neppure
una si attaglia all'orientamento dell'articolo del '28, che
appar essere sostanzialmente una rapida e insipida
rielaborazione della questione del partito politico, dal quale
emerge come aspetto vivificante soprattutto il motivo del
“duce carismatico”. Mentre, in genere, del precedente
capolavoro michelsiano si è apprezzato il carattere ampio e lo
spessore analitico, sotto il profilo dei materiali storico-
politici e sociali utilizzati. Secondo lo studio di Sola20,
che è tra le elaborazioni di scienza politica più informate,
complete e organiche dei vari aspetti del pensiero elitista
michelsiano, "il tema di fondo della ricerca michelsiana
consiste nell'elaborazione di una più ampia sociologia
dell'azione dirigente e della leadership: di essa tanto la
sociologia della «direzione politica» quanto la sociologia
dell'«oligarchia» rappresentano solo dei momenti particolari".
Della ricerca sociologico-politica michelsiana, è bene
ricordarlo, si sottolinea sempre il suo essere il punto
terminale di una maturazione decennale21, basata su esperienze
dirette personali e su una vasta indagine intellettuale su un
modello di partito, quello socialdemocratico, che troppo
rapidamente -sulla scorta di una critica "radicale di
sinistra" successiva, alla quale l'opera di Michels diede
avvio - viene scambiato per una mera macchina burocratica. La
Spd fu anche e prima di tutto, specie prima della controversia
revisionista, una ecclesia militans, un partito di militanti e
di elettori aderenti che avevano saputo ricreare un mondo
culturale separato, ma completo. Non a caso gli intellettuali
giocavano un ruolo complesso al suo interno nella creazione
del circolo dell'informazione-formazione, di cui Michels nella
sua Sociologia tien conto.
Si è lontani -nel caso della Sociologia del partito -da ogni
forma di riduzionismo psicologico, tecnico e
dall’estremizzazione carismatico-mussoliniana tentata dal
Michels fascista22. Al contrario dell'articolo del '28, la
Sociologia non si caratterizza per l'analisi
elitistico-carismatica della forma-partito (e della forma di
Stato), ma descrive il partito come un organismo polivalente
("organizzazione, Stato nello Stato, impresa economica,
organismo sociale"23), e certamente come organismo politico
complesso anche al livello della Führertum (ma senza
l'appiattimento su di un unico Führer, ossia di un Duce
carismatico alla Mussolini). Sempre citando Sola, la
Sociologia del 1911 è una "scienza analitica del partito
politico" e ha carattere eminentemente "realistico"24, mentre
l 'articolo del 1928 si presenta con il marchio della sintesi
definitoria, della verità apodittica e dell'autoreferenzialità
carismatica. Per dimostrare tale assunto val la pena procedere
all’analisi degli altri scritti in cui Michels parla
dell’oligarchia carismatica cercando di strutturare meglio il
suo discorso. Questi sono rintracciabili sostanzialmente
(tralasciando certi scrittarelli troppo scopertamente
apologetici del regime) in tre testi: il citato Corso di
sociologia politica del 1927, gli Studi sulla democrazia e
l’autorità del 1933 e i Nuovi studi sulla classe politica del
1936, l’ultimo anno della vita di Michels. 25
3.1. La direzione carismatica dello Stato
Il Corso di sociologia politica rappresenta una fusione di
materiali didattici rielaborati per una loro presentazione in
veste più scientifica. È costituito di quattro lunghi capitoli
dedicati rispettivamente al fattore economico, alla élite,
alle tendenze democratiche e alle controtendenze
aristocratiche e, infine, alla direzione carismatica nella
vita pubblica. Seguiamo il ragionamento di Michels sul tema in
questione traendolo dalle varie notazioni sparse qua e là.
Esso parte dal dato di fatto (e dal principio) della continua
rotazione delle élites nei regimi democratici. Nota Michels
che tale carattere nell’offrire garanzie di accesso al potere
alle varie élites nel tempo, produce altresì rotture della
continuità dell’azione di governo, disfunzionamenti,
insicurezze e comportamenti asimmetrici nella gestione della
cosa pubblica. Di contro, il fenomeno della permanenza stabile
di una ”robusta élite unica al potere” – che certo appare più
efficiente e sicura nell’azione di governo -assume
necessariamente “caratteri antidemocratici” (qui è trasparente
il richiamo all’acquistata supremazia dell’élite fascista, ma
anche alla minoranza bolscevica26), ed è avversata dalle altre
élites minori, che sostengono ovviamente il ritorno al
principio della pluralità delle élites e della loro
circolazione. Tale opposizione è favorita dalla tendenza al
pluralismo che è molto forte nella formazione e nella vita
delle élites economiche. Tuttavia, il consolidamento del
concetto dell’unicità dell’élite al potere, che è dato vedere
nella storia recente, continua Michels, si basa sul
presupposto della critica generalizzata alla democrazia
borghese che è ormai vecchia di un secolo, se vi si includono
le prime contestazione del principio liberaldemocratico da
parte dei teorici del socialismo. Sulla base di tale
affermazione, in realtà Michels opera un collegamento molto
discutibile tra tutte le teorie socialiste progressiste,
antiborghesi e antiliberali, e l’elitismo ultraliberale e
conservatore, arrivando senza soluzione di continuità fino a
quello della scuola mosco-paretiana. Tale linea critica
antiliberale e antidemocratica porterebbe,
nell’interpretazione di Michels, alla demistificazione del
principio della maggioranza in quanto fondamento
rappresentativo e di massa del sistema liberaldemocratico, in
quanto esso non assicurerebbe affatto agli elettori il
controllo democratico dei governi, i quali restano invece
sempre, come affermato da Mosca, espressione di una minoranza
organizzata. Come insegnano le teorie elitiste, l’esercizio
del potere delle varie classi politiche democratiche rimane
invariabilmente frutto di “tortuosi intrighi di corridoi”. Al
contrario, l’élite unica, insediatasi saldamente e
monopolisticamente al potere, eserciterebbe secondo il
sociologo italo-tedesco un dominio “franco, chiaro, concreto e
diretto”. 27
Se questo è vero, continua Michels, tuttavia “l’élite
antidemocratica non può fare appieno astrazione dal principio
di massa” nell’era della “mobilitazione” delle stesse in nome
del patriottismo popolare. “Dato il risveglio delle folle
operaie e contadinesche non è possibile nell’era presente – e
i fatti, sottolinea Michels, forniscono a questa asserzione
un’abbondante documentazione – che l’élite possa affermarsi
vittoriosa senza il continuo tacito consenso delle masse,
dalle quali, sotto vari aspetti, dipende la sua sorte”. 28 A
conclusione di questo ragionamento, il sociologo italo-tedesco
sottolinea che si determina dai fatti stessi una
contraddizione, “un’antinomia non tragica, ma fatale”, per
l’élite antidemocratica: da un lato, nel dover essa mantener
indefinitamente il potere senza apparente mandato
rappresentativo di consenso, concesso nelle forme elettorali
democratiche usuali; dall’altro, nell’aver però sempre bisogno
di un consenso forte da parte delle masse, anche se non
manifestato attraverso il suffragio tradizionale, per
legittimare il proprio diritto al potere e la propria
autorità. [Per inciso: questa considerazione ci fa capire
quanto poco Michels credesse alla validità delle elezioni
coatte nel regime del partito unico nel quale viveva e di cui
si era fatto sostenitore…]. Formulato in tal modo il problema
di fronte al quale si trovava a suo avviso “l’élite
antidemocratica” fascista, Michels introduce, per risolvere
tale antinomia, la nota argomentazione weberiana dei tipi puri
di potere legittimo: il potere legale-razionale, il potere
tradizionale e infine il potere carismatico. 29 Nel terzo tipo
di potere Michels afferma di trovare la soluzione
