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Fondatore della religione islamica (La Mecca 570 circa - Medina
632). È considerato dai musulmani il sigillo dei profeti,
cioè colui che ha concluso il ciclo della rivelazione
iniziata da Adamo. M., figura chiave dell'Islam, è il
messaggero di Dio (rasūl Allāh), ma nonostante l'importanza
fondamentale che riveste la sua figura, essendo colui che ha
rivelato il Corano, l'ortodossia islamica insiste sul carattere
esclusivamente umano della sua persona.
Fonti principali della vita di M. sono innanzitutto il Corano, la
biografia canonica (sīra) e le raccolte di Ibn Isḥāq e Ibn Hishām:
secondo queste, rimasto orfano in tenera età, M. crebbe in
condizioni disagiate fino al matrimonio con la ricca vedova
Khadīgia. Dal politeismo patrio, attraverso una profonda crisi
spirituale, passò a una ferma fede monoteistica, che
cominciò a predicare intorno all'età di 40 anni (610
circa) tra i suoi concittadini: questi mostrarono dapprima
indifferenza, poi ostilità, vedendo nella nuova dottrina,
basata sull'uguaglianza, un pericolo per i proprî interessi
economici. Capisaldi di tale religione erano: fede in un Dio unico
creatore onnipotente, cui gli uomini debbono totale sottomissione
(islām) attraverso la conduzione di una vita casta e l'osservanza
dei precetti islamici (preghiera, digiuno, ecc.); aiuto verso il
prossimo, soprattutto se indigente; prossima fine del mondo,
giudizio universale e retribuzione in bene e in male delle azioni
umane, con paradiso, inferno, resurrezione dei corpi, ecc.
Nelle teorie religiose di M. convergevano molti elementi già
presenti nella religione ebraica e cristiana, primo fra tutti quello
del monoteismo, ma anche credenze pagane, come, per es., quella
riconducibile al pellegrinaggio alla Ka῾ba.
La predicazione di M. riuscì a formare alla Mecca una piccola
comunità comprendente suoi familiari e membri della
borghesia, e soprattutto umili e schiavi; ma l'ostilità delle
classi dirigenti, come già detto dovuta per lo più a
motivi sociali ed economici, rese la vita difficile al profeta e ai
suoi seguaci, tanto da indurlo a cercare un appoggio e un campo
d'azione fuori della città natale. Dopo un tentativo fallito
a Ṭā'if, un accordo fu da lui stretto con elementi di Medina, e in
questa città M. si recò nell'autunno del 622, con
quella egira, o migrazione, che segnò poi l'inizio dell'era
musulmana.
Pochi anni dopo l'egira morì Khadīgia, che aveva dato quattro
figlie a M.; in seguito questi ebbe altre mogli, tra cui la sua
preferita ῾Ā'isha. Era questo un modo per ottenere con diplomazia
l'appoggio di varî clan tribali o di rinforzarne i legami.
A Medina M. divenne non solo capo religioso ma anche politico, e
seppe abilmente estendere il suo potere passando da ospite alleato e
paciere di quella divisa comunità pagana, a vero arbitro e
guida. Circondato dai fidi Compagni (Ṣaḥāba), tra i meccani con lui
migrati (Muhāgirūn) e i nuovi ausiliarî (Anṣār) medinesi, egli
organizzò rapidamente la comunità musulmana (umma),
opponendosi agli elementi ostili di Medina, ebrei e cristiani,
dapprima consenzienti al monoteismo islamico. È in questi
anni (624) che M. sostituì la direzione della preghiera
(qibla) dall'originaria Gerusalemme alla Ka῾ba.
Le tappe della vittoriosa affermazione di M. a Medina furono la
vittoria di Badr (624) sui meccani, non invalidata dal susseguente
passeggero scacco di Uḥud; la resistenza all'assedio di Medina
invano tentato (627) dai meccani; la tregua decennale con La Mecca,
stretta (628) col patto di Ḥudaibiya, denunciato poco più di
un anno dopo; la marcia sulla Mecca e la sua occupazione quasi senza
colpo ferire (630). Ma residenza del profeta restò sempre
Medina, donde egli aveva via via eliminato, con esilî e aspre
battaglie, le dissidenti tribù ebraiche, e che quindi restava
cittadella della nuova fede e capitale del nuovo stato teocratico,
che abbracciava ormai, attraverso la sottomissione delle
tribù beduine, buona parte d'Arabia.
Dopo un solenne pellegrinaggio d'addio alla città natale, il
cui culto della Ka῾ba era stato da M. inserito e armonizzato
nell'Islam, il profeta morì a Medina in seguito a breve
malattia, lasciando la sua comunità senza capo designato, ma
con una cerchia di uomini d'alto valore religioso e civile (Abū
Bakr, ῾Omar, ecc.), che continuarono in parte, come califfi, l'opera
del fondatore.
Il giudizio storico sulla figura di M., a lungo offuscato da
parzialità e ostilità confessionali, riconosce in lui
una personalità eccezionale, di indubbia sincerità
nella sua fede e nella sua missione, un abile politico, fondatore di
una religione e di uno stato, un uomo votato con ogni energia a
un'opera che egli sentì trascendere la sua persona, e
destinata a segnare una traccia indelebile nella storia.
