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Messedàglia, Angelo.
Economista e statistico (Villafranca di Verona 1820 - Roma 1901),
prof. di materie giuridiche nell'univ. di Pavia (1848) e poi di
economia e statistica nelle univ. di Padova (dal 1858) e Roma (dal
1870), deputato liberale dal 1866 al 1883 e senatore dal 1884; socio
nazionale dei Lincei (1875). Contribuì con L. Cossa e F.
Ferrara a risvegliare l'interesse per le scienze economiche: nello
studio della finanza pubblica sostenne sempre l'indirizzo positivo
che prende le mosse dall'esame metodico della legislazione e del
potere amministrativo. Tra gli scritti: Dei prestiti pubblici e del
miglior sistema di consolidazione (1850); Malthus e dell'equilibrio
della popolazione colle sussistenze (1858, abile critica alle
progressioni malthusiane); Il calcolo dei valori medi e le sue
applicazioni statistiche (in Archivio di statistica, 1880); La
moneta (1882-83); L'economia politica in relazione colla sociologia
e quale scienza a sé (1891). Classiche le prolusioni ai corsi
di statistica tenuti a Roma (nel 1872 e dal 1877 al 1880) e la
relazione parlamentare sul riordinamento dell'imposta fondiaria
(1884). I principali scritti di statistica furono raccolti nella
Biblioteca dell'economista (1908) e un comitato nazionale
curò la pubblicazione delle Opere scelte di economia (2
voll., 1920-21). M. si occupò anche di cosmografia, di
idraulica, di letteratura, specie inglese, e lasciò memorie
su problemi omerici.
*
DBI
di Andrea Cafarelli
MESSEDAGLIA, Angelo.
Nacque a Villafranca di Verona il 2 nov. 1820 da Luigi e Margherita
Fantoni, in una famiglia «né ricca, né
potente» ma che apparteneva, «senza dubbio, alle
notabili» (L. Messedaglia, 1929, p. 30).
Il padre, intrapresa la carriera nella pubblica amministrazione,
ricoprì diversi incarichi governativi fino ad assumere, dal
1836 al 1863, le funzioni di segretario del Comune di Verona.
Nel 1830, dopo aver frequentato la scuola elementare a Valeggio sul
Mincio, il M. entrò come alunno «stipendiato» al
cesareo regio liceo convitto di S. Anastasia a Verona, dove rimase
fino al 1838, seguendo il corso ginnasiale e filosofico. Terminati
gli studi superiori, si iscrisse alla facoltà politico-legale
dell’Università di Pavia e l’11 dic. 1843 conseguì con
lode la laurea in utroque iure, discutendo una dissertazione
«Sul rapporto della popolazione alle sussistenze, e sul
sistema di Malthus».
Nel 1844 Il Politecnico, fondato da C. Cattaneo, ospitò il
suo primo lavoro scientifico, Dei prestiti pubblici a rendita fissa,
nel quale annunciava l’imminente uscita di una più ampia
memoria sull’argomento e la traduzione dell’opera di K.F. Nebenius,
Ueber die Natur und die Ursachen des öffentlichen Kredits
(Karlsruhe u. Baden 1829), che però non fu mai pubblicata.
Nello stesso anno l’Enciclopedia italiana e dizionario della
conversazione accolse due sue voci, Debito pubblico ed Economia
politica, elaborate giovandosi degli appunti del corso tenuto da P.
Rossi. Lo Studio politico-legale dell’Università di Pavia,
diretto da L. Lanfranchi, nel novembre dello stesso anno gli
conferì la nomina biennale ad aggiunto per le cattedre di
diritto filosofico, scienze politiche e statistica. Divenne
così assistente di A. Zambelli, noto per le sue
considerazioni sul Principe e sui Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio di N. Machiavelli. Nel 1845 iniziò anche la
pratica forense presso lo studio pavese dell’avvocato F. Covini.