dell’antinomia da lui rilevata. In quest’ultimo caso, scrive
infatti Michels, “la legittimità [è] basata sulla
sottomissione spontanea e volontaria delle masse al governo di
persone dotate di qualità congenite straordinarie, ritenute
talora addirittura soprannaturali e, comunque, sempre
superiori di molto al livello generale, per virtù delle quali
esse persone sono stimate capaci (e spesso lo sono) di
compiere grandi cose, ed anche miracolose. Epperò avviene che
questi uomini sembrano in fondo designati nientemeno che da
Dio stesso. Esempi: il profeta, il Duce”. 30 En passant, il
sociologo italo-tedesco nota (citando genericamente Vincenzo
Cuoco) che il presupposto del sorgere di duci (guide
politiche) è dato proprio dalla circolazione delle élites
nelle democrazie. Ovvero, proprio dalle loro lotte
interminabili emerge infine una figura dotata di qualità
carismatiche che pone loro fine instaurando un più fermo
dominio. Proprio “l’istituzione del Duce” costituisce il
caposaldo della “nuova teoria dell’élite”. Questa figura
infatti conferisce non solo nuova sicurezza, rapidità, abilità
e disinvoltura all’esercizio del comando, ma dà all’élite
antidemocratica un fondamentale rapporto con la massa di cui
prima era carente. Al proposito, l’esempio storico citato da
Michels per avvalorare il suo argomento è quello di Oliver
Cromwell, il capo carismatico della prima rivoluzione inglese
citato anche da Weber, ripreso icasticamente quando impone al
Parlamento l’istituzione del suo protettorato. Al di là delle
divagazioni alle quali indulge, il fatto sostanziale
sottolineato da Michels sembra essere l’elemento di
inimitabile “genialità” apportato dall’uomo carismatico nel
tenere il timone del potere e nel suo rapportarsi direttamente
con le masse (che Michels richiama spesso, con evidente
distorsione del suo significato, come “opinione pubblica”). Si
formerebbe così una “fede collettiva” delle masse nei
confronti del duce, un canale di comunicazione diretta che può
assumere “forma spiccatamente mistica”. “Alla fede nella
propria missione – scrive Michels – si congiunge, nel duce
carismatico, nato qual è dalle masse, il bisogno di rimanere
colle masse in continuo contatto. Ne scaturisce un fenomeno
storico-politico di sommo momento”. 31 A questo punto il
discorso michelsiano da ‘teorico’ si fa storico, o
cronachistico, in quanto la tipica figura del duce di cui ha
trattato fino a quel momento viene ricondotta sempre più alla
misura e alla figura reale del Duce italiano, il “Capitano
Nuovo” che l’Italia – proclama Michels -ha trovato nei “tempi
tempestosi”, il Capo del Governo che “parla e traduce in forma
nuda lineare e lampante cotesta sua nuova consapevolezza,
contenente i propositi della moltitudine, mentre questa stessa
freneticamente acclama, rispondendo alla voce profonda della
propria coscienza, o perlomeno, diremo noi, di quella, anche
più profonda, della propria subcoscienza”. 32 A queste
affermazioni, seguono infine notazioni sul carattere e sulle
regole di comportamento del “duce”: il duce, pur se deve
mantenere il contatto con le masse, deve comunque rimanerne
“distinto”, non condividerne i difetti, deve star al di sopra
di simpatie e antipatie e di certe debolezze umane, per
mantenere intatto il suo ascendente (“per non essere
massificato, conviene che egli ogni tanto si smassifichi ”33,
scrive testualmente l’autore); il duce deve essere “buono”,
non nel senso sentimentale, ma dedito al bene della cosa
pubblica, incondizionatamente devoto a essa; deve sfuggire
alle tentazioni costanti della megalomania (sic!); deve agire
limitatamente attraverso la burocrazia di carriera, ma
scegliere i propri collaboratori al di fuori della cerchia dei
ceti governativi e amministrativi, anch’essi “secondo la loro
qualificazione carismatica” e in base alla sua ispirazione
(decidendo autonomamente di toglier loro l’incarico se vien
meno la loro attitudine al carisma); il duce infine dev’esser
alieno dallo stringere compromessi. Il duce insomma instaura
la sua dittatura e non vi è da attendersi che di sua spontanea
volontà la faccia cessare o abdichi: “il duce carismatico non
abdica neppure quando l’acqua gli giunge alla gola. Poiché
appunto nella sua prontezza di morire sta un suo elemento di
forza e di trionfo”. 34 Solo la perdita del carisma può
giustificare un’eventuale abdicazione, che equivale al suo
suicidio politico. Nel capitolo sulla “fatalità” della classe
politica compreso negli Studi sulla democrazia e
sull’autorità, Michels invero non aggiunge nulla a quanto già
detto, semmai sottolinea la capacità della guida carismatica
di restringere e controllare -meglio di quanto non sia capace
di fare la direzione di tipo liberaldemocratico –
l’onnipresente burocrazia (che è all’origine
dell’impossibilità di attuazione del tipo rousseauiano di
democrazia dal quale Michels fa partire il suo ragionamento
nella Soziologie). Infine, nell’ultimo suo scritto del 1936, i
Nuovi studi sulla classe politica, ribadisce le tesi
sopraddette, sentenziando che “nei partiti gerarchici il
capitanato diventa un principio, il carisma rimpiazza la
continua elezione e rielezione degli eletti da parte delle
masse” e rincarando la dose sul dato di fatto che comunque
“anche nei paesi e nei partiti democratici che negano il
carisma, esiste una dittatura dei capi, anche se la democrazia
formale cerca di nascondere l’effettivo processo. Il rapido
cambio tra i capi [nei sistemi liberaldemocratici, n.d.r.]
trae in inganno gl’inesperti circa il vero carattere di
dominio. Giacché non sono le masse a rovesciare i capi, ma i
capi nuovi che delle masse a tal uopo si valgono”. 35 Accanto
a tali affermazioni drastiche che sono lontane dallo spirito
empirico e scientifico delle prime opere sulla sociologia del
partito, Michels pone alcuni cenni sul tratto “volitivo”
dell’oligarchia carismatica, un carattere volontaristico,
fatto di nicciana volontà di potenza. Lo fa con il consueto
taglio storico piuttosto che con un completo approccio
teorico, anche se qui e là compaiono echi e citazioni di
teorici come Nietzsche e Weber. La volontà di dominio, scrive,
e la storica necessità di competenza compresa in senso
carismatico si uniscono presso molti popoli nel dopoguerra per
il desiderio di trovare “nella vita politica ed anche
nell’industria e nei traffici un capo: forte, incoronato non
già dalla capigliatura incanutita dagli anni, e neppure
fatalmente da avite ed accumulate tradizioni, ma da giovanile
capacità di comando [come non cogliere qui l’eco
machiavelliano dei giovani che battono la fortuna che è donna,
n.d.r.], una scelta ispirata e confermata dal numero e dallo
stato d’animo delle masse dei seguaci”. Insomma sta a cuore a
Michels di separare la giustificazione elettorale ed economica
dalla scelta del capo carismatico, cosa che esula dalle
normali e tradizionali procedure di reclutamento della
dirigenza politica. “Laddove la nuova classe politica si forma
intorno a un capo carismatico e a un gruppo carismatico –
scrive -, vale a dire nato all’infuori della cerchia
tradizionale, ereditaria o plutocratica, ma dotato di forte
ingegno e foriere di una missione trascendentale, perché
capace d’ispirare ai suoi seguaci una fiducia e una fede che
rasentano il divino ed il soprannaturale, fa difetto ogni
nesso iniziale coi fattori economici”. 36 A maggior riprova
cita Weber in tedesco: “Reines Charisma ist spezifisch
wirtschaftsfremd”. 37 Ovvero, il carisma puro è spiccatamente
estraneo all’economia. Anche se, come fa notare lo stesso
Weber, corrono vincoli pecuniari tra il capo carismatico e i
suoi fedeli (come donazioni, stipendi fissi, ecc.), il
carattere essenziale del carisma sta, conclude Michels, “nella
brama del dominio, nelle fede indomita, nel coraggio fisico”.