Enciclopedia italiana (1943)
di Carlo Alfonso Nallino
Fondatore della religione e dello stato musulmano, nato alla Mecca
fra il 570 e il 580 d. C., morto a Medina il lunedi 8 giugno 632.
La data della nascita, assai verosimilmente ignota allo stesso M.,
già sul finire del primo secolo dell'ègira fu
collocata dai musulmani nel lunedì 12 del mese di rabī‛ I
d'un anno lunare incerto, per simmetria con altre date notevoli
della sua vita; e questa ricorrenza si suole celebrare ogni anno con
grande pompa, a partire dagl'inizî del sec. XIII d. C.. nei
paesi musulmani che non spingono il loro puritanesimo fino a
rinnegare questa festa ignota alle prime generazioni islamiche. La
data di lunedì 20 aprile 571, favorevolmente accolta anche da
modernissimi scrittori musulmani, fu dedotta da S. de Sacy (1803) e
dall'egiziano Mahmoud efendi (1858, poi Maḥmūd pascià
al-Fálakī) mediante calcoli ingegnosi, ma fondati su basi
storiche la cui fallacia è ormai fuori di dubbio.
La vita di M. si divide in due parti nettamente distinte per la
diversità della posizione da lui assunta: il periodo meccano,
che dalla nascita va sino alla sua ègira (v.), o emigrazione
a Medina (autunno 622), e il periodo medinese dall'ègira alla
morte. Intorno al primo, che comprende la fase puramente religiosa
di M., le notizie sicure sono poche e con gravi lacune; gran parte
delle informazioni date dai biografi musulmani a suo riguardo sono
frutto di leggende o di congetture e interpretazioni arbitrarie di
passi del Corano. Migliore documentazione storica ci viene fornita
per il secondo periodo, corrispondente alla fase non piìi
soltanto religiosa, ma anche politica, legislativa e militare
dell'attività di M. Per ricostruire l'evoluzione del pensiero
religioso e civile di M., e talora anche per l'apprezzamento critico
di racconti tradizionali circa fatti concreti, è fonte
preziosa e autentica il Corano stesso, dopo che Th. Nöldeke nel
1860 riuscì a stabilire con molta approssimazione l'ordine
cronologico dei frammenti il cui complesso costituisce quel libro
(v.).
1. Il periodo meccano. - M. nacque da famiglia, a quanto sembra di
non grande importanza, della gente dei Banū Hāsīm, a sua volta
frazione dei Coreisciti (Quraish, v.), ossia di quell'insieme di
genti, supposte discendenti da un antenato comune, che costituiva la
grande maggioranza della popolazione della Mecca e comprendeva tutta
la classe ricca e tutti gli ottimati. Figlio postumo di ‛Abd Allāh,
ancor fanciulletto perdette la madre Āminah e quindi fu allevato
dallo zio paterno Abū Tālib. La sua prima giovinezza, come risulta
dal Corano, si svolse nelle strettezze, dalle quali sembra averlo
tolto il matrimonio con la ricca ed attempata vedova Khadīgiah,
appartenente alla categoria dei grandi commercianti coreisciti,
organizzatori di famose carovane dirette alla Palestina e alla Siria
o all'Arabia meridionale. L'agiatezza così conseguita ebbe
verosimilmente grande influenza sulla formazione, sullo sviluppo e
sulla fortuna della sua vocazione religiosa. Rimane e rimarrà
sempre un mistero come e quando in lui, professante sino allora il
tradizionale culto pagano politeistico dei suoi concittadini, siano
sorti la fede monoteistica, l'entusiasmo per essa, il convincimento
di ricevere da Dio messaggi per mezzo di un essere sovrannaturale (a
Medina da lui identificato con l'angelo Gabriele) trasmettitore
fedele delle testuali parole divine, e infine la persuasione che Dio
gli faceva obbligo di render noti quei messaggi ai suoi concittadini
e di predicare la fede monoteistica in opposizione al paganesimo e
con pratiche di culto ben diverse dalle pagane. I suoi primi
informatori furono quasi certamente cristiani, appartenenti alla
categoria di commercianti non arabi di passaggio per la Mecca,
oppure schiavi d'origine abissina o siro-palestinese o mesopotamica;
in ogni caso cristiani di fede ardente, ma non molto versati nelle
dottrine della loro religione, imbevuti di eresie, in un certo senso
giudaizzanti; onde si spiegano certi errori gravissimi di M. in
materia biblica e a proposito di elementi dottrinali cristiani e
giudaici, benché spesso sia, impossibile decidere con
Sicurezza se gli errori e le deformazioni vadano imputati ai primi
informatori o a M. medesimo.
Nella concezione di Maometto durante il periodo di vita alla Mecca,
come fu messo in luce da Chr. Snouck Hurgronje, non si trattava di
fondare una religione nuova. La sua idea era che molti popoli
stranieri, fra i quali i cristiani e gli ebrei, e anche alcuni
popoli d'Arabia completamente estinti, avessero ricevuto da Dio, a
varie riprese in tempi diversi, testi sacri per mezzo di "profeti
loro connazionali, incaricati di a battere il politeismo e
l'idolatria e di predicare la vera religione e la vera morale, come
pure di insegnare le pratiche del culto, nelle quali ha parte
essenziale la recitazione salmodiata di testi rivelati nella lingua
nazionale. In, altre parole, cristianesimo e giudaismo per M. non
erano se non le legittime forme nazionali di una stessa dottrina
religiosa rivelata direttamente da Dio ai suoi profeti o inviati.
