III

Note critiche su un tentativo di "Saggio popolare di Sociologia"*

*(Si tratta del libro di N. BUKHARIN: La teoria del materialismo storico - Manuale popolare di sociologia marxista, pubblicato a Mosca la prima volta nel 1921. Ne esiste una traduzione francese (1927) condotta sulla 4a edizione russa. Di questa traduzione (N. BUKHARIN, La théorie du matérialisme historique - Manuel populaire de sociologie marxiste, Traduction de la 4e édition suivie d'une note sur la «Position du problème du matérialisme historique», Bibliothèque marxiste, n. 3. Editions Sociales Internationales, 3 rue Valette, Paris, si è veroimilmente servito Gramsci per il suo lavoro [N. d. R.].)

Premessa
Questioni generali
Materialismo storico e sociologia (Q. XVIII)
Le parti costituitive della filosofia e della prassi (Q. XVIII)
Struttura e movimento storico (Q. XVIII)
Gli intellettuali (Q. XVIII)
Scienza e sistema (Q. XVIII)
La dialettica (Q. XVIII)
Sulla metafisica (Q. XVIII)
«Il concetto di scienza» (Q. XVIII)
La cosí detta «realtà del mondo esterno» (1a parte: Q. XVIII - 2a parte: Q. VII - 3a parte: Q. XVIII - 4a parte: Q. XVIII - 5a parte: Q. XVIII - 6a parte: Q. XVIII)
Giudizio sulle filosofie passate (Q. XVIII)
L'immanenza e la filosofia della prassi (Q. XVIII)
Quistioni di nomenclatura e di contenuto (Q. XVIII)
La scienza e gli strumenti scientifici (Q. XVIII)
Lo « strumento tenico )) (Q. XVIII)
Obbiezione all'empirismo (Q. IV)
Concetto di «ortodossia»
La «materia»(Q. XVIII)
Quantità e qualità (Q. XVIII)
La teologia (Q. XVIII)
Sull'arte (Q. XVIII)

 

PREMESSA

Un lavoro come il Saggio popolare, destinato essenzialmente a una comunità di lettori che non sono intellettuali di professione, avrebbe dovuto prendere le mosse dalI'analisi critica della filosofia del senso comune, che è la «filosofia dei non filosofi», cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l'individualità morale dell'uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: è il «folclore» della filosofia e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo tratto fondamentale e più caratteristico è di essere una concezione (anche nei singoli cervelli) disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle moltitudini, di cui esso è la filoofia. Quando nella storia si elabora un gruppo sociale omogeneo, si elabora anche, contro il senso comune, una filosofia omogenea, cioè coerente e sistematica.

Il saggio popolare sbaglia nel partire (implicitamente) dal presupposto che a questa elaborazione di una filosofia originale delle masse popolari si oppongano i grandi sistemi delle filosofie tradizionali e la religione dell'alto clero, cioè la concezione del mondo degli intellettuali e dell'alta cultura. In realtà questi sistemi sono ignoti alla moltitudine e non hanno efficacia diretta nel suo modo di pensare e di operare. Certo ciò non significa che essi siano del tutto senza efficacia storica: ma questa efficacia è d'altro genere. Questi sistemi influiscono sulle masse popolari come forza politica esterna, come elemento di forza coesiva delle classi dirigenti, come elemento quindi di subordinazione a una egemonia esteriore, che limita il pensiero originale delle masse popolari negativamente, senza influirvi positivamente, come fermento vitale di trasformazione intima di ciò che le masse pensano embrionalmente e caoticamente intorno al mondo e alla vita.

Gli elementi principali del senso comune sono forniti dalle religioni e quindi il rapporto tra senso comune e religione è molto più intimo che tra senso comune e sistemi filosofici degli intellettuali. Ma anche per la religione occorre distinguere criticamente. Ogni religione, anche la cattolica (anzi specialmente la cattolica, appunto per i suoi sforzi di rimanere unitaria «superficialmente», per non frantumarsi in chiese nazionali e in stratificazioni sociali) è in realtà una molteplicità di religioni distinte e spesso contraddittorie: c'è un cattolicismo dei contadini, un cattolicismo dei piccoli borghesi e operai di città, un cattolicismo delle donne e un cattolicismo degli intellettuali anch'esso variegato e sconnesso. Ma nel senso comune influiscono non solo le forme più rozze e meno elaborate di questi varii cattolicismi, attualmente esistenti: hanno influito e sono componenti dell'attuale senso comune le religioni precedenti, e le forme precedenti dell'attuale cattolicismo, i movimenti ereticali popolari, le superstizioni scientifiche legate alle religioni passate ecc. Nel senso comune predominano gli elementi «realistici», materialistici, cioè il prodotto immediato della sensazione grezza, ciò che d'altronde non è in contraddizione con l'elemento religioso, tutt'altro; ma questi elementi sono «superstiziosi», acritici. Ecco pertanto un pericolo rappresentato dal Saggio popolare: il quale spesso conferma questi elementi acritici, per cui il senso comune è ancora rimasto tolemaico, antropomorfico, antropocentrico, invece di criticarli scientificamente.

Ciò che si è detto sopra a proposito del Saggio popolare che critica le filosofie sistematiche invece di prender le mosse dalla critica del senso comune, deve essere inteso come appunto metodologico, e in certi limiti. Certo non vuol dire che sia da trascurare la critica alle filosofie sistematiche degli intellettuali. Quando, individualmente, un elemento di massa supera criticamente il senso comune, accetta, per questo fatto stesso, una filosofia nuova: ecco quindi la necessità, in una esposizione della filosofia della prassi, della polemica con le filosofie tradizionali. Anzi, per questo suo carattere tendenziale di filosofia di massa, la filosofia della prassi non può esere concepita che in forma polemica, di perpetua lotta. Tuttavia il punto di partenza deve sempre essere il senso comune che spontaneamente è la filosofia delle moltitudini che si tratta di rendere omogenee ideologicamente.

Nella letteratura filosofica francese esistono trattazioni del «senso comune» più che in altre letterature nazionali: ciò è dovuto al carattere più strettamente «popolare-nazionale» della cultura francese, cioè al fatto che gli intellettuali tendono, pilí che altrove, per determinate condizioni tradizionali, ad avvicinarsi al popolo per guidarlo ideologicamente e tenerlo collegato al gruppo dirigente. Si potrà trovare quindi nella letteratura francese molto materiale sul senso ccmune da utilizzare ed elaborare; l'atteggiamento della cultura filoofica francese verso il senso comune può offrire anzi un modello di costruzione ideologica egemonica. Anche la cultura inglese e americana possono offrire molti spunti, ma non in modo cosí completo e organico come quella francese. Il «senso comune» è stato considerato in vari modi: addirittura come base della filosofia; ò è stato criticato dal punto di vista di un'altra filosofia. In realtà, in tutti i casi, il risultato fu di superare un determinato senso comune per crearne un altro più aderente alla concezione del mondo del gruppo dirigente. Nelle «Nouvelles Littéraires» del 17 ottobre 1931, in un articolo di Henri Gouhier su Léon Brunschvicg, parlando della filoofia del B. si dice: «Il n'y a qu'un seul et même mouvement de spiritualisation, qu'il s'agisse de mathématiques, de physique, de biologie, de philosophie et de morale: c'est l'effort par lequel l'esprit se débarasse du sens commun et de sa méthaphysique spontanée qui pose un monde de choses sensibles réelles et l'homme au milieu de ce monde». (Opere di Lrox BRUNSCHVICG, Les étapes de la philosophie mathématique. L'expérience humaine et la causalité physique, Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale, La connaissance de sot.)

L'atteggiamento del Croce verso il «senso comune» non pare chiaro. Nel Croce, la proposizione che ogni uomo è un filosofo, grava troppo sul giudizio intorno al senso comune. Pare che il Croce spesso si compiaccia che determinate proposizioni filosofiche siano condivise dal senso comune, ma che cosa può ciò significare in concreto? Il senso comune è un aggregato caotico di concezioni disparate e in esso si può trovare tutto ciò che si vuole. D'altronde questo atteggiamento del Croce verso il senso comune non ha portato ad una concezione della cultura feconda dal punto di vista nazionale-popolare, cioè ad una concezione più concretamente storicistica della filosofia, ciò che del resto può avvenire solo nella filosofia della prassi.

Per il Gentile è da vedere il suo articolo «La concezione umanistica del mondo» (nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1931). Scrive il Gentile: «La filosofia si potrebbe definire come un grande sforzo compiuto dal pensiero riflesso per conquistare la certezza critica delle verità del senso comune e della coscienza ingenua, di quelle verità che ogni uomo si può dire che senta naturalmente e che costituiscono la struttura solida della mentalità di cui egli si serve per vivere». Pare questo un altro esempio della rozzezza incondita del pensiero gentiliano: l'affermazione pare derivata «ingenuamente» dalle affermazioni del Croce sul modo di pensare del popolo come riprova della verità di determinate proposizioni filosofiche. Più oltre il Gentile scrive: «L'uomo sano crede in Dio e nella libertà del suo spirito». Cosí già in queste due proposizioni del Gentile vediamo: 1) una «natura umana» extrastorica che non si sa cosa sia esattamente; 2) la natura umana dell'uomo sano; 3) il senso comune dell'uomo sano e perciò anche un senso comune dell'uomo non-sano. E cosa vorrà dire uomo sano? Fisicamente sano, non pazzo? Oppure che pensa sanamente, benpensante, filisteo ecc.? E cosa vorrà dire «verità del senso comune»? La filosofia del Gentile, per esempio, è tutta contraria al senso comune, sia che si intenda per esso la filosofia ingenua del popolo, che abborre da ogni forma di idealismo soggettivistico, sia che si intenda come buon senso, come atteggiamento di sprezzo per le astruserie, le macchinosità, le oscurità di certe esposizioni scientifiche e filosofiche. Questo civettare del Gentile col senso comune è una cosa molto amena. Ciò che si è detto finora non significa che nel senso comune non ci siano delle verità. Significa che il senso comune è un concetto equivoco, contraddittorio, multiforme, e che riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso. Si potrà dire con esattezza che una certa verità è diventata di senso comune per indicare che essa si è diffusa oltre la cerchia dei gruppi intellettuali, ma non si fa altro in tal caso che una constatazione di carattere storico e un'affermazione di razionalità storica; in questo senso, e purché sia impiegato con sobrietà, l'argomento ha un suo valore, appunto perché il senso comune è grettamente misoneista e conservatore ed essere riusciti a farci penetrare una verità nuova è prova che tale verità ha una bella forza di espansività e di evidenza.

Ricordare l'epigramma del Giusti: «Il buon senso, che un dl fu caposcuola - or nelle nostre scuole è morto affatto. - La scienza, sua figliola, - l'uccise per veder com'era fatto». Può servire a indicare come si impieghi il termine di buon senso e di senso comune in modo equivoco: come « filosofia», come determinato modo di penare, con un certo contenuto di credenze e di opinioni, e come atteggiamento benevolmente indulgente, nel suo disprezzo, per l'astruso il macchinoso. Era perciò necessario che la scienza uccidesse un determinato buon senso tradizionale, per creare un «nuovo» buon senso.

Un accenno al senso comune e alla saldezza delle sue credenze si trova spesso in Marx. Ma si tratta di riferimento non alla validità del contenuto di tali credenze ma appunto alla loro formale saldezza quindi alla loro imperatività quando producono norme di condotta. Nei riferimenti è anzi implicita l'affermazione della necessità di nuove credenze popolari, cioè di un nuovo senso comune, e quindi di una nuova cultura e di una nuova filosofia che si radichino nella coscienza popolare con la stessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali.

Nota I. Occorre aggiungere a proposito delle proposizioni del Gentile sul senso comune, che il linguaggio dello scrittore è volutamente equivoco per un poco pregevole opportunismo ideologico. Quando il Gentile scrive: «L'uomo sano crede in Dio e nella libertà del suo spirito» come esempio di una di quelle verità del senso comune di cui il pensiero riflesso elabora la certezza critica, vuol far credere che la sua filosofia è la conquista della certezza critica delle verità del cattolicesimo, ma i cattolici non abboccano e sostengono che l'idealismo gentiliano è pretto paganesimo, ecc. ecc. Tuttavia il Gentile insiste e mantiene un equivoco che non è senza conseguenze per creare un ambiente di cultura demi-monde, in cui tutti i gatti son bigi, la religione si abbraccia con l'ateismo, l'immanenza civetta con la trascendenza e Antonio Bruers se la gode un mondo perché quanto più la matassa s'imbroglia e il pensiero si oscura, e tanto più riconosce di aver avuto ragione nel suo «sincretismo» maccheronico. Se le parole del Gentile significassero quel che dicono alla lettera, l'idealismo attuale sarebbe divenuto «l'ancello della teologia».

Nota II. Nell'insegnamento della filosofia rivolto non ad informare storicamente il discente sullo svolgimento della filosofia passata, ma a formarlo culturalmente, ad aiutarlo a elaborare criticamente il proprio pensiero per partecipare a una comunità ideologica e culturale, è necessario prendere le mosse da ciò che il discente già conosce, dalla sua esperienza filosofica (dopo avergli dimostrato appunto che egli ha una tale esperienza, che è «filosofo» senza saperlo). E poiché si presuppone una certa media intellettuale e culturale di discenti, che verosimilmente non hanno avuto ancora che informazioni saltuarie e frammentarie, e mancano di ogni preparazione metodologica e critica, non si può non prendere le mosse dal «senso comune», in primo luogo, secondariamente dalla religione, e solo in un terzo tempo dai sistemi filosofici elaborati dai gruppi intellettuali tradizionali.

QUESTIONI GENERALI

Materialismo storico e sociologia.

Una delle osservazioni preliminari è questa: che il titolo non corrisponde al contenuto del libro. «Teoria della filosofia della prassi» dovrebbe significare sistemazione logica e coerente dei concetti filosofici che sono sparsamente noti sotto il nome di materialismo storico (e che sono spesso spurii, di derivazione estranea e come tali dovrebbero essere criticati ed espunti). Nei primi capitoli dovrebbero essere trattate le quistioni: che cosa è la filosofia? in che senso una concezione del mondo può chiamarsi filosofia? come è stata finora concepita la filosofia? la filosofia della prassi innova questa concezione? cosa significa una filosofia «speculativa» ? la filosofia della prassi potrà mai avere una forma speculativa? quali rapporti esistono tra le ideologie, le concezioni del mondo, le filosofie? quali sono o debbono essere i rapporti tra teoria e pratica? questi rapporti come sono concepiti dalle filosofie tradizionali? ecc. ecc. La risposta a queste ed altre domande costituisce la «teoria» della filosofia della prassi.