38 Detto questo, come è nel suo stile degli ultimi anni,
Michels trapassa in altre notazioni di colore, talora oziose,
sperdendo il tenue filo teorico dipanato. Verso la fine del
capitolo, per riprendere l’argomento del “coefficiente
volitivo”, non trova di meglio che ricondurre la propietà di
tale carattere ai soggetti storici che meglio l’impersonano,
ossia il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco, i
quali – scrive -“lungi dal presentare manifestazioni storiche
parallele, hanno tuttavia in comune di essere dei movimenti
che si sono fatti strada con metodi rivoluzionari ed in
antitesi all’intellettualismo accademico ed alla massoneria
imperante. Intanto – conclude -segnano una vittoria della
corrente volitiva e politica, tengono domo l’accademismo puro
e mettono freno all’economismo unilaterale [sic!]”. 39
3.2. Confronto tra la teoria weberiana e quella michelsiana
del potere carismatico
Si ha in queste conclusioni qualcosa di sostanzialmente
diverso da una teoria scientifica e da una mera
giustificazione del fascismo carismatico, si ha la traccia un
approdo pieno di Michels al regime dittatoriale mussoliniano.
Si ha in questo passaggio anche un distacco profondo
dall’originale dottrina weberiana (ma, vorrei aggiungere,
dalla stessa Soziologie originaria michelsiana). Vorrei però,
prima di trarre alcune conclusioni inerenti l’interpretazione
del pensiero e della prassi politica di Michels, soffermarmi
brevemente sul confronto tra le formulazioni weberiane e
quelle michelsiane in tema di carisma, tema sul quale il più
recente e convincente studio critico è senz’altro quello
citato di Francesco Tuccari sui Dilemmi della democrazia
moderna. Mi sembrano persuasivi i giudizi di Tuccari (e il
precedente di Portinaro) sui limiti della trattazione
michelsiana della dottrina del carisma. 40 Apparentemente
Michels rispetta la lettera della dottrina weberiana sul
carisma, ricavata come si evince dalle citazioni predette
dalla postuma edizione degli studi di Economia e società.
Weber, in effetti, tratteggia qui il potere carismatico come
“una relazione sociale di carattere specificamente
straordinario e puramente personale” possibile in virtù del
“dono di grazia” posseduto dal tipo umano carismatico. Se si
legge la famosa conferenza monacense sulla Politica come
professione41, si trovano espressioni simili sulla
straordinarietà del potere carismatico, che sul piano politico
è inteso come “dominazione in forza della dedizione del
seguace al carisma puramente personale del capo”; ovvero,
sulla spontaneità e dedizione dei seguaci del carisma (e
dell’uomo carismatico stesso al suo carisma). Chiarendo
infatti il senso intimo della “dedizione” dei seguaci e
dell’uomo carismatico, Weber scrive che “la dedizione al
carisma del profeta o del capo in guerra o del grande demagogo
nella ecclesia o nel parlamento significa che egli
personalmente è per gli altri uomini un capo per vocazione
intima, e che costoro lo seguono non in forza del costume o
della legge, ma perché credono in lui. Dal canto suo, egli
vive per la sua causa, tende con ogni sforzo alla sua opera
[…]”. 42 Ciò che invece è ben diverso in Weber dalla riduzione
michelsiana della dottrina carismatica è, innanzi tutto,
l’ampiezza della definizione del potere carismatico, che Weber
deriva dagli studi sulla sociologia delle religioni e che
quindi applica a una serie di tipi carismatici, che non sono
invece ripresi da Michels (interessato com’è a una sola
espressione del tipo carismatico). Ma la maggiore differenza,
anche teorica, da rilevare sta nell’uso che Michels fa della
dottrina del carisma. Nel suo pensiero, il duce carismatico
(che non è il grande demagogo parlamentare che soprattutto ha
in testa Weber, ma tende ad assomigliare molto al meneur des
foules di Le Bon) ha soprattutto la funzione di risolvere
l’antinomia verificatasi nel caso dell’insediamento stabile
dell’élite antidemocratica al potere, ha insomma la funzione,
grazie al suo rapporto “sintonico” con le masse, di ovviare al
problema della legittimazione di massa carente nell’élite
antidemocratica dittatoriale. Ciò fatto, il duce carismatico
resta fissato per sempre a tale funzione. Quindi il carisma
del duce rende “carismatica” l’élite-oligarchia che viene
cristallizzata in questa forma e figura, non ha più ulteriore
evoluzione. Con tale fondamento si può affermare a questo
punto che Michels sia teorico dell’elitismo carismatico e di
una nuova forma di democrazia (che però della democrazia ha
solo il nome). 43 Ben diversamente stanno le cose per la
teoria weberiana. Come è chiaramente spiegato in Economia e
società, il carisma rompe nel suo farsi il corso della
tradizione e della legalità statuali, ma dopo una fase di
acuto protagonismo dell’uomo carismatico, il suo potere tende
in qualche modo a darsi una legittimazione legalitaria e a
rientrare gradualmente nella forma di potere legale-razionale.
44 Di qui la figura del presidente carismatico in un regime
presidenziale, democratico-plebiscitario, ma tendenzialmente
decentrato e federale, che rappresenta l’approdo politico
della dottrina costituzionale weberiana. Non vi è in Weber
alcun cenno a un protrarsi indefinito del “rapporto sintonico”
tra duce e masse come elemento teorico fondamentale di
giustificazione di un regime dittatoriale (la “nuova
democrazia”) e di una “nuova teoria dell’élite” che prevede in
realtà la sopravvivenza di un’unica élite antidemocratica al
potere, come sostiene invece Michels.