Scoppiata la rivoluzione del 1848, il Consiglio di Stato provvisorio
per la Lombardia gli affidò (4 aprile) in via interinale la
cattedra di diritto mercantile, cambiario e marittimo e delle leggi
di finanza a Pavia, in sostituzione dell’austriacante A. Volpi,
costretto a lasciare il posto. Il precipitare degli eventi
impedì al M. di assumere l’insegnamento e nell’agosto 1848 il
rettore lo dichiarò cessato dall’incarico. Svanite le
speranze di una cattedra a Pavia, fece ritorno a Verona, dove
rinsaldò l’amicizia sia con Caterina Bon Brenzoni sia con il
poeta A. Aleardi. Nel 1849 ottenne dall’Università di Padova
l’abilitazione all’insegnamento privato di «tutte le materie
spettanti all’intero corso dello studio politico legale»:
abilitazione che conservò fino al 1853, quando la
luogotenenza delle Provincie venete dispose che l’insegnamento delle
materie filosofiche fosse disgiunto da quello delle materie positive
e concesse al M. la patente di «maestro privato di Diritto
giuridico e positivo». Ai fini della carriera universitaria e
politica fu importante la sua nomina a socio attivo dell’Accademia
d’agricoltura, commercio e arti di Verona (1849) e, successivamente,
a segretario perpetuo della stessa Accademia (1854), la qual cosa
gli consentì di essere cooptato dalle più prestigiose
istituzioni culturali nazionali e internazionali: dall’Istituto
veneto di scienze, lettere ed arti, che nel 1864 lo accolse tra i
membri effettivi, alla R. Accademia dei Lincei (1875), che lo elesse
alla presidenza nel 1900; dalla Statistical Society di Londra (1880)
all’American Academy of political and social science di Filadelfia
(1891; Gullino 2003-04, pp. 23-30).
Salvo qualche assenza temporanea per brevi viaggi a Padova e
Venezia, il M. si fermò a Verona dal 1848 al 1858,
dedicandosi alla ricerca scientifica e all’insegnamento privato. In
quegli anni scrisse la monografia Dei prestiti pubblici e del
miglior sistema di consolidazione (Milano 1850), in cui considerava
in chiave comparativa le dinamiche della spesa e del debito
pubblico, esponendo sul compito dello Stato nella vita economica
idee più temperate di quelle professate da F. Ferrara
(Ferraris, p. 10). Nel 1851 pubblicò la memoria Della
necessità di un insegnamento speciale politico-amministrativo
e del suo ordinamento scientifico, in cui evidenziava l’unità
organica delle scienze giuridiche e politiche.
Il lavoro, edito quattro anni prima che il regolamento austriaco del
1855 assegnasse alla facoltà giuridica più ampia
competenza, convertendola in facoltà giuridico-politica,
anticipava il problema della riforma delle scuole di giurisprudenza,
che il M. affrontò diversi anni più tardi in seno al
Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. In tale sede fu
decisivo il contributo da lui offerto alla ridefinizione dei piani
di studio e all’introduzione di nuove cattedre, in primis quella di
scienza dell’amministrazione, istituita a Pavia nel 1878 e affidata
al suo allievo C.F. Ferraris.
Colpito alla metà degli anni Cinquanta da una grave malattia,
non pubblicò altri lavori fino al 1857, anno in cui diede
alle stampe a Firenze Della vita e degli studi di Caterina Bon
Brenzoni, scritto biografico premesso al postumo volume fiorentino
delle Poesie dell’amica da poco deceduta.
Nel 1858 fu nominato professore ordinario di economia politica e
statistica a Padova (fu determinante il sostegno del conte padovano
A. Cittadella Vigodarzere) e iniziò i corsi con un’ardita
Prelezione in cui l’economia politica era vista come «la
scienza» che studiava le leggi secondo le quali «il
lavoro, nella sua duplice relazione naturale e civile, appresta[va]
le condizioni esteriori di esistenza e progresso
dell’incivilimento». Nello stesso anno pubblicò a
Verona il volume Della teoria della popolazione principalmente sotto
l’aspetto del metodo (in cui era rielaborata anche la sua tesi di
laurea nel saggio Malthus e dell’equilibrio della popolazione colle
sussistenze).