Nel Saggio popolare non è neanche giustificata coerentemente la premessa implicita nell'esposizione ed esplicitamente accennata in qualche posto, casualmente, che la vera filosofia è il materialismo filosofico e che la filosofia della prassi è una pura «sociologia». Cosa significa realmente questa affermazione? Se essa fosse vera, la teoria della filosofia della prassi sarebbe il materialismo filosofico. Ma in tal caso cosa significa che la filosofia della prassi è una sociologia? E cosa sarebbe questa sociologia? Una scienza della politica e della storiografia? Oppure una raccolta sistematica e classificata secondo un certo ordine di osservazioni puramente empiriche di arte politica e di canoni esterni di ricerca storica? Le risposte a queste domande non si hanno nel libro, eppure esse solo sarebbero una teoria. Cosí non è giustificato il nesso tra il titolo generale Teoria ecc. e il sottotitolo Saggio popolare. Il sottotitolo sarebbe il titolo più esatto se al termine di «sociologia» si desse un significato molto circoscritto. Infatti si presenta la questione di che cosa è la «sociologia». Non è essa un tentativo di una cosiddetta scienza esatta (cioè positivista) dei fatti sociali, cioè della politica e della storia? cioè un embrione di filosofia? La sociologia non ha cercato di fare qualcosa di simile alla filosofia della prassi? Bisogna però intendersi: la filoofia della prassi è nata sotto forma di aforismi e di criteri pratici per un puro caso, perché il suo fondatore ha dedicato le sue forze intellettuali ad altri problemi, specialmente economici . (in forma sistematica) ma in questi criteri pratici e in questi aforismi è implicita tutta una concezione del mondo, una filosofia.

La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sé, è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare «sperimentalmente» le leggi di evoluzione della società umana in modo da «prevedere» l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio della quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. In ogni caso ogni sociologia presuppone una filosofia, una concezione del mondo, di cui è un frammento subordinato.

Né bisogna confondere con la teoria generale, cioè con la filosofia, la particolare «logica » interna delle diverse sociologie, logica per cui esse acquistano una meccanica coerenza. Ciò non vuol dire naturalmente che la ricerca delle «leggi» di uniformità non sia cosa utile e interessante e che un trattato di osservazioni immediate di arte politica non abbia la sua ragion d'essere; ma occorre dire pane al pane e presentare i trattati di tal genere per quello che sono.

Tutti questi sono problemi «teorici», non quelli che l'autore del Saggio pone come tali. Le questioni che egli pone sono questioni di ordine immediato, politico, ideologico, intesa l'ideologia come fase intermedia tra la filosofia e la pratica quotidiana, sono riflessioni sui fatti singoli storico-politici, slegati e casuali. Una questione teorica si presenta all'autore fin dall'inizio quando accenna a una tendenza che nega la possibilità di costruire una sociologia dalla filosofia della prassi e sostiene che questa può esprimersi solo in lavori storici concreti. L'obbiezione, che è importantissima, non è risolta dall'autore che a parole. Certo la filosofia della prassi si realizza nello studio concreto della storia passata e nell'attività attuale di creazione di nuova storia. Ma si può fare la teoria della storia e della politica, poiché se i fatti sono sempre individuati e mutevoli nel flusso del movimento storico, i concetti possono essere teorizzati; altrimenti non si potrebbe neanche sapere cosa è il movimento o la dialettica e si cadrebbe in una nuova forma di nominalismo. (E il non aver posto con esattezza la questione di cosa sia la «teoria» che ha impedito di porre la questione di che cosa è la religione e di dare un giudizio storico realistico delle filosofie passate che sono presentate tutte come delirio e follia.)

La riduzione della filosofia della prassi a una sociologia ha rappresentato la cristallizzazione della tendenza deteriore già criticata da Engels (nelle lettere a due studenti pubblicate nel «Sozial Akademiker») e consistente nel ridurre una concezione del mondo a un formulario meccanico che dà l'impressione di avere tutta la storia in tasca. Essa è stata il maggiore incentivo alle facili improvvisazioni giornalistiche dei «genialoidi». L'esperienza su cui si basa la filoofia della prassi non può essere schematizzata; essa è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità il cui studio può dar luogo alla nascita della «filologia» come metodo dell'erudizione nell'accertamento dei fatti particolari e alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia. Questo forse volevano dire quegli scrittori che, come accenna molto affrettatamente il Saggio nel primo capitolo, negano si possa costruire una sociologia della filosofia della prassi e affermano che la filosofia della prassi vive solo nei saggi storici particolari (l'affermazione, cosí nuda e cruda, è certamente erronea e sarebbe una nuova curiosa forma di nominalismo e di scetticismo filosofico).

Negare che si possa costruire una sociologia, intesa come scienza della società, cioè come scienza della storia e della politica, che non sia la stessa filosofia della prassi, non significa che non si possa cotruire una compilazione empirica di osservazioni pratiche che allarghino la sfera della filologia come è intesa tradizionalmente. Se la filologia è l'espressione metodologica dell'importanza che i fatti particolari siano accertati e precisati nella loro inconfondibile «individualità», non si può escludere l'utilità pratica di identificare certe «leggi di tendenza» più generali che corrispondono nella politica alle leggi statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali. Ma non è stato messo in rilievo che la legge statistica può essere impiegata nella scienza e nell'arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive — per rispetto alle quistioni che interessano lo storico e il politico — o si suppone rimangano passive.

D'altronde l'estensione della legge statistica alla scienza e all'arte politica può avere conseguenze molto gravi in quanto si assume per costruire prospettive e programmi d'azione; se nelle scienze naturali la legge può solo determinare spropositi e strafalcioni, che potranno essere facilmente corretti da nuove ricerche e in ogni modo rendono solo ridicolo il singolo scienziato che ne ha fatto uso, nella scienza e nell'arte politica può avere come risultato delle vere catatrofi i cui danni «secchi» non potranno mai essere risarciti. Infatti nella politica l'assunzione della legge statistica come legge essenziale, fatalmente operante, non è solo errore scientifico, ma diventa errore pratico in atto; essa inoltre favorisce la pigrizia mentale e la superficialità programmatica. È da osservare che l'azione politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la legge dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una legge sociologica?

Se si riflette bene la stessa rivendicazione di una economia secondo un piano, o diretta, è destinata a spezzare la legge statistica meccanicamente intesa, cioè prodotta dall'accozzo casuale di infiniti atti arbitrari individuali, sebbene dovrà basarsi sulla statistica, il che però non significa lo stesso: in realtà la consapevolezza umana si sostituisce alla «spontaneità» naturalistica. Un altro elemento che nell'arte politica porta allo sconvolgimento dei vecchi schemi naturalistici è il sostituirsi, nella funzione direttiva, di organismi collettivi (i partiti) ai singoli individui, ai capi individuali (o carismatici, come dice il Michels). Con l'estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale (cioè prodotto dall'esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili) diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fallace, — che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza — ma avviene da parte dell'organismo collettivo per «compartecipazione attiva e consapevole» per «compa.ssionalità » per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di «filologia vivente». Cosí si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, bene articolato, si può muovere come un «uomo-collettivo».

Il libro di Henri De Man, se ha un suo valore, lo ha appunto in questo senso: che incita a «informarsi» particolarmente dei sentimenti reali e non di quelli supposti secondo leggi sociologiche, dei gruppi e degli individui. Ma il De Man non ha fatto nessuna scoperta nuova né ha trovato un principio originale che possa superare la filosofia della prassi o dimostrarla scientificamente errata o sterile: ha elevato a principio scientifico un criterio empirico di arte politica già noto e applicato, sebbene forse insufficientemente definito e sviluppato. Il De Man non ha neanche saputo limitare esattamente il suo criterio, perché ha finito col creare una nuova legge statistica e inconsapevolmente, con altro nome, un nuovo metodo di matematica sociale e di classificazione esterna, una nuova sociologia astratta.

Nota 1. Le cosi dette leggi sociologiche, che vengono assunte come causa — il tal fatto avviene per la tal legge, ecc. — non hanno nessuna portata causativa; esse sono quasi sempre tautologie e paralogismi. Di solito esse non sono che un duplicato del fatto stesso osservato. Si descrive il fatto o una serie di fatti, con un processo meccanico di generalizzazione astratta, si deriva un rapporto di somiglianza e questo si chiama legge, che viene assunta in funzione di causa. Ma in realtà cosa si è trovato di nuovo? Di nuovo c'è solo il nome collettivo dato a una serie di fatterelli, ma i nomi non sono novità. (Nei trattati del Michels si può trovare tutto un registro di tali generalizzazioni tautologiche: l'ultima e più famosa è quella del «capo carismatico»). Non si osserva che cosí si cade in una forma barocca di idealismo platonico, perché queste leggi astratte rassomigliano stranamente alle idee pure di Platone che sono l'essenza dei fatti reali terrestri.

Le parti costitutive della filosofia della prassi.

Una trattazione sistematica della filosofia della prassi non può trascurare nessuna delle parti costitutive della dottrina del suo fondatore. Ma in che senso ciò deve essere inteso? Essa deve trattare tutta la parte generale filosofica, deve svolgere quindi coerentemente tutti i concetti generali di una metodologia della storia e della politica, e inoltre dell'arte, dell'economia, dell'etica e deve nel nesso generale trovare il posto per una teoria delle scienze naturali. Una concezione molto diffusa è che la filosofia della prassi è una pura filosofia, la scienza della dialettica, e che le altre parti sono l'economia e la politica, per cui si dice che la dottrina è formata di tre parti costitutive, che sono nello stesso tempo il coronamento e il superamento del grado più alto che verso il '48 aveva raggiunto la scienza delle nazioni più progredite d'Europa: la filosofia classica tedesca, l'economia classica inglese e l'attività e scienza politica francese.

Questa concezione che è più una generica ricerca delle fonti storiche che non una classificazione che nasca dall'intimo della dottrina, non può contrapporsi come schema definitivo a ogni altra organizzazione della dottrina che sia più aderente alla realtà. Si domanderà se la filosofia della prassi non sia appunto specificatamente una teoria della storia e si risponde che ciò è vero, ma perciò dalla storia non possono staccarsi la politica e l'economia, anche nelle fasi specializzate, di scienza e arte della politica e di scienza e politica economica. Cioè: dopo avere, nella parte filosofica generale, — che è la filosofia della prassi vera e propria: la scienza della dialettica o gnoseologia, in cui i concetti generali di storia, di politica, di economia si annodano in unità organica, — svolto il compito principale, è utile, in un saggio popolare, dare le nozioni generali di ogni momento o parte costitutiva, anche in quanto scienza indipendente e distinta. Se si osserva bene si vede che nel Saggio popolare tutti questi punti sono almeno accennati, ma casualmente, non coerentemente, in modo caotico e inditinto, perché manca ogni concetto chiaro e preciso di che sia la stessa filosofia della prassi.

Struttura e movimento storico.

Non è trattato questo punto fondamentale: come nasce il movimento storico sulla base della struttura. Tuttavia il problema è almeno accennato nei Problemi fondamentali del Plekhanov e si poteva svolgere. Questo è poi il punto cruciale di tutte le questioni che sono nate intorno alla filosofia della prassi e senza averlo risolto non si può risolvere l'altro dei rapporti tra la società e la «natura», al quale nel «Saggio» è dedicato uno speciale capitolo. Le due proposizioni della prefazione alla Critica dell'Economia politica: 1) L'umanità si pone sempre solo quei còmpiti che essa può risolvere; ... il còmpito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire. 2) Una formazione sociale non perisce prima che non si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quati essa è ancora sufficiente e nuovi, più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto; prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società, avrebbero dovuto essere analizzate in tutta la loro portata e conseguenza.

Solo su questo terreno può essere eliminato ogni meccanicismo e ogni traccia di «miracolo» superstizioso, deve essere posto il problema del formarsi dei gruppi politici attivi e, in ultima analisi, anche il problema della funzione delle grandi personalità nella storia.

Gli intellettuali.

Sarebbe da compilare un registro «ponderato» degli scienziati le cui opinioni sono citate o combattute con qualche diffusione, accompagnando ogni nome con annotazioni sul loro significato e la loro importanza scientifica (ciò anche per i sostenitori della filosofia della prassi, che sono citati non certo alla stregua della loro originalità e significato). In realtà gli accenni ai grandi intellettuali sono fugacissimi. Si pone la questione: non occorreva invece riferirsi solo ai grandi intellettuali avversari, e trascurare i secondari, i rimaticatori di frasi fatte? Si ha l'impressione appunto che si voglia combattere solo contro i più deboli e magari contro le posizioni più deboli (o più inadeguatamente sostenute dai più deboli) per ottenere facili vittorie verbali (poiché non si può parlare di vittorie reali). Ci si illude che esista una qualsiasi somiglianza (altro che formale e metaforica) tra un fronte ideologico e un fronte politico-militare. Nella lotta politica e militare può convenire la tattica di sfondare nei punti di minore resistenza per essere in grado di investire il punto più forte col massimo di forze rese appunto disponibili dall'aver eliminato gli ausiliari più deboli ecc. Le vittorie politiche e militari, entro certi limiti, hanno un valore permanente e universale e il fine strategico può essere raggiunto in modo decisivo con effetti generali per tutti. Sul fronte ideologico, invece, la sconfitta degli ausiliari e dei minori seguaci ha importanza quasi trascurabile; in esso occorre battere contro i piú eminenti. Altrimenti si conconde il giornale col libro, la piccola polemica quotidiana col lavoro scientifico; i minori devono essere abbandonati alla infinita casistica della polemica da giornali.

Una scienza nuova raggiunge la prova della sua efficienza e vitalità feconda quando mostra di saper affrontare i grandi campioni delle tendenze opposte, quando risolve coi propri mezzi le quistioni vitali che essi hanno posto o dimostra perentoriamente che tali quitioni sono falsi problemi.

E' vero che un'epoca storica e una data società sono piuttosto rappresentate dalla media degli intellettuali e quindi dai mediocri, ma l'ideologia diffusa, di massa, deve essere distinta dalle opere scientifiche, dalle grandi sintesi filosofiche che ne sono poi le reali chiavi di volta e queste devono essere nettamente superate o negativamente dimostrandone l'infondatezza, o positivamente, contrapponendo sintesi filosofiche di maggior importanza e significato. Leggendo il Saggio si ha l'impressione di uno che non possa dormire per il chiarore lunare, e si sforzi di ammazzare quante più lucciole può, persuaso che il chiarore diminuirà o sparirà.

Scienza e sistema.

