II

Alcuni problemi per lo studio della Filosofia della Prassi

Posizione del problema
Quistioni di metodo (1a parte: Q. XXII - 2a parte: Q. II)
Antonio Labriola (Q. XVIII)
La filosofia della prassi e la cultura moderna (Q. XXII)
Immanenza speculativa e immanenza storicistica o realistica (Q. III)
Unità negli elementi costitutivi del Marxismo (Q. VII)
Filosofia - Politica - Economia (Q. XVIII)
Storicità della filosofia della prassi (Q. XVIII)
Economia e Ideologia (Q. VII)
Scienza morale e materialismo storico (Q. VII)
Regolarità e necessità (Q. XVIII)
Un repertorio della filosofia della prassi (Q. XXII)
I fondatori della filosofia della prassi e l'Italia (1a parte: Q. XXII - 2a parte: Q. II)
Egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale Sorel, Proudhon, De Man (1a parte: Q. XVIII - 2a parte: Q. XVIII - 3a parte: Q. XVIII - 4a parte: Q. XVIII - 5a parte: Q. XVIII - 6a parte: Q. VII)
Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire e viceversa, dal sentire, al comprendere, al sapere

Posizione del problema.

Produzione di nuove Weltanschauungen, che feconda e alimenta la cultura di un'età storica e produzione indirizzata filosoficamente secondo le Weltanschauungen originali. Marx è un creatore di Weltanschauung — ma quale è la posizione di Iliè? E puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo-scienza e azione.

Il passaggio dall'utopia alla scienza e dalla scienza all'azione. La, fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla! creazione di una Weltanschauung. L'espressione che il proletariato tedesco è l'erede della filosofia classica tedesca, come deve essere intesa? Non voleva indicare Marx l'ufficio storico della sua filosofia divenuta teoria di una classe che sarebbe diventata Stato? Per Ilic questo è realmente avvenuto in un territorio determinato. Ho accennato altrove all'importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilc (Lenin). L'egemonia realizzata significa la, critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica. Confrontare ciò che scrive Graziadei (Graziadei è arretrato in confronto di morts. Olgiati che nel suo volumetto sul Marx non trova altro paragone possibile che con Gesù, paragone che per un prelato è realmente il colmo della concessione poiché egli crede alla natura divina del Cristo) nell'introduzione a Prezzo e soprapprezzo: egli pone Marx come unità di una serie di grandi scienziati. Errore fondamentale : nessuno degli altri ha prodotto una originale e integrale concezione del mondo. Marx inizia intellettualmente un'età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all'avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, superata dalla concezione della libertà).

Fare un parallelo tra Marx e Ilic per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione che sono omogenee ed eterogenee nello stesso tempo.

Cosí, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung — S. Paolo-organizzatore, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessari nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi storicamente: cristianesimo-paolinismo e sarebbe l'espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch'essa solo un elemento storico e non teorico).

Questioni di metodo.

Se si vuole studiare la nascita di una concezione del mondo che dal suo fondatore non è stata mai esposta sistematicamente (e la cui coerenza essenziale è da ricercare non in ogni singolo scritto o serie di scritti ma nell'intiero sviluppo del lavoro intellettuale vario in cui gli elementi della concezione sono mpliciti) occorre fare preliminarmente un lavoro filologico minuoso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso. Occorre, prima di tutto, ricostruire il processo di sviluppo intellettuale del pensatore dato, per identificare gli elementi divenuti stabili e «permanenti», cioè che sono stati assunti come pensiero proprio, diverso e superiore al «materiale» precedentemente studiato e che ha servito di stimolo; solo questi elementi sono momenti essenziali del processo di sviluppo. Questa selezione può essere fatta per periodi più o meno lunghi, come risulta dall'intrinseco e non da notizie esterne (che pure possono essere utilizzate) e dà luogo a una serie di «scarti», cioè di dottrine e teorie parziali per le quali quel pensatore può aver avuto, in certi momenti, una simpatia, fino ad averle accettate provvisoriamente ed essersene servito per il suo lavoro critico o di creazione storica e scientifica.

È osservazione comune di ogni studioso, come esperienza personale, che ogni nuova teoria studiata con «eroico furore» (cioè quando non si studia per mera curiosità esteriore ma per un profondo interesse) per un certo tempo, specialmente se si è giovani, attira di per se stessa, si impadronisce di tutta la personalità e viene limitata dalla teoria successivamente studiata finché non si stabilisce un equilibrio critico e si studia con profondità senza però arrendersi subito al fascino del sistema o dell'autore studiato. Questa serie di osservazioni valgono tanto più quanto piú il pensatore dato è piuttosto irruento, di carattere polemico e manca dello spirito di sistema, quando si tratta di una personalità nella quale l'attività teorica e quella pratica sono indissolubilmente intrecciate, di un intelletto in continua creazione e in perpetuo movimento, che sente vigorosamente l'autocritica nel modo più spietato e conseguente.

Date queste premesse, il lavoro deve seguire queste linee: 1) la ricostruzione della biografia non solo per ciò che riguarda l'attività pratica ma specialmente per l'attività intellettuale; 2) il registro di tutte le opere, anche le più trascurabili, in ordine cronologico, diviso secondo motivi intrinseci: di formazione intellettuale, di maturità, di possesso e applicazione del nuovo modo di pensare e di concepire la vita e il mondo. La ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero in isviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati.

Questo lavoro preliminare rende possibile ogni ulteriore ricerca. ra le opere del pensatore dato, inoltre, occorre distinguere tra uelle che egli ha condotto a termine e pubblicato e quelle rimaste inedite, perché non compiute, e pubblicate da qualche amico o discepolo, non senza revisioni, rifacimenti, tagli ecc., ossia non senza un intervento attivo dell'editore. È evidente che il contenuto di queste opere postume deve essere assunto con molta discrezione e cautela, perché non può essere ritenuto definitivo, ma solo materiale ancora in elaborazione, ancora provvisorio; non può escludersi che queste opere, specialmente se da lungo tempo in elaborazione e che l'autore non si decideva mai a compiere, in tutto o in parte fossero ripudiate dall'autore e non ritenute soddisfacenti.

