Q1
§14 Fortunato Rizzi ossia dell’italiano meschino. Louis
Reynaud, che deve essere un discepolo di Maurras, ha scritto un
libro: Le Romantisme (Les origines anglo‑germaniques. Influences
étrangères et traditions nationales. Le réveil
du génie français), Paris, Colin, per esporre
diffusamente e dimostrare una tesi propria del nazionalismo
integrale: che il romanticismo è contrario al genio francese
ed è un’importazione straniera, germanica e anglo‑tedesca. In
questa proposizione, per Maurras e indubbiamente anche per il
Reynaud, l’Italia è e deve essere con la Francia, e anzi in
generale le nazioni cattoliche, il cattolicismo, sono solidali
contro le nazioni protestanti, il latinismo contro il germanesimo.
Il romanticismo è una infezione d’origine germanica,
infezione per la latinità, per la Francia, che ne è
stata la grande vittima: nei suoi paesi originari, Inghilterra e
Germania, il romanticismo sarà o è stato senza
conseguenze, ma in Francia esso è diventato lo spirito delle
rivoluzioni successive dal 1789 in poi, ha distrutto o devastato la
tradizione ecc. ecc.
§18 L’errore di Maurras. Note sul partito monarchico francese.
Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito
repubblicano in regime monarchico e il partito nazionalista in
regime di soggezione nazionale, non può non essere un partito
sui generis: deve essere, cioè, se vuole ottenere un successo
relativamente rapido, la centrale di una federazione di partiti,
più che un partito caratterizzato in tutti i punti
particolari del suo programma di governo. Il partito di un sistema
generale di governo e non di un governo particolare. (Un posto a
parte in questa stessa serie, però, spetta ai partiti
confessionali, come il Centro tedesco e i diversi partiti popolari ‑
cristiano‑sociali). Ogni partito si fonda su una classe e il partito
monarchico si fonda in Francia su i residui della vecchia
nobiltà terriera e su una piccola parte di intellettuali. Su
che sperano i monarchici per diventare capaci di prendere il potere
e restaurare la monarchia? Sperano sul collasso del regime
parlamentare‑borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra
forza organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una
dittatura militare prevedibile o da loro stessi preordinata. Le loro
forze sociali di classe in nessun modo potrebbero altrimenti
giungere al potere. In attesa, il centro dirigente svolge questa
attività: 1) azione organizzatrice politico‑militare
(militare nel senso di partito), per raggruppare nel modo più
efficace possibile la angusta base sociale su cui storicamente
s’appoggia il movimento. Essendo questa base costituita di elementi
in generale più scelti per intelligenza, cultura ricchezza,
pratica di amministrazione ecc. che in qualsiasi altro, è
possibile avere un partito‑movimento notevole, imponente persino, ma
che si esaurisce in se stesso, che non ha cioè, riserve da
buttare nella lotta in una crisi risolutiva. È notevole
dunque solo nei periodi normali, quando gli elementi attivi si
contano solo a decine di migliaia, ma diventerà
insignificante (numericamente) nei momenti di crisi, quando gli
attivi si potranno contare a centinaia di migliaia e forse a milioni
(Continua).
§48 Il giacobismo a rovescio di Carlo Maurras (seguito al
§ di p. 8 bis). Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha
trovato la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che
realizza nel periodo più ricco di energie
«private» nella società l’egemonia della classe
urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col
consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata
all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico,
perché consenso «volontario», in un modo o
nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la
legge Chapelier o il maximum viene superato e allargato attraverso
un processo complesso, teorico‑pratico (giuridico‑politico =
economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene
l’egemonia) allargando e approfondendo la base economica con lo
sviluppo industriale e commerciale fino alla epoca dell’imperialismo
e alla guerra mondiale. In questo processo si alternano insurrezioni
e repressioni, allargamenti e restrizioni del suffragio politico,
libertà di associazione e restrizione o annullamento di
questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non nel
campo politico, forme diverse del suffragio, di lista o per piccola
circoscrizione, proporzionale o individuale, con le varie
combinazioni che ne risultano, il sistema di una camera o delle due
camere, coi vari modi di scelta per ognuna (camera vitalizia ed
ereditaria, o solamente vitalizia, elettiva anch’essa, ma non come
la camera bassa, ecc.), col vario equilibrio dei poteri, per cui la
magistratura è un potere o un ordine, indipendente o
controllato e diretto dal governo, con le diverse attribuzioni del
capo dello Stato, col diverso equilibrio interno degli organismi
territoriali (centralismo o decentramento, minori o maggiori poteri
dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei comuni); con un diverso
equilibrio tra forze armate di leva e corpi armati professionali
(polizia, gendarmeria); con la dipendenza di questi corpi
professionali dall’uno o dall’altro potere statale (dalla
magistratura, dal ministro dell’interno o da quello della guerra);
con la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla
legge scritta, per cui si sviluppano delle forme consuetudinarie che
possono essere abolite in virtù della legge scritta; con il
distacco reale più o meno grande tra i regolamenti e le leggi
fondamentali, con l’uso più o meno grande di decreti legge
che si sovrappongono alla legislazione ordinaria e la modificano in
certe occasioni, forzando la «pazienza» del parlamento.