È possibile scrivere un libro elementare, un manuale, un «Saggio popolare» di una dottrina che è ancora allo stadio della discussione, della polemica, dell'elaborazione? Un manuale popolare non può essere concepito se non come l'esposizione, formalmente dogmatica, stilisticamente posata, scientificamente serena, d'un determinato argomento; esso non può essere che un'introduzione allo studio scientifico, e non già l'esposizione di ricerche scientifiche originali, destinato ai giovani o a un pubblico che dal punto di vista della disciplina scientifica è nelle condizioni preliminari dell'età giovanile e che perciò ha immediatamente biogno di « certezze», di opinioni che si presentano come veridiche e fuori discussione, almeno formalmente. Se una determinata dottrina non ha ancora raggiunto questa fase «classica» del suo sviluppo, ogni tentativo di «manualizzarla» deve necessariamente fallire, la sua sistemazione logica è solo apparente e illusoria, si tratterà, invece, come appunto il Saggio, di una meccanica giustapposizione di elementi disparati, e che rimangono inesorabilmente sconnessi e slegati nonostante la vernice unitaria data dalla stesura letteraria. Perché allora non porre la questione nei suoi giusti termini teorici e storici e accontentarsi di un libro in cui la serie dei problemi essenziali della dottrina sia esposta monograficamente? Sarebbe più serio e piú «scientifico». Ma si crede volgarmente che scienza voglia assolutamente dire «sistema» e perciò si costruiscono sistemi purchessia, che del sistema non hanno la coerenza intima e necessaria ma solo la meccanica esteriorità.

La dialettica.

Nel Saggio manca una trattazione qualsiasi della dialettica. La dialettica viene presupposta, molto superficialmente, non esposta, cosa assurda in un manuale che dovrebbe contenere gli elementi essenziali della dottrina trattata e i cui riferimenti bibliografici devono essere rivolti a stimolare allo studio per allargare e approfondire l'argomento e non sostituire il manuale stesso. L'assenza di una trattazione della dialettica può avere due origini; la prima può essere costituita dal fatto che si suppone la filosofia della prassi scissa in due elementi: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia, cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare).

Anche dopo la grande discussione avvenuta contro il meccanicismo, l'autore del Saggio non pare abbia mutato molto l'impostazione del problema filosofico. Come appare dalla memoria presentata al Congresso di Londra di Storia della Scienza, egli continua a ritenere che la filosofia della prassi sia sempre scissa in due: la dottrina della storia e della politica e la filosofia, che egli però dice essere il materialismo dialettico e non più il vecchio materialismo filosofico. Posta cosí la questione, non si capisce più l'importanza e il significato della dialettica che, da dottrina della conoscenza e sotanza midollare della storiografia e della scienza della politica, viene degradata a una sottospecie di logica formale, a una scolastica elementare. La funzione e il significato della dialettica possono essere concepiti in tutta la loro fondamentalità, solo se la filosofia della prassi è concepita come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressioni delle vecchie società. Se la filosofia della prassi non è pensata che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime.

La seconda origine pare sia di carattere psicologico. Si sente che la dialettica è cosa molto ardua e difficile, in quanto il pensare dialetticamente va contro il volgare senso comune che è dogmatico, avido di certezze perentorie ed ha la logica formale come espres sione. Per capire meglio si può pensare a ciò che avverrebbe se nelle scuole primarie e secondarie le scienze naturali e fisiche fossero insegnate sulla base del relativismo di Einstein e accompagnando alla nozione tradizionale di «legge della natura» quella di legge statistiVi o dei grandi numeri. I ragazzi non capirebbero nulla di nulla e l'urto tra l'insegnamento scolastico e la vita familiare e popolare sarebbe tale che la scuola diverrebbe oggetto di ludibrio e di scetticismo caricaturale.

Questo motivo mi pare sia un freno psicologico per l'autore del Saggio; egli realmente capitola dinanzi al senso comune e al peniero volgare, perché non si è posto il problema nei termini teorici esatti e quindi è praticamente disarmato e impotente. L'ambiente ineducato e rozzo ha dominato l'educatore, il volgare senso comune si è imposto alla scienza e non viceversa; se l'ambiente è l'educatore, esso deve essere educato a sua volta, ma il Saggio non capisce questa dialettica rivoluzionaria. La radice di tutti gli errori del Saggio e del suo autore (la cui posizione non è mutata anche dopo la grande discussione, in conseguenza della quale pare che egli abbia ripudiato il suo libro, come appare dalla memoria preentata al Congresso di Londra) consiste appunto in questa pretesa di dividere la filosofia della prassi in due parti: una « sociologia» e una filosofia sistematica. Scissa dalla teoria della storia e della politica, la filosofia non può essere che metafisica, mentre la grande conquista della storia del pensiero moderno, rappresentata dalla filoofia. della prassi, è appunto la storicizzazione concreta della filosofia e la sua identificazione con la storia.

Sulla metafisica

Si può ricavare dal Saggio popolare una critica della metafisica della filosofia speculativa? Occorre dire che all'autore sfugge il concetto stesso di metafisica, in quanto gli sfuggono i concetti di movimento storico, di divenire e quindi della stessa dialettica. Penare un'affermazione filosofica come vera in un determinato periodo storico, cioè come espressione necessaria e inscindibile di una determinata azione storica, di una determinata prassi, ma superata e «vanificata» in un periodo successivo, senza però cadere nello scetticismo e nel relativismo morale e ideologico, cioè concepire la filoofia come storicità, è operazione mentale un po' ardua e difficile. L'autore invece cade in pieno nel dogmatismo e quindi in una forma, sia pure ingenua, di metafisica; ciò è chiaro fin dall'inizio, dall'impostazione del problema, dalla volontà di costruire una «sociologia sistematica della filosofia della prassi: sociologia, in questo caso, significa appunto metafisica ingenua. Nel paragrafo finale dell'introduzione, l'autore non sa rispondere all'obbiezione di alcuni critici, i quali sostengono la filosofia della prassi poter solo vivere in concrete opere di storia.

Egli non riesce a elaborare il concetto di filosofia della prassi come «metodologia storica» e questa come «filosofia», come la sola filosofia concreta, non riesce cioè a porsi e a risolvere dal punto di vista della dialettica reale, il problema che il Croce si è posto e ha cercato risolvere dal punto di vista speculativo. Invece di una metodologia storica, di una filosofia, egli costruisce una casistica di quistioni particolari concepite e risolte dogmaticamente, quando non sono risolte in modo puramente verbale, con dei paralogismi ingenui quanto pretensiosi. Questa casistica potrebbe pur essere utile e interessante, se però si presentasse come tale, senza altra pretesa che di dare degli schemi approssimativi di carattere empirico, utili per la pratica immediata. Del resto si capisce che cosí debba essere perché nel Saggio popolare la filosofia della prassi non è una filosofia autonoma e originale, ma la «sociologia» del materialismo metafisico. Metafisica per esso significa solo una determinata formulazione filosofica, quella speculativa dell'idealismo, e non già ogni formulazione sistematica che si ponga come verità extrastorica, come un universale astratto fuori del tempo e dello spazio.

La filosofia del Saggio popolare (implicita in esso) può essere chiamata un aristotelismo positivistico, un adattamento della logica formale ai metodi delle scienze fisiche e naturali. La legge di caualità, la ricerca della regolarità, normalità, uniformità sono sostituite alla dialettica storica. Ma come da questo modo di concepire può dedursi il superamento, il «rovesciamento» della prassi? L'effetto, meccanicamente, non può mai superare la causa o il sistema di cause, quindi non può aversi altro svolgimento che quello piatto e volgare dell'evoluzionismo.

Se l'«idealismo speculativo» è la scienza delle categorie e della sintesi a priori dello spirito, cioè una forma di astrazione antitoricistica, la filosofia implicita nel Saggio popolare è un idealismo alla rovescia, nel senso che dei concetti e delle classificazioni empiriche sostituiscono le categorie speculative, altrettanto astratte e antitoriche di queste.

Una delle tracce piú vistose di vecchia metafisica nel Saggio popolare è la ricerca di ridurre tutto a una causa, la causa ultima, la\ causa finale. Si può ricostruire la storia del problema della causa ubica e ultima e dimostrare che essa è una delle manifestazioni della «ricercz di Dio». Contro questo dogmatismo ricordare ancora le due lettere di Engels pubblicate nel «Sozial Akademiker».

Il concetto di «scienza»

La posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po' puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici. Poiché «pare» per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l'evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita «scientificamente» solo se e in quanto abilita astrattamente a «prevedere» l'avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della «causa prima» della «causa delle cause». Ma le Tesi su Feuerbach avevano già criticato anticipatamente questa concezione semplicistica. In realtà si può prevedere «scientificamente» solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si «prevede» nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato «preveduto». La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza; ma come l'espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva.

E come potrebbe la previsione essere un atto di conoscenza ? Si conosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che è un «non esitente » e quindi inconoscibile per definizione. Il prevedere è quindi solo un atto pratico che non può, in quanto non sia una futilità o un perditempo, avere altra spiegazione che quella su esposta. necessario impostare esattamente il problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criticare esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per svuotarla di ogni pretigio scientifico e ridurla a puro mito che fu forse utile nel passato, in un periodo arretrato di sviluppo di certi gruppi sociali subalterni.

Ma è il concetto stesso di «scienza», quale risulta dal Saggi popolare, che occorre distruggere criticamente; esso è preso sana pianta dalle scienze naturali, come se queste fossero la sola scienza, o la scienza per eccellenza, cosí come è stato fissato dal positivismo. Ma nel Saggio popolare il termine di scienza è impiegato in molti significati, alcuni espliciti, altri sottintesi o appena accennati. Il senso esplicito è quello che «scienza» ha nelle ricerche fisiche. Altre volte però pare indichi il metodo. Ma esiste un metodo in generale e se esiste non significa poi niente altro che filosofia? Potrebbe significare altre volte niente altro che la logica formale, ma si può chiamare questa un metodo e una scienza? Occorre fissare che ogni ricerca ha un suo determinato metodo e costruisce una sua determinata scienza, e che il metodo si è sviluppato ed è stato elaborato insieme allo sviluppo e alla elaborazione di quella determinata ricerca e scienza, e forma tutt'uno con esse.

Credere di poter far progredire una ricerca scientifica applicandole un metodo tipo, scelto perché ha dato buoni risultati in altra ricerca alla quale era connaturato, è uno strano abbaglio che ha poco che vedere con la scienza. Ci sono però anche dei criteri generali che si può dire costituiscano la coscienza critica di ogni scienziato, qualunque sia la sua « specializzazione» e che devono sempre essere spontaneamente vigili nel suo lavoro. Cosi si può dire che non è scienziato chi dimostra scarsa sicurezza nei suoi criteri particolari, chi non ha una piena intelligenza dei concetti adoperati, chi ha scarsa informazione e intelligenza dello stato precedente dei problemi trattati, chi non è molto cauto nelle sue affermazioni, chi non progredisce in modo necessario ma arbitrario e senza concatenamento, chi non sa tener conto delle lacune che esistono nelle cognizioni raggiunte ma le sottace e si accontenta di soluzioni o nessi puramente verbali invece di dichiarare che si tratta di posizioni provviorie che potranno essere riprese e sviluppate ecc.

Un appunto che può farsi a molti riferimenti polemici del Saggio è il misconoscimento sistematico della possibilità di errore da parte dei singoli autori citati, per cui si attribuiscono a un gruppo sociale, di cui gli scienziati sarebbero sempre i rappresentanti, le opinioni più disparate e le volontà più contradditorie. Questo appunto è legato a un criterio metodico più generale e cioè: non è molto «scientifico» o più semplicemente «molto serio» scegliere gli avversari tra i più stupidi e mediocri o ancora, scegliere tra le opinioni dei propri avversari le meno essenziali e più occasionali e presumere di aver distrutto» «tutto» l'avversario perché si è distrutta una sua opinione secondaria e incidentale, o di aver distrutto un'ideologia o una dottrina perché si è dimostrata l'insufficienza teorica dei suoi campioni di terzo o quarto ordine. Ancora: «occorre essere giusti cogli avversari», nel senso che bisogna sforzarsi di comprendere ciò che essi realmente hanno voluto dire e non fermarsi maliziosamente ai significati superficiali e immediati delle loro espressioni. Ciò si dica, se il fine propostosi è di elevare il tono e il livello intellettuale dei propri seguaci e non quello immediato di fare il deserto intorno a sé, con ogni mezzo e maniera.

Occorre porsi da questo punto di vista: che il proprio seguace debba discutere e sostenere il proprio punto di vista in discussione con avversari capaci e intelligenti e non solo con persone rozze e impreparate che si convincono «autoritativamente» o per via «emozionale». La possibilità dell'errore deve essere affermata e giustificata, senza con ciò venir meno alla propria concezione, perché ciò che importa non è già l'opinione di Tizio, Caio o Sempronio, ma quell'insieme di opinioni che sono diventate collettive, un elemento e una forza sociale: queste occorre confutare, nei loro esponenti teorici più rappresentativi e degni anzi di rispetto per altezza di pensiero e anche per «disinteresse» immediato e non già pensando di aver con ciò «distrutto» l'elemento e la forza sociale corrispondente (che sarebbe puro razionalismo illuministico), ma solo di aver contribuito: 1) a mantenere nella propria parte e rafforzare lo spirito di distinzione e di scissione; 2) a creare il terreno perché la propria parte assorba e vivifichi una propria dottrina originale, corrispondente alle proprie condizioni di vita.

E' da osservare che molte deficienze del Saggio popolare sono connesse all'«oratoria». L'autore nella prefazione ricorda, quasi a titolo di onore, l'origine «parlata» della sua opera. Ma, come ha osservato già il Macaulay a proposito delle discussioni orali presso i greci, è appunto alle « dimostrazioni orali» e alla mentalità degli oratori che si collegano le superficialità logiche e di argomentazione le più stupefacenti. Ciò dei resto non diminuisce la responsabilità degli autori, che non rivedono, prima di stamparle, le trattazioni tenute oralmente, spesso improvvisando, quando la meccanica e casuale associazione delle idee spesso sostituisce il nerbo logico. Il peggio è quando, in questa pratica oratoria, la mentalità facilona si solidifica e i freni critici non funzionano più. Si potrebbe fare una lista delle «ignorantiae », «mutationes», «elenchi» del Saggio popolare probabilmente dovute alla «foga» oratoria. Un esempio tipico mi pare il paragrafo dedicato al prof. Stammler, dei più superficiali e sofistici.

La cosí detta «realtà del mondo esterno»

Tutta la polemica contro la concezione soggettivistica della realtà, con la questione «terribile» della «realtà oggettiva del mondo esterno», è male impostata, peggio condotta e in gran parte futile e oziosa (mi riferisco anche alla memoria presentata al Congresso di storia delle scienze, tenuto a Londra nel giugno-luglio 1931). Dal punto di vista di un «saggio popolare» tutta la trattazione risponde più a un prurito di pedanteria intellettuale che ad una necessità logica. Il pubblico popolare non crede neanche che si possa porre un tale problema, se il mondo esterno esista obbiettivamente. Basta „enunciare cosí il problema per sentire un irrefrenabile e gargantuesco scoppio di ilarità. Il pubblico «crede» che il mondo esterno sia obbiettivamente reale, ma qui appunto nasce la questione: qual'è l'origine di questa «credenza» e quale valore critico ha «obbiettivamente »? Infatti questa credenza è di origine religiosa, anche se chi vi partecipa è religiosamente indifferente.