Nel caso specifico del fondatore della filosofia della prassi l'opera letteraria può essere distinta in queste sezioni: 1) lavori pubblicati sotto la responsabilità diretta dell'autore: tra questi devono essere considerati, in linea generale, non solo quelli materialmente dati alle stampe, ma quelli «pubblicati» o messi in circolazione in qualsiasi modo dall'autore, come le lettere, le circolari, ecc. (un esempio tipico sono le Glosse al programma di Gotha e l'epistolario); 2) le opere non stampate sotto la responsabilità diretta dell'autore, ma da altri, postume; intanto di queste sarebbe bene avere il testo diplomatico, ciò che è già in via di essere fatto, o per lo meno una minuziosa descrizione del testo originale fatta con criteri scientifici.

L'una e l'altra sezione dovrebbero essere ricostruite per periodi cronologico•critici, in modo da poter stabilire confronti validi e non puramente meccanici ed arbitrari.

Dovrebbe essere minutamente studiato e analizzato il lavoro di elaborazione compiuto dall'autore sul materiale delle opere poi da lui stesso stampate: questo studio darebbe per lo meno degli indizi e dei criteri per valutare criticamente l'attendibilità delle redazioni compilate da altri delle opere postume. Quanto più il materiale preparatorio delle opere edite dall'autore si allontana dal testo definitivo redatto dallo stesso autore, e tanto meno è attendibile la redazione di altro scrittore di un materiale dello stesso tipo. Un'opera non può mai essere identificata col materiale bruto raccolto per la sua compilazione: la scelta definitiva, la disposizione degli elementi componenti, il peso maggiore e minore dato a questo o a quello degli elementi raccolti nel periodo preparatorio, sono appunto ciò che costituisce l'opera effettiva.

Anche lo studio dell'epistolario deve essere fatto con certe cautele : un'affermazione recisa fatta in una lettera non sarebbe forse ripetuta in un libro. La vivacità stilistica delle lettere, se spesso artisticamente più efficace dello stile più misurato e ponderato di un libro, talvolta porta a deficienze di argomentazione; nelle lettere, come nei discorsi, come nelle conversazioni si verificano più spesso errori logici; la rapidità maggiore del pensiero è spesso a scapito della sua solidità.

Solo in seconda linea, nello studio di un pensiero originale e innovatore, viene il contributo di altre persone alla sua documentazione. Cosí, almeno in linea di principio, come metodo, deve essere impostata la questione dei rapporti di omogeneità tra i due fondatori della filosofia della prassi. L'affermazione dell'uno e dell'altro sull'accordo reciproco vale solo per l'argomento dato. Anche il fatto che uno ha scritto qualche capitolo per un libro scritto dall'altro, non è una ragione perentoria perché tutto il libro sia considerato come risultato di un perfetto accordo. Non bisogna sottovalutare il contributo del secondo, ma non bisogna neanche identificare il secondo col primo, né bisogna pensare che tutto ciò che il secondo ha attribuito al primo sia assolutamente autentico e senza infiltrazioni. E certo che il secondo ha dato la prova di un disinteresse e di un'assenza di vanità personale unici nella storia della letteratura, ma non di ciò si tratta, né di porre in dubbio l'assoluta onestà scientifica del secondo. Si tratta che il secondo non è il primo e che se si vuole conoscere il primo occorre cercarlo specialmente nelle sue opere autentiche, pubblicate sotto la sua diretta responsabilità. Da queste osservazioni conseguono parecchie avvertenze di metodo e alcune indicazioni per ricerche collaterali. Per esempio che valore ha il libro di Rodolfo Mondolfo sul Materialismo storico di F. E. (Federico Engels), edito dal Formiggini nel r9r2? Il Sorel (in una lettera al Croce) pone in dubbio che si possa studiare un argomento di tal fatta, data la scarsa capacità di pensiero originale dell'Eng. e spesso ripete che bisogna non confondere tra i due fondatori della filosofia della prassi. A parte la questione posta dal Sorel, pare che per il fatto stesso che (si suppone) si afferma una scarsa capacità teoretica nel secondo dei due amici (per lo meno una sua posizione subalterna rispetto al primo) sia indispensabile ricercare a chi spetti il pensiero originale ecc. In realtà una ricerca sistematica di questo genere (eccetto il libro del Mondolfo) nel mondo della cultura non è mai stata fatta, anzi le esposizioni del secondo, alcune relativamente sistematiche, sono ormai assunte in primo piano, come fonte autentica e anzi sola fonte autentica. Perciò il volume del Mondolfo pare molto utile, almeno per la direttiva che traccia.

Antonio Labriola.

Sarebbe di grande utilità un riassunto obbiettivo e sistematico (anche se di tipo scolastico-analitico) di tutte le pubblicazioni di Antonio Labriola sulla filosofia della prassi per sostituire i volumi esauriti. Un lavoro di tal genere è preliminare per ogni iniziativa rivolta a rimettere in circolazione la posizione filosofica del Labriola che è pochissimo conosciuta all'infuori di una cerchia ristretta. E stupefacente che nelle sue Memorie, Leone Bronstein (Trotzki) parli di «dilettantismo» del Labriola. Non si capisce questo giudizio (a meno non significasse il distacco tra teoria e pratica nella persona del Labriola, ciò che non pare il caso) se non come un riflesso inconsapevole della pedanteria pseudoscientifica del gruppo intellettuale tedesco che ebbe tanta influenza in Russia. In realtà il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi.

La tendenza dominante si è manifestata in due correnti principali :

I) Quella cosidetta ortodossa, rappresentata dal Plekhanov (cfr. I problemi fondamentali - PLEKHANOV G. V., Osnovnye voprosy marksisma, S. Pietroburgo, 1908) che in realtà, nonostante le sue affermazioni in contrario, ricade nel materialismo volgare. Non è stato bene impostato il problema delle «origini» del pensiero del fondatore della filosofia della prassi: uno studio accurato della cultura filosofica del M. (e dell'ambiente filosofico generale in cui egli si formò direttamente e indirettamente) è certo necessario, ma come premessa allo studio ben più importante, della sua propria e «originale» filosofia, che non può esaurirsi in alcune «fonti» o nella «cultura» sua personale : occorre, prima di tutto, tener conto della sua attività creatrice e costruttrice. Il modo di porre il problema da parte del Plekhanov è tipicamente proprio del metodo positivistico e mostra le sue scarse facoltà speculative e storiografiche.