Gli Arabi delle stirpi non estinte non avevano mai avuto siffatte
rivelazioni e siffatti testi sacri da recitare liturgicamente in
arabo; perciò vivevano nelle tenebre del politeismo. M.
è dunque il primo profeta o inviato arabo agli Arabi; la
religione ch'egli predica, i testi sacri che gli vengono rivelati
non differiscono per la sostanza dalle altre religioni
monoteistiche; la testimonianza della. "gente della Scrittura",
cioè dei cristiani e degli ebrei, viene invocata nelle parti
antiche del Corano a testimonianza della verità delle
dottrine predicate da M., il quale non si propone di convertire
ebrei e cristiani (già possessori della vera fede e a lui
stranieri), ma soltanto gli Arabi pagani. Le idee fondamentali
intorno alle quali si aggirava la predicazione di M. alla Mecca
erano le seguenti: esistenza di un Dio unico, dal potere illimitato,
creatore di quanto esiste fuori di lui; obbligo fatto agli uomini
della più completa sottomissione alla divinità;
gravissime punizionì inflitte già in questo mondo ai
popoli che furono ribelli ai profeti loro connazionali inviati da
Dio e perseverarono nell'incredulità; esistenza del paradiso
e dell'inferno; futura terribile catastrofe della fine del mondo,
susseguita dalla risurrezione dei corpi e dal giudizio universale.
Accanto a questi insegnamenti dottrinali, dei quali faceva parte
anche la credenza negli angeli, nel diavolo e nei ginn (v.), non
mancavano i precetti morali: osservanza della preghiera rituale ogni
giorno, elemosine, riprovazione dei ricchi duri di cuore, cura degli
orfani, biasimo dell'usura, ecc.
Nell'ambiente famigliare la predicazione di M. trovò
consenzienti (p. es. Khadīgiah e il cugino ‛Alī, il futuro quarto
califfo), increduli (lo stesso zio paterno Abū Tālib che l'aveva
allevato) e qualche accanito oppositore (Abū Lahab); fuori
dell'ambiente famigliare attrasse alcune persone della buona
borghesia (come Abū Bakr, poi successore di M. nel governo dello
stato musulmano), ma soprattutto uomini di bassa condizione e
schiavi. Invece gli ottimati, dopo un breve periodo di non
sfavorevole attesa, gli si volsero contro, pur senza ricorrere a
violenze materiali. La nuova religione appariva sacrilega rispetto
al culto avito che si collegava strettamente con la venerazione per
il santuario meccano della Ka‛bah (v.), meta di annuo pellegrinaggio
da ogni parte dell'Arabia e fonte di notevoli guadagni per la
città; poteva essere interpretata come un tentativo coperto
di dare a M. una supremazia sui suoi concittadini; urtava i
maggiorenti con le sue minacce di castighi divini a coloro che non
l'abbracciassero, con l'eguaglianza che nelle pratiche cultuali
poneva tra i grandi e gli umili, con le acerbe invettive contro i
ricchi avari di elemosine, con l'affermazione della risurrezione dei
corpi e del giudizio universale, con il fatto stesso che presunto
inviato di Dio per proclamarla fosse semplicemente un uomo, e per
giunta un uomo di modesta condizione sociale. Molti consideravano M.
come una persona invasata dai ginn ed equiparavano le rivelazioni in
prosa rimata ch'egli affermava di ricevere da Dio alle rivelazioni
che, secondo credenza assai diffiusa, i ginn facevano agl'indovini
per i loro responsi e ai poeti per i loro versi. Richiesto di
miracoli tangibili, M. rispondeva che il suo miracolo stava nel
ricevere messaggi da Dio; risposta che, fra l'altro, sembrava porre
M. molto al di sotto degli altri profeti, dei quali egli stesso
narrava le azioni miracolose compiute da Dio per loro mezzo allo
scopo di convincere gl'increduli loro connazionali. Scherni,
pressioni morali dirette e indirette su lui e sui suoi famigliari e
seguaci, forse anche violenze materiali contro alcuni dei proseliti
più deboli d'animo o più bassi di condizione sociale,
finirono col rendere difficile ed amara la vita della piccola
comunità musulmana e col procurarle anche qualche defezione.