4. Conclusione: il carisma machiavellico del Duce secondo
l’ultimo Michels
Dalle asserzioni di Michels sul potere oligarchico-carismatico
e sul “coefficiente volitivo” si comprende come egli si
volesse sempre più qualificare come “intellettuale organico”
(per usare in senso lato una categoria gramsciana) del
fascismo. 45 Questo intento aveva a che fare molto più con il
suo progetto di vita professionale e pubblica che non con
approfonditi elementi di scienza politica. Per esempio il
personaggio di Michels coincideva col profilo del
“collaboratore carismatico” del Duce, da trarsi fuori della
stretta cerchia governativa e burocratica. Questo ci
suggerisce il Michels autore degli articoli e dei libri dei
tardi anni venti e trenta, quando, rientrato in Italia sotto
la protezione personale del Duce e con in tasca la tessera del
PNF dopo il lungo periodo di Basilea, nella fascistissima
Università di Perugia, come ordinario di Economia generale e
corporativa, Michels procurava di rappresentare e onorare con
frequenti viaggi all’estero l’immagine culturale del regime in
Europa (su questo capitolo “accademico” della biografia
michelsiana fornisce dati anche il contributo del 1992 di
Maria Cristina Giuntella nel volume sul “fascismo e
l’inquadramento degli atenei”46). Ma questa notazione non
basta a capirne l’intima vocazione finale, che si radica
soprattutto col ricercato legame diretto col Duce. Non appare
casuale il fatto che in quegli anni Michels sviluppasse in
modo accentuato (per usare un eufemismo) un’interpretazione
‘machiavellista’ della figura carismatica del Duce-principe,
rinnovatore e salvatore della patria italiana. Ho richiamato
questo tema in un articolo che utilizza alcune riflessioni
fatte già da Di Nucci. 47 Da questi articoli e da quello di
Aldo G. Ricci (Michels e Mussolini) 48 emergerebbe soprattutto
una strumentalizzazione di sapore propagandistico della figura
del “segretario fiorentino”, elevato da Michels (o si dovrebbe
dire “abbassato”?) a “icona” nel santuario dei padri culturali
dell’Italia fascista. Ricci e Di Nucci si soffermano
soprattutto sul testo di una conferenza tenuta da Michels nel
1929 nella sua città natale, Colonia, in cui si fa risalire a
Machiavelli – cito le parole di Michels -la “lunga tradizione
di vitalità politica e culturale” dalla quale sgorgano “le
fonti intellettuali del fascismo”49. In Machiavelli, secondo
Michels, “già si trova il pensiero del Duce, condottiero
irruento, spontaneo, individuale, forte non di un potere
ereditato, ma per proprie virtù. Altra analogia fra Mussolini
e Machiavelli è la devozione entusiasta per la Patria”. Non
per caso Mussolini aveva in animo di scrivere una
dissertazione accademica su Machiavelli, studio per il momento
rimasto frammentario e incompiuto50. Si potrebbe azzardare un
commento: forse, tenuto conto che Michels sapeva bene che le
sintesi delle sue conferenze venivano regolarmente depositate
sul tavolo di lavoro del Duce, il quale ne era fedele lettore
e postillatore, questo poteva essere anche un modo per
insufflare subliminalmente al potente protettore la
possibilità di affidare allo stesso Michels – che avrebbe
assolto con entusiasmo a tale dovere – la curatela
dell’eventuale opera organica mussoliniana su Machiavelli...
Questa parrebbe retorica cortigiana, non lontana -quando
imbastisce simili paragoni o apparentamenti -dalla categoria
del “servo encomio” dedicato al “principe” dell’Italia
fascista. Apparirebbe persino benigna, sotto questo profilo,
la talvolta ingenerosa e stroncante critica di Gramsci al
“lorianismo”, di cui s’impregna nel periodo fascista il metodo
scientifico del Michels sociologo, le cui scritture – scrive
Gramsci nei Quaderni del carcere – “sono oziose e
ingombranti”, piene di “truismi” appoggiati all’autorità degli
scrittori più disparati51. Questa attitudine poco gloriosa
dell’ultimo Michels ricorre anche nel libro, chiaramente
condizionato dagli obiettivi della politica culturale
fascista, pubblicato nel 1930 in Svizzera e in Germania con il
titolo Italien von heute52. Qui prende forma lo stesso tipo di
riproposizione della figura (più che dell’opera) del
Machiavelli. Anche se, occorre notarlo, emergono alcuni
elementi di maggior interesse dal punto di vista del pensiero
politico, che fanno pensare a riflessioni meno occasionali.
Laddove per esempio è scritto che “l’Italia ha fatto nascere
con Machiavelli il maestro della dittatura rivoluzionaria
patriottica e del realismo dell’arte dello Stato”53. Questo
tipo di “machiavellismo”, che per Michels costituisce
un’irrinunciabile conquista della scienza politica, fu
abbandonato dagli italiani dei secoli successivi in quanto
“del tutto immorale”54, ma è invece – secondo il Michels
fascista -alla base delle correnti imperialiste dell’Italia
moderna e infine è collocato come “principio strutturale del
fascismo”: infatti, conclude Michels, “da Machiavelli [il
fascismo] ricevette la dottrina del capo dittatoriale
carismatico di conio messianico che non ha ereditato il
proprio potere”. Credo sia interessante – anche se non si
capisce ancora quanto fondato – questo primo cenno alla
relazione “machiavelliana” tra arte dello Stato e dottrina
della dittatura carismatica di sapore schmittiano. Tuttavia il
riferimento farebbe pensare ancora una volta, nella
stringatezza e mancanza di sviluppo, a una frase buttata lì,
con intenzione propagandistica e celebrativa della figura del
Duce, più che con reale intento scientifico.
Note
1 Cfr. C. Malandrino, Gramsci e la Sociologia del
partito politico di Michels, in Gramsci: il partito politico
nei Quaderni, a cura di S. Mastellone e G. Sola, Firenze, CET,
2001, pp. 115-140. A questo articolo si rinvia per il
necessario contesto di riferimenti dottrinali e bibliografici
che hanno caratterizzato la discussione sulla sociologia
michelsiana del partito politico nella seconda metà del
Novecento. Per ciò che concerne il capolavoro michelsiano,
cfr. R. Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der
modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen
Tendenzen des Gruppenlebens, Leipzig, Dr. Werner Klinkhardt,
Philosophischsoziologische Bücherei, Band XXI, 1911 (prima
ediz. it. Torino, UTET, 1912). Si ebbe una seconda ristampa
stereotipa italiana nel 1924 sempre per i tipi della UTET. La
seconda edizione tedesca, con una nuova introduzione e
aggiunte dell'autore, avvenne nel 1925 (Stuttgart, A. Kröner).
Ved. anche le più recenti riedizioni italiana (La sociologia
del partito politico nella democrazia moderna, a cura di J. J.
Linz, Bologna, Il Mulino, 1966, che si giova di un’importante
studio introduttivo del Linz stesso) e tedesca (Soziologie des
Parteiwesens,a cura di F. R. Pfetsch, Stuttgart, Kröner,
1989).
2 Cfr. tra le riletture meno lontane nel tempo: D. Fisichella,
R. Michels, il partito di massa ed il problema della
democrazia, in G. Quagliariello (a cura di), Il partito
politico nella belle époque. Il dibattito sulla forma-partito
in Italia tra '800 e '900, Milano, Giuffré, 1990, pp. 743-752;
F. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e
Robert Michels, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 219-282 e
309-339.
3 Cfr. R. Michels, Studi sulla democrazia e sull’autorità,
Firenze, La Nuova Italia, 1933, consultato in Id., Antologia
di scritti sociologici, a cura di G. Sivini, Bologna, Il
Mulino, 1980, p. 200. Sul rapporto del pensiero michelsiano
con le eredità intellettuali di Mosca e Pareto cfr. in
generale J. H. Meisel, The Myth of the Ruling Class. G. Mosca
and the «Elite», Ann Arbor, Michigan, 1958; G. Sola,
Organizzazione, partito, classe politica e legge ferrea
dell'oligarchia in R. Michels, Genova, ECIG, 1972; P. P.
Portinaro, R. Michels e V. Pareto. La formazione e la crisi
della sociologia politica, "Annali della Fondazione L.
Einaudi", Torino, 1977, XI, pp. 99142; Id., Tipologie
politiche e sociologia dello stato. G. Mosca e M. Weber, ivi,
1978, XII, pp. 405-438; E. De Mas, L'Italia tra Ottocento e
Novecento e le origini della scienza politica (Mosca, Michels,
Ferrero, Rensi), Lecce, 1981 (ma ved. di De Mas anche le
interessanti considerazioni svolte nel saggio Il giudizio di
Michels su G. Mosca nel 1929, in R. Michels: economia
sociologia politica, a cura di R. Faucci, Torino,
Giappichelli, 1989, pp. 163-174); di Albertoni, oltre allo
scritto cit., cfr. anche la Prefazione al primo tomo del vol.