In esso sottoponeva a un severo esame la dottrina malthusiana,
contestando la «realità della premessa» sulla
costanza dell’intensità di riproduzione e cogliendo con
finezza «l’abbaglio aritmetico» sulle progressioni.
Oltre ad assumere particolare rilevanza dal punto di vista
intrinseco della dottrina, il lavoro su T.R. Malthus rappresenta,
secondo L. Einaudi, «uno dei libri meglio atti a chiarire le
idee intorno al modo di impostare i problemi economici e intorno al
metodo della ricerca» (cfr. L. Messedaglia, Bibliografia …, p.
298).
Considerato uno dei padri della metodologia statistica in Italia, il
M. si oppose al prevalente indirizzo deduttivo nella scienza
economica, invitando a procedere, secondo lo specimen galileiano,
con il metodo dell’osservazione, elaborando «i fatti»
per preparare con essi «i fondamenti delle teorie».
Avversario del meccanicismo e dell’evoluzionismo di Th. Buckle e di
Ch. Darwin, chiarì il significato della «regola»
in base alla quale i fenomeni statistico-demografici o demologici si
ripetevano, scoprendo «da un lato l’esistenza di un “ordine”
nell’insorgere dei fenomeni e dall’altro che la scansione ripetitiva
(o ricorrente) degli accadimenti era riferibile alla
collettività indistinta, non all’individuo, perché
l’individuo, anzi, per meglio dire, l’uomo, nella singolarità
del suo essere, conservava la libertà e la
responsabilità dell’agire» (Pecorari, 1983, pp. 26 s.).
Sull’alto valore scientifico della statistica, che elesse a
disciplina autonoma, richiamò l’attenzione con l’esposizione
critica su Le statistiche criminali dell’Impero austriaco nel
quadriennio 1856-59 (Venezia 1866-67), dimostrando come l’elemento
«quantitativo» potesse sinergicamente «accoppiarsi
al qualitativo». Agli studi sulla «statistica
investigatrice», che portarono il M. a uscire dall’ormai
angusto campo d’indagine della statistica descrittiva, furono
dedicati sia la relazione critica all’opera di M.A. Guerry
(Statistica morale dell’Inghilterra comparata alla statistica morale
della Francia, ibid. 1865), nella quale risaltavano il gusto e la
precisione dei metodi matematici attinti, non senza distinguo, da
L.-A.-J. Quételet e da K. Wappaüs; sia gli Studj sulla
popolazione (ibid. 1866), che aprirono una serie di lavori dedicata
al calcolo dei valori medi e alle loro applicazioni statistiche.
Lo studio del metodo come mezzo di progresso delle scienze sociali
rappresentò uno dei temi centrali della sua attività
scientifica. Seguace del positivismo come metodo di ricerca, non
come sistema filosofico, il M. ebbe come norma costante d’indagine
di «non concludere che nei limiti dei fatti osservati».
La continua ricerca della perfezione scientifica, i numerosi lavori
interrotti o ritirati quando erano ormai in corso di stampa, la
necessità di «provare e riprovare», la
curiosità intellettuale, che lo portava a spaziare in tutti i
campi dello scibile, condizionarono sul piano quantitativo, non
qualitativo, la sua produzione. De’ Stefani (1914, p. 21) ricordava
che «lo scrivere gli era faticoso e lo faceva soffrire»,
mentre il discepolo prediletto, L. Luzzatti, osservava che, sebbene
sotto questo aspetto il M. potesse «parere persino un sublime
egoista», aveva creato «più anime che
libri» (Luzzatti, 1901, p. 553), come prova l’autorevolezza
scientifica di molti allievi usciti dalla sua scuola: da A. De Viti
De Marco ad A. Loria, da G. Valenti a G. Toniolo, da G.B. Salvioni a
F. Lampertico.
La sua «testa aristotelica» (l’espressione è di
Luzzatti) dominava con eguale intuizione le discipline morali e
naturali, con una versatilità di conoscenze che rispecchiava
quella tendenza scientifica che aveva visto in G.D. Romagnosi, C.