2) La tendenza «ortodossa» ha determinato la sua opposta: di collegare la filosofia della prassi al kantismo o ad altre tendenze filosofiche non positivistiche e materialistiche, fino alla conclusione «agnostica» di Otto Bauer che nel suo libretto sulla «Religione» scrive che il marxismo può essere sostenuto e integrato da una qualsiasi filosofia, quindi anche dal tomismo. Questa seconda non è quindi una tendenza in senso stretto, ma un insieme di tutte le tendenze che non accettano la cosi detta «ortodossia» del pedantismo tedesco, fino a quella freudiana del De Man.

Perché il Labriola e la sua impostazione del problema filosofico, hanno avuto cosi scarsa fortuna? Si può dire a questo proposito ciò che la Rosa (Luxemburg) disse a proposito dell'economia critica e dei suoi problemi più alti: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, tutto l'interesse si appunta sulle armi più immediate, sui problemi di tattica, in politica e sui minori problemi culturali nel campo filosofico. Ma dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l'esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l'esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive. Ecco la necessità di rimettere in circolazione Antonio Labriola e di far predominare la sua impostazione del problema filosofico. Si può cosi porre la lotta per una cultura superiore autonoma; la parte positiva della lotta che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a- privativi e gli anti-(anticlericalismo, ateismo, ecc.). Si dà una forma moderna e attuale all'umanesimo laico tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato. ( La trattazione analitica e sistematica della concezione filosofica di Antonio Labriola potrebbe diventare la sezione filosofica di una rivista del tipo medio («Voce», «Leonardo», «Ordine Nuovo»). Bisognerebbe compilare una bibliografia internazionale sul Labriola («Neue Zeit», ecc.).)

La filosofia della prassi e la cultura moderna.

La filosofia della prassi è stata un momento della cultura moderna; in una certa misura ne ha determinato o fecondato alcune correnti. Lo studio di questo fatto, molto importante e significativo, è stato trascurato o è addirittura ignorato dai cosi detti ortodossi e per la seguente ragione : che la combinazione filosofica più rilevante è avvenuta tra la filosofia della prassi e diverse tendenze idealistiche, ciò che ai cosí detti ortodossi, legati essenzialmente alla particolare corrente di cultura dell'ultimo quarto del secolo scorso (positivismo, scientismo) è parso un controsenso se non una furberia da ciarlatani (tuttavia nel saggio di Plekhanov su i Problemi fondamentali c'è qualche accenno a questo fatto ma solamente sfiorato e senza tentativo alcuno di spiegazione critica). Per ciò pare sia necessario rivalutare la impostazione del problema cosi come fu tentata da Antonio Labriola.

È avvenuto questo: la filosofia della prassi' ha subito realmente una doppia revisione, cioè è stata sussunta in una doppia combinazione filosofica. Da una parte, alcuni suoi elementi, in modo esplicito o implicito, sono stati assorbiti e incorporati da alcune correnti idealistiche (basta citare il Croce, il Gentile, il Sorel, lo stesso Bergson, il pragmatismo); dall'altra i cosi detti ortodossi, preoccupati di trovare una filosofia che fosse, secondo il loro punto di vista molto ristretto, più comprensiva di una «semplice» interpretazione della storia, hanno creduto di essere ortodossi, identificandola fondamentalmente nel materialismo tradizionale. Un'altra corrente è ritornata al kantismo (e si può citare, oltre il prof. Max Adler viennese, i due professori italiani Alfredo Poggi e Adelchi Baratono). Si può osservare, in generale, che le correnti che hanno tentato combinazioni della filosofia della prassi con tendenze idealistiche sono in grandissima parte di intellettuali «puri», mentre quella che ha costituito l'ortodossia era di personalità intellettuali più spiccatamente dedite all'attività pratica e quindi più legate (con legami più o meno estrinseci) alle grandi masse popolari (ciò che del resto non ha impedito alla più gran parte di fare capitomboli non di poca importanza storico-politica).

Questa distinzione ha una grande portata. Gli intellettuali «puri» come elaboratori delle più estese ideologie delle classi dominanti, come leaders dei gruppi intellettuali dei loro paesi, non potevano non servirsi almeno di alcuni elementi della filosofia della prassi, per irrobustire le loro concezioni e moderare il soverchio filosofismo speculativo col realismo storicista della teoria nuova, per fornire di nuove armi l'arsenale del gruppo sociale cui erano legati. D'altra parte la tendenza ortodossa si trovava a lottare con l'ideologia più diffusa nelle masse popolari, il trascendentalismo religioso, e credeva di superarlo solo col più crudo e banale materialismo che era anche esso una stratificazione non indifferente del senso comune, mantenuta viva, piú di quanto si credesse e si creda, dalla stessa religione che nel popolo ha una sua espressione triviale e bassa, superstiziosa e stregonesca, in cui la materia ha una funzione non piccola.

Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri per la sua affermazione (non sempre sicura, a dire il vero) che la filosofia della prassi è una filosofia indipendente e originale che ha in se stessa gli elementi di un ulteriore sviluppo per diventare da interpretazione della storia filosofia generale. Occorre lavorare appunto in questo senso, sviluppando la posizione di Antonio Labriola, di cui i libri di Rodolfo Mondolfo non paiono (almeno per quanto ricordo) un coerente svolgimento. ( Pare che il Mondolfo non abbia mai abbandonato completamente il fondamentale punto di vista del positivismo da alunno di Roberto Ardigò. Il libro del discepolo del Mondolfo, il DIAMBRINI PALAZZI (presentato da una prefazione del Mondolfo) sulla Filosofia di Antonio Labriola è un documento della povertà di concetti e di direttive dell'insegnamento universitario del Mondolfo stesso.)

Perché la filosofia della prassi ha avuto questa sorte, di aver servito a formare combinazioni, coi suoi elementi principali, sia coll'idealismo che con il materialismo filosofico? Il lavoro di ricerca non può non essere complesso e delicato: domanda molta finezza nell'analisi e sobrietà intellettuale. Perché è molto facile lasciarsi prendere dalle somiglianze esteriori e non vedere le somiglianze nascoste e i nessi necessari ma camuffati. L'identificazione dei concetti che la filosofia della prassi ha «ceduto» alle filosofie tradizionali e per cui queste hanno trovato un qualche istante di ringiovanimento, deve essere fatta con molta cautela critica, e significa né più né meno che fare la storia della cultura moderna dopo l'attività dei fondatori della filosofia della prassi.