V dell'«Archivio internazionale G. Mosca per lo studio della
classe politica» intitolato: Elitismo e democrazia nella
cultura politica del Nord-America (Stati Uniti -Canada
-Messico), Milano, Giuffré, 1989, pp. XI-LXII; P. Ferraris,
L'influenza di G. Mosca su R. Michels, "Quaderni dell'Istituto
di studi economici e sociali", Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Camerino, 1/1983, pp. 31-57; C. Mongardini,
L'opera di R. Michels e la sociologia italiana, "Annali di
sociologia/Soziologisches Jahrbuch”, Università di Trento,
2.1986, I, pp. 73-84. Ved. infine C. Malandrino, Patriottismo,
nazione e democrazia nel carteggio Mosca-Michels, in “Annali
della Fondazione Luigi Einaudi”, Torino, 2004, pp. 211-226.
4 Per una “bibliografia scelta”, ma esauriente, sugli autori
citati cfr. R. Michels, Potere e oligarchie. Antologia
1900-1910, a cura e con intr. di E. A. Albertoni, apparato
bibibliografico di V. Ravasi, Milano, Giuffré, 1989, pp.
109-122.
5 Ivi, p. 4.
6 Ved. in Roberto Michels: economia, sociologia, politica,
cit., pp. 7-22.
7 Cfr. E. Ripepe, Gli elitisti italiani, vol. I, Mosca Pareto
Michels, Pisa, Pacini, 1974, pp. 459-548.
8 Cfr. L. Di Nucci, Roberto Michels «ambasciatore» fascista,
“Storia contemporanea”, XXIII, n. 1, 1992, pp. 91-103.
9 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V.
Gerratana, Torino, Einaudi, 1975.
10 Cfr. R. Michels, Saggio di classificazione dei partiti
politici, "Rivista internazionale di filosofia del diritto",
VIII, 1928, n. 2, pp. 162-178 (ripubblicato in Michels,
Antologia di scritti sociologici, cit., pp. 177-195); Si
tratta praticamente dello stesso testo edito da Michels in
inglese col titolo Some reflections on the sociological
character of political parties, "The American Political
Science Review", XXI, 1927, n. 1, pp. 753-772; e in francese
col titolo Les partis politiques et la contrainte sociale,
"Mercure de France", 1928, pp. 513-535.
11 Cfr. R. Michels, Corso di sociologia politica, Milano,
Istituto Editoriale Scientifico, 1927.
12 La citazione di Weber è tratta da parte di Michels (nota 1,
p. 513) dall'opera Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der
Sozialökonomik, III, 2 éd., Tübingen, 1925, Mohr, p. 167, 639:
"D'après Max Weber, le parti politique a son origine de deux
sortes de causes. Ce serait, en premier lieu, une société
spontanée de propagande et d'agitation visant l'obtention de
la puissance, afin de procurer par cela même à ses adhérents
actifs (militants) des chances morales et matérielles pour la
réalisation de buts objectifs ou d'avantages personnels, ou
encore des deux à la fois. Par conséquent, l'orientation
générale des partis politiques consiste dans le Machtstreben,
soit personnel, soit impersonnel. Dans le premier cas, les
partis personnels seraient basés sur la protection accordée a
des inférieurs par un homme puissant. Dans l'histoire des
partis politiques, les cas de ce genre sont fréquents". Più
avanti (nota 4 bis, p. 515) Michels cita sempre Weber, op.
cit., p. 140, per caratterizzare il partito carismatico:
"Lorsque le chef exerce une influence sur ses adhérents par
des qualités si éminentes qu'elles leurs semblent
surnaturelles, on peut le qualifier de chef charismatique".
13 Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., Q.2, par. 75, p. 231.
14 Cfr. Portinaro, Teoria del partito, elitismo carismatico e
psicologia delle masse, in R. Michels tra politica e
sociologia, a cura di G.B. Furiozzi, Firenze, Centro
Editoriale Toscano, 1984, pp. 275-299; Tuccari, Il leader
politico e l'eroe carismatico. Carisma e democrazia nell'opera
politica e sociologica di M. Weber e di R. Michels, "Annali di
sociologia -Soziologisches Jahrbuch", 9.1993, II, pp. 77-99. A
p. 282 Portinaro scrive: "L'accostamento delle nozioni di
classe politica e direzione carismatica servì in realtà a
Michels per legittimare un regime autoritario, non per
definire un nuovo strumento d'analisi sociologica".
15 Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., Q. 2, par. 75, p. 234.
16 Ivi, p. 235.
17 Ivi, p. 237.
18 Ivi, p. 238.
19 R. Michels, Francia contemporanea. Studi, ricerche,
problemi, aspetti, Milano, Corbaccio, 1927.
20 Cfr. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge
ferrea dell'oligarchia in Roberto Michels, cit., p. 235.
21 Cfr. le considerazioni di Albertoni, Introduzione a R.
Michels, Potere e oligarchie, cit., pp. 30-31.
22 Tuccari, I dilemmi della democrazia, cit., p. 251, ha
sottolineato che essa è meno una Parteiensoziologie e più
un'analisi sociologica, fondata su una ricerca
storico-politica, sul formarsi dei partiti socialdemocratici
europei e in particolare della SPD (p. 251). Ma certamente la
Soziologie è estranea al viraggio assolutamente
carismatico-fascista dato nell'articolo del 1928. Su ciò
concordano generalmente gli studiosi del pensiero michelsiano
finora citati.
23 Cfr. Sola, Organizzazione, partito, classe politica e legge
ferrea dell'oligarchia in Roberto Michels, cit., p. 131-135.
24 Ivi, pp. 9-10.
25 Cfr. R. Michels, Studi sulla democrazia e l’autorità,
Firenze, La Nuova Italia, 1933; Nuovi studi sulla classe
politica, Milano-Genova-Roma-Napoli, Società Anonima Editrice
Dante Alighieri, 1936 (le pp. 150-180 di quest’opera sono
recentemente riprodotte senza apparato critico, in quanto
“classics”, in “élites e storia”, febbraio 2001, I, pp.
153-165).
26 Cfr. Michels, Corso di sociologia politica, cit.,
consultato in Antologia di scritti sociologici, a cura di G.
Sivini, cit., p. 230.
27 Ivi, p. 229.
28 Ivi, p. 230.
29 È interessante notare come Michels recepisca in questo
luogo la teoria weberiana del carisma in modo letteralmente
fedele – ma inquadrandola e interpretandola in maniera più
angusta e sostanzialmente distorcente -, come si constaterà
confrontandone nel prossimo paragrafo la versione che qui se
ne dà con le formulazioni originali di Weber.
30 Ivi, pp. 231-232. Michels riprende la formulazione della
teoria carismatica weberiana da Wirtschfat und Gesellschaft,
2ª ed., Tubingen, Siebeck, 1925.
31 Ivi, p. 235. Si tratta di quello che Tuccari ha definito
“il rapporto sintonico tra il Duce e le masse”.
32 Ibidem. 33 Ivi, p. 236. 34 Ivi, p. 238.
35 Cfr. Michels, Nuovi studi sulla classe politica, cit., pp.
157-158.
36 Ivi, pp. 167-168.
37 Cfr. M. Weber, Wirtschfat und Gesellschaft, 2ª ed.,
Tubingen, Siebeck, 1925, p. 142.
38 Cfr. Michels, Nuovi studi sulla classe politica, cit., p.
168.