Cattaneo, T. Mamiani e R. Bonghi, M. Minghetti e Q. Sella i
più autorevoli esponenti. Alle competenze tecniche il M.
associava ampie conoscenze storiche e letterarie, rese ancor
più solide dalla padronanza delle principali lingue
straniere. Numerosi furono i saggi dei suoi versi originali e ben
più note divennero le traduzioni in versi rimati dal
francese, dal tedesco, dall’inglese, dallo spagnolo e dal greco. Le
prime traduzioni di H.W. Longfellow e di Felicia Hemans, risalenti
al 1865, vennero ospitate ne Il Comune, una effemeride padovana
della quale l’amico A. Tolomei fu magna pars; seguirono traduzioni
da Th. Moore, J. Thomson e J. Montgomery, in parte raccolte nel
volumetto Alcune poesie (Torino 1878). Diversi furono poi gli
scritti nei quali il M. «si compiaceva di porre in bella
armonia la scienza e la storia»: dalla relazione sull’opera di
A. Di Bérenger, Dell’antica storia e giurisprudenza forestale
in Italia (1860) alla nota su L’imperatore Diocleziano e la legge
economica del mercato (Venezia 1866); dal discorso su Le triremi di
L. Fincati (1882) alla presentazione del volume di E.N. Legnazzi,
Del catasto romano e di alcuni antichi strumenti di geodesia (Verona
1887).
Il rifiuto di una visione angusta del lavoro di ricerca e di ogni
provincialismo culturale, come pure il crescente credito scientifico
e politico conquistato sul campo diedero al M. una notorietà
internazionale, documentata dagli attestati di stima di autorevoli
studiosi, quali C. Menger, É. Cheysson, M. Chevalier, L.
Walras, É. Levasseur.
Nel 1866 il M. fu eletto deputato per il I collegio di Verona con il
sostegno del Circolo politico di tinta liberale e del Circolo
democratico.
Fedele allo schieramento moderato di M. Minghetti, nel suo manifesto
elettorale, recante la data del 28 novembre e scritto in forma di
lettera all’amico P. Montagna, il M., esponendo il suo programma
politico, parlò di sé dicendo: «Sono uomo di
studio e di teoria, ma le teorie io le ho sempre ritenute da ordirsi
sui fatti». In effetti, esaminando la sua attività
parlamentare, si evince che concludere nei limiti dei fatti
osservati era per lui più di un canone di logica statistica:
era «il principio e la regola della sua vita, l’abito
spontaneo della sua mente» (De Viti De Marco, p. 7).
Dal 1866 al 20 giugno 1883, quando fu sorteggiato per eccedenza nel
numero di deputati professori, sedette alla Camera, ricoprendo
numerosi incarichi: nel 1867 entrò nel Consiglio superiore
della Pubblica Istruzione, divenne membro della commissione sul
progetto di legge per l’acquisto dei diritti di alcune
società concessionarie di strade ferrate e fu commissario di
vigilanza sul debito pubblico; dal 1867 al 1876 partecipò
alla stesura del bilancio dello Stato per vari esercizi e per
diverse voci di spesa dei ministeri di Grazia, giustizia e culti e
della Pubblica Istruzione. Scrisse relazioni per provvedimenti
legislativi, mettendo a frutto le sue poliedriche competenze
tecniche: dai progetti per lo sviluppo del sistema funicolare Agudio
alla costruzione di un nuovo osservatorio astronomico a Firenze;
dalla conversione del prestito nazionale del 1866 agli studi
sull’eclissi solare del 1870. Nel 1871 divenne commissario della
giunta per i provvedimenti finanziari e della giunta per la
biblioteca della Camera e nel 1882 assunse la presidenza della
Commissione per le statistiche giudiziarie. Più volte
rifiutò l’incarico di ministro.