A questo processo contribuiscono i teorici‑filosofi, i pubblicisti,
i partiti politici ecc. per la parte formale e i movimenti di massa
per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con
iniziative «preventive» prima che un fenomeno si
manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni
sono mancate o sono state tardive o inefficaci. L’esercizio
«normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico
del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione
della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza
soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso
della maggioranza espresso dai così detti organi
dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni,
vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza
sta la corruzione‑frode (che è caratteristica di certe
situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica
presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo
snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli
antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via
normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo
scompiglio e il disordine nelle file antagoniste.
Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e
l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il
fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e sotto vari
aspetti. I più comuni sono: «crisi del principio di
autorità» — «dissoluzione del regime
parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le
manifestazioni centrali, nel terreno parlamentare e governativo, e
si spiegano col fallimento del «principio» parlamentare,
del «principio» democratico ecc., non però del
«principio» d’autorità (questo fallimento viene
proclamato da altri). Praticamente questa crisi si manifesta nella
sempre crescente difficoltà di formare dei governi e nella
sempre crescente instabilità dei governi stessi ed ha la sua
origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari e
nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti
(cioè si verifica nell’interno di ogni partito ciò che
si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di governo).
Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di
corruzione e dissoluzione morale: ogni gruppetto interno di partito
crede di avere la ricetta per arrestare l’indebolimento dell’intero
partito e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per
partecipare alla direzione così come nel parlamento il
partito crede di essere il solo a dover formare il governo per
salvare il paese o almeno, per dare l’appoggio al governo, di
doverci partecipare il più largamente possibile; quindi
contrattazioni cavillose e minuziose che non possono non essere
personalistiche in modo da apparire scandalose. Forse nella
realtà, la corruzione è minore di quanto si creda. Che
gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista,
fingano di credere che si tratti della «corruzione» e
«dissoluzione» di un «principio», potrebbe
anche essere giustificato: ognuno può essere il giudice
migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più
appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può
essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il
demagogo non sa di esserlo, quando cioè si opera praticamente
come se si creda realmente che l’abito è il monaco, che il
berretto è il cervello. Machiavelli e Stenterello. La crisi
in Francia. Sua grande lentezza. I partiti francesi. Essi erano
molto numerosi anche prima del 14. La loro molteplicità
formale dipende dalla ricchezza di avvenimenti politici in Francia
dal 1789 all’Affare Dreyfus. Ognuno di questi avvenimenti ha
lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti;
ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in
realtà ha regnato in parlamento il regime dei due partiti:
liberali‑democratici (varie gamme del radicalesimo) e conservatori.
La molteplicità dei partiti è stata utile nel passato:
ha permesso una vasta opera di selezione e ha creato un gran numero
di uomini di governo. Così ogni movimento dell’opinione
pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione.
L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli
intellettuali sono molto concentrati (Accademia, Università,
grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi,
molto disciplinati ai centri di cultura. La burocrazia militare e
civile ha una grande tradizione e ha raggiunto una grande
omogeneità. La debolezza interna più pericolosa
nell’apparato statale (militare e civile) era data dal clericalismo
alleato ai monarchici. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non
era clericale. Nell’affare Dreyfus è culminata la lotta per
paralizzare l’influenza clericale‑monarchica nell’apparato statale e
per dare all’elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha
indebolito, ma rafforzato l’egemonia; non si è avuto tempo di
pensare: il paese è entrato in guerra e quasi subito il suo
territorio è stato invaso. Il passaggio dalla vecchia
disciplina alla nuova non ha domandato una crisi troppo grande: i
vecchi quadri militari erano vasti abbastanza e abbastanza elastici:
gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i più
scelti del mondo, i meglio allenati.
Confronto con altri paesi. La quistione degli arditi. La crisi dei
quadri, il gran numero degli ufficiali di complemento. Gli arditi in
altri paesi hanno rappresentato un nuovo esercito di volontari, una
selezione militare, che ebbe una funzione tattica primordiale. Il
contatto col nemico fu ricercato solo attraverso gli arditi, che
formarono come un velo tra il nemico e l’esercito di leva (come le
stecche di un busto). La fanteria francese formata in maggioranza di
coltivatori diretti, cioè di uomini con una certa riserva
muscolare e nervosa che rese più difficile il collasso fisico
procurato dalla vita di trincea (il consumo medio di un francese
è di circa 1 500 000 calorie all’anno, mentre quello italiano
è di meno che un milione); in Francia il bracciantato
è minimo (il contadino senza terra è servo di
fattoria, cioè vive la stessa vita dei padroni e non conosce
l’inedia della disoccupazione neanche stagionale, il vero
bracciantato non arriva a un milione di persone); inoltre il vitto
in trincea era migliore che in altri paesi e il passato democratico,
ricco di lotte, aveva creato il cittadino, nel doppio senso, che
l’uomo del popolo si sentiva qualche cosa, non solo, ma era ritenuto
qualche cosa dai superiori, cioè non era sfottuto e
bistrattato per bazzecole. Non si formarono così quei
sedimenti di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono altrove.