39 Ivi, p. 178.
40 Cfr. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna, cit., pp.
318 e 325-339, in particolare a p. 318 Tuccari rileva che la
teoria del “Duce carismatico” di Michels è “strutturalmente
differente da quella elaborata da Weber in Wirtschaft und
Gesellschaft, e che è tale proprio in relazione al problema di
una definizione di una democrazia moderna”. Portinaro in
Teoria del partito, elitismo carismatico e psicologia delle
masse, cit., pp. 275-299, sostiene che Michels con la sua
teoria del capo carismatico rimase molto più vicino a Le Bon
che a Weber. Sivini invece parla di “abile uso del concetto
weberiano di carisma” (cit., pp. 44-45), formula con cui si
può concordare solo se si vuol dire che Michels spinge il
concetto di carisma oltre i limiti dell’accezione weberiana e
lo strumentalizza a fini certo non weberiani.
41 Cfr. M. Weber, Politik als Beruf (1919), ora in Id., Il
lavoro intellettuale come professione, a cura di D. Cantimori,
Torino, Einaudi, 1973, pp. 47-121.
42 Ivi, pp. 50-51.
43 Correttamente Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna,
cit., p. 336 scrive: “Le implicazioni teoriche di questo nuovo
«elitismo carismatico» sono fondamentalmente due. In primo
luogo, l’adesione a una «teoria consensuale che, più che sulla
votazione pubblica, poggia sulla pubblica opinione». In
secondo luogo, l’accettazione dell’élite unica contro il
sistema delle élites al plurale tipico dei sistemi
inautenticamente democratici e maggioritari”.
44 Ivi, p. 338: “Ciò che a Michels sfugge del tutto […] è il
fatto che il potere carismatico genuino rappresenta per Weber
una forma «premoderna» delle relazioni di dominio, che giunge
al termine del proprio percorso nell’epoca della cosiddetta
«illuminazione carismatica della ragione» […] La democrazia
moderna – Weber lo ripete in tutti i modi e con i linguaggi
più diversi – è e non può che essere una democrazia
plebiscitaria, ed è per questo che viene ricondotta alla
categoria del potere carismatico. Tuttavia è tale sempre e
soltanto sul terreno di libere elezioni e di un sistema di
partiti al plurale”.
45 A tal proposito mi sembra distorcente l’interpretazione
rilasciata da Giordano Sivini nell’introduzione all’Antologia
di scritti sociologici michelsiana, cit., p. 41, secondo la
quale “dopo il distacco dal socialismo rivoluzionario Michels
in realtà non dimentica più l’insegnamento di Mosca e Weber
sulla necessità di una separatezza tra attività scientifica e
coinvolgimento politico; ma proprio per questo gli riesce di
far discendere la legittimazione del fascismo – mantenendo una
totale autonomia intellettuale – direttamente dalla propria
teorizzazione elitistica”. In verità, ben diversamente
testimoniano le ultime elaborazioni michelsiane sul tema
dell’oligarchia carismatica e le carte d’archivio. Inoltre, il
carteggio tra Michels e il genero Mario Einaudi (citato da
Sivini sulla base di una testimonianza orale di quest’ultimo,
nel quale il sociologo italo-tedesco avrebbe testimoniato
negli ultimi anni di vita un’opposizione marcata al fascismo
espansionista e bellicoso), al contrario non pare corroborare
la tesi di un Michels critico del regime. Ho potuto leggere il
carteggio in questione per l’intervento dei figli di Mario,
Luigi e Roberto Einaudi, che ringrazio sentitamente. Il
carteggio è in effetti interessante per alcuni particolari
della biografia privata e intellettuale di Michels, ma non
autorizza assolutamente l’idea di un Michels contrario al
regime, tutto al contrario. Vi è in effetti una sola lettera
non datata, ma certamente collocabile nell’estate del 1935 per
un riferimento al 16 agosto di quell’anno, in cui Michels
lamenta l’imminenza della guerra di aggressione dell’Italia
contro l’impero etiopico. Egli scrive: “Tutto in me si ribella
contro la guerra, ed è inutile ch’io entri nei particolari. Il
mio atteggiamento, inutile aggiungere anche quello, sarà
sempre unicamente italiano, ma ciò non toglie che sono
addoloratissimo che questa italianità non coincida sempre con
gli interessi dell’umanità”. Certo questa riflessione in stile
ambiguamente nazionalmazziniano si adatta al pensiero di
Michels sviluppatosi fin dagli anni della guerra di Libia e
della prima guerra mondiale (cfr. C. Malandrino, Lettere di
Roberto Michels e di Augustin Hamon (1902-1917), “Annali della
Fondazione L. Einaudi”, Torino, 1989, vol. XXII, pp. 502-508 e
542 ss.). Ma è troppo poco per giustificare una presa di
posizione critica verso il fascismo. Anzi Michels aggiunge:
“Con ciò non voglio dire che gli inglesi non abbiano dato il
peggior degli esempi possibile”, quasi con l’intento di
giustificare l’atteggiamento del regime; poi nelle lettere
successive non dirà più nulla in merito. Michels ebbe sempre
un debole per l’imperialismo italiano, che lo traghettò
all’approdo mussoliniano. Il suo rammarico verteva sul fatto
che anche l’Italia cadesse nella tragica fatalità della “legge
di trasgressione” da lui teorizzata, secondo cui il i paesi
che lottano per l’indipendenza, una volta raggiuntala, si
propongono necessariamente fini imperiali. Condivido perciò la
tesi espressa da Sivini a p. 47 che “l’approdo teoretico di
Michels al fascismo non è direttamente rinvenibile nel
cambiamento di campo dal socialismo rivoluzionario
all’elitismo”: ma ciò è vero solo perché, infatti, in mezzo
c’è tutta l’elaborazione sul patriottismo nazionalista (di cui
Sivini non parla; cfr in proposito C. Malandrino, Pareto e
Michels: riflessioni sul sentimento del patriottismo, in Id,
R. Marchionatti (a cura), Economia, sociologia e politica
nell'opera di V. Pareto, Studi della Fondazione L. Einaudi,
Firenze, Olschki, 1999 e Id., Patriottismo, nazione e
democrazia nel carteggio Mosca-Michels, in “Annali della
Fondazione Luigi Einaudi”, Torino, 2004) e dell’oligarchia
carismatica, la quale ultima fornisce davvero la cifra
ideologica dell’adesione di Michels al fascismo mussoliniano.
46 Cfr. M. C. Giuntella, Autonomia e nazionalizzazione
dell’Università. Il fascismo e l’inquadramento degli Atenei,
Roma, Edizioni Studium, 1992, pp. 109-121.
47 Cfr. C. Malandrino, Michels ‘machiavellian’ o interprete di
Machiavelli?, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero
poltico del secolo XX, a cura di C. Vivanti e L. M. Bassani,
Milano, Giuffré, 2005, pp. 177-194.
48 Cfr. in G. B. Furiozzi (a cura di), Roberto Michels tra
politica e sociologia, Firenze, CET, 1984, pp. 253-263.
49 I testi citati sono in Di Nucci, Michels «ambasciatore»
fascista, cit., p. 100 e in Ricci, Michels e Mussolini, cit.,
p. 261.
50 Probabilmente Michels si riferiva agli sviluppi del
Preludio al Machiavelli, che Mussolini aveva preparato nel
1924 in previsione del conferimento della laurea honoris causa
in giurisprudenza nell’Università di Bologna. Ricci, op. cit.,
p. 257, ricorda che Michels trascorse l’intero pomeriggio
della giornata di Pasqua 1924 con Mussolini, che
nell’occasione gli parlò dei suoi studi sul Machiavelli
finalizzati appunto all’obiettivo della laurea. Poiché tale
conferimento non ebbe luogo, il testo fu pubblicato sulla
rivista fascista “Gerarchia”, cfr. R. De Felice, Mussolini il
fascista. La conquista del potere 1925-1926, Torino, Einaudi,
1966, p. 465.