L'assorbimento esplicito evidentemente non è difficile da rintracciare, quantunque anche esso debba essere analizzato criticamente. Un esempio classico è quello rappresentato dalla riduzione crociana della filosofia della prassi a canone empirico di ricerca storica, concetto che è penetrato anche fra i cattolici (cfr. il libro di mons. 0lgiati), che ha contribuito a creare la scuola storiografica economico-giuridica italiana che si è diffusa anche fuori d'Italia. Ma la ricerca più difficile e delicata è quella degli assorbimenti «impliciti», non confessati, avvenuti appunto perché la filosofia della prassi è stata un momento della cultura moderna, un'atmosfera diffusa, che ha modificato i vecchi modi di pensare per azioni e reazioni non apparenti e non immediate. Lo studio del Sorel è specialmente interessante da questo punto di vista, perché attraverso il Sorel e la sua fortuna si possono avere molti indizi in proposito; cosí dicasi del Croce. Ma lo studio piú importante pare debba essere quello della filosofia bergsoniana e del pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l'anello storico della filosofia della prassi.

Un altro aspetto della questione è l'insegnamento pratico di scienza politica che la filosofia della prassi ha dato agli stessi avversari che la combattono aspramente per principio, cosí come i gesuiti combattevano teoricamente Machiavelli pur essendone in pratica i migliori discepoli. In una Opinione pubblicata da Mario Missiroli nella «Stampa» del tempo in cui fu corrispondente da Roma (intorno al 1925) si dice su per giú che sarebbe da vedere se nell'intimo della loro coscienza gli industriali piú intelligenti non siano persuasi che l'«Economia critica» (Il Capitale di Carlo Marx) non abbia visto molto bene nelle cose loro e non si servano degli insegnamenti cosí appresi. Tutto ciò non sarebbe per nulla sorprendente, perché se il fondatore della filosofia della prassi ha esattamente analizzato la realtà, egli non ha fatto che sistemare razionalmente e coerentemente ciò che gli agenti storici di questa realtà sentivano e sentono confusamente e istintivamente e di cui hanno preso maggior coscienza dopo la critica avversaria.

L'altro aspetto della questione è ancor più interessante. Perché anche i cosí detti ortodossi hanno «combinato» la filosofia della prassi con altre filosofie e con una piuttosto che con altre in prevalenza? Infatti quella che conta è la combinazione col materialismo tradizionale; la combinazione col kantismo non ha avuto che un successo limitato e presso solo ristretti gruppi intellettuali. Sull'argomento è da vedere il saggio della Rosa sui Progressi e arresti nello sviluppo della filosofia della prassi (Allusione al libro di ROSA LUXEMBURG, Sozialreform oder Revolution, Lipsia, 1900) che nota come le parti costituenti questa filosofia si siano sviluppate in misura diversa, ma sempre a seconda delle necessità dell'attività pratica. Cioè i fondatori della filosofia nuova avrebbero precorso di molto le necessità del loro tempo e anche di quello successivo, avrebbero creato un arsenale con armi che ancora non giovavano perché anacronistiche e che solo col tempo sarebbero state ripulite. La spiegazione è un po' capziosa in quanto non fa che dare in gran parte come spiegazione il fatto stesso da spiegare astrattizzato, tuttavia c'è in essa qualcosa di vero che si può approfondire. Una delle ragioni storiche pare sia da ricercare nel fatto che la filosofia della prassi ha dovuto allearsi con tendenze estranee per combattere residui del mondo precapitalistico nelle masse popolari, specialmente nel terreno religioso.

La filosofia della prassi aveva due còmpiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, ed educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo còmpito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni «didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po' superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali propri del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo. D'altra parte la cultura moderna, specialmente idealistica, non riesce a elaborare una cultura popolare, non riesce a dare un contenuto morale e scientifico ai propri programmi scolastici, che rimangono schemi astratti e teorici; essa rimane la cultura di una ristretta aristocrazia intellettuale, che talvolta ha presa sulla gioventi solo in quanto diventa politica immediata e occasionale.

E' da vedere se questo modo di «schieramento» culturale non sia una necessità storica e se nella storia passata non si ritrovino schieramenti simili, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo. L'esempio classico e precedente alla modernità, è indubbiamente quello del Rinascimento in Italia e della Riforma nei paesi protestanti. Nel volume Storia dell'età barocca in Italia a p. r1, il Croce scrive: «Il movimento della Rinascita era rimasto aristocratico, di circoli eletti, e nella stessa Italia, che ne fu madre e nutrice, non usci dai circoli di corte, non penetrò fino al popolo, non divenne costume e " pregiudizio ", ossia collettiva persuasione e fede. La riforma, invece, " ebbe bensì questa efficacia di penetrazione popolare, ma la pagò con un ritardo del suo intrinseco sviluppo con la lenta e più volte interrotta maturazione del suo germe vitale». E a p. 8: «E Lutero, come quegli umanisti, depreca la tristezza e celebra la letizia, condanna l'ozio e comanda il lavoro; ma, d'altra parte, è condotto a diffidenza e ostilità contro le lettere e gli studi, sicché Erasmo poté dire: ubicumque regnar lutheranismus, ibi litte= rarum est interitus; e certo, se non proprio per solo effetto di quella avversione in cui era entrato il suo fondatore, il protestantesimo tedesco fu per un paio di secoli pressoché sterile negli studi, nella critica, nella filosofia. I riformatori italiani, segnatamente quelli del circolo di Giovanni de Valdés e i loro amici, riunirono invece senza sforzo l'umanesimo al misticismo, il culto degli studi all'austerità morale. Il calvinismo, con la sua dura concezione della grazia e la dura disciplina, neppur esso favori la libera ricerca e il culto della bellezza, ma gli accadde, interpretando e svolgendo e adattando il concetto della grazia a quello della vocazione, di venire a promuovere energicamente la vita economica, la produzione e l'accrescimento della ricchezza».