Le lotte interne dopo l’armistizio mancarono perciò di grande
asprezza e, specialmente, non si verificò l’inaudita
oscillazione delle classi rurali. La crisi parlamentare francese
indica che c’è un malessere diffuso nel paese, ma questo
malessere non ha avuto sinora un carattere radicale, non ha posto in
gioco quistioni «intangibili». C’è stato un
allargamento della base industriale, e quindi un accresciuto
urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma
non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame
insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio,
ci sono più soddisfazioni (il prezzo della terra è
basso e molte terre buone sono abbandonate agli italiani). La crisi
parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento di masse
normale (non dovuto a crisi economica), con una ricerca di nuovi
equilibri di partito e un malessere vago, premonitore di una grande
crisi. La stessa sensibilità dell’organismo politico porta a
esagerare i sintomi del malessere. Si tratta per ora di una lotta
per la divisione dei carichi statali e dei benefici statali,
più che altro. Perciò crisi dei partiti medi e del
partito radicale in primo luogo, che rappresenta le città
medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze
politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un miglior
assestamento. Le forze extrastatali fanno sentire più
sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo
più brutale.
Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del
potere. Maurras passa per un grande uomo di stato e per un
grandissimo realista. In realtà egli è solo un
giacobino alla rovescia. I giacobini usavano un certo linguaggio,
seguivano una certa ideologia; nel loro tempo quel linguaggio e
quella ideologia erano ultra‑realistici perché ottennero di
far marciare le forze necessarie per ottenere i fini della
rivoluzione e dettero alla classe rivoluzionaria il potere. Furono
poi staccati dal tempo e dal luogo e ridotti in formule: erano una
cosa diversa, uno spettro, delle parole vane e inerti. Il comico
è che Maurras a quelle formule ne contrappose delle altre, in
un sistema logico‑letterario formalmente impeccabile, ma del
più puro illuminismo. Maurras rappresenta il più puro
campione dello «stupido secolo XIX» la concentrazione di
tutte le banalità massoniche rovesciate meccanicamente: la
sua relativa popolarità viene appunto da questo, che il suo
metodo piace perché è proprio quello della ragione
ragionante da cui è sorto l’enciclopedismo, l’illuminismo e
tutta la cultura massonica francese. Gli illuministi avevano creato
il mito del selvaggio o che so io, Maurras crea il mito del passato
monarchico francese; solo che questo mito è stato
«storia» e le deformazioni intellettualistiche di esso
possono essere troppo facilmente corrette.
La formula fondamentale di Maurras è «politique
d’abord», ma egli è il primo a non osservarla. Prima
della politica per lui c’è sempre l’«astrazione
politica», l’accoglimento integrale di un programma
«ideologico» minuziosissimo, che prevede tutti i
particolari, come nelle utopie, che domanda una determinata
concezione non della storia, ma della storia di Francia e d’Europa,
cioè una determinata ermeneutica.
Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell’Action
Française è stata la incrollabile omogeneità e
unità del suo gruppo dirigente. Sempre d’accordo, sempre
solidali politicamente e ideologicamente.
Certo questa è una forza. Ma di carattere settario e
massonico, non di grande partito di governo. Il linguaggio politico
è diventato un gergo, si è formata un’atmosfera da
conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di
maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce,
è vero, col pensare allo stesso modo, perché si
finisce col non pensar più. Maurras a Parigi e Daudet a
Bruxelles pronunziano la stessa frase, senza accordo, sullo stesso
avvenimento, ma l’accordo c’era già prima: erano già
due macchinette di frasi montate da 20 anni per dire le stesse frasi
nello stesso momento.
Il gruppo di Maurras si è formato per
«cooptazione»: in principio c’era Maurras col suo verbo,
poi si unì Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Quando
si staccò Valois fu una catastrofe di polemiche e di accuse.
Dal punto di vista di tipo d’organizzazione l’Action
Française è molto interessante. La sua forza è
costituita di questi elementi: che i suoi elementi di base sono tipi
sociali selezionati intellettualmente, nobili, intellettuali,
ex‑ufficiali, studenti, gente cioè che è portata a
ripetere pappagallescamente le formule di Maurras e anzi a trarne
profitto «snobistico»; in una repubblica può
essere segno di distinzione l’essere monarchici, in una democrazia
parlamentare l’essere reazionar conseguenti; che sono ricchi,
così che possono dare tanti fondi da permettere molteplici
iniziative che danno l’apparenza di una certa vitalità e
attività; la ricchezza di mezzi e la posizione sociale degli
aderenti palesi ed occulti permette al giornale e al centro politico
di avere una massa di informazioni e di documenti riservati che
danno al giornale il mezzo delle polemiche personali: nel passato,
ma in parte anche ora, il Vaticano doveva essere una fonte di primo
ordine (il Vaticano, come centro, la Segreteria di Stato e l’alto
clero francese; molte campagne devono essere a chiave o a mezza
chiave: una parte di vero che fa capire che si sa tutto o allusioni
furbesche comprensibili dagli interessati). A queste campagne il
giornale dà un doppio significato: galvanizzare i propri
aderenti sfoggiando conoscenza delle più segrete cose,
ciò che dà l’impressione di gran forza
d’organizzazione e di capacità, e paralizzare gli avversari,
con la minaccia di disonorarli, per fare di alcuni dei fautori
segreti.
La concezione pratica che si può ricavare da tutta
l’attività dell’Action Française è questa: il
regime parlamentare repubblicano si dissolverà
ineluttabilmente perché esso è un
«monstrum» storico che non corrisponde alle leggi
«naturali» della società francese fissate da
Maurras. I nazionalisti integrali devono: 1° appartarsi dalla
vita reale della politica francese, non riconoscendone la
legalità (astensionismo, ecc.), combattendola in blocco;
2° creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi «nei
palazzi tradizionali», per un colpo di mano; questo
antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici
embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali.
