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di Dorit Raines
Primogenito di Lodovico Alvise e di Maria di Pietro Basadonna,
nacque a Venezia il 23 giugno 1726.
I Manin divennero patrizi veneziani nel 1651 versando 100.000 ducati
all'Erario. I matrimoni con famiglie molto influenti portarono la
copertura sociale necessaria alle loro ambizioni politiche. L'ultimo
passo nella scalata al potere fu, nel 1700, il trasferimento da un
appartamento in palazzo Fontana a S. Felice al palazzo Dolfin a S.
Salvador, con committenze artistiche tra dipinti e statue eseguite
tra il 1704 e il 1748.
Con i fratelli Pietro (1732-92) e Giovanni (1736-74), il M.
ricevette una prima formazione culturale tipica del Settecento,
incentrata sulle letterature italiana e francese, sotto la direzione
della madre, pronipote del cardinale Pietro Basadonna e donna colta
(tradusse la Dama onesta di J. du Bosc, pubblicata a Padova nel
1742). Successivamente studiò nel collegio gesuitico dei
nobili S. Francesco Saverio, a Bologna, dove seguì il corso
di retorica e quello di filosofia; vi sostenne tesi sul diritto
naturale, poi pubblicate (Propositiones de iure naturali…, Bononiae
s.d.).
Il 15 ott. 1743 partì per Roma, accompagnando il fratello
Piero, destinato al collegio Clementino. In seguito, con la
supervisione di un sacerdote, A. Gibellini, il M. studiò
ancora privatamente storia, retorica, matematica, francese, ballo e
scherma. Il 18 apr. 1746 il M. e il fratello Pietro, che aveva
lasciato per motivi ignoti il collegio, partirono per Napoli.
Ospitati dal console di Venezia, il conte G.A. Piatti, furono
presentati al re Carlo di Borbone, la cui consorte Maria Amalia nel
1738 era stata nella loro villa di Passariano.
Dopo il ritorno a Venezia (maggio 1746), aspettando di entrare in
politica, il M. sposò nel settembre 1748 Elisabetta di
Giannantonio Grimani del ramo dei Servi, che gli portò una
dote eccezionale: l'appartenenza al gruppo delle famiglie ducali.
Nel 1751, raggiunti i 25 anni prescritti dalla legge, entrò
nel Maggior Consiglio e fu subito eletto capitano di Vicenza,
saltando l'usuale tirocinio nelle magistrature minori.
Si rivelò particolarmente adatto alla carica: si
applicò alla difficile questione dei dazi e combatté
tenacemente il contrabbando di bozzoli di seta, tabacco, sale e olio
nelle zone pedemontane dell'altopiano di Asiago. Abile mediatore, il
M. affrontò le discordie giurisdizionali tra le varie
Comunità, riuscendo a sedare "le insorte turbolenze",
mostrando inconsueto rigore nel riscuotere i debiti e,
parallelamente, prudenza verso le fasce più deboli.
Nel dicembre 1756 il Maggior Consiglio, riconoscendone il talento
per l'amministrazione e le finanze, gli assegnò l'incarico
più impegnativo di capitano di Verona. Quando nel settembre
1757 lo straripamento dell'Adige causò danni incalcolabili a
edifici e persone, il M. reagì tempestivamente, organizzando
le operazioni di soccorso, ottenendo un cospicuo aiuto finanziario
del governo centrale e suggerendo opportuni rimedi. Nel 1763 fu
eletto alla prestigiosa carica di podestà di Brescia e,
appena un mese dopo l'ingresso in città, nel novembre,
procuratore di S. Marco de ultra.
Pietro Gradenigo commentò sarcasticamente che il M. era stato
scelto "per il merito de' pagamenti fatti e dal padre, e da
maggiori, e da lui stesso, con spesa in Vicenza, et in Verona, e
può vantare in oltre essere il primo, che tra li gentiluomini
aggregati rimasessi" (Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr,
Codd. Gradenigo, 67: Notatorio per l'anno 1763, vol. X, c. 135v).
Le feste per l'ingresso nella Procuratia, celebrate già a
Brescia con musica, fuochi d'artificio, balli, rinfreschi, una
pubblica processione solenne e il Te Deum, furono solo un preludio
alla festosa stravaganza veneziana, degna della carica e delle
ambizioni di una "nuova" famiglia inserita negli alti ranghi del
patriziato veneziano. Il 30 apr. 1764 ebbe luogo la cerimonia
dell'ingresso in Procuratia nella chiesa di S. Salvador; con un
lungo corteo egli percorse le Mercerie verso piazza S. Marco,
giurando in basilica.