La riforma luterana e il calvinismo suscitarono un vasto movimento popolare-nazionale dove si diffusero, e solo in periodi successivi una cultura superiore; i riformatori italiani furono infecondi di grandi successi storici. È vero che anche la Riforma nella sua fase superiore necessariamente assunse i modi della Rinascita e come tale si diffuse anche nei paesi non protestanti dove non c'era stata l'incubazione popolare; ma la fase di sviluppo popolare ha permesso ai paesi protestanti di resistere tenacemente e vittoriosamente alla crociata degli eserciti cattolici e così nacque la nazione germanica come una delle più vigorose dell'Europa moderna. La Francia fu lacerata dalle guerre di religione con la vittoria apparente del cattolicismo, ma ebbe una grande riforma popolare nel '700 con l'illuminismo, il voltairianismo, l'Enciclopedia che precedé e accompagnò la rivoluzione del 1789; 'si trattò realmente di una grande riforma intellettuale e morale del popolo francese, completa di quella tedesca luterana, perché abbracciò anche le grandi masse contadine della campagna, perché ebbe un fondo laico spiccato e tentò di sostituire alla religione una ideologia completamente laica rappresentata dal legame nazionale e patriottico; ma neanche essa ebbe una fioritura immediata di alta cultura, altro che per la scienza politica nella forma di scienza positiva del diritto. (Cfr. il paragone fatto da Hegel delle particolari forme nazionali assunte dalla stessa cultura in Francia e in Germania nel periodo della rivoluzione francese, concezione hegeliana che attraverso una catena un po' lunga portò ai famosi versi carducciani: «... con opposta fe', — Decapitaro, Emanuel Kant, Iddio, — Massimiliano Robespierre, il re».)

Una concezione della filosofia della prassi come riforma popolare moderna (poiché sono dei puri astrattisti quelli che aspettano una riforma religiosa in Italia, una nuova edizione italiana del calvinismo, come Missiroli e C.) è stata forse intravista da Giorgio Sorel, un po' (o molto) dispersamente, intellettualisticamente, per una specie di furore giansenistico contro le brutture del parlamentarismo dei partiti politici. Sorel ha preso da Renan il concetto della necessità di una riforma intellettuale e morale; ha affermato (in una lettera al Missiroli) che spesso grandi movimenti storici sono rappresentati da una cultura moderna, ecc. Ma mi pare che una tale concezione sia implicita nel Sorel quando si serve del cristianesimo primitivo come termine di paragone, con molta letteratura, . è vero, ma tuttavia con più di un granello di verità, con riferimenti meccanici spesso artificiosi, ma tuttavia con qualche lampo di intuizione profonda.

La filosofia della prassi presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l'economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante più Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia. Attraversa ancora la sua fase popolaresca: suscitare un gruppo di intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo, con azioni e reazioni, con adesioni e dissoluzioni e nuove formazioni molto numerose e complesse: è la concezione di un gruppo sociale subalterno, senza iniziativa storica, che si amplia continuamente, ma disorganicamente, e senza poter oltrepassare un certo grado qualitativo che è sempre al di qua del possesso dello Stato, dell'esercizio reale dell'egemonia su l'intera società che solo permette un certo equilibrio organico nello sviluppo del gruppo intellettuale. La filosofia della prassi è diventata anch'essa «pregiudizio» e «superstizione»:così come è, è l'aspetto popolare dello storicismo moderno ma contiene in sé un principio di superamento di questo storicismo. Nella storia della cultura, che è molto più larga della storia della filosofia, ogni volta che la cultura popolare è affiorata, perché si attraversava una fase di rivolgimento e dalla ganga popolare si selezionava il metallo di una nuova classe, si è avuta una fioritura di «materialismo»; viceversa nello stesso momento le classi tradizionali si aggrappavano allo spiritualismo. Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita del pensiero, materialismo e spiritualismo, ma la sintesi fu «un uomo che cammina sulla testa». I continuatori di Hegel hanno distrutto quest'unità e si è ritornati ai sistemi materialistici da una parte e a quelli spiritualistici dall'altra. La filosofia della prassi, nel suo fondatore, ha rivissuto tutta questa esperienza, di hegelismo, feuerbacchismo, materialismo francese, per ricostruire la sintesi della unità dialettica: «l'uomo che cammina sulle gambe». Il laceramento avvenuto per l'hegelismo si è ripetuto per la filosofia della prassi, cioè dall'unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l'alta cultura moderna idealistica, ha cercato di incorporare ciò che della filosofia della prassi le era indispensabile per trovare qualche nuovo elisir.

«Politicamente» la concezione materialistica è vicina al popolo, al senso comune; essa è strettamente legata a molte credenze e pregiudizi, a quasi tutte le superstizioni popolari (stregonerie, spiriti, ecc.). Ciò si vede nel cattolicismo popolare e specialmente nell'ortodossia bizantina. La religione popolare è crassamente materialistica, tuttavia la religione ufficiale degli intellettuali cerca di impedire che si formino due religioni distinte, due strati separati, per non staccarsi dalle masse, per non diventare anche ufficialmente, come è realmente, una ideologia di ristretti gruppi. Ma da questo punto di vista, non bisogna far confusione fra l'atteggiamento della filosofia della prassi e quello del cattolicismo. Mentre quella mantiene un contatto dinamico e tende a sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore, l'altro tende a mantenere un contatto puramente meccanico, un'unità esteriore, basata specialmente sulla liturgia e sul culto piú appariscentemente suggestivo sulle grandi folle. Molti tentativi ereticali furono manifestazioni di forze popolari per riformare la chiesa e avvicinarla al popolo, innalzando il popolo. La chiesa ha reagito spesso in forma violentissima, ha creato la Compagnia di Gesi, si é catafratta con le decisioni del Concilio di Trento, quantunque abbia organizzato un meraviglioso meccanismo di selezione «democratica» dei suoi intellettuali, ma come singoli individui, non come espressione rappresentativa di gruppi popolari.