Il M. assolse tali uffici con la «serenità indifferente
di un uomo uso a cercare», ma sempre con un senso di spiccata
aderenza alla realtà. Ne costituisce un esempio la relazione
alla Camera sul bilancio della Pubblica Istruzione per l’anno 1869,
la cui importanza andava ben oltre il fatto che egli
«insegnò per la prima volta a confrontare i nostri
bilanci con quelli esteri» (Luzzatti, 1901, p. 552). Mentre
Sella perseguiva la sua austera politica di economie «fino
all’osso», il M. poneva in rilievo «l’ufficio della
scienza quale fattore di ricchezza» e la necessità di
valorizzare opportunamente il capitale umano, richiamando
l’attenzione sul problema della formazione di ogni ordine e grado e
sull’opportunità di investire nella ricerca per favorire la
crescita del paese. In quest’ottica assumevano specifica rilevanza
la centralità dell’uomo e la sua capacità innovativa.
Nel 1870 fu chiamato all’Università di Roma, mantenendo
però l’insegnamento padovano fino al 1877.
Inaugurando l’anno accademico a Padova, il 23 nov. 1873
pronunciò il discorso Della scienza nell’età nostra
ossia Dei caratteri e dell’efficacia dell’odierna cultura
scientifica (Padova 1874), sorta di manifesto del suo pensiero, in
cui sottolineava la necessità non solo di applicare e
diffondere la scienza nella sua inscindibile integrità, ma di
«crearla perennemente», nel convincimento che il motore
del progresso economico stesse nella conoscenza scientifica. La
«scienza è potenza», scriveva il M.,
soffermandosi sulle grandi trasformazioni derivanti
dall’industrializzazione: dalla questione sociale alla
valorizzazione del capitale umano, dall’importanza delle
applicazioni scientifiche al ruolo dello Stato. Nel più
generale tema della complessità della scienza egli inseriva
anche la storicizzazione del discorso economico, per mezzo della
quale cercava di rendere l’economia non «una disciplina da
indovinarsi a priori, bensì da derivarsi», al pari di
ogni altra dottrina positiva, «dallo studio dei fatti
sociali». Tale posizione maturava in un periodo storico nel
quale, mentre si cominciava ad avvertire l’urgenza di un
ripensamento critico del meccanicismo di matrice cartesiana e
newtoniana, si continuava a «difendere la scienza da ogni
condizionamento finalistico, onde mantenere la natura e le sue
manifestazioni nell’alveo della meccanica, e insieme guardare alla
scienza come portato quasi ontologico della “vera” conoscenza»
(Pecorari, 2002, pp. 68 s.).
Nel 1882, quando fu chiamato a far parte della Commissione per
l’abolizione del corso forzoso, i suoi interessi scientifici si
erano da poco rivolti alla moneta e all’esame comparativo dei
sistemi metallici. Dopo il saggio su La moneta e il sistema
monetario in generale, ritirato all’ultimo momento e pubblicato
nell’Archivio di statistica del 1881 e del 1883 grazie alle
insistenze di L. Bodio, uscì La storia e la statistica dei
metalli preziosi quale preliminare allo studio delle presenti
questioni monetarie (Torino 1881), analisi comparata dei sistemi
monetari internazionali.
L’opera non piacque a F. Ferrara, il quale, scrivendo nel 1883
l’introduzione al volume di C. Martello, La moneta e gli errori che
si corrono intorno ad essa, si preoccupò più di
criticare lo scritto del M. che di parlare del lavoro di Martello,
accusando il M. di aver assunto posizioni mutuate dalla scuola
«lombardo-veneta» e quindi, in ultima analisi, dalla
scuola roscheriana e dal Kathedersozialismus.
Che le tesi sostenute in questi lavori non mancassero invece di
originalità e richiedessero una solida conoscenza della
materia si capì nel novembre 1883, quando Minghetti
chiamò il M., insieme con i più autorevoli esperti
della materia (da G. Boccardo a G. Grillo, da Luzzatti a G. Mirone)
a far parte di una speciale Commissione monetaria con il compito di
predisporre un esame tecnico e politico delle principali questioni
inerenti alla rinegoziazione della convenzione che nel 1865 aveva
dato vita all’Unione monetaria latina. In tale sede il M.
offrì un apporto di primo piano, favorendo scelte in campo
monetario che ebbero implicazioni sovranazionali. La sua articolata
ricognizione sulle cause della crisi del sistema del doppio tipo e
l’attento esame delle ragioni di opportunità commerciale e
finanziaria portarono infatti la delegazione italiana ad assumere un
atteggiamento di cautela durante la Conferenza monetaria di Parigi
del 1885, nella quale, pur giungendosi al rinnovo pattizio, che
salvaguardava almeno formalmente l’identità dei sistema
bimetallico, si prendevano impegni di breve periodo, che non
vincolavano «soverchiamente la nostra libertà
d’azione».