La sua carriera successiva fu un susseguirsi di impegni nelle
magistrature finanziarie, che accrebbero la sua fama di abile
economista e amministratore.
Nel 1764-68 fu tra i tre Revisori in Zecca; nel 1768-70 uno dei
Revisori e regolatori dei dazi; nel 1771-73 dei Provveditori in
Zecca; nel 1773-75 dei Revisori e regolatori delle entrate
pubbliche; nel 1774-76 degli Inquisitori sull'amministrazione dei
pubblici ruoli; nel 1776-78 ancora dei Revisori e regolatori dei
dazi; nel 1780-83 deputato alle cose dell'Arsenale e poi magistrato
dei Beni inculti designato al prosciugamento delle Valli Veronesi;
nel 1783-85 ancora dei Revisori e regolatori delle entrate
pubbliche; nel 1785-89 dei Deputati alla regolazione delle tariffe
mercantili di Venezia; nel 1788 uno dei tre Inquisitori
sull'esazione dei pubblici crediti.
La salita al trono ducale di Paolo Renier, suo parente stretto
(1779), aveva contribuito all'affermarsi della sua posizione. La
creazione di un imponente reticolo parentale e clientelare, la fama
di mediatore in affari e negozi, la capacità di gestione
patrimoniale oculata e prudente e la ricchezza fecero del M. il
candidato ideale al dogato. Si narra che il doge Renier poco prima
di morire, nel 1789, dicesse al suo medico: "L'erario xe in
sconquasso ocore un ricon e i farà Lodovico Manin" (Da Mosto,
p. 536). Ma più che per la ricchezza egli fu apprezzato come
sostenitore di una linea che vedeva l'economia prevalere su ogni
altra considerazione, e come perfetto anello di congiunzione tra la
fazione "illuministica" più moderata e quella conservatrice.
Nei giorni delle elezioni il comportamento del M. sembrò
smentire che volesse diventare il primus inter pares marciano. Ma
l'altro candidato forte, Andrea Memmo, patrizio influente ma di un
ramo meno abbiente e con dichiarate idee di riforma, perse
progressivamente il sostegno della sua fazione. Il M. fu così
il candidato unico della parte maggioritaria, sostenuto dai
Pisani-Mocenigo-Corner. L'esito del voto fu scontato: riuscì
ballottato al primo scrutinio, il 9 maggio 1789, con 28 voti. Pietro
Gradenigo di Rio Marin, altro candidato, non si mostrò
rassegnato a quest'esito e consegnò alla storia una frase
memorabile: "I ga fato doxe un furlan, la Republica xe morta!"
(ibid.).
Tuttavia negli otto anni di dogado, pur se demoralizzato per la
morte della moglie nel 1792, il M. tentò di affrontare i
problemi dell'economia, aggravati da ondate di carestia che,
specialmente tra il 1793 e il 1794, portarono a tumulti nelle
città suddite. D'altro lato, come grande possidente nel
Friuli fece il possibile per mantenere lo status quo signorile di
fronte a una proposta di riforma già formulata nel 1782 e
definitivamente seppellita nel 1795. Nel 1797, davanti all'avanzata
francese iniziata l'anno precedente e alle richieste di Napoleone
Bonaparte, il M., convinto che patria e governo patrizio fossero
concetti distinti, il 1° maggio presentò una "parte" al
Maggior Consiglio, chiedendo di abolire il diritto esclusivo del
patriziato al potere, per "salvar questa città". Il 4 maggio
ammonì i colleghi che "el rifiuto non farìa che portar
l'eccidio de tutta la città, ed esponer loro stessi a un
pericolo sicuro, mentre nel caso d'un attaco violento, i
sarìa i primi sacrificadi" (Romanin, p. 158). Questo ha
consegnato alla storia l'immagine di un doge debole e tremante,
dallo sguardo angosciato, come appare in un ritratto di B. Castelli,
e gli ha fatto guadagnare il nome di "sior spavento", dovuto forse
al suo stato di salute, da sempre precario. Tuttavia, nella storia
della Repubblica veneziana mai un individuo aveva assunto un tale
potere come rappresentante e interprete del corpo sovrano, dato che
negli ultimi giorni della Serenissima gli organi competenti (Senato
e Signoria) non furono più chiamati a esprimere il loro
parere, eccettuata la Consulta straordinaria, convocata dal doge
stesso. Dopo l'abdicazione del Maggior Consiglio il 12 maggio, il M.