*
Wikipedia
Elitismo
L'elitismo è una teoria politica basata sul principio
minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano ad
una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino
eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini
interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia, classe
politica, oligarchia.
I presupposti dell'elitismo
Il punto di forza dell'élite è nell'atomizzazione della massa.
Secondo l'elitismo la massa è confusa, dispersa, incapace di
organizzarsi. Su questo caos si fonda la forza dell'élite, che
è invece organizzata e in questo modo ottiene e mantiene il
suo potere. C'è dunque una critica verso la democrazia, ma non
è una critica che scaturisce da un giudizio di valore, bensì
una critica quasi ontologica: la democrazia, semplicemente,
non può esistere, poiché il popolo non ha le capacità di
autogovernarsi e nel momento in cui si organizza esso porta
automaticamente un'élite a prendere il potere. Si parla di
a-democraticità dell'elitismo, non di anti-democraticità. Per
forza di cose, gli elitisti criticano anche la visione del
liberalismo basato sulla separazione dei poteri (appunto
perché il potere è invece monopolizzato), e criticano il
socialismo perché ritengono che la società - ben lungi
dall'essere divisa in classi - sia frammentata e atomizzata.
La visione elitista si contrappone infine radicalmente a
quella del pluralismo: quest'ultimo infatti ritiene che il
potere sia largamente distribuito (e non monopolizzato) tra
gruppi che si equilibrano (senza quindi formare élite). Al
momento della sua nascita la teoria dell'elitismo (se pur di
matrice scientifica) era connotata da una forte valenza
ideologica, in contrapposizione con le teorie della democrazia
radicale e con il marxismo. Il fatto che i governanti fossero
minoranza e i governati maggioranza non è una cosa nuova (lo
stesso Saint-Simon lo afferma); l'elitismo però, conferisce
dignità scientifica a questa costante storica già osservata.
Il fenomeno è proposto come qualcosa di ineluttabile nella
storia della politica: i vecchi modi di considerare il governo
(tripartizioni di Aristotele e Montesquieu e bipartizione di
Machiavelli) sono considerati, secondo questa visione,
obsoleti: sostanzialmente il sistema politico si fonda sempre
sulla dicotomia massa-élite.
Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto
Gli studiosi italiani del primo Novecento, Gaetano Mosca e
Vilfredo Pareto, furono i fondatori dell'elitismo (si parla
di: scuola elitista italiana).
Mosca, che usava il termine classe politica per riferirsi
all'élite, propose il criterio delle tre C per descrivere il
funzionamento dei detentori del potere:
* Consapevolezza; i membri della classe politica
sono infatti consapevoli delle loro comuni posizioni
politiche, sociali ed economiche e dello stato frammentato
della massa.
* Coesione; a differenza della masse, i membri
della classe politica si alleano e si organizzano.
* Cospirazione; i membri della classe politica
mascherano il loro governo sulla massa, nascondono il fatto
che vi sia un'élite al potere.
Pareto, che operazionalizzò la teoria elitista anche in logica
e in matematica, riteneva che i membri delle élite fossero
davvero i membri migliori di una società e fossero quindi
legittimati a governarla. Per questo egli utilizza il termine
aristocrazia. A differenza di Mosca ritiene che il potere non
sia monopolizzato da una sola élite, ma che in ogni ambito
della società (in ogni sua sotto-struttura) via sia un'élite:
in ambito economico, culturale, militare ecc. Pareto, inoltre,
riprendendo una differenziazione già compiuta dal Machiavelli,
distingue tra un'élite di leoni e un'élite di volpi. I primi
usano la coercizione, la forza (la macht weberiana) per
comandare; i secondi usano la persuasione e il mascheramento
(la herrschaft). Alla lunga sono le élite di volpi a
perdurare, perché il loro potere poggia su una legittimità più
stabile e duratura. Più che dai problemi di formazione e di
costituzione delle élite, Pareto è tuttavia interessato a come
le élite vengono sostituite da altre élite. A suo parere esse
non sono infatti destinate a durare nel tempo, ma ad essere
sostituite; la storia è "cimitero di élite”.
Robert Michels
Robert Michels fu il più controverso tra gli elitisti, ma i
suoi studi diedero anche la prova dell'esattezza della tesi
elitista. Allievo di Max Weber, fu socialista e membro del
Partito socialdemocratico tedesco, nella corrente
anarco-sindacalista. Tuttavia, nel suo studio Sociologia del
partito politico (1912), egli afferma che persino nel partito
socialdemocratico ci sono élite che comandano, perché ovunque
vi sia organizzazione vi è anche oligarchia. È
l'organizzazione stessa che produce oligarchia, è nel momento
stesso in cui si tenta di dare ordine sociale al caos della
massa che tende a prevalere un'élite. Lo studio di Michels,
riscontrabile poi in molti altri partiti storici (anche se è
stato poi criticato e rivisto in seguito) mostra poi come le
oligarchie partitiche finiscono per diventare più moderate
delle masse che rappresentano, diventano classiste e gelose
del loro potere, si imborghesiscono e portano il partito alla
moderazione e all'allontanamento dalle ideologie radicali di
partenza. Michels si avvicinò poi al fascismo nell'ultima
parte della sua vita, che trascorse in Italia. La tesi di
Michels è stata denominata "legge ferrea dell’oligarchia"*:
l’organizzazione è la madre del predominio degli eletti sugli
elettori. Chi dice organizzazione dice oligarchia.
Elitismo e fascismo
Da molti, soprattutto in seguito alla Seconda guerra mondiale,
l'elitismo è stato criticato per una sua vicinanza ideologica
ai fascismi. In realtà l'elitismo è una teoria politica
descrittiva più che prescrittiva, cioè si limita a descrivere
la realtà sociale che si delinea con la presenza
dell'elitismo, senza proporre una sua visione, un metodo,
delle regole da seguire. È innegabile tuttavia una vicinanza
di pensiero. Michels, ad esempio, ebbe molti rapporti con
Mussolini, esaltandolo anche in alcuni suoi scritti più tardi.
Tuttavia Gaetano Mosca non aderì al fascismo, pur essendo un
conservatore, ed anzi l'esperienza mussoliniana lo portò a
moderare la teoria elitista. Nel secondo dopoguerra, tuttavia,
l'elitismo classico fu sommerso da critiche di vicinanza al
fascismo e rinacque in una corrente più moderata negli USA.
Traspare da questi autori un certo timore per il socialismo
egualitario; si ha il sentore che la società stia correndo
verso l'egualitarismo (percepito perciò da questi come un
valore negativo) e si sente il bisogno di porre un freno
all’iperdemocraticismo. Nella società si stanno affermando le
istanze del darwinismo politico che inducono a considerare la
politica secondo una visione ristretta. Le stesse rivoluzioni
vengono spiegate e interpretate in chiave elitista: esse non
sono altro che la sostituzione della classe dirigente; il
popolo è solo strumentale a questa dinamica, le masse sono uno
strumento di manovra in mano alle élite politiche in ascesa.
Si vuole ribaltare la filosofia della storia la quale
affermava che le masse stessero andando verso il potere
(rivoluzione, moti del 1848, etc...): le rivoluzioni non sono
l'avvicinamento delle masse al potere, bensì lo strumento per
il ricambio dirigenziale utilizzato dalle élite. A partire
dagli anni ’20, con la pubblicazione della seconda edizione
ampliata degli Elementi di scienza della politica di Mosca, la
teoria della classe politica viene imponendosi per il suo
valore scientifico e non per la sua connotazione ideologica:
non è più una teoria destinata a circoli ultraconservatori ma
è avvicinata anche da sinceri democratici.