Furono fatti molti strappi a questo rigore: nel 19 furono presentate
delle candidature; nelle altre elezioni l’Action Française
appoggiò i candidati di destra che accettavano alcuni suoi
principii marginali (significa che tra Maurras e gli altri l’accordo
non era perfetto). Per uscire dall’isolamento fu progettata la
pubblicazione di un grande giornale d’informazione, ma finora non
pare che se ne sia fatto nulla (esiste solo la «Revue
Universelle» che compie questo ufficio nel campo delle
riviste). La recente polemica col Vaticano ha rotto il solo legame
che l’Action Frariffise avesse con larghe masse, legame anch’esso
piuttosto aleatorio. Il suffragio universale introdotto dalla
Repubblica ha portato già da tempo in Francia al fatto che le
masse cattoliche politicamente aderiscono ai partiti del centro e di
sinistra, sebbene questi partiti siano anticlericali. La formula che
la religione è una «quistione privata» si
è radicata come forma popolare della separazione della Chiesa
dallo Stato. Di più il complesso di associazioni che
costituiscono l’Azione Cattolica francese è in mano alla
aristocrazia terriera (il generale Castelnau), senza che il basso
clero eserciti quella funzione di guida spirituale‑sociale che
esercitava in Italia (settentrionale specialmente). Il contadino
francese rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che
volentieri dice: «il prete è prete sull’altare, ma
fuori è un uomo come tutti gli altri» (se non peggio).
L’Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico
pensava di dominare tutto l’apparecchio di massa del cattolicismo
francese. Certo c’era molta illusione in ciò, ma tuttavia
doveva esserci una parte di verità, perché il legame
religioso, rilassato in tempi normali, diventa più vigoroso e
assorbente in epoche di grande crisi politico‑morale, quando
l’avvenire appare pieno di nubi tempestose. In realtà anche
questa riserva possibile è svanita per Maurras. La politica
del Vaticano non vuole più «astenersi» dagli
affari interni francesi; ma il Vaticano è più realista
di Maurras e concepisce meglio il motto «politique
d’abord». Finché il contadino cattolico dovrà
scegliere tra Herriot e un hobereau, sceglierà Herriot:
bisogna creare il tipo politico del «radicale
cattolico», cioè del «popolare», bisogna
accettare la Repubblica e la democrazia e su questo terreno
organizzare le masse facendo sparire (superando) il dissidio tra
religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale
(nel campo individuale‑privato) ma anche la guida sociale nel campo
politico‑economico.
La sconfitta di Maurras è certa: è la sua concezione
che è falsa per troppa perfezione logica. Del resto la
sconfitta era sentita da Maurras proprio all’inizio della crisi col
Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 25.
Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l’Action
Française pubblicò di essere pronta a prendere il
potere. Fu pubblicato un articolo in cui si giunge fino ad invitare
Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava sempre
il plotone di esecuzione. L’episodio è classico: la politica
irrigidita e razionalistica tipo Maurras, dell’astensionismo
aprioristico, delle leggi naturali siderali che reggono la
società è condannata al marasma, al crollo,
all’abdicazione al momento risolutivo. Allora si vede che le grandi
masse di energia non si riversano nei serbatoi creati
artificialmente, ma seguono le vie della storia, si spostano secondo
i partiti che sono stati sempre attivi. A parte la stoltezza di
credere che nel 25 potesse avvenire il crollo della Repubblica per
la crisi parlamentare (l’intellettualismo porta a queste
allucinazioni monomaniache), ci fu un crollo morale, se non di
Maurras, che sarà anche rimasto nel suo stato di
illuminazione apocalittica, del suo gruppo, che si senti isolato e
fece appello a Caillaux.
§49 Il «centralismo organico» e le dottrine di
Maurras. Il «centralismo organico» ha come principio la
«cooptazione» intorno a un «possessore della
verità», a un «illuminato dalla ragione»
che ha trovato le leggi «naturali» ecc. (Le leggi della
meccanica e della matematica funzionano da motore intellettuale; la
metafora sta invece del pensiero storico). Collegato col Maurrassmo.
§53 Maurrasianesimo e sindacalismo. Nella concezione di Maurras
ci sono molti tratti simili a certe teorie catastrofiche formali di
certo sindacalismo o economismo. È avvenuta parecchie volte
questa trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni
nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico
si basa su questa concezione (astensionismo politico in generale,
non solo parlamentare). Meccanicamente avverrà il crollo
dell’avversario se, con metodo intransigente, lo si
boicotterà nel campo governativo (sciopero economico,
sciopero o inattività politica). L’esempio classico italiano
è quello dei clericali dopo il 70. In realtà poi, dopo
il 90 il non expedit fu temperato fino al patto Gentiloni. La
fondazione del P. P. segnò il rigetto totale di questo
meccanicismo catastrofico. Il suffragio universale rovesciò
questo piano: esso infatti già diede i sintomi di nuove
formazioni legate all’interesse dei contadini di entrare attivamente
nella vita dello Stato.
§106 La concezione religiosa di Maurras. La «Rivista
d’Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un articolo di J.
Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de France»
di qualche settimana prima. Il Vialatoux respinge la tesi sostenuta
da Jacques Maritain in Une opinion sur Charles Maurras et le devoir
des catholiques (Paris, Plon, 1926) che tra la filosofia e la morale
pagane di Maurras da una parte e la sua politica dall’altra non vi
sia che un rapporto contingente, di modo che se si prende la
dottrina politica, astraendo dalla filosofia, si può andare
incontro a qualche pericolo, come in ogni movimento umano, ma non
v’ha nulla di condannabile. Per il Vialatoux, giustamente, la
dottrina politica scaturisce (o per lo meno è
inscindibilmente collegata — G.) dalla concezione pagana del mondo
(su questo paganesimo bisognerebbe distinguere e chiarire, tra la
veste letteraria, estrinseca, in cui consiste questo così
detto paganesimo di Maurras e il nocciolo essenziale che è
poi un positivismo naturalistico, preso da Comte e mediatamente dal
sansimonismo, ciò che col paganesimo entra solo per la
nomenclatura gergale della chiesa). La città è fine
ultimo dell’uomo: realizza l’ordine umano con le sole forze della
natura. Maurras è definibile per i suoi odii ancor più
che per i suoi amori. Odia il cristianesimo primitivo (la concezione
del mondo degli Evangeli, dei primi apologisti ecc., il
cristianesimo fino all’editto di Milano, insomma, che credeva la
venuta di Cristo annunziare la fine del mondo e determinava
perciò la dissoluzione dell’ordine politico romano in una
anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per
lui è una concezione giudaica.
In questo senso Maurras vuole scristianizzare la società
moderna. Per Maurras la chiesa cattolica è stata e
sarà sempre più lo strumento di questa
scristianizzazione. Egli distingue tra cristianesimo e cattolicismo
ed esalta quest’ultimo come la reazione dell’ordine romano
all’anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue devozioni
superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue solennità,
la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i suoi riti
sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo
salutare per domare l’anarchia cristiana, per immunizzare il veleno
giudaico del cristianesimo autentico. Secondo il Vialatoux il
nazionalismo dell’Action Française non è che un
episodio della storia religiosa del nostro tempo. (Bisognerebbe
aggiungere che l’odio di Maurras contro tutto ciò che sa di
protestante ed è di origine anglotedesca ‑ romanticismo,
Rivoluzione francese, capitalismo — non è che un aspetto di
questo odio del cristianesimo primitivo; bisognerebbe inoltre
cercare in Augusto Comte le origini della sua attitudine verso il
cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita libresca
del tomismo e dell’aristotelismo).
Q 5
§144 Nozioni enciclopediche. Come è nato nei pubblicisti
della restaurazione il concetto di «tirannia della
maggioranza». Concetto presso gli «individualisti»
tipo Nietzsche, ma anche presso i cattolici. Secondo Maurras, la
«tirannia della maggioranza» è ammissibile nei
piccoli paesi, come la Svizzera, perché tra i cittadini
svizzeri regna una certa uguaglianza di condizioni; è
disastrosa (! sic) invece dove fra i cittadini, come in Francia, vi
è molta disuguaglianza di condizioni.
Q 13
Il punto culminante della crisi parlamentare francese fu raggiunto
nel 1925 e dall’atteggiamento verso quegli avvenimenti, ritenuti
decisivi, occorre partire per dare un giudizio sulla consistenza
politica e ideologica dell’Action Française. Maurras
gridò allo sfacelo del regime repubblicano e il suo gruppo si
preparò alla presa del potere. Maurras è spesso
esaltato come un grande statista e come un grandissimo
Realpolitiker: in realtà egli è solo un giacobino alla
rovescia. I giacobini impiegavano un certo linguaggio, erano
convinti fautori di una determinata ideologia; nel tempo e nelle
circostanze date, quel linguaggio e quella ideologia erano
ultrarealistici, perché ottenevano di mettere in moto le
energie politiche necessarie ai fini della Rivoluzione e a
consolidare permanentemente l’andata al potere della classe
rivoluzionaria; furono poi staccati, come avviene quasi sempre,
dalle condizioni di luogo e di tempo e ridotti in formule e
divennero una cosa diversa, una larva, parole vacue e inerti. Il
comico consiste nel fatto che il Maurras capovolse banalmente quelle
formule, creandone altre che sistemò in un ordine
logico‑letterario impeccabile, le quali non potevano anche esse che
rappresentare il riflesso del più puro e triviale
illuminismo. In realtà è proprio Maurras il più
rappresentativo campione dello «stupido secolo XIX», la
concentrazione di tutti i luoghi comuni massonici meccanicamente
rovesciati: la sua relativa fortuna dipende appunto da ciò
che il suo metodo piace perché è quello della ragione
ragionante da cui è nato l’enciclopedismo, e tutta la
tradizione culturale massonica francese. L’illuminismo creò
una serie di miti popolari, che erano solo la proiezione nel futuro
delle più profonde e millenarie aspirazioni delle grandi
masse, aspirazioni legate al cristianesimo e alla filosofia del
senso comune, miti semplicistici quanto si vuole, ma che avevano
un’origine realmente radicata nei sentimenti e che, in ogni caso,
non potevano essere controllati sperimentalmente (storicamente);
Maurras ha creato il mito «semplicistico» di un passato
monarchico francese fantastico; ma questo mito è stato
«storia» e le deformazioni intellettualistiche di essa
possono essere facilmente corrette: tutta la istruzione pubblica
francese è una implicita rettifica del mito monarchico, che
in tal modo diventa un «mito» difensivo più che
creatore di passioni. Una delle formule fondamentali di Maurras
è «Politique d’abord», ma egli è il primo
a non seguirla. Per lui, prima della politica c’è sempre
l’«astrazione politica», l’accoglimento integrale di una
concezione del mondo «minuziosissima», che prevede tutti
i particolari, come l’anno le utopie dei letterati, che domanda una
determinata concezione della storia, ma della storia concreta di
Francia e d’Europa, cioè una determinata e fossilizzata
ermeneutica.
Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell’Action
Française è stata la incrollabile omogeneità e
unità del suo gruppo dirigente: sempre d’accordo, sempre
solidali politicamente e ideologicamente. Certo l’unità e
omogeneità del gruppo dirigente è una grande forza, ma
di carattere settario e massonico, non di un grande partito di
governo. Il linguaggio politico è diventato un gergo, si
è formata l’atmosfera di una conventicola: a forza di
ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi
mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo
stesso modo, perché si finisce col non pensare più.
Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la stessa frase,
senza accordo, sullo stesso avvenimento perché l’accordo
c’era già prima, perché si tratta di due macchinette
di frasi, montate da venti anni per dire le stesse frasi nello
stesso momento.
Il gruppo dirigente dell’Action Française si è formato
per cooptazione: in principio c’era Maurras col suo verbo, poi si
unì Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Ogni volta che
dal gruppo si staccò qualcuno, fu una catastrofe di polemiche
e di accuse interminabili e perfide e si capisce: Maurras è
come un papa infallibile e che da lui si stacchi uno dei più
prossimi ha un significato veramente catastrofico.
Dal punto di vista dell’organizzazione l’Action Française
è molto interessante e meriterebbe uno studio approfondito.
La sua forza relativa è costituita specialmente da ciò
che i suoi elementi di base sono tipi sociali intellettualmente
selezionati, la cui «radunata» militare è
estremamente facile come sarebbe quella di un esercito costituito di
soli ufficiali. La selezione intellettuale è relativa, si
capisce, poiché è stupefacente come gli aderenti
all’Action Française siano facili a ripetere
pappagallescamente le formule del leader (se pure non si tratti di
una necessità di guerra, sentita come tale) e anzi a trarne
profitto «snobistico». In una repubblica può
essere segno di distinzione l’essere monarchico, in una democrazia
parlamentare l’essere reazionario conseguente. Il gruppo, per la sua
composizione, possiede (a parte le sovvenzioni di certi gruppi
industriali) molti fondi, tanti da permettere iniziative molteplici
che danno l’apparenza di una certa vitalità e
attività. La posizione sociale di molti aderenti palesi ed
occulti permette al giornale e al centro dirigente di avere una
massa di informazioni e documenti riservati che permettono una
molteplicità di polemiche personali. Nel passato, ma
più limitatamente anche ora, il Vaticano doveva essere una
fonte di prim’ordine d’informazioni (la Segreteria di Stato e l’alto
clero francese). Molte campagne personalistiche devono essere a
chiave o a mezza chiave: si pubblica una parte di vero per far
capire che si sa tutto, o si fanno allusioni furbesche comprensibili
agli interessati. Queste campagne violente personalistiche hanno per
l’Action Française vari significati: galvanizzano gli
aderenti perché lo sfoggio della conoscenza delle cose
più segrete dà l’impressione di gran capacità a
penetrare nel campo avversario e di una forte organizzazione cui
nulla sfugge, mostrano il regime repubblicano come un’associazione a
delinquere paralizzano una serie di avversari con la minaccia di
disonorarli e di alcuni fanno dei fautori segreti. La concezione
empirica che si può ricavare da tutta l’attività
dell’Action Française è questa: il regime parlamentare
repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché
esso è un «monstrum» storico‑razionale, che non
corrisponde alle leggi «naturali» della società
francese rigidamente stabilite dal Maurras. I nazionalisti integrali
devono pertanto: 1) appartarsi dalla vita reale della politica
francese, non riconoscendone la «legalità»
storico‑razionale (astensionismo, ecc.) e combattendola in blocco;
2) creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi nei
«palazzi tradizionali» con un colpo di mano: questo
antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici
embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali.