Nella storia degli sviluppi culturali, occorre tenere uno speciale conto dell'organizzazione della cultura e del personale in cui tale organizzazione prende forma concreta. Nel volume di G. De Ruggero su Rinascimento e Riforma si può vedere quale sia stato l'atteggiamento di moltissimi intellettuali, con a capo Erasmo: essi piegarono dinanzi alle persecuzioni e ai roghi. Il portatore della Riforma è stato perciò proprio il popolo tedesco nel suo complesso, come popolo indistinto, non gli intellettuali. Appunto questa diserzione degli intellettuali dinanzi al nemico spiega la «sterilità» della Riforma nella sfera immediata dell'alta cultura, finché dalla massa popolare, rimasta fedele, non si seleziona lentamente un nuovo gruppo di intellettuali che culmina nella filosofia classica.

Qualcosa di simile è avvenuto finora per la filosofia della prassi; i grandi intellettuali formatisi nel suo terreno, oltre ad essere poco numerosi, non erano legati al popolo, non sbocciarono dal popolo, ma furono l'espressione di classi intermedie tradizionali, alle quali ritornarono nelle grandi «svolte» storiche; altri rimasero, ma per sottoporre la nuova concezione a una sistematica revisione, non per procurarne lo sviluppo autonomo. L'affermazione che la filosofia della prassi é una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l'afferma- zione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione, che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali. Ciò che volta per volta esiste è una combinazione variabile di vecchio e nuovo, un equilibrio momentaneo dei rapporti culturali corrispondente all'equilibrio dei rapporti sociali. Solo dopo la creazione dello Stato, il problema culturale si impone in tutta la sua complessità e tende a una soluzione coerente. In ogni caso l'atteggiamento precedente alla formazione statale non può non essere critico-polemico, e mai dogmatico, deve essere un atteggiamento romantico, ma di un romanticismo che consapevolmente aspira alla sua composta classicità.

Nota I. Studiare il periodo della Restaurazione come periodo di elaborazione di tutte le dottrine storicistiche moderne, compresa la filosofia della prassi, che ne è il coronamento e che del resto fu elaborata proprio alla vigilia del '48, quando la Restaurazione crollava da ogni parte e il Patto della Santa Alleanza andava in pezzi. È noto che restaurazione è solo una espressione metaforica; in realtà non ci fu nessuna restaurazione effettuale dell'ancien régime, ma solo una nuova sistemazione di forze, in cui le conquiste rivoluzionarie delle classi medie furono limitate e codificate. Il re in Francia e il papa a Roma divennero capi di rispettivi partiti e non più indiscussi rappresentanti della Francia o della cristianità. La posizione del papa fu specialmente scossa e da allora ha inizio la formazione di organismi permanenti dei «cattolici militanti s che dopo altre tappe intermedie: il 1848-49, il 1861 (quando avvenne la prima disgregazione dello Stato pontificio con l'annessione delle Legazioni emiliane), il 1870 e il dopoguerra, diventeranno la potente organizzazione dell'Azione Cattolica, potente, ma in posizione difensiva. Le teorie storicistiche della Restaurazione si oppongono alle ideologie settecentesche, astrattistiche e utopistiche, che continuano a vivere come filosofia, etica e politica proletaria, diffusa specialmente in Francia, fino al 1870. La filosofia della prassi si oppone a queste concezioni settecentesche-popolari come filosofia di massa, in tutte le loro forme, da quelle più infantili, a quella del Proudhon, che subisce un qualche innesto dello storicismo conservatore e che pare possa esser chiamato il Gioberti francese, ma delle classi popolari, per il rapporto di arretratezza della storia italiana in confronto a quella francese, come appare nel periodo del 1848. Se gli storicisti conservatori, teorici del vecchio, sono ben piazzati per criticare il carattere utopistico delle ideologie giacobine mummificate, i filosofi della prassi sono meglio piazzati sia per apprezzare il valore storico reale e non astratto che il giacobinismo aveva avuto come elemento creatore della nuova nazione francese, cioè come fatto di attivita circoscritta in determinate circostanze e non ideologizzato, sia per apprezzare il còmpito storico di questi stessi conservatori, che in realtà erano figli vergognosi dei giacobini, pur maledicendone gli eccessi mentre ne amministravano con cura l'eredità. La filosofia della prassi non solo pretendeva di spiegare e giustificare tutto il passato, ma di spiegare e giustificare storicamente anche se stessa, cioè era il massimo «storicismo», la liberazione totale da ogni «ideologismo» astratto, la reale conquista del mondo storico, l'inizio di una nuova civiltà.

Immanenza speculativa e immanenza storicistica o realistica.

Si afferma che la filosofia della prassi è nata sul terreno del massimo sviluppo della cultura della prima metà del secolo xix, cultura rappresentata dalla filosofia classica tedesca, dall'economia classica inglese, e dalla letteratura e pratica politica francese. All'origine della filosofia della prassi sono questi tre movimenti culturali. Ma in che senso occorre intendere questa affermazione? Che ognuno di questi movimenti ha contribuito a elaborare rispettivamente la filosofia, l'economia, la politica della filosofia della prassi? Oppure che la filosofia della prassi ha elaborato sinteticamente i tre movimenti, cioè l'intera cultura dell'epoca e che nella sintesi nuova, in qualsiasi momento la si esamini, momento teorico, economico, politico, si ritrova come «momento» preparatorio ognuno dei tre movimenti? Cosí appunto a me pare. E il momento sintetico unitario mi pare da identificare nel nuovo concetto di immanenza, che dalla sua forma speculativa, offerta dalla filosofia classica tedesca, è stato tradotto in forma storicistica coll'aiuto della politica francese e dell'economia classica inglese.

Per ciò che riguarda i rapporti di identità sostanziale tra il linguaggio filosofico tedesco e il linguaggio politico francese confrontare le note precedenti. Ma una ricerca delle più interessanti e feconde mi pare debba essere fatta a proposito dei rapporti tra filosofia tedesca, politica francese e economia classica inglese. In un certo senso mi pare si possa dire che la filosofia della prassi è uguale a Hegel più Davide Ricardo. Il problema è da presentare inizialmente cosí: i nuovi canoni metodologici introdotti da Ricardo nella scienza economica sono da considerarsi come valori meramente strumentali (per intendersi, come un nuovo capitolo della logica formale) o hanno avuto un significato di innovazione filosofica? La scoperta del principio logico formale della «legge di tendenza», che porta a definire scientificamente i concetti fondamentali nell'economia di «homo oeconomicus» e di «mercato determinato» non è stata una scoperta di valore anche gnoseologico? Non implica appunto una nuova «immanenza», una nuova concezione della «necessità» e della libertà ecc.? Questa traduzione mi pare appunto abbia fatto la filosofia della prassi, che ha universalizzato le scoperte di Ricardo estendendole adeguatamente a tutta la storia, quindi ricavandone originalmente una nuova concezione del mondo.