Il neo-elitismo
In seguito alla seconda stesura degli "Elementi di scienza
politica" di Mosca prende via un nuovo approccio all'elitismo.
Nella seconda edizione dell’opera moschiana si evidenzia come
le classi politiche possano trarre alimento dalle classi
inferiori: la teoria delle élite si può perciò conciliare con
una visione democratica ; il potere si configura cioè come
liberal-democratico (dal basso all’alto: classe politica
allargata) e non come autocratico (dall’alto al basso).
La teoria elitista è un prodotto della scienza politica
italiana, italiani sono anche i due maggiori interpreti
democratici e liberali della teoria: Guido Dorso e Filippo
Burzio. Dorso sostiene che in ogni società esista un'élite e
descrive quali rapporti debbano intercorrere tra classe
politica e resto della popolazione. La classe politica deve
essere sempre pronta ad accogliere in sé nuovi elementi, essa
deve essere scelta dal basso e l’autogoverno locale deve
contribuire a questa selezione. Burzio esalta il ruolo delle
minoranze, le quali però, secondo lui, si devono proporre e
non imporre.
Centrale rispetto alla teoria elitista è anche la figura di
Harold Lasswell, il quale introduce la teoria all’interno del
dibattito politologico americano. Egli pubblica nel 1936 “Chi
ottiene che cosa, quando e come”; in questo libro sostiene che
chi studia la politica si deve occupare esclusivamente delle
élite. La massa non è di nessun interesse per uno studioso
della politica. In “Potere e società” formula una scala
gerarchica delle élite: l’élite più importante è quella che
detiene il potere, esiste però anche un'élite di tecnici e
probabilmente, visto che il mondo si sta sviluppando
tecnologicamente, essa andrà ad acquisire sempre più
importanza.
Una nuova versione dell'elitismo si è sviluppata dal secondo
dopoguerra negli Stati Uniti. Il neo-elitismo parte dello
studio di James Burnham dal titolo I neo-machiavellici,
proponendo una visione anti-statalista. Burnham scrive “La
rivoluzione dei manager”, qui riprende la teoria delle élite e
prefigura che la futura classe al comando sarà la classe dei
manager: non coloro che detengono la proprietà delle industrie
ma coloro che hanno il brainpower per riuscire a portarle
avanti deterrà il potere.
Altri studiosi hanno invece parlato di una power élite che usa
i mezzi di comunicazione di massa per affermare e mantenere il
proprio potere sulla massa passiva e confusa. Uno degli studi
più brillanti del neo-elitismo fu svolto nel 1953 da Floyd
Hunter nella città di Atlanta. Per scoprire chi fosse
realmente al potere nella città, Hunter svolse un'analisi
reputazionale, cioè andò a chiedere ai cittadini chi secondo
loro fosse al potere. Ne emerse un quadro in cui le
istituzioni locali, i posti di lavoro, le scuole ecc. facevano
tutte in qualche modo riferimento a un'élite economica
dominante.
Questa visione è stata poi criticata da un'analisi svolta nel
1961 da Robert Dahl nella città di New Heaven, che giunse a
conclusioni opposte, vicine alle tesi del pluralismo (di cui
Dahl era esponente).
Fondamentale è anche l'apporto di Charles Wright Mills il
quale scrive “Le élite del potere” (1956), qui muove contro
l'idea dell’America come paradiso dell'uomo comune. La società
statunitense è in realtà estremamente chiusa e i poteri reali
sono nelle mani di poche persone. Esistono tre élite: quella
politica, quella economica e quella militare. Esse si
coalizzano per impedire l’accesso al potere a persone estranee
a questa cerchia. Ad esempio: la figlia di un generale sposerà
il figlio di un grande industriale; da un'élite, insomma, si
passa ad un'altra (lampante è il caso di Eisenhower che da
generale diventa Presidente degli Stati Uniti).
Quindi Mills afferma che i rappresentanti della élite non
giustificano la loro posizione per il possesso di capacità
superiori, ma solo perché si sono installati in posti
istituzionali di comando, e porta come esempio la scarsa
importanza assunta dagli ex-presidenti statunitensi. Per
Mills, l'elitismo indica inequivocabilmente il segnale di una
degenerazione della democrazia, in quanto lede le garanzie
istituzionali.
*
La legge ferrea dell'oligarchia
La legge ferrea dell'oligarchia, formulata nel 1911 dal
politologo tedesco Robert Michels nel suo libro Sociologia del
partito politico, teorizza che tutti i partiti politici si
evolvano da una struttura democratica aperta alla base, in una
struttura dominata da una oligarchia, ovvero da un numero
ristretto di dirigenti. Questo deriva dalla necessità di
specializzazione, la quale fa sì che un partito si strutturi
in modo burocratico, creando dei capi sempre più svincolati
dal controllo dei militanti di base. Con il tempo, chi occupa
cariche dirigenti si "imborghesisce", allontanandosi dalla
base e diventando un'élite compatta dotata di spirito di
corpo. Nello stesso tempo, il partito tende a moderare i
propri obiettivi: l'obiettivo fondamentale diventa la
sopravvivenza dell'organizzazione, e non la realizzazione del
suo programma.
Michels, che elabora le sue tesi principalmente grazie
all'osservazione del Partito Socialdemocratico Tedesco,
fornisce quattro prove a sostegno della sua tesi:
* La democrazia non è concepibile senza una
qualche organizzazione.
* L'organizzazione genera una solida struttura di
potere che finisce per dividere qualsiasi partito o sindacato
in una minoranza che ha il compito di dirigere e una
maggioranza diretta dalla prima.
* Lo sviluppo di un'organizzazione produce
burocratizzazione e centralizzazione, che creano una
leadership stabile, che col tempo si trasforma in una casta
chiusa e inamovibile.
* L'insorgenza dell'oligarchia deriva anche da
fattori psicologici, in particolare la "naturale sete di
potere" di chi fa politica e il "bisogno" delle persone di
essere comandate.
Il punto di vista di Simon Weil
A conclusione d'un saggio del 1950, Note sur la suppression
générale des parties politiques, tradotto da Castelvecchi come
"Manifesto per la soppressione dei partiti politici", pp. 80,
6,00, Simone Weil scriveva che «quasi ovunque l'operazione di
prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è
sostituita all'operazione del pensiero.Si tratta d'una lebbra
che ha avuto origine negli ambienti politici, e si è espansa,
attraverso tutto il Paese, alla quasi totalità del pensiero.
Non è certo che sia possibile rimediare a questa lebbra, che
ci sta uccidendo, senza cominciare dalla soppressione dei
partiti politici». Erano i partiti in sé, non tanto l'idea
politica che li sorreggeva (i partiti, pensava Simone Weil,
non hanno alcuna idea, specie politica) quanto i propositi di
dominio che li animavano, più o meno morbidi che fossero, a
dettare le sue parole d'allarme: «La democrazia, il potere
della maggioranza non sono un bene. Sono mezzi in vista del
bene, stimati efficaci a torto o a ragione. Se la Repubblica
di Weimar, al posto di Hitler, avesse deciso, per vie più
rigorosamente parlamentari e legali, di mettere gli ebrei nei
campi di concentramento e di torturarli con metodi raffinati
fino alla morte, le torture non avrebbero avuto un atomo di
legittimità in più di quanta ne abbiano adesso.»