Nella realtà furono fatti molti strappi a tanto rigore; nel
19 furono presentate alcune candidature, e riuscì eletto per
miracolo il Daudet. Nelle altre elezioni l’Action Française
appoggiò quei candidati di destra che accettavano alcuni suoi
principii marginali (questa attività pare sia stata imposta
al Maurras dai suoi collaboratori più esperti di politica
reale, ciò che dimostra che l’unità non è senza
crepe). Per uscire dall’isolamento fu progettata la pubblicazione di
un grande giornale d’informazione, ma finora non se ne fece nulla
(esiste solo la «Revue Universelle» e lo
«Charivari» che compiono ufficio di divulgazione
indiretta tra il grande pubblico). L’acre polemica col Vaticano e la
riorganizzazione del clero e delle associazioni cattoliche che ne fu
una conseguenza, ha rotto il solo legame che l’Action
Française aveva con le grandi masse nazionali, legame che era
anch’esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale che è
stato introdotto in Francia da tanto tempo ha già determinato
il fatto che le masse, formalmente cattoliche, politicamente
aderiscano ai partiti repubblicani di centro, sebbene questi siano
anticlericali e laicisti: il sentimento nazionale, organizzato
intorno al concetto di patria, è altrettanto forte, e in
certi casi è indubbiamente più forte, del sentimento
religioso‑cattolico, che del resto ha caratteristiche proprie. La
formula che «la religione è una quistione
privata» si è radicata come forma popolare del concetto
di separazione della Chiesa dallo Stato. Inoltre, il complesso di
associazioni che costituiscono l’Azione Cattolica è in mano
all’aristocrazia terriera (ne è capo, o era, il generale
Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di
guida spirituale‑sociale che esercitava in Italia (in quella
settentrionale). Il contadino francese, nella quasi totalità,
rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che dice
volentieri: «il prete è prete sull’altare, ma fuori
è un uomo come tutti gli altri» (in Sicilia:
«monaci e parrini, sienticci la missa e stoccacci li
rini»). L’Action Française attraverso lo strato
dirigente cattolico pensava di poter dominare, nel momento decisivo,
tutto l’apparato di massa del cattolicismo francese. In questo
calcolo c’era un po’ di verità e molta illusione: in epoche
di grandi crisi politico‑morali, il sentimento religioso, rilassato
in tempi normali, può diventare vigoroso e assorbente; ma se
l’avvenire appare pieno di nubi tempestose, anche la
solidarietà nazionale, espressa nel concetto di patria,
diventa assorbente in Francia, dove la crisi non può non
assumere il carattere di crisi internazionale e allora la
«Marsigliese» è più forte dei Salmi
penitenziali. In ogni caso, anche la speranza in questa riserva
possibile è svanita per Maurras. Il Vaticano non vuole
più astenersi dagli affari interni francesi e ritiene che il
ricatto di una possibile restaurazione monarchica sia divenuto
inoperante: il Vaticano è più realista di Maurras, e
concepisce meglio la formula «politique d’abord».
Finché il contadino francese dovrà scegliere tra
Herriot e un Hobereau, sceglierà Herriot: bisogna
perciò creare il tipo del «radicale cattolico»
cioè del «popolare», bisogna accettare senza
riserve la repubblica e la democrazia e su questo terreno
organizzare le masse contadine, superando il dissidio tra religione
e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel
campo individuale‑privato) ma anche la guida sociale nel campo
economico‑politico. La sconfitta di Maurras è certa (come
quella di Hugenberg in Germania). È la concezione di Maurras
che è falsa per troppa perfezione logica: questa sconfitta,
d’altronde, fu sentita dallo stesso Maurras proprio all’inizio della
polemica col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare
francese del 1925 (non certo per caso). Quando i ministeri si
succedevano a rotazione, l’Action Française pubblicò
di essere pronta ad assumere il potere e apparve un articolo in cui
si giunse ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale
si annunziava continuamente il plotone d’esecuzione. L’episodio
è classico: la politica irrigidita e razionalistica del
Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali
«siderali» che reggono la società francese, era
condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione nel momento
risolutivo. Nel momento risolutivo si vede che le grandi masse di
energie entrate in movimento per la crisi non si riversano affatto
nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie realmente
tracciate dalla politica reale precedente, si spostano secondo i
partiti che sono sempre stati attivi, o perfino che sono nati come
funghi sul terreno stesso della crisi. A parte la stoltezza di
credere che nel 1925 potesse avvenire il crollo del regime
repubblicano per una crisi parlamentare (l’intellettualismo
antiparlamentarista porta a simili allucinazioni monomaniache) se ci
fu crollo fu quello morale del Maurras, che magari non si
sarà scosso dal suo stato di illuminazione apocalittica, e
del suo gruppo, che si sentì isolato e dovette fare appello a
Caillaux e C.
Nella concezione di Maurras esistono molti tratti simili a quelli di
certe teorie formalmente catastrofiche di certo economismo e
sindacalismo. È spesso avvenuta questa trasposizione nel
campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno
economico e sindacale. Ogni astensionismo politico in generale e non
solo quello parlamentare si basa su una simile concezione
meccanicamente catastrofica: la forza dell’avversario
crollerà matematicamente se con metodo rigorosamente
intransigente lo si boicotterà nel campo governativo (allo
sciopero economico si accoppia lo sciopero e il boicottaggio
politico). L’esempio classico è quello italiano dei clericali
dopo il 70, che imitarono e generalizzarono alcuni episodi della
lotta dei patrioti contro il dominio austriaco verificatisi
specialmente a Milano.