Il tentativo di predicazione alla città di aṭ-Ṭā'if e poi a
beduini ebbe completo insuccesso; sembrava prossimo il fallimento
dell'opera iniziata con tanto ardore. M. allora rivolse la sua
ultima speranza alla città di Yathrib, quella che, divenuta
di lì a breve capitale dello stato fondato da M., fu
denominata per antonomasia al-Madīnah (Medina), ossia "la
città". Grande centro agricolo che non abbisognava d'un
regolare governo unico cittadino, abitata per oltre un terzo da una
florida comunità ebraica e per il rimanente da due gruppi
arabi in sterile rivalità fra loro ormai da molti anni, priva
d'interessi religiosi pagani da proteggere e difendere, insomma in
condizioni nettamente diverse da quelle della Mecca, Yathrib offriva
al travagliato e giovane islamismo un terreno assai più
propizio che non la patria di M., tanto più poi che per linea
femminile questi aveva legami di parentela con uno dei due gruppi
arabi suddetti. Preparato spiritualmente l'elemento arabo di quella
città anche mediante emissarî e senza dubbio offrendosi
come elemento pacificatore tra i due gruppi rivali, all'incirca nel
giugno 622 M. poté stringere un accordo segreto, sull'altura
di al-‛Aqabah presso la Mecca, con delegati arabi di Yathrib, i
quali con esso lo riconoscevano loro capo e s'impegnavano a
difendere lui, e i musulmani che con lui emigrassero dalla Mecca,
con lo stesso zelo con il quale avrebbero difeso loro stessi. Atto
che segna un profondo rivolgimento nei propositi di M.,
poiché prevede una difesa a mano armata e quindi un organismo
guerriero prima ignoto all'islamismo, aggiunge la qualità di
capo politico al semplice propagandista religioso, che mirava
soltanto alla persuasione degli animi, introduce per la prima volta
in Arabia l'idea d'un vincolo politico-religioso superiore a quello
della tribù, e implica una rottura completa dei rapporti di
M. con la tribù sua propria, con i Coreisciti.
Subito dopo questo patto di al-‛Aqabah, M. cominciò a far
partire alla spicciolata dalla Mecca la sessantina di famiglie che
s'erano convertite all'islamismo, e quando tutte furono emigrate
partì di nascosto egli pure col fido Abū Bakr, giungendo a
Yathrib (Medina) probabilmente nel settembre 622. L'islamismo era
salvo, ma una grande, radicale trasformazione stava per compiersi in
esso. Se fosse rimasto alla Mecca, anche col favore cittadino invece
che fra ostilità, l'Islām verosimilmente non sarebbe mai
stato altro che una religione, anzi una religione puramente araba
destinata a non varcare i confini della penisola che gli aveva dato
i natali; invece a Medina, sotto l'impero delle circostanze non
prevedute da M., si trasformò in un grande sistema
abbracciante ogni aspetto della vita individuale e sociale ed
assunse quel carattere di universalità la cui conseguenza
necessaria era l'aspirazione al dominio spirituale e materiale del
mondo. Senza l'ègira, molti secoli di storia dell'Europa
meridionale avrebbero assunto un aspetto assai diverso e molti
attuali problemi di politica orientale e coloniale, o non si
sarebbero presentati o avrebbero altra forma.
Il periodo medinese. - L'opera di conciliazione fra i due gruppi
arabi rivali della città e della sua vastissima oasi, di
attrazione dell'elemento arabo : medinese all'islamismo, di
assicurare amicizia fra i musulmani emigrati dalla Mecca e i loro
ospiti, fu svolta abilmente ed ebbe ottimi risultati sin dal primo
anno; nel quale, del resto, e nel seguente M. tollerò
l'esistenza di piccoli gruppi refrattarî pagani, a patto che
non si mostrassero ostili e contribuissero alle spese comuni di
quello stato embrionale, di tipo sino allora completamente ignoto in
Arabia poiché alla fratellanza e solidarietà di
tribù sostituiva la fratellanza e solidarietà
derivanti dalla comunione di fede religiosa e dava a tutti un capo
unico, che, pur lasciando sussistere in sottordine il vecchio
organismo tribale, si sovrapponeva ad esso come moderatore supremo,
come giudice, come capo militare, come legislatore e come inviato di
Dio. L'editto emanato da M. nella prima metà del suo secondo
anno medinese per determinare il regime del suo stato è di
straordinario interesse. Le difficoltà vennero soltanto dagli
ebrei, non perché a loro riuscisse moralmente intollerabile
la sovranità d'un principe arabo, ma per l'insanabile
conflitto religioso, da M. non preveduto.
Le idee di M., sopra esposte, circa i rapporti fra la religione da
lui predicata e il cristianesimo e il giudaismo, facevano si ch'egli
non pensasse menomamente ad una conversione degli ebrei, già
possessori della vera religione e dei suoi libri rivelati in lingua
ebraica a loro uso nazionale; ma lo portavano anche logicamente ad
aspettarsi che gli ebrei l'avrebbero accolto come un fratello di
fede, come l'inviato arabo di Dio al popolo arabo. Enorme fu la sua
delusione quando, con l'emigrazione a Medina venuto per la prima
volta a contatto d'una comunità ebraica, trovò che gli
ebrei, per le loro dottrine, non potevano riconoscere un inviato di
Dio in chi non apparteneva al popolo eletto, né ammettere
come vero l'insegnamento di chi commetteva errori gravissimi in
materia biblica, di chi credeva in Gesù Cristo quale profeta
miracolosamente nato da Maria Vergine per virtū dello Spirito Santo,
di chi presumeva l'equipollenza e l'origine divina di tutte le
religioni monoteistiche. Indarno M. tentò nei primi tempi
d'istruirsi meglio nelle credenze giudaiche e d'imitare in alcune
parti il rituale degli ebrei (digiuno del kippūr, orientamento del
viso in direzione di Gerusalemme nella preghiera rituale, ecc.),
indarno raccomandò ai suoi, mediante rivelazioni coraniche,
d'evitare discussioni con la gente della Scrittura (sacra) e in ogni
caso d'affermare che i musulmani credono in ciò che ad essa
fu rivelato; il dissidio morale non poté essere composto e,
come vedremo, diede presto luogo a gravi provvedimenti di M. e
all'emancipazione dell'islamismo dalle due grandi religioni delle
quali pur era un rampollo.