rimase in palazzo ducale fino al 15, preoccupandosi della
continuità politica e istituzionale: convocò i membri
della Consulta per assicurare l'ordine nella città;
proseguì a mandare dispacci ai delegati di Bonaparte;
organizzò l'annuncio dell'abdicazione del Maggior Consiglio e
il passaggio del potere alla Municipalità provvisoria. Dopo
di allora, chiusosi per scrivere le sue memorie a Ca' Pesaro, poi a
palazzo Grimani dei Servi (essendo il suo in pieno restauro),
rifiutò risolutamente di prendere parte a qualsiasi nuova
forma di governo, anche di fronte a minacce di morte rivoltegli dai
nuovi padroni della città.
La data precisa dell'inizio della stesura degli appunti, intitolati
Memorie circa il dogado, non è nota, ma il M. cominciò
ad annotare gli eventi in maniera diretta dal 21 luglio 1797. Nelle
note iniziali prevale la sua indignazione per il comportamento dei
rivoluzionari, e in particolare degli ex colleghi veneziani; poi si
passa ad annotazioni su fatti amministrativi ed economici. Largo
spazio è dedicato a considerazioni di etichetta
politico-sociale, immagini del rapporto vincitori-sconfitti,
all'andirivieni dei generali francesi e austriaci e ai cambiamenti
di funzionari. Segue poi un racconto più analitico, steso nel
corso del 1799, nel quale il M. volle dare risalto al suo dogado,
alle proposte da lui fatte per risanare la situazione ormai
pericolosa per la mancanza di soggetti adatti al governo,
all'inutilità dei rimedi elaborati. Gli ultimi appunti sono
del 1° ag. 1802, due mesi prima della morte. Le memorie del M.,
trascritte da A. Sarfatti, furono pubblicate nel 1886 a Venezia
(Memorie del dogado di Lodovico Manin con prefazione e note).
Contrariamente alla promessa fatta al pronipote del M. di tutelare
il nome del "povero e sfortunato" antenato, Sarfatti si
accanì contro di lui, trattandolo da incerto e codardo,
meritevole di essere lasciato nell'oblio. Seguì un'aspra
polemica tra studiosi, culminata nel libro di E. Vecchiato, Un
principe debole (Padova 1888), che accusò il M. di essere
"privo di civili virtù", tentando di mostrare che "se questi
[il doge] non fosse stato Lodovico Manin, la caduta della Repubblica
di Venezia non sarebbe stato avvenimento inevitabile". Le più
recenti interpretazioni (Gottardi; Raines), invece, hanno rivalutato
la sua figura, cogliendone, al di là di un senso ineluttabile
e pessimista di sconfitta, la volontà e la ricerca di
preservare lo Stato e la città dalle possibili ritorsioni
francesi.
All'inizio del 1798, quando a Venezia- in seguito al trattato di
Campoformio - entrarono gli Austriaci, il M. accolse la
novità con sollievo e fu nella delegazione di dodici membri
che prestò giuramento al nuovo potere. Vide anche aumentare
il suo prestigio, soprattutto con l'arrivo del cognato, Francesco
Pesaro, divenuto consigliere intimo dell'imperatore Francesco II e
commissario straordinario per Venezia e la Terraferma. Anche negli
anni successivi il M. restò punto di riferimento,
probabilmente per la volontà di rimanere fuori da ogni
partecipazione nel potere straniero. Nel 1801 cominciò a
uscire più spesso per fare qualche passeggiata a Cannaregio e
andare alla chiesa dei Servi o all'antico Ridotto, dietro le
Procuratie. Malgrado una donazione di 20.000 ducati annui ai patrizi
poveri, una serie di incidenti gli fece capire quanto il popolo e
una parte dell'ex patriziato lo ritenevano responsabile del loro
stato: fu insultato in strada e in chiesa e derubato due volte.
Morì a Venezia il 24 ott. 1802. Fu seppellito nella cappella
di famiglia nella chiesa degli Scalzi.