Poiché tutte le religioni hanno insegnato e insegnano che il mondo, la natura, l'universo è stato creato da Dio prima della creazione dell'uomo e quindi l'uomo ha trovato il mondo già bell'e pronto, catalogato e definito una volta per sempre, questa credenza è diventata un dato ferreo del «senso comune» e vive con la stessa saldezza anche se il sentimento religioso è spento e sopito. Ecco allora che fondarsi su questa esperienza del senso comune per distruggere con la «comicità » la concezione soggettivistica ha un significato piuttosto « reazionario », di ritorno implicito al sentimento religioso; infatti gli scrittori e gli oratori cattolici ricorrono allo stesso mezzo per ottenere lo stesso effetto di ridicolo corrosivo. (La Chiesa (attraverso i gesuiti e specialmente i neoscolastici: Università di Lovanio e del Sacro Cuore a Milano) ha cercato di assorbire il positivismo e anzi si serve di questo ragionamento per mettere in ridicolo gli idealisti presso le folle: «Gli idealisti sono quelli che pensano che il tal campanile esiste solo perché tu lo pensi; se tu non lo pensassi, il campanile non esisterebbe phi », si deve la prima enunciazione compiuta della concezione soggettivistica era un arcivescovo (quindi pare si debba dedurre l'origine religiosa della teoria) e poi dicendo che solo un «Adamo» che si trova per la prima volta nel mondo, può pensare che questo esista solo perché egli lo pensa (e anche qui si insinua l'origine religiosa della teoria, ma senza molto o nessun vigore di convinzione).)

Nella memoria preentata al Congresso di Londra, l'autore del Saggio popolare implicitamente risponde a questo appunto (che è poi di carattere esterno, sebbene abbia la sua importanza) notando che il Berkeley, al quale si deve la prima enunciazione compiuta della concezione soggettivistica (quindi pare si debba dedurre l'origine religiosa della teoria) e poi dicendo che solo un «Adamo» che si trova per la prima volta nel mondo può pensare che questo esista solo perché egli lo pensa (e anche qui si insinua l'origine religiosa della teoria, ma senza molto o nessun vigore di convinzione).

Il problema invece è questo, mi pare: come si può spiegare che una tale concezione, che non è certo una futilità, anche per un filosofo della prassi, oggi, esposta al pubblico, possa solo provocare il riso e lo sberleffo? Mi pare il caso più tipico della distanza che si è venuta formando tra scienza e vita, tra certi gruppi di intellettuali, che pure sono alla direzione «centrale» dell'alta cultura e le grandi masse popolari: e come il linguaggio della filosofia sia diventato un gergo che ottiene lo stesso effetto di quello di Arlecchino. Ma se il «senso comune» si esilara, il filosofo della prassi dovrebbe lo stesso cercare una spiegazione e del reale significato che la concezione ha, e del perché essa sia nata e si sia diffusa tra gli intellettuali, e anche del perché essa faccia ridere il senso comune. E certo che la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua forma più compiuta e avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo storico, che nella teoria delle superstrutture pone in linguaggio realistico e storicistico ciò che la filosofia tradizionale esprimeva in forma speculativa. La dimostrazione di questo assunto, che qui è appena accennato, avrebbe la più grande portata culturale, perché metterebbe fine a una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo organico della filosofia della prassi, fino a farla diventare l'esponente egemonica dell'alta cultura. Fa anzi maraviglia che il nesso tra l'affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano e l'affermazione della storicità e caducità di tutte le ideologie da parte della filosofia della prassi, perché le ideologie sono espressioni della struttura e si modificano col modificarsi di essa, non sia stato mai affermato e svolto convenientemente.

La questione è strettamente connessa — e si capisce — alla questione del valore delle scienze cosí dette esatte o fisiche e alla posizione che esse sono venute assumendo nel quadro della filosofia della prassi di un quasi feticismo, anzi della sola e vera filosofia o conocenza del mondo.

Ma cosa sarà da intendere per concezione soggettivistica della realtà? Si potrà assumere una qualsiasi delle tante teorie soggettivistiche elucubrate da tutta una serie di filosofi e professori fino a quelle solipsistiche? E evidente che la filosofia della prassi, anche in questo caso, non può che essere messa in rapporto con lo hegelismo, che di questa concezione rappresenta la forma più compiuta e geniale e che delle successive teorie saranno da prendere in considerazione solo alcuni aspetti parziali e i valori strumentali. E occorrerà ricercare le forme bizzarre che la concezione ha assunto, sia nei seguaci sia nei critici piú o meno intelligenti. Cosi è da ricordare ciò che scrive il Tolstoi nelle sue Memorie di infanzia e di giovinezza: il Tolstoi racconta che si era tanto infervorato per la concezione soggettivistica della realtà, che spesso ebbe il capogiro, perché si voltava di colpo indietro, persuaso di poter cogliere il momento in cui non avrebbe visto nulla perché il suo spirito non poteva aver avuto il tempo di «creare» la realtà (o qualcosa di simile : il brano del Tolstoi è caratteristico e molto interessante letterariamente). (Cfr. Tolstoi, Racconti autobiografici, vol. I (Infanzia - Adolescenza, ed. Slavia, Torino, 193o) p. 232 (cap. XIX dell'Adolescenza intitolato proprio L'Adolescenza): «Ma da nessuna corrente filosofica fui affascinato come dallo scetticismo, che ad un certo momento mi portò ad uno stato vicino alla follia. Immaginavo che fuori di me nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini, le quali mi apparivano solo quando vi fissavo l'attenzione, e che appena cessavo di pensarci quelle immagini subito svanissero. In una parola mi trovavo d'accordo con Schelling nel ritenere che esitono non gli oggetti, ma il nostro rapporto con essi. C'erano momenti, quando, sotto l'influenza di questa idea fissa arrivavo a rasentare la follia al punto che rapidamente mi voltavo dalla parte opposta, sperando di sorprendere il vuoto (le néant) là dov'io non ero». Oltre all'esempio di Tolstoi, ricordare la forma faceta in cui un giornalista rappresentava il filosofo «professionista o tradizionale» (rappresentato dal Croce nel cap. «Il filosofo») che da anni sta seduto al suo tavolino, rimirando il calamaio e domandandosi: «Questo calamaio è dentro di me o è fuori di me?».)

Cosí nelle sue Linee di filosofia critica (p. 159) Bernardino Varisco scrive: «Apro un giornale per informarmi delle novità; vorreste sostenere che le novità le ho create io con l'aprire il giornale?» Che il Tolstoi desse alla proposizione soggettivistica un significato cosi immediato e meccanico può spiegarsi. Ma non è stupefacente che in tal modo possa aver scritto il Varisco, il quale, se oggi si è orientato verso la religione e il dualismo trascendentale, tuttavia è uno studioso serio e dovrebbe conoscere la sua materia? La critica del Varisco è quella del senso comune ed è notevole che proprio tale critica è trascurata dai filosofi idealisti, mentre invece essa è di estrema importanza per impedire la diffusione di un modo di pensare e di una cultura. Si può ricordare un articolo di Mario Missiroli nell'«Italia Letteraria» in cui il Missiroli scrive che si troverebbe molto imbarazzato se dovesse sostenere, dinanzi a un pubblico comune e in contraddittorio con un neoscolastico, per esempio, il punto di vista soggettivistico: il Missiroli osserva quindi come il cattolicismo tende, in concorrenza con la filosofia idealista, ad accaparrarsi le scienze naturali e fisiche. Altrove il Missiroli ha scritto prevedendo un periodo di decadenza della filosofia speculativa e un sempre maggior diffondersi delle scienze sperimentali e « realistiche» (in questo secondo scritto però, pubblicato dal «Saggiatore», egli prevede anche un'ondata di anticlericalismo, cioè non pare creda piú all'accaparramento delle scienze da parte del cattolicismo).

Cosí è da ricordare nel volume di Scritti vari di Roberto Ardigò, raccolto e ordinato da G. Marchesini (Lemonnier, 1922) la «polemica della zucca»; in un giornaletto clericale di provincia, uno scrittore (un prete della Curia Vescovile) per squalificare l'Ardigò di fronte al pubblico popolare lo chiamò su per giú «uno di quei filosofi i quali sostengono che la cattedrale (di Mantova o di altra .città) esiste solo perché essi la pensano e quando essi non la pensano più, la cattedrale sparisce ecc.» con aspro risentimento dell'Ardigò che era positivista ed era d'accordo coi cattolici nel modo di concepire la realtà esterna.

Occorre dimostrare che la concezione «soggettivistica», dopo aver servito a criticare la filosofia della trascendenza da una parte e la metafisica ingenua del senso comune e del materialismo filosofico, può trovare il suo inveramento e la sua interpretazione storicistica solo nella concezione delle superstrutture mentre nella sua forma speculativa non è altro che un mero romanzo filosofico. ( Un accenno a una interpretazione un po' piú realistica del soggettivismo nella filosofia classica tedesca si può trovare in una recensione di G. De Ruggiero a degli scritti postumi (mi pare, lettere) di B. Constant pubblicate nella « Critica » di qualche anno fa.)

L'appunto che si deve fare al Saggio popolare è di avere preentato la concezione soggettivistica cosi come essa appare dalla critica del senso comune e di avere accolto la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica, senza neanche sospettare che a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo, come infatti fu fatto. (Nella memoria, presentata al Congresso di Londra, l'autore del Saggio popolare accenna all'accusa di misticismo attribuendola al Sombart e trascurandola sprezzantemente: il Sombart l'ha certamente presa dal Croce. l'uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l'uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all'uomo e siccome l'uomo è divenire storico, anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l'oggettività è un divenire ecc.)

Solo che analizzando questa concezione, non è poi tanto facile giustificare un punto di vista di oggettività esteriore cosí meccanicamente intesa. Pare che possa esistere una oggettività extrastorica ed extraumana? Ma chi giudicherà di tale oggettività? Chi potrà mettersi da questa specie di « punto di vista del cosmo in sé» e che cosa significherà un tal punto di vista? Può benissimo sostenersi che si tratta di un residuo del concetto di Dio, appunto nella sua concezione mistica di un Dio ignoto. La formulazione di Engels che «l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata... dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre «umanamente oggettivo», ciò che può corrispondere esattamente a «storicamente soggettivo», cioè oggettivo significherebbe «universale soggettivo».

L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall'origine pratica della loro sostanza. C'è quindi una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano «spirito» non è un punto di partenza ma d'arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc.

La scienza sperimentale ha offerto finora il terreno in cui una tale unità culturale ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stato l'elemento di conoscenza che ha più contribuito a unificare lo « spirito», a farlo diventare più universale; essa è la soggettività più oggettivata e universalizzata concretamente.

Il concetto di «oggettivo» del materialismo metafisico pare voglia significare una oggettività che esiste anche all'infuori delll'uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche senza che esistesse l'uomo o si fa unametafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all'uomo e siccome l'uomo è divenire storico, anche la realtà e la conoscenza sono un divenire, anche l'oggettività è un divenire, ecc.

L'espressione di Engels che «la materialità del mondo è dimotrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» dovrebbe essere analizzata e precisata. S'intende per scienza l'attività teorica o l'attività pratica-sperimentale degli scienziati? o la sintesi delle due attività? Si potrebbe dire che in ciò si avrebbe il processo unitario tipico del reale, nell'attività sperimentale dello scienziato che è il primo modello di mediazione dialettica tra l'uomo e la natura, la cellula storica elementare per cui l'uomo ponendosi in rapporto con la natura attraverso la tecnologia, la conosce e la domina. E' indubbio che l'affermarsi del metodo sperimentale separa due mondi della storia, due epoche e inizia il processo di dissoluzione della teologia e della metafisica, e di sviluppo del pensiero moderno, il cui coronamento è nella filosofia della prassi. L'esperienza scientifica è la prima cellula del nuovo metodo di produzione, della nuova forma di unione attiva tra l'uomo e la natura. Lo scienziato-sperimentatore è anche un operaio, non un puro pensatore e il suo pensare è continuamente controllato dalla pratica e viceversa, finché si forma l'unità perfetta di teoria e pratica.

Il neoscolastico Casotti (MARIO CASOTTI, Maestro e scolaro, p. 49) scrive: «Le ricerche dei naturalisti e dei biologi presuppongono già esistenti la vita e l'organismo reale», espressione che si avvicina a quella di Engels dell'Anti-Diihring.

Accordo del cattolicismo con l'aristotelismo nella questione dell'oggettività del reale.

Per intendere esattamente i significati che può avere il problema della realtà del mondo esterno, può essere opportuno svolgere. l'esempio delle nozioni di «Oriente» e «Occidente» che non cessano di essere «oggettivamente reali» seppure all'analisi si dimostrano niente altro che una «costruzione» convenzionale cioè « storico-culturale» (spesso i termini «artificiale» e « convenzionale» indicano fatti «storici», prodotti dallo sviluppo della civiltà e non già costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente artificiose). È da ricordare anche l'esempio contenuto in un libretto di Bertrand Russell. ( BERTRAND RUSSELL, I Problemi della Filosofia. Traduzione italiana, n. 5 della Collezione Scientifica Sonzogno.) Il Russell dice presso a poco cosí «Noi non possiamo pensare, senza l'esistenza dell'uomo sulla terra, all'esistenza di Londra e di Edimburgo, ma possiamo pensare all'esistenza di due punti nello spazio, dove oggi sono Londra ed Edimburgo uno a Nord e l'altro a Sud». Si può obbiettare che senza pensare all'esistenza dell'uomo non si può pensare di «pensare», non si può pensare in genere a nessun fatto o rapporto che esiste solo in quanto esiste l'uomo. Cosa significherebbe Nord-Sud, Est-Ovest senza l'uomo? Essi sono rapporti reali e tuttavia non esisterebbero senza l'uomo e senza lo sviluppo della civiltà.

E' evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso tempo. Ciò si può vedere più chiaramente dal fatto che questi termini si sono cristallizzati non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale ma dal punto di vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare dovunque. Il Giappone è Estremo Oriente non solo per l'Europa ma forse anche per l'americano della California e per lo stesso Giapponese, il quale attraverso la cultura politica inglese potrà chiamare Prossimo Oriente l'Egitto. Cosi attraverso il contenuto storico che si è andato agglutinando al termine geografico, le espressioni Oriente e Occidente hanno finito con l'indicare determinati rapporti tra complessi di civiltà diverse. Cosí gli italiani spesso parlando del Marocco lo indicheranno come un paese «orientale», per riferirsi alla civiltà mussulmana e araba. Eppure questi riferimenti sono reali, corrispondono a fatti reali, permettono di viaggiare per terra e per mare, e di giungere proprio dove si era deciso di giungere, di «prevedere» il futuro, di oggettivare la realtà, di comprendere la oggettività del mondo esterno. Razionale e reale si identificano.