Nel dicembre 1882, in piena crisi agraria, il ministro A. Magliani
presentò alla Camera l’atteso progetto di legge sul
Riordinamento dell’imposta fondiaria. La commissione incaricata di
esaminare tale progetto affidò al M. la parte tecnica, mentre
Minghetti si occupò di quella politica.
I lavori si trovavano a buon punto quando il sorteggio costrinse il
M. a dimettersi da deputato, ma la commissione, per deferenza, gli
confermò il mandato, che egli assolse depositando una corposa
relazione nella quale vagliava criticamente non solo i diversi
catasti italiani, dalle istituzioni censuarie dell’antica Roma a
quelle degli Stati preunitari, ma anche i principali catasti
stranieri, soffermandosi sui problemi tecnici, sulla determinazione
dell’imponibile fondiario e, soprattutto, sulla vexata quaestio
della perequazione. Nel novembre 1885, iniziato il dibattito
parlamentare, Magliani chiamò il M. a sostenere, in
qualità di regio commissario, la discussione, che si concluse
con l’approvazione della legge 1° marzo 1886, n. 3682. La
relazione Messedaglia, considerata da De’ Stefani una «opera
magistrale sul tributo fondiario», portò, attraverso un
lunghissimo e sofferto percorso, all’istituzione del Catasto unico
di tipo geometrico particellare e alla definizione delle nuove
tariffe d’estimo, precondizione necessaria, ancorché non
sufficiente, per ridefinire la tassazione dei redditi fondiari.
Nel maggio 1884 il M. fu nominato senatore del Regno e come tale
ricoprì numerosi incarichi: nel 1885 fu chiamato a presiedere
la Commissione per la statistica giudiziaria civile e penale; nel
1886 entrò nella Commissione per la biblioteca; nel 1887 fece
parte della commissione permanente di Finanze; nel 1895 assunse la
presidenza della Commissione censuaria centrale, istituita per dare
esecuzione alla legge catastale; nel 1900 fu commissario del 1°
ufficio per il progetto di legge per il IV censimento della
popolazione del Regno.
Il 3 nov. 1890, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico
nell’Università di Roma, tenne un discorso su L’economia
politica in relazione colla sociologia e quale scienza a sé
(Roma 1891), che si può considerare l’ultimo dei suoi scritti
di economia.
In esso poneva sobriamente in luce «le analogie dei fenomeni
economici con i fenomeni naturali», ma soprattutto chiariva la
sua posizione in merito al ruolo dello Stato. Dopo aver condiviso le
finalità riformistiche dell’Associazione per il progresso
degli studi economici in Italia, che nel 1874 avevano portato
Luzzatti a elaborare la dottrina dello «statalismo
sussidiario», il M. riconosceva allo Stato,
«organismo» vitale, una funzione
«regolatrice», chiamandolo a rispondere al profondo e
inappagato bisogno di equilibrio e di interna armonia della
società.
Negli ultimi anni di vita si riaccese in lui la passione per i poemi
omerici, sorta in età giovanile, quando, influenzato
dall’opera di G. Vico, studiò «La discoverta del vero
Omero». Nel lavoro Sull’uranologia omerica (Roma 1891) e nel
saggio postumo su I venti, l’orientazione geografica e la
navigazione in Omero (ibid. 1901) cercò di dimostrare come la
poesia omerica andasse apprezzata non solo sul piano estetico, ma
anche come documento «positivo non fantastico» di storia
poetica, in grado di offrire preziosi elementi sulle cognizioni
nautiche, meteorologiche e astronomiche, nonché sulle
«condizioni di civiltà di quei tempi lontani»
(Luzzatti, 1901, p. 555).
Il M. morì a Roma il 5 apr. 1901.