Il "Preludio" di Mussolini

 

www.storiologia.it

La fortuna (o la sfortuna) dell'opera di Machiavelli  nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo (1789-1790) del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore nel 1779 di un "Elogio di Niccolò Machiavelli". Galanti faceva propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata nell'articolo "machiavelisme" dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel "Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in "Dei sepolcri".

Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia forte l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti.

Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco.

In Italia nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa nazionale.

Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate di F. De Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè).

A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come "fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi".

Nel 1925, anche per Benedetto Croce l'autore del Principe è lo scopritore della politica come attività autonoma dello spirito.
Ma siamo entrati nel "Ventennio", e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del suo mito fu fatta dallo stesso Mussolini che prima il pezzo lo scrisse in un articolo su "Gerarchia", poi nel 1928 con lo stesso pezzo curò proprio la prefazione (che chiamò Preludio) di una nuova edizione del Principe (adornandola opportunisticamente con l'appassionato saggio -citato sopra- del De Sanctis).

In queste pagine su Machiavelli, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare Mussolini. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera del Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo.

In queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del popolo al fascismo !!

Il curioso, raro e singolare libretto (che possediamo) lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche): sulla dubbia validità del potere esercitato dalla "sovranità popolare", e sulla utopica "democrazia popolare". Per Mussolini il Principe del suo tempo è lo Stato. E lo Stato è il Principe, cioè - nei tempi moderni - Lui e solo Lui.
(Siamo lontani da quando (1905) - prima come anarchico poi come socialista - esaltava il proletariato come futura classe dominante, e faceva l'apologia della "rivoluzione violenta" indicata dalla dottrina di Hengel che presentava nella sua teoria la "morte dello Stato")
La sovranità, al popolo - afferma - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua (es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio). Mentre quando gli interessi supremi sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.

Ci vediamo nel suo Preludio un opportunistico utilizzo di Mussolini del Principe; e come detto sopra, appoggiandosi pure all'appassionato saggio di De Sanctis.
Abbiamo detto utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività, nello Stato, il quale così diventa uno Stato "etico"; è evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello Stato, concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso (es. fare una "impopolare" guerra), dando origine a quel mito del "machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità dell'uomo.

Insomma Mussolini fece del Principe il suo vademecum. Sbagliando però clamorosamente. La sua storia fu poi infatti molto diversa. Lui stesso finì molto male e sbagliò anche sul popolo (che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità, fa quello che vuole). E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini : "quando non credono più, si possa far credere loro per forza".

Era questo sì l'espediente del suo Fascismo, ma un fascismo fin dalla sua nascita nato perdente. Perchè fatto di tante parole, riti, proclami, dottrine, vangeli (e ...le pagliacciate di Starace). Lui - in questo Preludio - citava due frasi di Machiavelli, ma non ne seppe coglierne l'essenza.
"Cum parole non si mantengono li Stati"
"Quel principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo, rovina".

E Mussolini nudo si ritrovò in quel famoso 25 luglio. (Una realtà amara.... "Ma - disse preoccupato - mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi (di assoluta provata fede) ?" - "Si eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi a sua dispossizione".

[...]

Il "Preludio" di Mussolini


"Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum parole non si mantengono li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un "Commento dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo". Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.
Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.
Non dirò nulla di nuovo.

La domanda si pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.
Se la politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire.

Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito "sotto la specie della eternità" ?
Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.
Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più negativi e mortificanti.
Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da una paura di pena che non abbandona mai".

Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".
E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine ».

Le citazioni potrebbero continuare, ma non é necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli.
E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli.
Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale.
La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.

Pochi sono coloro - eroi o santi - che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo.

C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.
I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.
Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei gruppi.

Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai.

Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e consenso" (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: "Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati". ""

Benito Mussolini

*


"FORZA E CONSENSO"

Mussolini, da Gerarchia, marzo 1923

" Forza e consenso "

    "Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere "scientificamente" una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo, dell'azione.

    Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo.

    Non é detto che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza piú della dottrina.
    Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale.
    Il comunismo e il fascismo sono al di fuori del liberalismo.

    Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo?
    Significa il Liberalismo suffragio universale e generi affini?
    Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale?
    Significa in nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di tutti?
    Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo?
    E' questo il liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato.

    Qui cade il discorso della "forza".
    I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a quadrare il circolo.

    Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza. Coll'accantonare il massimo di forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.

    Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali.

    Si sappia dunque, una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà".

    Benito Mussolini, da Gerarchia, marzo 1923