Pare che senza aver capito questo rapporto non si può capire la filosofia della prassi, la sua posizione in confronto dell'idealismo e del materialismo meccanico, l'importanza e il significato della dottrina delle superstrutture. Non è esatto che nella filosofia della prassi l'« idea » hegeliana sia stata sostituita con il «concetto» di struttura, come afferma il Croce. L'«idea» hegeliana è risolta tanto nella struttura quanto nelle soprastrutture e tutto il modo di concepire la filosofia è stato «storicizzato», cioè si è iniziato il nascere di un nuovo modo di filosofare più concreto e storico di quello precedente.

Nota. E' da studiare la posizione del prof. Lukacz verso la filosofia della prassi. Pare che il Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra la natura e l'uomo egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria della religione e della filosofia greco-cristiana e anche propria dell'idealismo, che realmente non riesce a unificare e mettere in rapporto l'uomo e la natura altro che verbalmente. Ma se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la storia della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell'errore opposto, in una forma di idealismo.

Giudizio sulle filosofie passate

La superficiale critica del soggettivismo nel Saggio popolare rientra in una questione più generale, che è quella dell'atteggiamento, preso verso le filosofie e i filosofi passati. Giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato. L'antistoricismo metodico non è altro che metafisica. Che i sistemi filosofici siano stati superati non esclude che essi siano stati validi storicamente e abbiano svolto una funzione necessaria: la loro caducità è da considerare dal punto di vista dell'intiero svolgimento storico e della dialettica reale; che essi fossero degni di cadere non è un giudizio morale o di igiene del penisero, emesso da un punto di vista «obbiettivo», ma un giudizio dialettico-storico. Si può confrontare la presentazione fatta da Engels della proposizione hegeliana che «tutto ciò che è razionale è reale e il reale è razionale», proposizione che sarà valida anche per il passato.

Nel Saggio si giudica il passato come «irrazionale» e «mostruoso » e la storia della filosofia diventa un trattato storico di teratologia, perché si parte da un punto di vista metafisico. (E invece nel Manifesto è contenuto il più alto elogio del mondo morituro). Se questo modo di giudicare il passato è un errore teorico, è una deviazione dalla filosofia della prassi, potrà avere un qualunque significato educativo, sarà ispiratore di energie? Non pare, perché la questione si ridurrebbe a presumere di essere qualcosa solo perché si è nati nel tempo presente invece che in uno dei secoli passati. Ma in ogni tempo c'è stato un passato e una contemporaneità e l'essere «contemporaneo» è un titolo buono solo per le barzellette. (Si racconta l'aneddoto di un borghesuccio francese che nel suo biglietto da visita aveva fatto stampare appunto «contemporaneo»: credeva di non essere nulla e un giorno scoperse di essere qualcosa invece, proprio un «contemporane».

L'immanenza e la filosofia della prassi

Nel Saggio si nota che nella filosofia della prassi i termini di « immanenza» e «immanente» sono usati bensi, ma che « evidentemente » questo uso è solo «metaforico». Benissimo. Ma si è cosí spiegato cosa «metaforicamente» immanenza e immanente significhino? Perché questi termini sono continuati ad essere usati e non sono sostituiti? Solo per l'orrore di creare nuovi vocaboli? Di solito quando una nuova concezione del mondo succede a una precedente, il linguaggio precedente continua ad essere usato, ma appunto viene usato metaforicamente. Tutto il linguaggio è un continuo processo di metafore, e la storia della semantica è un aspetto della storia della cultura : il linguaggio è insieme una cosa vivente ed un museo di fossili della vita e delle civiltà. Quando io adopero la parola disastro nessuno può incolparmi di credenze astrologiche e quando dico «per Bacco» nessuno può credere che io sia un adoratore delle divinità pagane, tuttavia quelle espressioni sono una prova che la civiltà moderna è uno sviluppo anche del paganesimo e dell'astrologia. Il termine «immanenza» nella filosofia della prassi ha un suo preciso significato che si nasconde sotto la metafora e questo occorreva definire e precisare; in realtà questa definizione sarebbe stata veramente «teoria». La filosofia della prassi continua la filoofia dell'immanenza, ma la depura di tutto il suo apparato metafisico e la conduce sul terreno concreto della storia. L'uso è metaforico solo nel senso che la vecchia immanenza è superata, è stata superata, tuttavia è sempre supposta come anello nel processo di pensiero da cui é nato il nuovo. D'altronde, il nuovo concetto di immanenza è completamente nuovo? Pare che in Giordano Bruno, per esempio, ci siano molte traccie di una tale concezione nuova; i fondatori della filosofia della prassi conoscevano il Bruno. Lo conoscevano e rimangono tracce di opere del Bruno postillate da loro. D'altronde il Bruno non fu senza influenza sulla filosofia clasica tedesca, ecc. Ecco molti problemi di storia della filosofia che non sarebbero senza utilità.

La questione dei rapporti tra il linguaggio e le metafore non è semplice, tutt'altro. Il linguaggio, intanto, è sempre metaforico. Se forse non si può dire esattamente che ogni discorso è metaforico per rispetto alla cosa od oggetto materiale e sensibile indicati (o al concetto astratto) per non allargare troppo il concetto di metafora, si può però dire che il linguaggio attuale è metaforico per rispetto ai significati e al contenuto ideologico che le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà. Un trattato di semantica — quello di Michel Breals per es. — può dare un catalogo storicamente e criticamente ricostruito delle mutazioni semantiche di determinati gruppi di parole. Dal non tener conto di questo fatto, e cioè dal non avere un concetto critico e storicista del fenomeno linguistico, derivano molti errori sia nel campo della scienza che nel campo pratico: 1) Un errore di carattere estetico che oggi va sempre più correggendosi, ma che nel passato è stato dottrina dominante, è quello di ritenere «belle» in sé certe espressioni a differenza di altre in quanto sono metafore cristallizzate; i retori e i grammatici si sdilinquiscono per certe parolette, nelle quali scoprono chissà mai quali virtú ed essenzialità artistiche astratte. Si confonde la «gioia» tutta libresca del filologo che spasima per il risultato di certe sue analisi etimologiche o semantiche con il godimento propriamente artistico: recentemente si è avuto il caso patologico dello scritto Linguaggio e poesia di Giulio Bertoni. 2) Un errore pratico che ha molti seguaci è l'utopia delle lingue fisse e universali. 3) Una tendenza arbitraria al neolalismo, che nasce dalla questione posta dal Pareto e dai pragmatisti a proposito del «linguaggio come causa di errore».

Il Pareto, come i pragmatisti, in quanto credono di aver originato una nuova concezione del mondo o almeno di avere innovato una determinata scienza (e di aver quindi dato alle parole un significato o almeno una sfumatura nuova, o di aver creato nuovi concetti) si trovano dinanzi al fatto che le parole tradizionali, nell'uso comune specialmente, ma anche nell'uso della classe colta e perfino nell'uso di quella sezione di specialisti che trattano la stessa scienza, continuano a mantenere il vecchio significato nonostante l'innovazione di contenuto e reagiscono. Il Pareto crea un suo « dizionario» manifestando la tendenza a creare una sua lingua « pura» o «matematica». I pragmatisti teorizzano astrattamente sul linguaggio come causa di errore (vedi libretto di G. Prezzolini). Ma è possibile togliere al linguaggio i suoi significati metaforici ed estensivi? fr impossibile. Il linguaggio si trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per l'affiorare di nuove classi alla coltura, per l'egemonia esercitata da una lingua nazionale sulle altre ecc., e precisamente assume metaforicamente le parole delle civiltà e culture precedenti. Nessuno oggi pensa che la parola «dis-astro» sia legata all'astrologia e si ritiene indotto in errore sulle opinioni di chi la usa; cosí anche un ateo può parlare di «dis-grazia» senza essere ritenuto seguace della predestinazione ecc. Il nuovo significato c: metaforico » si estende con l'estendersi della nuova cultura, che d'altronde crea anche parole nuove di zecca e le assume in prestito da altre lingue con un significato preciso, cioè senza l'alone estenivo che avevano nella lingua originale. Cosí è probabile che per molti il termine di «immanenza» sia conosciuto e capito e usato per la prima volta solo nel nuovo significato «metaforico» che gli è stato dato dalla filosofia della prassi.

Questioni di nomenclatura e di contenuto

Una delle caratteristiche degli intellettuali come categoria sociale cristallizzata (che cioè concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella storia, quindi indipendente dalla lotta dei gruppi e non come espressione di un processo dialettico, per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di intellettuali) è appunto di ricongiungersi, nella sfera ideologica, a una precedente categoria intellettuale attraverso una stessa nomenclatura di concetti. Ogni nuovo organismo storico (tipo di società) crea una nuova superstruttura, i cui rappresentanti specializzati e portabandiera (gli intellettuali) non possono non essere concepiti come anch'essi «nuovi» intellettuali, sorti dalla nuova situazione e non continuazione della precedente intellettualità. Se «nuovi» intellettuali si pongono come continuazione diretta della precedente « intellighenzia» essi non sono affatto «nuovi», cioè non sono legati al nuovo gruppo sociale che rappresenta organicamente la nuova situazione storica, ma sono un rimasuglio conservatore e fossilizzato del gruppo sociale superato storicamente (ciò che poi è lo stesso che dire che la nuova situazione storica non è ancora giunta al grado di sviluppo necessario per avere la capacità di creare nuove superstrutture, ma vive ancora nell'involucro tarlato della vecchia storia).

È tuttavia da tener conto che nessuna nuova situazione storica, sia pur essa dovuta al mutamento più radicale, trasforma completamente il linguaggio, almeno nel suo aspetto esterno, formale. Ma il contenuto del linguaggio dovrebbe essere mutato, anche se di tale mutazione è difficile avere coscienza esatta immediatamente. Il fenomeno è d'altronde storicamente complesso e complicato per l'esistenza di diverse culture tipiche nei diversi strati del nuovo gruppo sociale, alcuni dei quali, nel terreno ideologico, sono ancora immersi nella cultura di situazioni storiche precedenti talvolta anche alla più recentemente superata. Una classe, di cui alcuni strati sono ancora rimasti alla concezione tolemaica del mondo, può tuttavia essere la rappresentante di una situazione storica molto progredita; arretrati ideologicamente (o almeno per alcune sezioni della concezione del mondo, che è in essi ancora disgregata e ingenua) questi strati sono tuttavia avanzatissimi praticamente, cioè come funzione economica e politica. Se il compito degli intellettuali e quello di determinare e organizzare la riforma morale e intellettuale, cioè di adeguare la cultura alla funzione pratica, è evidente che gli intellettuali «cristallizzati» sono conservatori e reazionari. Perché mentre il gruppo sociale nuovo sente almeno di essere scisso e distinto da quello precedente, essi non sentono neppure tale ditinzione, ma pensano di potersi riallacciare al passato.

D'altronde non é detto che tutta l'eredità del passato debba essere respinta: ci sono dei «valori strumentali» che non possono non essere accolti integralmente per continuare ad essere elaborati e raffinati. Ma come distinguere il valore strumentale dal valore filoofico caduco e da respingere senz'altro? Spesso avviene che, perché si è accettato un valore filosofico caduco di una determinata tendenza passata, si respinge poi un valore strumentale di altra tendenza perché contrastante con la prima, anche se tale valore strumentale sarebbe stato utile ad esprimere il nuovo contenuto storico culturale.

Cosí si è visto il termine «materialismo» accolto col contenuto passato e invece il termine «immanenza» respinto perché nel passato aveva un determinato contenuto storico culturale. La difficoltà di adeguare l'espressione letteraria al contenuto concettuale e il confondere le quistioni di terminologia con le quistioni sostanziali e viceversa è caratteristica del dilettantismo filosofico, della mancanza di senso storico nel cogliere i diversi momenti di un processo di sviluppo culturale, cioè di una concezione antidialettica, dogmatica, prigioniera degli schemi astratti della logica formale.

Il termine di «materialismo» nel primo cinquantennio del secolo XIX occorre intenderlo non solo nel significato tecnico filosofico stretto, ma nel significato più estensivo che venne assumendo polemicamente nelle discussioni sorte in Europa col sorgere e lo svilupparsi vittorioso della cultura moderna. Si chiamò materialismo ogni dottrina filosofica che escludesse la trascendenza dal dominio del pensiero e quindi, in realtà, tutto il panteismo e l'immanentismo non solo, ma si chiamò materialismo anche ogni atteggiamento pratico ispirato al realismo politico, che si opponesse cioè a certe correnti deteriori del romanticismo politico, come le dottrine di Mazzini popolarizzate e che non parlavano che di «missioni», di «ideali» e di altre consimili nebulosità vaghe e astrattezze sentimentalistiche. Nelle polemiche anche odierne dei cattolici il termine di materialismo è spesso usato in questo senso; materialismo è l'opposto di spiritualismo in senso stretto, cioè di spiritualismo religioso e quindi si comprende in esso tutto lo hegelismo e in generale la filosofia classica tedesca, oltre al sensismo e illuminismo francese.

Cosí, nei termini del senso comune, si chiama materialismo tutto ciò che tende a trovare in questa terra e non in paradiso, il fine della vita. Ogni attività economica che uscisse dai limiti della produzione medioevale era «materialismo» perché pareva « fine a se stessa», l'economia per l'economia, l'attività per l'attività, cosí come oggi per l'europeo medio è « materialista» l'America, perché l'impiego delle macchine e il volume delle aziende e degli affari eccede un certo limite che all'europeo medio appare il «giusto», quello entro il quale le esigenze «spirituali» non sono mortificate. Cosí una ritorsione polemica della cultura feudale contro la borghesia in inviluppo è oggi fatta propria dalla cultura borghese europea contro un capitalismo phi sviluppato di quello europeo da una parte e dall'altra contro l'attività pratica dei gruppi sociali subalterni per i quali, inizialmente e per una intiera epoca storica, cioè fino a quando esse non avranno costruito una propria economia e una propria struttura sociale, l'attività non può non essere prevalentemente economica o almeno esprimersi in termini economici e di struttura. Tracce di questa concezione del materialismo rimangono nel linguaggio: in tedesco geistlich significa anche «clericale», proprio del clero, cosí anche come nel russo dukhoviez; e che essa sia la prevalente si pue, ricavare da molti scrittori di filosofia della prassi, per i quali, giustamente, la religione, il teismo ecc. sono i punti di riferimento per riconoscere i «materialisti conseguenti».