L’affermazione, spesso ripetuta da Jacques Bainville nei suoi saggi
storici, che il suffragio universale e il plebiscito potevano
(avrebbero potuto) e potranno quindi servire anche al legittimismo
come servirono ad altre correnti politiche (specialmente ai
Bonaparte) è molto ingenua, perché legata a un ingenuo
e astrattamente scemo sociologismo: il suffragio universale e il
plebiscito sono concepiti come schemi astratti dalle condizioni di
tempo e di luogo. Occorre notare: 1) che ogni sanzione data dal
suffragio universale e dalplebiscito è avvenuta dopo che la
classe fondamentale si era concentrata fortemente o nel campo
politico o più ancora nel campo politico‑militare intorno a
una personalità «cesarista», o dopo una guerra
che aveva creato una situazione di emergenza nazionale; 2) che nella
realtà della storia francese ci sono stati diversi tipi di
«suffragio universale», a mano a mano che mutarono
storicamente i rapporti economico-politici. Le crisi del suffragio
universale sono state determinate dai rapporti tra Parigi e la
provincia, ossia tra la città e la campagna, tra le forze
urbane e quelle contadinesche. Durante la Rivoluzione, il blocco
urbano parigino guida in modo quasi assoluto la provincia e si forma
così il mito del suffragio universale che dovrebbe sempre dar
ragione alla democrazia radicale parigina. Perciò Parigi
vuole il suffragio universale nel 1848, ma esso esprime un
parlamento reazionario‑clericale che permette a Napoleone III la sua
carriera. Nel 1871 Parigi ha fatto un gran passo in avanti,
perché si ribella all’Assemblea Nazionale di Versailles,
formata dal suffragio universale, cioè implicitamente
«capisce» che tra «progresso» e suffragio
può esserci conflitto; ma questa esperienza storica, di
valore inestimabile, è perduta immediatamente perché i
portatori di essa vengono immediatamente soppressi. D’altronde dopo
il 71 Parigi perde in gran parte la sua egemonia
politico‑democratica sulla restante Francia per diverse ragioni: 1)
perché si diffonde in tutta la Francia il capitalismo urbano
e si crea il movimento radicale socialista in tutto il territorio;
2) perché Parigi perde definitivamente la sua unità
rivoluzionaria e la sua democrazia si scinde in gruppi sociali e
partiti antagonistici. Lo sviluppo del suffragio universale e della
democrazia coincide sempre più con l’affermarsi in tutta la
Francia del partito radicale e della lotta anticlericale,
affermazione resa più facile e anzi favorita dallo sviluppo
del così detto sindacalismo rivoluzionario. In realtà
l’astensionismo elettorale e l’economismo dei sindacalisti sono
l’apparenza «intransigente» dell’abdicazione di Parigi
al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono
l’espressione di un piatto opportunismo seguito al salasso del 1871.
Il radicalismo unifica così in un piano intermedio, della
mediocrità piccolo‑borghese, l’aristocrazia operaia di
città e il contadino agiato di campagna. Dopo la guerra
c’è una ripresa dello sviluppo storico troncato col ferro e
col fuoco nel 1871, ma esso è incerto, informe, oscillante, e
specialmente privo di cervelli pensanti.
La «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un
articolo di J. Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale
de France» di qualche settimana prima; il Vialatoux respinge
la tesi sostenuta da Jacques Maritain, in Une opinion sur Charles
Maurras et le devoir des catholiques (Parigi, Plon, 1926) secondo
cui tra la filosofia e la morale pagane di Maurras e la sua politica
non vi sarebbe che un rapporto contingente, di modo che se si prende
la dottrina politica, astraendo dalla filosofia, si può
andare incontro a qualche pericolo, come in ogni movimento umano, ma
non vi ha nulla di condannabile. Per il Vialatoux, giustamente, la
dottrina politica scaturisce (o per lo meno è
inscindibilmente legata – g.) dalla concezione pagana del mondo (su
questo paganesimo occorre distinguere e chiarire, tra la veste
letteraria piena di riferimenti e metafore pagane e il nocciolo
essenziale che è poi il positivismo naturalistico, preso da
Comte e mediatamente dal sansimonismo, ciò che rientra nel
paganesimo solo per il gergo e la nomenclatura ecclesiastica – g.).
Lo Stato è il fine ultimo dell’uomo: esso realizza l’ordine
umano con le sole forze della natura (cioè
«umane», in contrapposizione a
«soprannaturali»). Maurras è definibile per i
suoi odii ancor più che per i suoi amori. Odia il
cristianesimo primitivo (la concezione del mondo contenuta negli
Evangeli, nei primi apologisti ecc., il cristianesimo all’editto di
Milano, insomma, la cui credenza fondamentale era che la venuta di
Cristo avesse annunziato la fine del mondo e che perciò
determinava la dissoluzione dell’ordine politico romano in una
anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per
lui è una concezione giudaica. In questo senso Maurras vuole
scristianizzare la società moderna. Per Maurras la Chiesa
cattolica è stata e sarà sempre più lo
strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue tra
cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest’ultimo come la reazione
dell’ordine romano all’anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue
devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue
solennità, la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule,
i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un
incantesimo salutare per domare l’anarchia cristiana, per
immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico. Secondo
il Vialatoux il nazionalismo dell’Action Française non
è che un episodio della storia religiosa del nostro tempo (in
questo senso ogni movimento politico non controllato dal Vaticano
è un episodio della storia religiosa, ossia tutta la storia
è storia religiosa. In ogni modo occorre aggiungere che
l’odio di Maurras contro tutto ciò che sa di protestante ed
è di origine anglo‑germanica – Romanticismo, Rivoluzione
francese, capitalismo ecc. – non è che un aspetto di questo
odio contro il cristianesimo primitivo. Occorrerebbe cercare in
Augusto Comte le origini di questo atteggiamento generale verso il
cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita libresca
del tomismo e dell’aristotelismo).
§38 Maurras e il «centralismo organico». Il
cosidetto «centralismo organico» si fonda sul principio
che un gruppo politico viene selezionato per
«cooptazione» intorno a un «portatore infallibile
della verità», a un «illuminato dalla
ragione» che ha trovato le leggi naturali infallibili
dell’evoluzione storica, infallibili anche se a lunga portata e se
gli eventi immediati «sembrano» dar loro torto.
L’applicazione delle leggi della meccanica e della matematica ai
fatti sociali, ciò che non dovrebbe avere che un valore
metaforico, diventa il solo e allucinante motore intellettuale (a
vuoto). Il nesso tra il centralismo organico e le dottrine di
Maurras è evidente.