Nel campo politico-militare l'opera di M. fu prestissimo diretta a
danneggiare i Coreisciti, non con attacchi diretti che allora
sarebbero stati impossibili, ma con tentativi di sorprendere e
depredare le loro grandi carovane commerciali, che per
necessità di cose dovevano transitare entro un raggio di poco
più d'un centinaio di chilometri da Medina nel loro cammino
da e per la Palestina e Siria. Tentativi fatti con piccoli manipoli
di armati e dapprima falliti, ma che tuttavia valsero ad allargare
sempre più, mediante accordi locali, l'estensione
territoriale dello stato di M. Poco dopo la metà del secondo
anno dell'ègira, nel marzo 624, finalmente una grande
carovana coreiscita fu sorpresa ai pozzi di Badr, non lungi dalla
costa del Mar Rosso, a poco più di 150 km. in linea retta a
sud-ovest di Medina; la numerosa scorta armata fu sconfitta da circa
trecento musulmani personalmente guidati da M. e un ingente bottino
cadde in mano dei vincitori. La vittoria fu celebrata dal Corano
come miracolosa e dovuta all'intervento di schiere d'angeli in aiuto
dei musulmani pericolanti. Piccolo scontro, con un'ottantina di
morti fra ambo le parti (cifra assai grave per le battaglie fra
Arabi di quel tempo), ma ch'ebbe incalcolabilí conseguenze di
vario genere ed iniziò la serie di rivelazioni coraniche, non
più di semplice contenuto religioso e morale, ma costituenti
una saltuaria e frammentaria legislazione emanante direttamente da
Dio e riguardante materia che per un occidentale sarebbe del tutto
profana, come, nel caso appunto di Badr le norme per ripartire il
bottino di guerra.
Tralasciando le altre conseguenze, basti qui ricordare che la
vittoria, consolidando in modo clamoroso l'islamismo, permise a M.
di sbarazzarsi del gruppo della comunità ebraica che
risiedeva in città e confiscarne i beni, ma sopra tutto di
svincolarsi dai precedenti impegni verso gli ebrei e di trasformare
l'islamismo da religione nazionale araba in religione aspirante
all'universalità; trasformazione accaduta non per chiaro
disegno di M., ma per effetto delle circostanze. Diventata sicura la
sua posizione materiale e morale, egli poteva passare apertamente
alla rottura con l'elemento giudaico e, in modo dapprima soltanto
implicito, con il cristianesimo. Il Vecchio e il Nuovo Testamento
continuano a essere ritenuti libri testualmente rivelati da Dio; ma
le discordanze affermate dagli ebrei rispetto al Corano sono
dichiatate frutto di errori, di alterazioni, di occultamenti
colpevoli, di false interpretazioni dei rabbini. Il Corano è
rivelazione diretta, non è dubbia, non può essere in
errore; essa conferma la religione d'Abramo, vissuto prima della
legislazione mosaica e della cristiana, così come quella
d'Abramo fu confermata dagli altri profeti successivi, ossia dai
personaggi illustri del Vecchio e del Nuovo Testamento, incluso
Gesù. Ma il giudaismo e il cristianesimo dell'età di
M. sono forme corrotte che bisogna eliminare; la rivelazione fatta a
M. viene ad abrogarle. La venuta di M. è già
preannunziata nei libri biblici, in passi la cui portata viene
disconosciuta, per frode o per ignoranza, dagli ebrei e cristiani
contemporanei del profeta arabo; il quale è il "sigillo dei
profeti", ossia colui che chiuderà per sempre la serie degli
inviati di Dio sulla terra e delle rivelazioni celesti. In altre
parole, l'islamismo nelle sue credenze e nei suoi riti è la
forma religiosa definitiva per tutta l'umanità. Alla Mecca,
islām, ossia incondizionata sottomissione (ai voleri divini), era
termine applicabile ad ognuna delle grandi religioni monoteistiche
rivelate, e l'epiteto di muslim, colui che si rimette ciecamente a
Dio, veniva dato nel Corano a tutti i profeti anteriori, da Adamo a
Gesù, e a tutti i nuovi credenti, a tutti i professanti
sinceramente il monoteismo rivelato mediante testi sacri. Dopo la
rottura predetta con il giudaismo e con il cristianesimo
(quest'ultimo ora oggetto di rovente biasimo per il suo considerare
Gesù come figlio di Dio), islām passa a designare soltanto la
religione predicata da M., in opposizione a quella dei degene. i
ebrei e cristiani, e muslim si restringe a designare i seguaci di
M., i quali del resto, a causa dell'assoluta identificazione della
missione religiosa con la sovranità temporale illimitata in
M., non potevano non essere anche suoi sudditi. Insomma a Medina
nasce l'islamismo come religione autonoma e diretta a tutta
l'umanità.