Una delle ragioni, e forse la prevalente, della riduzione al materialismo metafisico tradizionale del materialismo storico, è da ricercare in ciò che il materialismo storico non poteva non essere una fase prevalentemente critica e polemica della filosofia, mentre si aveva bisogno di un sistema già compiuto e perfetto. Ma i sistemi compiuti e perfetti sono sempre opera di singoli filosofi, e in essi, accanto alla parte storicamente attuale, cioè corrispondente alle contemporanee condizioni di vita, esiste sempre una parte astratta, astorica», nel senso che è legata alle precedenti filosofie e risponde a necessità esteriori e pedantesche di architettura del sistema o è dovuta a idiosincrasie personali; perciò la filosofia di un'epoca non può essere nessun sistema individuale o di tendenza: essa è l'insieme di tutte le filosofie individuali e di tendenza, piú le opinioni scientifiche, più la religione, più il senso comune. Si può formare un sistema di tal genere artificiosamente? per opera di individui e di gruppi? L'attività critica è la sola possibile, specialmente nel senso di porre e risolvere criticamente i problemi che si presentano come espressione dello svolgimento storico. Ma il primo di questi problemi che occorre impostare e comprendere è questo: che la nuova filoofia non può coincidere con nessun sistema del passato, comunque esso si chiami. Identità di termini non significa identità di concetti.

Un libro da studiare a proposito di questo argomento è la Storia del materialismo del Lange. L'opera sarà piú o meno superata, per gli studi successivi sui singoli filosofi materialisti, ma la sua importanza culturale rimane intatta da questo punto di vista: ad essa si sono riferiti, per informarsi dei precedenti e per avere i concetti fondamentali del materialismo tutta una serie di seguaci del materialismo storico. Si può dire che sia avvenuto questo, schematicamente: si è partiti dal presupposto dogmatico che il materialismo storico è senz'altro il materialismo tradizionale un po' riveduto e corretto (corretto con la «dialettica» che cosí viene assunta come un capitolo della logica formale e non come essa• stessa una logica, cioè una teoria della conoscenza); si è studiato nel Lange cos'è stato il materialismo tradizionale e i concetti di questo sono stati ripresentati come concetti del materialismo storico. Sicché si può dire che per la maggior parte del corpo di concetti che si presenta sotto l'etichetta del materialismo storico, il caposcuola e fondatore è stato il Lange e nessun altro. Ecco perché lo studio di questa opera presenta un grande interesse culturale e critico, tanto più che il Lange è uno storico coscienzioso e acuto, che ha del materialismo un concetto assai preciso, definito e limitato e perciò, con grande stupore e quasi sdegno di alcuni (come il Plekhanov) non considera materialistici né il materialismo storico e neanche la filosofia di Feuerbach. Si potrà anche qui vedere come la terminologia è convenzionale, ma ha la sua importanza nel determinare errori e deviazioni quando si dimentica che occorre sempre risalire alle fonti culturali per identificare il valore esatto dei concetti, poiché sotto lo stesso cappello possono stare teste diverse. È noto, d'altra parte, che il caposcuola della filosofia della prassi non ha chiamato mai «materialistica» la sua concezione e come parlando del materialismo francese lo critichi e affermi che la critica dovrebbe essere più esauriente. Cosí non adopera mai la formula di «dialettica materialistica» ma «razionale» in contrapposto a «mistica», ciò che dà al termine «razionale» un significato ben preciso. (Su questa questione è da rivedere ciò che scrive Antonio Labriola nei suoi saggi.

La scienza e gli strumenti scientifici

Si afferma, nel Saggio popolare, che i progressi delle scienze sono dipendenti, come l'effetto dalla causa, dallo sviluppo degli strumenti scientifici. È questo un corollario del principio generale, accolto dal Saggio, e di origine loriana, stilla funzione storica dello «strumento di produzione e di lavoro» (che viene sostituito all'inieme dei rapporti sociali di produzione). Ma nella scienza geologica non si impiega altro strumento oltre il martello e i progressi tecnici del martello non sono certo paragonabili ai progressi della geologia. Se la storia delle scienze può ridursi, secondo il Saggio, alla storia dei loro strumenti particolari, come potrà costruirsi una storia della geologia? Né vale dire che la geologia si fonda anche sui progressi di un insieme di altre scienze, per cui la storia degli strumenti di queste servono a indicare lo sviluppo della geologia, perché con "questa scappatoia si finirebbe col dire una vuota generalità e col risalire a movimenti sempre più vasti, fino ai rapporti di produzione. fü giusto che per la geologia il motto sia «mente et malleo ».

Si può dire in generale che il progredire delle scienze non può essere documentato materialmente; la storia delle scienze può solo essere ravvivata nel ricordo, e non per tutte, con la descrizione del successivo perfezionarsi degli strumenti che sono stati uno dei mezzi del progresso, e con la descrizione delle macchine che sono state l'applicazione delle scienze stesse. I principali «strumenti» del progresso scientifico sono di ordine intellettuale (e anche politico), metodologico, e giustamente l'Engels ha scritto che gli «strumenti intellettuali » non sono nati dal nulla, non sono innati nell'uomo, ma sono acquisiti, si sono sviluppati e si sviluppano storicamente. Quanto ha contribuito ai progresso delle scienze l'espulsione dell'autorità di Aristotele e della Bibbia dal campo scientifico? E questa espulsione non fu dovuta al progresso generale della società moderna? Ricordare l'esempio delle teorie sull'origine delle sorgenti. La prima formulazione esatta del modo con cui si producono le sorgenti si trova nell'Enciclopedia di Diderot ecc.; mentre si può dimostrare che gli uomini del popolo anche prima avevano opinioni esatte in proposito, nel campo degli scienziati si succedevano le teorie più arbitrarie e bizzarre che tendevano a mettere d'accordo la Bibbia e Aristotele con le osservazioni sperimentali del buon senso.

Un'altra questione è questa: se fosse vera l'affermazione del Saggio, in che si distinguerebbe la storia delle scienze dalla storia della tecnologia ? Con lo svilupparsi degli strumenti « materiali» scientifici, che si inizia storicamente con l'avvento del metodo sperimentale, si è sviluppata una particolare scienza, la scienza degli strumenti, strettamente legata allo sviluppo generale della produzione e della tecnologia. (Su questo argomento è da vedere: G. BOFFITO, Gli strumenti della scienza e la scienza degli strumenti, Libreria Internaz. Seeber, Firenze, 1929.) Quanto sia superficiale l'affermazione del Saggio si può vedere dall'esempio delle scienze matematiche, che non hanno bisogno di strumento materiale alcuno (lo sviluppo del pallottoliere non credo si possa avanzare) e che sono esse stesse «strumento» di tutte le scienze naturali.

Lo «strumento tecnico»

La concezione dello « strumento tecnico» è completamente errata nel Saggio popolare. Dal saggio di B. Croce su Achille Loria (Materialismo Storico ed Economia Marxista) sembra che appunto il Loria sia stato il primo a sostituire arbitrariamente (o per vanità puerile di scoperte originali) l'espressione di « strumento tecnico» a quella di «forze materiali di produzione » e di «complesso dei rapporti sociali».

Nella prefazione alla Critica dell'Economia politica è detto: « Nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano fra loro in rapporti determinati, necessari, e indipendenti dal loro arbitrio, cioè in rapporti di produzione, i quali corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L'insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza... A un determinato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società si trovano in contraddizione coi preesistenti rapporti della produzione (cioè dei rapporti della proprietà, il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) dentro dei quali esse forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti della produzione, da forma di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro impedimento. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Col cangiare del fondamento economico si rivoluziona e precipita, più o meno rapidamente, la soprastante colosale soprastruzione... Una forma sociale non perisce, finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa ha campo sufficiente, e nuovi rapporti di produzione non subentrano, se prima le condizioni materiali di loro esistenza non siano state covate nel seno della società che è in essere». (Traduzione di Antonio Labriola nel suo scritto: In memoria). Ed ecco un rifacimento del Loria (in La terra e il sistema sociale, p. 19, Verona, Drucker, 1892; ma il Croce afferma che in altri scritti del Loria ne esistono altri): «Ad un dato stadio dello stromento produttivo corrisponde, e sovr'esso si erige, un dato sistema di produzione, quindi di rapporti economici, i quali foggiano poi tutto il modo di essere della società. Ma l'evoluzione incessante dei metodi produttivi genera tosto o tardi una metamorfosi radicale dello strumento tecnico, la quale rende intollerabile quel sistema di produzione e di economia, che sullo stadio anteriore della tecnica era fondato. Allora la forma economica invecchiata vien distrutta mediante una rivoluzione sociale e sostituita con una forma economica superiore, rispondente alla nuova fase dello strumento produttivo».

Il Croce aggiunge che nel Capitale (volume I, p. 143 n. e 335-6 n.) e altrove è messa in rilievo l'importanza delle invenzioni tecniche ed è invocata una storia della tecnica, ma non esiste nessuno scritto in cui lo «stromento tecnico» sia fatto diventare la causa unica e suprema dello svolgimento economico. Il brano dello Zur Kritik contiene le espressioni «grado di sviluppo delle materiali forze di produzione », «modo di produzione della vita materiale», «condizioni economiche della produzione» e simili, le quali affermano bensí che lo svolgimento economico è determinato da condizioni materiali, ma non riducono queste mai alla sola «metamorfosi dello strumento tecnico». Il Croce aggiunge poi che il fondatore della filosofia della prassi non si è mai proposto questa indagine intorno alla causa ultima della vita economica. «La sua filosofia non era cosí a buon mercato. Non aveva "civettato" invano con la dialettica dello Hegel, per andar poi a cercare le cause ultime».

E da notare che nel Saggio popolare né è riportato il brano della prefazione allo Zur Kritik né vi si fa accenno. Ciò che è assai strano trattandosi della fonte autentica più importante per una ricostruzione della filosofia della prassi. D'altronde, per questo riguardo, il modo di pensare esposto nel Saggio non è differente da quello del Loria, se non è addirittura più criticabile e superficiale. Nel Saggio non si capisce esattamente cosa sia la struttura, la super-struttura, lo strumento tecnico: tutti i concetti generali vi sono nebulosi e vaghi. Lo strumento tecnico è concepito in modo cosí generico che esso significa ogni arnese e utensile, fino agli strumenti che adoperano gli scienziati nel loro esperimento e... gli strumenti musicali. Questo modo di porre la questione rende inutilmente complicate le cose.

Partendo da questo barocco modo di pensare tutta una serie di questioni barocche sorgono: per esempio, le biblioteche sono strutture o superstrutture? e i gabinetti sperimentali degli scienziati?

Concetto di «ortodossia»

Se può essere sostenuto che un'arte o una scienza si sviluppano per lo svilupparsi dei rispettivi strumenti tecnici, perché non potrebbe sostenersi precisamente il contrario o addirittura che certe forme strumentali sono nello stesso tempo struttura e superstruttura? Si potrebbe dire che certe superstrutture hanno una propria struttura particolare pur rimanendo superstrutture: cosí l'arte tipografica sarebbe la struttura materiale di tutta una serie anzi di tutte le ideologie e basterebbe l'esistenza dell'industria tipografica per giustificare materialisticamente tutta la storia. Rimarrebbe poi il caso della matematica pura, dell'algebra, che non avendo strumenti propri non potrebbero svilupparsi. È evidente che tutta la teoria dello strumento tecnico del Saggio è solo un abrakadabra e che può essere paragonata alla teoria della «memoria» escogitata dal Croce per spiegare il perché gli artisti non si accontentino di concepire le loro opere solo idealmente ma le scrivano o le scolpicano ecc. (con la fenomenale obbiezione del Tilgher a proposito dell'architettura in cui sarebbe un po' grossa che per mantenere la memoria di un palazzo, l'ingegnere lo costruisca) ecc. È certo che tutto ciò è una deviazione infantile della filosofia della prassi, determinata dalla convinzione barocca che quanto più si ricorre a oggetti «materiali» tanto più si è ortodossi.

Obbiezione all'empirismo

L'indagine di una serie di fatti per trovarne i rapporti preuppone un «concetto» che permetta di distinguere quella serie di fatti da altre serie possibili: come avverrà la scelta dei fatti da addurre come prova della verità del proprio assunto, se non preesiste il criterio di scelta? Ma cosa sarà questo criterid di scelta, se non qualcosa di superiore a ogni singolo fatto indagato? Una intuizione, una concezione, la cui storia è da ritenersi complessa, un processo da connettere a tutto il processo di sviluppo della cultura, ecc. Quest'osservazione è da connettere all'altra sulla «legge sociologica » in cui non si fa altro che ripetere due volte lo stesso fatto, una volta come fatto e una volta come legge (sofisma del doppio fatto e non legge).

Da alcuni punti svolti precedentemente, appare che il concetto di «ortodossia» deve essere rinnovato e riportato alle sue origini autentiche. L'ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei seguaci della filosofia della prassi, in questa o quella tendenza legata a correnti estranee alla dottrina originale, ma nel concetto fondamentale che la filosofia della prassi «basta a se stessa», contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà.

Questo concetto cosí rinnovato di ortodossia, serve a precisare meglio l'attributo di «rivoluzionario» che si suole con tanta facilità applicare a diverse concezioni del mondo, teorie, filosofie. Il cristianesimo fu rivoluzionario in confronto del paganesimo perché fu un elemento di completa scissione tra i sostenitori del vecchio e del nuovo mondo. Una teoria è appunto «rivoluzionaria » nella misura in cui è elemento di separazione e distinzione consapevole in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile al campo avversario. Ritenere che la filosofia della prassi non sia una struttura di pensiero completamente autonoma e indipendente, in antagonismo con tutte le filosofie e le religioni tradizionali, significa in realtà non aver tagliato i legami col vecchio mondo, se non addirittura aver capitolato. La filosofia della prassi non ha bisogno di sostegni eterogenei; essa stessa è cosí robusta e feconda di nuove verità che il vecchio mondo vi ricorre per fornire il suo arsenale di armi più moderne ed efficaci. Ciò significa che la filoofia della prassi comincia ad esercitare una propria egemonia sulla cultura tradizionale, ma questa, che è ancora robusta e soprattutto è più raffinata e leccata, tenta di reagire come la Grecia vinta, per finire di vincere il rozzo vincitore romano.

Si può dire che una gran parte dell'opera filosofica di B. Croce rappresenta questo tentativo di riassorbire la filosofia della prassi e incorporarla come ancella alla cultura tradizionale. Ma come si vede dal Saggio, anche dei seguaci che si chiamano «ortodossi» della filosofia della prassi, cadono nel tranello ed essi stessi concepiscono la loro filosofia come subordinata a una teoria generale materialistica (volgare) come altri a quella idealistica. (Ciò non vuol dire che tra la filosofia della prassi e le vecchie filosofie non vi siano rapporti, ma essi sono minori di quelli esistenti tra il cristianesimo e la filosofia greca). Nel volumetto di Otto Bauer sulla religione si possono trovare alcuni accenni sulle combinazioni a cui ha dato luogo questo erroneo concetto che la filosofia della prassi non è autonoma e indipendente, ma ha bisogno di sostenersi con un'altra filosofia materialistica o idealistica, volta a volta. Il Bauer sostiene, come tesi politica, l'agnosticismo dei partiti e il permesso dato ai soci di aggrupparsi in idealisti, materialisti, atei, cattolici ecc.

Nota I. Una delle cause dell'errore per cui si va alla ricerca di una filoofia generale che stia alla base della filosofia della prassi e si nega implicitamente a questa una originalità di contenuto e di metodo, pare consista in ciò: che si fa confusione tra la cultura filosofica personale del fondatore della filoofia della prassi, cioè tra le correnti filosofiche e i grandi filosofi di cui egli si è fortemente interessato da giovane e il cui linguaggio spesso riproduce (sempre però con spirito di distacco e facendo notare talvolta che cosf vuol far capire meglio il suo proprio concetto) e le origini o le parti costitutive della filosofia della prassi. Questo errore ha tutta una storia, specialmente nella critica letteraria ed è noto che il lavoro di ridurre grandi opere poetiche alle loro fonti era diventato, in un certo tempo, la fatica massima di molti insigni eruditi. La questione si pone nella sua forma esterna nei cosiddetti plagi, ma è anche noto che anche per alcuni «plagi» e anzi riproduzioni letterali, non è escluso che si possa sostenere una originalità per l'opera plagiata o riprodotta.

Si possono citare due esempi insigni: 1) Il sonetto del Tansillo riprodotto da Giordano Bruno negli Eroici furori (o nella Cena delle Cenen) «Poiché spiegate ho l'ali al bel desio» (che nel Tansillo era un sonetto d'amore per la marchesa del Vasto); 2) I versi per i morti di Dogali offerti dal D'Annunzio come propri per un numero unico e che erano ricopiati alla lettera da una raccolta del Tommaseo di canti serbi. Tuttavia in Bruno e D'Annunzio queste riproduzioni acquistano un gusto nuovo e originale che fa dimenticare la loro origine.

Lo studio della cultura filosofica di un uomo come Marx non solo è interessante ma è necessario purché tuttavia non si dimentichi che esso fa parte esclusivamente della ricostruzione della sua biografia intellettuale e che gli elementi di spinozismo, di feuerbachismo, di hegelismo, di materialismo francese ecc., non sono per nulla parti essenziali della filosofia della prassi né questa si riduce a quelli, ma che ciò che più interessa è appunto il superamento delle vecchie filoofie, la nuova sintesi o gli elementi di una nuova sintesi, il nuovo modo di concepire la filosofia i cui elementi sono contenuti negli aforismi o dispersi negli scritti del fondatore della filosofia della prassi, e che appunto bisogna sceverare e sviluppare coerentemente. In sede teorica la filosofia della prassi non si confonde e non si riduce a nessuna altra filosofia: essa non è solo originale in quanto supera le filosofie precedenti, ma specialmente in quanto apre una strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di concepire la filosofia stessa.

In sede di ricerca storico-biografica si studierà da quali interessi il fondatore della filosofia della prassi ha preso occasione per il suo filosofare, tenendo conto della psicologia del giovane studioso che volta per volta si lascia attrarre intellettualmente da ogni nuova corrente che studia ed esamina, e che si forma una sua individualità per questo stesso errare che crea lo spirito critico e la potenza di pensiero originale dopo avere sperimentato e messo a confronto tanti pensieri contrastanti, — quali elementi ha incorporato rendendoli omogenei al suo pensiero, ma specialmente ciò che è nuova creazione. È certo che l'hegelismo è il più importante (relativamente) dei motivi al filosofare del nostro autore, anche e specialmente perché l'hegelismo ha tentato di superare le concezioni tradizionali di idealismo e di materialismo in una nuova sintesi che ebbe certo una importanza eccezionale e rappresenta un momento storico-mondiale della ricerca filosofica. Così avviene che quando nel Saggio si dice che il termine di «immanenza » nella filosofia della prassi è impiegato in senso metaforico, non si dice proprio nulla; in realtà il termine di immanenza ha acquistato un significato peculiare che non è quello dei «panteisti», né ha altro significato metafisico tradizionale ma è nuovo e occorre sia stabilito. Si è dimenticato in un'epressione molto comune r che occorreva posare l'accento sul secondo termine « storico » e non sul primo di origine metafisica. La filosofia della prassi è lo «storicismo is assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare il filone della nuova concezione del mondo.

Nota II. A proposito dell'importanza che può avere la nomenclatura per le cose nuove. Nel «Marzocco» del 2 ottobre 1927 nel capitolo XI dei Bonaparte a Roma di Diego Angeli, dedicato alla principessa Carlotta Napoleone (figlia del re Giuseppe e moglie di Napoleone Luigi, fratello di Napoleone III, morto nell'insurrezione di Romagna del 1831) è riportata una lettera di Pietro Giordani alla principessa Carlotta, in cui il Giordani scrive alcuni suoi penieri personali su Napoleone I. Nel 1805 a Bologna Napoleone si era recato a visitare l'«Istituto» (Accademia di Bologna) e conversò a lungo con quegli scienziati (fra cui il Volta). Fra l'altro disse: «... Io credo che quando nella scienza si trova qualche cosa veramente nuova, bisogna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, acciocché l'idea rimanga precisa e distinta. Se date nuovo significato a un vecchio vocabolo, per quanto professiate che l'antica idea attaccata a quella parola non ha niente di comune coll'idea attribuitagli nuovamente, le menti umane non possono mai ritenersi affatto che non concepiscano qualche somiglianza e connessione fra l'antica e la nuova idea; e ciò imbroglia la scienza e produce poi inutili dispute». Secondo l'Angeli, la lettera del Giordani, senza data, si può ritenere che risalga alla primavera del 1831 (quindi è da pensare che il Giordani ricordasse il contenuto generale della conversazione con Napoleone, ma non la forma esatta). Sarebbe da vedere se il Giordani nei suoi libri sulla lingua espone concetti suoi su questo argomento.

La «materia

Che cosa intende per « materia» il Saggio popolare? In un saggio popolare ancor più che in un libro per i dotti, e specialmente in questo che pretende di essere il primo lavoro del genere, occorre definire con esattezza non solo i concetti fondamentali, ma tutta la terminologia, per evitare le cause di errore occasionate dalle accezioni popolari e volgari delle parole scientifiche. È evidente che per la filosofia della prassi la «materia» non deve essere intesa né nel significato quale risulta dalle scienze naturali (fisica, chimica, meccanica ecc. e questi significati sono da registrare e da studiare nel loro sviluppo storico) né nei suoi significati quali risultano dalle diverse metafisiche materialistiche. Le diverse proprietà fisiche (chimiche, meccaniche ecc.) della materia che nel loro inieme costituiscono la materia stessa (a meno che non si ricaschi in una concezione del noumeno kantiano) sono considerate, ma solo in quanto diventano «elemento economico» produttivo.

La materia non è quindi da considerare come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica, un rapporto umano. L'insieme delle proprietà di ogni tipo di materiale è mai stato lo stesso? La storia delle scienze tecniche dimostra di no. Per quanto tempo non si curò la forza meccanica del vapore? E si può dire che tale forza meccanica esistesse prima di essere utilizzata dalle macchine umane? Allora in che senso e fino a che punto non è vero che la natura non dà luogo a scoperte e invenzioni di forze preesistenti, di qualità preesistenti della materia, ma solo a «creazioni» che sono strettamente legate agli interessi della società, allo sviluppo e alle ulteriori necessità di sviluppo delle forze produttive?

E il concetto idealistico che la natura non è altro che la categoria economica, non potrebbe, depurato delle sue super-strutture speculative, essere ridotto in termini di filosofia della prassi ed essere dimostrato storicamente legato a questa e uno sviluppo di questa? In realtà la filosofia della prassi non studia una macchina per conoscerne e stabilirne la struttura atomica del materiale, le proprietà fisico-chimico-meccaniche dei suoi componenti naturali (oggetto di studio delle scienze esatte e della tecnologia), ma in quanto è un momento delle forze materiali di produzione, in quanto è oggetto di proprietà di determinate forze sociali, in quanto essa esprime un rapporto sociale e questo corrisponde a un determinato periodo storico. L'insieme delle forze materiali di produzione è l'elemento meno variabile nello sviluppo storico, è quello che volta per volta può essere accertato e misurato con. esattezza matematica, che può dar luogo pertanto a osservazioni e a criteri di carattere sperimentale e quindi alla ricostruzione di un robusto scheletro del divenire storico. La variabilità dell'insieme delle forze materiali di produzione è anch'essa misurabile e si può stabilire con una certa precisione quando il suo sviluppo da quantitativo diventa qualitativo.

L'insieme delle forze materiali di produzione è insieme una cristallizzazione di tutta la storia passata e la base della storia presente e avvenire, è un documento e insieme una forza attiva attuale di propulsione. Ma il concetto di attività di queste forze non può essere confuso e neppure paragonato all'attività nel senso fisico o metafisico. L'elettricità è storicamente attiva, ma non come mera forza naturale (come scarica elettrica che provoca incendi, per esempio), ma come un elemento di produzione dominato dall'uomo e incorporato nell'insieme delle forze materiali di produzione, oggetto di proprietà privata. Come forza naturale astratta, l'elettricità esisteva anche prima della sua riduzione a forza produttiva, ma non operava nella storia, ed era un argomento di ipotesi nella storia naturale (e prima era il «nulla» storico, perché nessuno se ne occupava e anzi tutti la ignoravano).

Queste osservazioni servono a far capire come l'elemento causale assunto dalle scienze naturali per spiegare la storia umana è un puro arbitrio, quando non è un ritorno alle vecchie interpretazioni ideologiche. Per esempio, il Saggio afferma che la nuova teoria atomica distrugge l'individualismo (le robinsonate). Ma cosa significa ciò? Cosa significa questo accostamento della politica alle teorie scientifiche se non che la storia è mossa da queste teorie scientifiche, cioè dalle ideologie, per cui per voler essere ultra-materialisti si cade in una forma barocca di idealismo astratto? Né si può rispondere che non la teoria atomistica ha distrutto l'individualismo, ma la realtà naturale che la teoria descrive e constata, senza cadere nelle più complicate contraddizioni poiché questa realtà naturale si suppone precedente alla teoria e quindi operante quando l'individualismo era in auge. Come mai allora non operava la realtà «atomistica» sempre, se essa è ed era una legge naturale, ma per operare dovette aspettare che ne fosse costruita una teoria dagli uomini? Gli uomini ubbidiscono solo allora alle leggi che conoscono, come fossero leggi emanate dai Parlamenti? E chi potrebbe far osservare agli uomini le leggi che ignorano, secondo il principio della legislazione moderna per cui l'ignoranza della legge non può essere invocata dal reo? (Né può dirsi che le leggi di una determinata scienza naturale sono identiche alle leggi della storia, o che essendo tutto il complesso delle idee scientifiche una unità omogenea, si può ridurre una scienza all'altra o una legge all'altra, perché in questo caso per quale privilegio questo determinato elemento della fisica e non un altro può essere quello riducibile all'unità della concezione del mondo?)

In realtà, questo è solo uno dei tanti elementi del Saggio popolare che dimostrano la superficiale impostazione del problema della filosofia della prassi, il non aver saputo dare a questa concezione del mondo la sua autonomia scientifica e la posizione che le spetta di fronte alle scienze naturali, anzi, peggio, a quel vago concetto di scienza in generale che è proprio della concezione volgare del popolo (per il quale anche i giuochi di prestigio sono scienza). La teoria atomistica moderna è una teoria «definitiva» stabilita una volta per sempre? Chi, quale scienziato oserebbe affermarlo? O non è invece anch'essa semplicemente un'ipotesi scientifica che potrà essere superata, cioè assorbita in una teoria più vasta e comprensiva? Perché dunque il riferimento a questa teoria dovrebbe essere stato decisivo e aver posto fine alla questione dell'individualismo e delle robinsonate? (A parte il fatto che le robinsonate possono essere talvolta schemi pratici costruiti per indicare una tendenza o per una dimostrazione per assurdo: anche l'autore dell'economia critica ha fatto ricorso a delle robinsonate). Ma ci sono altre questioni: se la teoria atomistica fosse quello che il Saggio pretende, dato che la storia della società è una serie di rivolgimenti e le forme di società sono state numerose, mentre la teoria atomistica sarebbe il riflesso di una realtà naturale sempre simile, come mai anche la società non ha obbedito sempre a questa legge? O si pretenderebbe che il passaggio dal regime corporativo medioevale all'individualismo economico sia stato antiscientifico, uno sbaglio della storia e della natura? Secondo la teoria della prassi è evidente che non la teoria atomistica spiega la storia umana, ma viceversa, che cioè la teoria atomistica come tutte le ipotesi e le opinioni scientifiche sono superstrutture. (La teoria atomistica servirebbe a spiegare l'uomo biologico come aggregato di corpi diversi e a spiegare la società degli uomini. Che teoria comprensiva!)

Quantità e qualità

Nel Saggio popolare si dice (occasionalmente, perché l'affermazione non è giustificata, valutata, non esprime un concetto fecondo, ma è casuale, senza nessi antecedenti e susseguenti) che ogni società è qualcosa di più della mera somma dei suoi componenti individuali. Ciò è vero astrattamente, ma cosa significa concretamente? La spiegazione che ne è stata data, empiricamente, è spesso una cosa barocca. Si è detto che cento vacche una per una sono ben diverse da cento vacche insieme che allora sono un armento, facendo una semplice questione di parole. Cosí si è detto che nella numerazione, arrivati a dieci, abbiamo una decina, come se non ci fosse la coppia, il terzetto, il quartetto ecc. cioè un semplice diverso modo di numerare. La spiegazione teorico-pratica più concreta si ha nel I volume del Capitale, dove si dimostra che nel sitema di fabbrica, esiste una quota di produzione che non può essere attribuita a nessun lavoratore singolo ma all'insieme della maestranza, all'uomo collettivo. Qualcosa di simile avviene per l'intiera società che è basata sulla divisione del lavoro e delle funzioni e pertanto vale più della somma dei suoi componenti. Come la filosofia della prassi abbia «concretato» la legge hegeliana della quantità che diventa qualità è un altro di quei nodi teorici che il Saggio popolare non svolge, ma ritiene già noti, quando non si accontenta di semplici giuochi di parole come quelli sull'acqua che col cambiare di temperatura cambia di stato (ghiacciato, liquido, gasoso), che è un fatto puramente meccanico, determinato da un agente esterno (il fuoco, il sole, o l'evaporazione dell'acido carbonico solido ecc.).