Contemporaneamente a questa emancipazione dal giudaismo e dal
cristianesimo, M., in base a interpretazione arbitraria di testi
biblici, fece proclamare dal Corano che il più antico
santuario del mondo dedicato al vero Dio era stato la Ka‛bah della
Mecca, edificata da Abramo, al quale Dio stesso aveva insegnato i
riti del pellegrinaggio annuo. Conseguenza di ciò era il
dovere dei musulmani di purificare il santuario e i suoi riti
dall'abominazione del paganesimo sottentrato al primitivo culto
ortodosso; ma è chiaro che per restituire alla purezza
monoteistica i riti della Ka‛bah occorreva liberare la Mecca dal
paganesimo. La conquista della città natale appariva ora
dunque un dovere imposto da Dio e non uno sfogo di mire ambiziose e
di vendetta personale per il passato.
Tutti gli avvenimenti del decennio medinese di M. sono di capitale
importanza per l'islamismo posteriore in tutti i suoi aspetti,
giacché la condotta di M. nei singoli eventi, anche se
dettata da circostanze puramente transitorie o da capriccio, fu
assunta dalle generazioni successive come fonte di norme universali
e invariabili nel campo religioso, politico, giuridico e civile;
solo la condotta talora casuale di M. a Medina e il principio
musulmano della sua imitazione consentono a noi d'intendere le
apparenti anomalie e contraddizioni che si riscontrano nel completo
sistema politico-religioso dell'islamismo.
Nel marzo del 625, terzo anno dell'ègira, un esercito
allestito dai Coreisciti avanzò dalla Mecca sino all'oasi
medinese ed inflisse un serio scacco alle truppe musulmane sul
pendio e alle falde del monte Uḥud, a circa un'ora a nord della
città; ma non osò gettarsi su di questa e
ritornò sui suoi passi. Rivelazioni coraniche scesero allora
a spiegare l'avvenimento, a ridestare piena fede nell'avvenire, a
proclamare che i caduti nella guerra contro gl'infedeli, ossia per
la causa di Dio, non sono morti, ma vivi e felici in cielo. Quattro
o cinque mesi dopo, M. accerchiava uno dei due gruppi ebrei
dell'oasi medinese, ne otteneva la resa senza combattimento, lo
espelleva confiscandone le armi e gl'immobili e giustificando presso
i suoi, con una rivelazione celeste, l'assegnazione di quei beni
alla cassa dello stato. Il diritto pubblico posteriore ne dedusse il
carattere demaniale delle terre conquistate agl'infedeli senza
combattimento né patto. Con crescente audacia M. spinge
quindi le sue spedizioni militari o razzie a sempre maggior distanza
dalla capitale in direzione di est, di nord e di sud, ampliando
ognora più il suo territorio ed arrivando sino in
prossimità di quello della Mecca. Alla lor volta i Coreisciti
tentano un ultimo sforzo: allestiscono un esercito di circa 10.000
uomini, senza precedenti in quelle parti d'Arabia, e nel
marzo-aprile 627, quinto anno dell'eg., assediano Medina; ma un
modesto fossato, scavato in fretta per consiglio d'uno schiavo
straniero, bastò a trattenere gli assedianti, i quali, dopo
una quarantina di giorni, si ritrassero dall'impresa. E il giorno
successivo alla loro partenza M., inebbriato dal fallimento
dell'impresa coreiscita, si butta all'assedio dell'ultimo gruppo
ebraico che ancora rimaneva nell'oasi; ne ottiene la resa a
discezione dopo venticinque giorni; fa decapitare tutti gli uomini
(da 600 a 900), fa vendere come schiavi le donne e i fanciulli,
divide la preda e così offre al futuro diritto musulmano di
guerra altre norme, fra le quali la legittimità che il
sovrano faccia uccidere, se lo stima opportuno, i prigionieri di
guerra non musulmani, maschi e in condizione di portare le armi. Il
terrore invase le grandi colonie ebraiche situate in vaste e pingui
oasi molto al nord di Medina.
Alla Mecca comincia grave scoraggiamento, e M. ne approfitta per
tentare non il pellegrinaggio, ma una visita pia, la ‛umrah, non
legata a un determinato periodo dell'anno e assai meno solenne.