Nell'uomo chi sarà questo agente esterno? Nella fabbrica è la divisione del lavoro ecc., condizioni create dall'uomo stesso. Nella società, l'insieme delle forze produttive. Ma l'autore del Saggio non ha pensato che se ogni aggregato sociale è qualcosa di più (e anche di diverso) della somma dei suoi componenti, ciò significa che la legge o il principio che spiega lo svolgersi delle società non può essere una legge fisica poiché nella fisica non si esce mai dalla sfera della quantità altro che per metafora. Tuttavia nella filosofia della prassi la qualità è sempre connessa alla quantità, e anzi forse in tale connessione è la sua parte più originale e feconda. Infatti l'idealismo ipostatizza questo qualcosa in più, la qualità, ne fa un ente a sé, lo «spirito», come la religione ne aveva fatto la divinità.

Ma se è ipostasi quella della religione e dell'idealismo, cioè astrazione arbitraria, non processo di distinzione analitica praticamente necessario per ragioni pedagogiche, è anche ipostasi quella del materialismo volgare, che «divinizza» una materia ipostatica.

E da confrontare questo modo di vedere nella concezione della società con la concezione dello Stato propria degli idealisti attuali. Per gli attualisti lo Stato finisce con l'essere proprio questo qualcosa di superiore agli individui (sebbene dopo le conseguenze che lo Spirito ha tratto a proposito della proprietà dall'identificazione idealistica dell'individuo e dello Stato, il Gentile nell'« Educazione fascista » dell'agosto 1932 ha precisato prudentemente). La concezione degli attualisti volgari era caduta cosí in basso nel puro psittacismo che l'unica critica possibile era la caricatura umoristica. Si poteva pensare una recluta che agli ufficiali arruolatori espone la teoria dello Stato superiore agli individui e domandi che lacino libera la sua persona fisica e materiale e arruolino quel tantino di qualcosa che contribuisce a costruire il qualcosa nazionale che è lo Stato. O ricordare la storia del «Novellino» in cui il saggio Saladino dirime la vertenza tra il rosticciere che vuol essere pagato per l'uso delle emanazioni aromatiche delle sue vivande e il mendicante che non vuol pagare: il Saladino fa pagare col tintinnio delle monete e dice al rosticciere di intascare il suono come il mendicante ha mangiato gli effluvi aromatici.

La teleologia

Nella questione della teleologia appare ancora piú vistosamente il difetto del Saggio nel presentare le dottrine filosofiche passate su uno stesso piano di trivialità e banalità, cosi che al lettore pare che tutta la cultura passata sia stata una fantasmagoria di baccanti in delirio. Il metodo è riprovevole da molti punti di vista: un lettore serio, che estenda le sue nozioni e approfondisca i suoi studi, crede di essere stato preso in giro ed estende il sospetto a tutto l'insieme del sistema. E facile parere di aver superato una posizione abbassandola, ma si tratta di pura illusione verbale. Presentare cosí burlescamente le quistioni può avere un significato in Voltaire, ma non è Voltaire chiunque voglia, cioè non è grande artista.

Cosí il Saggio presenta la questione della teleologia nelle sue manifestazioni piú infantili, mentre dimentica la soluzione data da Kant. Si potrebbe forse dimostrare che nel Saggio c'è molta teleologia inconscia che riproduce senza saperlo il punto di vista di Kant: per esempio il capitolo sull'e Equilibrio tra la natura e la società». ( Dalle Xenie di GOETHE: «II Teleologo: — Il Creatore buono adoriamo del mondo, che, quando — il sughero creò, inventò insieme il tappo» (trad. di B. CROCE nel vol. su Goethe, p. 262). Il Croce mette questa nota : «Contro il finalismo estrinseco, generalmente accolto nel secolo decimottavo, e che il Kant aveva di recente criticato surrogandolo con un piú profondo concetto della finalità n. Altrove e in altra forma il Goethe ripete questo stesso motivo e dice di averlo derivato dal Kant: «Il Kant è il piú eminente dei moderni filosofi, quello le cui dottrine hanno maggiormente influito sulla mia coltura. La distinzione del soggetto dall'oggetto e il principio scientifico che ogni cosa esiste e si svolge per ragion sua propria ed intrinseca (che il sughero, a dirla proverbialmente, non nasce per servir di turacciolo alle nostre bottiglie) ebb'io comune col Kant, ed io in seguito applicai molto studio alla sua filosofia». Nella concezione di «missione storica» non potrebbe scoprirsi una radice teleologica? E infatti in molti casi essa assume un significato equivoco e mistico. Ma in altri casi essa ha un significato, che, dopo il concetto kantiano della teleologia, può essere sostenuto e giustificato dalla filosofia della prassi.)

Sull'arte

Nel capitolo dedicato all'arte, si afferma che anche le piú recenti opere sull'estetica pongono l'identità di forma e contenuto. Questo può essere assunto come uno degli esempi più vistosi dell'incapacità critica nello stabilire la storia dei concetti e nell'identificare il reale significato dei concetti stessi a seconda delle diverse teorie. Infatti l'identificazione di contenuto e ferma è affermata dall'estetica idealistica (Croce) ma su presupposti idealistici e con terminologia idealistica. «Contenuto» e «forma» non hanno quindi il significato che il Saggio suppone. Che forma e contenuto si identifichino significa che nell'arte il contenuto non è l'« astratto soggetto» cioè l'intrigo romanzesco e la particolare massa dei sentimenti generici, ma l'arte stessa, una categoria filosofica, un momento «distinto» dello spirito, ecc. Né quindi forma significa « tecnica» come il Saggio suppone.

Tutti gli spunti e gli accenni di estetica e di critica artistica contenuti nel Saggio sono da raccogliere e da analizzare. Ma pue) servire intanto da esempio il paragrafo dedicato al Prometeo di Goethe. Il giudizio dato è superficiale ed estremamente generico. L'autore, a quanto pare, non conosce né la storia esatta di questa ode del Goethe, né la storia del mito di Prometeo nella letteratura mondiale prima di Goethe e specialmente nel periodo precedente e contemporaneo all'attività letteraria del Goethe. Ma si pub dare un giudizio, come quello dato nel Saggio, senza conoscere proprio questi elementi? Come altrimenti distinguere ciò che è più strettamente personale di Goethe da ciò che è rappresentativo di un'epoca di un gruppo sociale? Questo genere di giudizi in tanto sono giutificati appunto in quanto non sono vuote generalità in cui possono rientrare le cose più disparate ma sono precisi, dimostrati, perentori; altrimenti sono destinati solo a diffamare una teoria e a sucitare un modo superficiale di trattare le quistioni (è sempre da ricordare la frase di Engels contenuta nella lettera a uno studente pubblicata dal «Sozial. Akademiker»).

Si potrebbe fare una esposizione della fortuna letteraria e artistica e ideologica del mito di Prometeo, studiando come questo si atteggia nei vari tempi e quale complesso di sentimenti e di idee serve a esprimere sinteticamente volta per volta. Per ciò che riguarda il Goethe riassumo alcuni elementi iniziali, togliendoli da un articolo di Leonello Vincenti (Prometeo, nel «Leonardo» del marzo 1932). Nell'ode voleva Goethe fare della semplice «mitologia» versificata o esprimeva un suo atteggiamento attuale e vivo verso la divinità, verso il dio cristiano? Nell'autunno del 1773 (quando scrisse il Prometeo) Goethe respingeva nettamente i tentativi di conversione del suo amico Lavater: «Ich bin kein Christ ». Un critico moderno (H. A. Korff) osserva (secondo le parole del Vincenti): «Si pensino quelle parole dirette contro un (!) Dio cristiano, si sostituisca al nome di Giove il concetto anonimo (!!) di Dio e si sentirà di quanto spirito rivoluzionario sia carica l'ode». [Inizio dell'ode: «Copri il tuo cielo, Giove, con veli di nuvole ed esercitati, simile al fanciullo che decapita cardi, su querce e vette di monti! Devi a me la mia terra pur lasciare e la mia capanna, che tu non hai costruito, e il mio focolare, per la cui fiamma m'in4idii. Nulla io conosco di più misero sotto il sole di voi, dei!»]

Storia religiosa di Goethe. Sviluppo del mito di Prometeo nel secolo XVIII, dalla prima formulazione dello Shaftesbury («a poet is indeed a second maker, a just Prometheus under Jove s) a quella degli Stürmer und Dränger, che trasporta Prometeo nell'esperienza artitica da quella religiosa. Il Walzel ha sostenuto appunto il carattere puramente artistico della creazione goethiana. Ma opinione comune è che il punto di partenza sia stata l'esperienza religiosa. Il Prometeo deve essere collocato in un gruppo di scritti (il Maometto, il Prometeo, il Satytos, l'Ebreo Errante, il Faust) degli anni 1773-74. Il Goethe voleva scrivere un dramma su Prometeo, di cui rimane un frammento. Julius Richter (Zur Deutung der Goetheschen Prometheusdichtung nello «Jahrbuch des freien deutschen Hochstifts», 1928) sostiene che l'ode precede il dramma, di cui anticipa solo alcuni elementi, mentre prima, con E. Schmidt, si credeva che l'ode è la quintessenza del frammento drammatico omonimo, quintessenza tratta dal poeta, quando aveva ormai abbandonato il tentativo del dramma. [Questa precisazione è importante psicologicamente: Si può vedere come l'ispirazione goethiana si attenua: 1) prima parte dell'ode, in cui predomina l'elemento titanico, della ribellione; 2) la seconda parte dell'ode, in cui Prometeo piega su se stesso, e hanno il sopravvento gli elementi di una certa debolezza umana; 3) il tentativo del dramma, . che non riesce, forse perché il Goethe non riesce più a trovare il fulcro della sua immagine, che già nell'ode si era spostato e aveva creato una contraddizione intima]. Il Richter cerca le concordanze tra l'opera letteraria e gli stati psicologici del poeta, attestati dalle sue lettere e da Poesia e Verità.

Nella Poesia e Verità si parte da un'osservazione generale: gli uomini alla fine devono sempre contare sulle loro forze; la divinità stessa pare non possa ricambiare la venerazione, la fiducia, l'amore degli uomini proprio nei momenti di maggior bisogno: bisogna aiutarsi da sé. «La più sicura base d'autonomia mi risultò sempre essere il mio talento creatore». « Questa situazione si concretò in un'immagine... L'antica figura mitologica di Prometeo, che, separatosi dagli dei, dalla sua officina popolò un mondo. Sentivo assai bene che si può produrre qualcosa di notevole soltanto isolandosi. Dovendo io escludere l'aiuto degli uomini, mi separai, al modo di Prometeo, anche dagli Dei», — come volevano i suoi stati d'animo estremi ed esclusivi — aggiunge il Vincenti, ma non mi pare che in G. si possa parlare di estremismo ed esclusività. «Mi ritagliai l'abito antico del Titano alla misura del mio dorso, e senza penarci tanto su incominciai a scrivere un dramma nel quale è rappresentata inicizia in cui Prometeo cade con gli dei foggiando uomini di propria mano e dando loro vita col favore di Minerva...» [Scrive il Vincenti: «Quando G. scriveva queste parole il frammento drammatico era da molti anni scomparso (cosa vuol dire "scomparso "?) ed egli non lo rammentava più bene. Credeva che l'ode, rimastagli, dovesse figurarvi come un monologo»].

L'ode presenta una situazione propria diversa da quella del frammento. Nell'ode la ribellione matura nel momento in cui è annunziata; è la dichiarazione di guerra, la quale si chiude con l'apertura delle ostilità. «Qui siedo, formo uomini ecc.». Nel dramma la guerra è già aperta. Logicamente, il frammento è posteriore all'ode, ma il Vincenti non è categorico come il Richter. Per lui «se è vero che, ideologicamente, il frammento drammatico rappresenta un progresso sopra l'ode, non è men vero che la fantasia dei poeti può aver dei ritorni su posizioni che parevano superate ricreare da esse qualcosa di nuovo. Abbandoniamo pure l'idea che l'ode sia la quintessenza del dramma; ma accontentiamoci di dire che le situazioni di questo e di quella stanno tra loro come il più complesso al più semplice». Il Vincenti nota l'antinomia esistente nell'ode: -- le prime due strofe di scherno e l'ultima di sfida — ma il corpo centrale di diverso tono: Prometeo ricorda la sua fanciullezza, gli smarrimenti, i dubbi, le angosce giovanili: «parla un deluso d'amore». « Questi sogni fioriti non ce li farà dimenticare più il cipiglio ripreso nell'ultima strofa. Aveva parlato il Titano in principio Prometeo; ma ecco poi spuntare sotto la maschera titanica i teneri (!) tratti d'un giovane dal cuore affannato d'amore». Un brano di Poesia e Verità è specialmente significativo per la personalità di Goethe: «Lo spirito titanico e gigantesco, eversore del cielo non offriva materia al mio poetare. Meglio mi si confaceva rappresentare quella resistenza pacifica, plastica e al più paziente, che riconosce il potere dell'autorità, ma vorrebbe porlesi al lato» [questo brano giustifica il breve scritto di Marx su Goethe e lo illumina]. Il frammento drammatico mostra, secondo me, che il titanismo di Goethe deve appunto essere collocato nella sfera letteraria e collegato all'aforisma:

«In principio era l'azione», se per azione si intende l'attività propria del Goethe, la creazione artistica. Osservazione del Croce che cerca di rispondere alla domanda del perché il dramma sia rimasto incompiuto: «Forse nella linea stessa di quelle scene si vede la difficoltà e l'ostacolo al compimento, il dualismo cioè tra il Goethe ribelle e il Goethe critico della ribellione». [Nel caso rivedere lo studio del Vincenti, che, anche ricco come è di imprecisioni e di contraddizioni, offre notazioni particolari acute].

In realtà il frammento drammatico mi pare da studiare a sé: esso è molto piú complesso dell'ode e il suo rapporto con l'ode è dato più dal mito esterno di Prometeo, che da un legame intimo e necessario. La ribellione di Prometeo è «costruttiva», Prometeo appare non solo nel suo aspetto di Titano in rivolta, ma specialmente come «homo faber», consapevole di se stesso e del significato dell'opera sua. Per il Prometeo del frammento, gli dei non sono affatto infiniti, onnipotenti. «Potete farmi stringere nel pugno il vasto spazio del cielo e della terra? Potete separarmi da me stesso? Potete dilatarmi fino ad abbracciare il mondo? Mercurio risponde con una spallucciata: il destino! E dunque anche gli dei sono vassalli. Ma Prometeo non si sente già felice nella sua officina, tra le sue creazioni? «Qui il mio mondo, il mio tutto! Qui io mi sento!» — A Mercurio aveva detto di aver preso coscienza, fanciullo, della propria esistenza fisica quando aveva avvertito che i suoi piedi reggevano il corpo e che le sue mani si stendevano a toccare spazio. — Epimeteo lo aveva accusato di particolarišmo, di misconoscere la dolcezza di formare un tutto con gli dei e gli affini e il mondo e il cielo. « La conosco questa storia!» risponde Prometeo, perché egli non può piú contentarsi di quell'unità che l'abbraccia dall'esterno, deve crearsene una che sorga dall'interiore. E questa può sorgere solo «dal cerchio riempito dalla sua attività»,