L'esistenza di quattro mesi sacri, nei quali l'antico costume arabo
vietava i combattimenti, sembrò dargli la possibilità
d'attuare l'audace disegno sul finire del sesto anno dell'eg., nel
febbraio-marzo 628; ma arrivato con circa millecinquecento dei suoi
ai confini del vasto territorio sacro che circondava la Mecca e
dentro il quale non era lecito portare armi, si lasciò
indurre dai parlamentari coreisciti a rinunziare al suo proposito e
a stringere invece una tregua decennale, nella quale si ammetteva
che nell'anno seguente e nei successivi del decennio M. ed i suoi
avrebbero potuto liberamente fare il pellegrinaggio e rimanere tre
giorni alla Mecca. Alcuni passi coranici ci rivelano l'indignazione
di molti compagni di M. per questo patto (detto di
al-Ḥudáibiyah dal nome della località), da essi
giudicato umiliante, ma che in realtà fu atto di buona
politica e fornì poi varie norme importanti al diritto
pubblico musulmano. D'altra parte M. fece cessare rapidamente il
malumore dei suoi, non soltanto con rivelazioni coraniche, ma anche
procedendo senza ritardo alla conquista delle oasi ebraiche di
Khaibar, Fadak, Taimā' e wādī al-Qurà (attuale w. al-Ḥamḍ),
che vennero ad arricchire i singoli e l'erario. Per ragioni
economiche M. lasciò il possesso delle terre ai vinti, diede
loro libertà di culto, ma impose il pagamento in perpetuo
della metà del raccolto annuo alla cassa dello stato
musulmano. La condotta di M. verso queste oasi ebraiche divenne base
delle norme di diritto islamico riguardo alla proprietà
fondraria nei paesi conquistati fuori d'Arabia e alla condizione
giuridica dei sudditi ebrei e cristiani dello stato musulmano.
Nell'anno successivo, settimo dell'eg., 629 d. C., Maometto
compì con circa 2000 musulmani la semplice ‛umrah alla
Ka‛bah, e quei tre giorni di dimora alla Mecca segnarono un
ulteriore sgretolamento dell'opposizione meccana e del suo
paganesimo; poco dopo passarono all'islamismo ‛Amr ibn al-‛Āṣ, il
futuro conquistatore dell'Egitto, e Khālid ibn al-Walīd, il futuro
conquistatore della Siria e della Palestina. Nello stesso 629 (ma
entrato ormai l'8 eg.) M. inviò una spedizione militare in
pieno territorio bizantino, a oriente della parte meridionale del
Mar Morto; spedizione fallita di fronte alle truppe guidate da un
comandante greco, ma prova di quanto ormai si spingessero lontano le
ambizioni conquistatrici di M. Il quale frattanto mal pazientava gli
obblighi del trattato di al-Ḥudāibiyah, che gli precludeva per un
decennio il dominio della sua città natale. Un pretesto, che
sollevò gli scrupoli d'alcuni fra i suoi compagni, fu da lui
trovato per dichiarare rotta la tregua a causa dei Coreisciti e
marciare con rapida decisione contro la Mecca; la quale non oppose
quasi resistenza, cosicché l'antico perseguitato vi
entrò trionfalmente nel ramaḍān 8 eg., primi di gennaio 630.
Purificata la città da tutte le apparenze esteriori di
paganesimo, concessa un'amnistia quasi generale, vietato ogni
bottino, soppresso il reggimento oligarchico secolare, M.
tornò alla capitale, Medina, ove affluivano in gran copia
ambascerie inviate da tribù lontane a fare atto di omaggio e
sudditanza al trionfatore. Né in quell'anno, né nel
successivo 9 eg. (marzo 631), M. prese parte al pellegrinaggio; non
voleva contatti con infedeli in quella cerimonia. Ma appunto nel
marzo 631 egli fece proclamare che quella sarebbe stata l'ultima
volta che politeisti avrebbero potuto accedere al territorio meccano
ed al pellegrinaggio; essi sono sozzura, dichiara ora il Corano, e
patti nuovi non si potranno più stringere con loro. È
dunque la guerra aperta contro i pagani perché tali, e non
soltanto, come in passato, perché aggressori e fedifraghi.
È la teoria della guerra santa spinta alle sue ultime
conseguenze.
Sicuro di non aver più contatti impuri, nell'ultimo mese del
successivo anno 10 eg., marzo 632, M. alfine compì i riti
complicati del pellegrinaggio islamizzato. Sull'altura di ‛Arafah,
incorporata ai luoghi del pellegrinaggio. benché lontana una
cinquantina di chilometri verso oriente, egli tenne all'immensa
folla convenuta il celebre "discorso del commiato", che celebrava il
definitivo compimento della sua missione; concetto confermato anche
da contemporanei versetti del Corano. Subito dopo la grande
cerimonia tornò a Medina, ove s'accingeva ad allestire una
spedizione militare contro la parte sud-est della Palestina soggetta
all'impero bizantino, quando cadde ammalato; dopo varie alternative
spirò l'8 giugno 632, correndo l'undecimo anno arabo lunare
dell'ègira. Non lasciò figli maschi; delle quattro
figlie superstiti ebbe nei secoli successivi grande celebrità
Fātimah (v.), moglie di ‛Alī e morta poco dopo il padre. Delle mogli
superstiti merita particolare menzione la più giovane,
‛Ā'ishah (v.), figlia di Abū Bakr, la quale morì nel 58 eg.,
678 d. C., ed ebbe una parte attivissima e virile nelle lotte civili
scoppiate alla fine del califfato di ‛Othmān.
La figura di Maometto. - La naturale venerazione per il loro profeta
e un passo coranico ove è detto che i credenti hanno in lui
il migliore dei modelli hanno portato i musulmani a ritenere
l'imitazione di Maometto, anche nei più semplici e volgari
atti della vita, come il sommo ideale della vita religiosa, morale e
civile; solo pochissime cose, come la poligamia oltrepassante il
numero di quattro mogli contemporaneamente, sono considerate quale
sua prerogativa. Da ciò l'enorme importanza dei ḥadīth (v.),
o tradizioni canoniche intorno ai detti e fatti di M. Alla naturale
venerazione si aggiunse l'aureola miracolosa, benché il
Corano, ossia la parola di Dio, avesse proclamato che M. era un uomo
come gli altri e che il solo suo miracolo consisteva nel fatto di
ricevere da Dio messaggi o rivelazioni testuali. Sulla base di
elementi folkloristici, di leggende talmudiche e rabbiniche di
racconti degli apocrifi cristiani circolanti in Oriente,
d'arbitrarie interpretazioni di passi coranici, e poi anche di
concetti derivanti dal parsismo e da dottrine gnostiche e
neoplatoniche, a partire già dalla metà del primo
secolo dell'ègira le successive generazioni musulmane
andarono elaborando la leggenda miracolosa di Maometto, in parte
anche per fare di lui un contrapposto alla figura di Gesù
presso i cristiani. Scrittori del sec. XIII fanno salire a
più di tremila i suoi miracoli e li classificano in varie
categorie secondo l'oggetto su cui si esercitarono. Notevoli per la
loro popolarità e per il posto loro dato in catechismi
moderni sono i varî portenti che preannunziarono la sua
nascita, i miracoli della sua infanzia (calcati soprattutto sugli
apocrifi cristiani), il viaggio notturno a Gerusalemme sulla
cavalcatura portentosa al-Burāq e la successiva salita in cielo nel
periodo meccano, e la scissione della luna operata da Dio in seguito
a preghiera di M. per convertire alcuni infedeli. Il viaggio
notturno a Gerusalemme sull'al-Burāq serve ora di base ai musulmani
per le loro pretese sul luogo ove gli ebrei si recano la sera di
venerdì e il sabato per piangere sugli avanzi del tempio di
Salomone; pretese che hanno dato luogo a incidenti gravissimi, dei
quali ebbe a occuparsi anche la Società delle nazioni negli
anni 1928-30. I ṣūfi o mistici attribuiscono la paternità
delle loro dottrine esoteriche agl'insegnamenti segreti che M.
avrebbe impartito a pochissimi compagni di scelta; molti affermano
la preesistenza di M. in cielo ad Adamo e taluno trasforma M.
addirittura in una specie di Logos.
Nel Medioevo Bizantini e Latini si sono sbizzarriti a loro volta
intorno a M., considerato come turpe eretico o scismatico, e lo
hanno fatto segno a molte leggende in parte comiche e in parte
ingiuriose, che tendono a mostrarlo un impostore cosciente della sua
impostura e un uomo rotto a ogni licenza. Così il supposto
incontro del giovane M. con il monaco Bahirā o Sergio in Siria,
narrato dai musulmani per fare che quest'ultimo preannunzi la futura
missione divina di M., serve ai cristiani per fare di M. il semplice
portavoce o il complice d'un eretico; i fenomeni nervosi che, almeno
nei primi tempi, accompagnavano il ricevimento delle rivelazioni
secondo il racconto dei musulmani, sono adoperati dai Bizantini per
fare di M. un epilettico.
La critica moderna non può mettere in dubbio l'assoluta
sincerità iniziale di M. e il suo primitivo disinteresse.
Qualche dubbio può sorgere per alcuni atti del periodo
medinese, nel quale rivelazioni coraniche scendono a giustificare
azioni scorrette, a secondare sue passioni, a far cessare le
querimonie di sue mogli gelose; ma bisogna tener presenti le
condizioni spirituali e intellettuali sue e del suo ambiente e le
illusioni di cui M. stesso poteva esser vittima a questo riguardo;
al qual proposito giova ricordare che tal genere di rivelazioni
sembra essere stato trovato sempre cosa naturale dai suoi compagni
di profonda fede religiosa. Fu uomo mutevole: per lo più
disposto alla serenità e alla mitezza, ma in poche
circostanze crudele e vendicativo; impulsivo in certi casi, freddo
calcolatore e politico in altri; monogamo e di correttissima
condotta fin che visse la prima moglie Khadīgiah, manifestò
poi a Medina una fortissima sensualità, contenuta del resto
nelle larghissime forme legali concesse dai costumi arabi e
dall'islamismo. Nella fase definitiva della sua vita, la medinese,
sotto l'influenza dell'avvenuta commistione completa del sacro e del
profano, della vita religiosa e dell'attività politica e
militare, fu di necessità portato a un abbassamento
dell'ideale morale, a una rinunzia a tendenze ascetiche, a
transazioni e accomodamenti voluti dalle esigenze della vita
politica e pratica quotidiana. Non ebbe vedute molto lontane, non
piani a lunga scadenza; ma fu di straordinaria abilità nello
sfruttare le circostanze impreviste che sembravano venire a
sconvolgere i suoi disegni. Le straordinarie e rapide sue
metamorfosi nel decennio della sua vita medinese sono indice d'una
pieghevolezza e di un'adattabilità di spirito veramente
eccezionali. Senza alterigia, affabile con i compagni, pronto ad
accoglierne pareri e critiche, esercitò tuttavia su di loro
un fascino del quale non si conoscono altri esempî in Arabia.