Sarà da studiare tutta una serie di quistioni: 1) riassumere i principî scientifici-formali del Ricardo nella loro forma di canoni empirici; 2) ricercare l'origine storica di questi principi ricardiani che sono connessi al sorgere della scienza economica stessa, cioè allo sviluppo della borghesia come classe «concretamente mondiale» e al formarsi quindi di un mercato mondiale già abbastanza «denso» di movimenti complessi perché se ne possano isolare e studiare delle leggi di regolarità necessarie, cioè delle leggi di tendenza, che sono leggi non in senso naturalistico e del determinismo speculativo, ma in senso «storicistico» in quanto cioè si verifica il «mercato determinato», ossia un ambiente organicamente vivo e connesso nei suoi movimenti di sviluppo. (L'economia studia queste leggi di tendenza in quanto espressioni quantitative dei fenomeni; nel passaggio dall'economia alla storia generale il concetto di quantità è integrato da quello di qualità e della dialettica quantità che diventa qualità) (Quantità-=necessità; qualità=libertà. La dialettica (i1 nesso dialettico) quantità-qualità è identica a quella necessità-libertà); 3) porre in connessione Ricardo con Hegel e con Robespierre; 4) come la filosofia della prassi è giunta dalla sintesi di queste tre correnti vive alla nuova concezione dell'immanenza, depurata da ogni traccia di trascendenza e di teologia.

Accanto alla ricerca accennata sopra è da porre quella riguardante l'atteggiamento della filosofia della prassi verso l'attuale continuazione della filosofia classica tedesca rappresentata dalla moderna filosofia idealistica italiana di Croce e Gentile. Come occorre intendere la proposizione di Engels sull'eredità della filosofia classica tedesca? Occorre intenderla come un circolo storico ormai chiuso, in cui l'assorbimento della parte vitale dell'hegelismo è già definitivamente coripiuta, una volta per tutte; o si può intendere come un processo sferico ancora in movimento, per cui si riproduce una necessità nuova di sintesi culturale filosofica? A me pare giusta questa seconda risposta: in realtà si riproduce ancora la posizione reciprocamente unilaterale, criticata nella prima tesi su Feuerbach, tra materialismo e idealismo e come allora, sebbene in un momento superiore, è' necessaria la sintesi in un momento di superiore sviluppo della filosofia della prassi.

Unità negli elementi costitutivi del marxismo.

L'unità è data dallo sviluppo dialettico delle contraddizioni tra l'uomo e la materia (natura — forze materiali di produzione). Nell'economia il centro unitario è il valore, ossia il rapporto tra il lavoratore e le forze industriali di produzione (i negatori della teoria del valore cadono nel crasso materialismo volgare ponendo le macchine in sé -- come capitale costante e tecnico — come produttrici di valore all'infuori dell'uomo che le conduce. Nella filosofia — la prassi — cioè il rapporto tra la volontà umana (superstruttura) e la struttura economica. — Nella politica — rapporto tra lo Stato e la società civile, cioè intervento dello Stato (volontà centralizzata) per educare l'educatore, l'ambiente sociale in genere. — (Da approfondire e porre in termini più esatti).

Filosofia - Politica - Economia.

Se queste tre attività sono gli elementi costitutivi necessari di una stessa concezione del mondo, necessariamente deve esserci, nei loro principi teorici, convertibilità da una all'altra, traduzione reciproca nel proprio specifico linguaggio di ogni elemento costitutivo: uno è implicito nell'altro, e tutti insieme formano un circolo omogeneo. (Cfr. le note precedenti sulla traducibilità reciproca dei linguaggi scientifici.)

Da queste proposizioni (che devono essere elaborate), conseguono per lo storico della cultura e delle idee, alcuni criteri d'indagine e canoni critici di grande significato. Pub avvenire che una grande personalità esprima il suo pensiero più fecondo non nella sede che apparentemente dovrebbe essere la più «logica», dal punto di vista classificatorio esterno, ma in altra parte che apparentemente può essere giudicata estranea. Un uomo politico scrive di filosofia può darsi che la sua «vera» filosofia sia invece da ricercarsi negli scritti di politica. In ogni personalità c'è una attività dominante e predominante : è in questa che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddizione con quello espresso ex professo. È vero che in un tale criterio di giudizio storico sono contenuti molti pericoli di dilettantismo e che nell'applicazione occorre esser molto cauti, ma ciò non toglie che il criterio sia fecondo di verità.

Realmente il «filosofo» occasionale più difficilmente riesce ad astrarre dalle correnti che dominano nel suo tempo, dalle interpretazioni divenute dogmatiche di una certa concezione del mondo ecc.; mentre invece come scienziato della politica si sente libero da questi idola del tempo e del gruppo, affronta più immediatamente e con tutta originalità la stessa concezione; vi penetra nell'intimo e la sviluppa in modo vitale. A questo proposito è ancora utile e fecondo il pensiero espresso dalla Luxemburg sulla impossibilità di affrontare certe quistioni della filosofia della prassi in quanto esse non sono ancora divenute attuali per il corso della storia generale o di un dato aggruppamento sociale. Alla fase economico-corporativa, alla fase di lotta per l'egemonia nella società civile, alla fase statale corrispondono attività intellettuali determinate che non si possono arbitrariamente improvvisare o anticipare. Nella fase della lotta per l'egemonia si sviluppa la scienza della politica; nella fase statale tutte le superstrutture devono svilupparsi, pena il dissolvimento dello Stato.

Storicità della filosofia della prassi.

Che la filosofia della prassi concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transitoria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente da tutto il suo sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata. Ma ogni sistema filosofico a sé preso non è stato l'espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché tale espressione poteva essere data solo dall'insieme dei sistemi in lotta tra loro. Ogni filosofo è e non pub non essere convinto di esprimere l'unità dello spirito umano, cioè l'unità della storia e della natura; infatti, se una tale convinzione non fosse, gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare «ideologie», non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle «credenze popolari» che assumono la stessa energia delle «forze materiali».

Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell'altro, pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprenderecosìè la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall'insieme dei sistemi, dall'insieme dei filosofi, in polemica tra loro, in contraddizione tra loro.

In un certo senso, pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, e la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intiero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione. L'«uomo in generale», comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente «unitari» vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di «uomo in generale» o di «natura umana» immanente in ogni uomo.

Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l'espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla «necessità» e non alla «libertà» che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata, anche la filosofia della prassi: nel regno della «libertà» il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta. Attualmente il filosofo (della prassi) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall'attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia.

Ciò non significa che l'utopia non possa avere un valore filosofico, poiché essa ha un valore politico, e ogni politica implicitamente è una filosofia sia pure sconnessa e in abbozzo. In questo senso la religione è la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca «metafisica», apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma, invero, che l'uomo ha la stessa «natura», che esiste l'uomo in generale, in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell'umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e p"er questo mondo, ma di un altro (— utopico —). Cosí le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Cosí è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell'altro, sotto forme e ideologie determinate, siano state poste queste rivendicazioni.

In questo punto si inserisce un elemento proposto da Vilici (Lenin): nel programma dell'aprile 1917 (Si tratta del progetto di rielaborazione del programma del Partito bolscevico presentato da Lenin alla VII Conferenza del Partito stesso, nell'aprile 1947. Il nuovo programma fu poi approvato dall'VIII Congresso del Partito nel marzo 1919), nel paragrafo dedicato alla scuola unitaria e precisamente nella nota esplicativa di tale paragrafo (cfr. l'edizione di Ginevra del 1918) si ricorda che il chimico e pedagogista Lavoisier, ghigliottinato sotto il Terrore, aveva sostenuto appunto il concetto della scuola unitaria e ciò in rapporto ai sentimenti popolari del tempo, che nel movimento democratico del 1789 vedevano una realtà in sviluppo e non solo una ideologia strumento di governo e ne traevano conseguenze egualitarie concrete. In Lavoisier si trattava di elemento utopistico (elemento che appare più o meno in tutte le correnti culturali che presuppongono l'unicità di «natura» dell'uomo), tuttavia per Vilici esso aveva significato dimostrativo-teorico di un principio politico.

Se la filosofia della prassi afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore «provvisorio» (storicità di ogni concezione del mondo e della vita), è molto difficile far comprendere «praticamente» che una tale interpretazione è valida anche per la stessa filosofia della prassi, senza scuotere quei convincimenti che sono necessari per l'azione. Questa è, d'altronde, una difficoltà che si ripresenta per ogni filosofia storicistica: di essa abusano i polemisti a buon mercato (specialmente i cattolici) per contrapporre nello stesso individuo lo «scienziato» al «demagogo», il filosofo all'uomo d'azione, ecc. e per dedurre che lo storicismo conduce necessariamente allo scetticismo morale e alla depravazione. Da questa difficoltà nascono molti «drammi» di coscienza nei piccoli uomini, e nei grandi gli atteggiamenti «olimpici» alla Volfango Goethe.

Ecco perché la proposizione del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza.

Perciò avviene anche che la stessa filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne; specialmente quando, come nel Saggio Popolare, essa è confusa col materialismo volgare, con la metafisica della «materia» che non può non essere eterna e assoluta.

E' anche da dire che il passaggio dalla necessità alla libertà avviene per la società degli uomini e non per la natura (sebbene potrà avere conseguenze sull'intuizione della natura, sulle opinioni scientifiche ecc.). Si pub persino giungere ad affermare che, mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco in un mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero diventare «verità» dopo il passaggio ecc, Non si può parlare di «spirito» quando la società è raggruppata, senza necessariamente concludere che si tratti di... spirito di corpo (cosa che è riconosciuta implicitamente quando, come fa il Gentile nel volume sul modernismo ( G. GENTILE, Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari, Laterza, 1909), si dice, sulle tracce di Schopenhauer, che la religione è la filosofia della moltitudine, mentre la filosofia è la religione degli uomini pití eletti, cioè dei grandi intellettuali), ma se ne potrà parlare quando sarà avvenuta l'unificazione ecc.

Economia e Ideologia.

La pretesa (presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell'ideologia come una espressione immediata della struttura, deve essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, e praticamente deve essere combattuta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche concrete. Per questo aspetto sono importanti specialmente il 18 Brumaio e gli scritti sulla questione Orientale, ma anche altri (Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania, La guerra civile in Francia e minori). Un'analisi di queste opere permette di fissar meglio la metodologia storica marxista, integrando, illuminando e interpretando le affermazioni teoriche sparse in tutte le opere.

Si potrà vedere quante cautele reali Marx introduca nelle sue ricerche concrete, cautele che non potevano trovar posto nelle opere generali. (Esse potrebbero trovar posto solo in una esposizione metodica sistematica tipo Bernheim, e il libro del Bernheim potrà essere tenuto presente come «tipo» di manuale scolastico o «saggio popolare» del materialismo storico, in cui oltre al metodo filologico ed erudito, — cui per programma si attiene il Bernheim, sebbene sia implicita nella sua trattazione una concezione del mondo, - dovrebbe essere esplicitamente trattata la concezione marxista della storia.) Tra queste cautele si potrebbero elencare come esempio queste:

1) La difficoltà di identificare volta per volta, staticamente (come immagine fotografica istantanea), la struttura; la politica, di fatto, è volta per volta, il riflesso delle tendenze di sviluppo della struttura, tendenze che non è detto necessariamente debbano inverarsi. Una fase strutturale può essere concretamente studiata e analizzata solo dopo che essa ha superato tutto il suo processo di sviluppo, non durante il processo stesso, altro che per ipotesi e esplicitamente dichiarando che si tratta di ipotesi.

2) Da ciò si deduce che un determinato atto politico può essere stato un errore di calcolo da parte dei dirigenti delle classi dominanti, errore che lo sviluppo storico, attraverso le «crisi» parlamentari governative delle classi dirigenti, corregge e supera: il ma- terialismo storico meccanico non considera la possibilità di errore, ma assume ogni atto politico come determinato dalla struttura, immediatamente, cioè come riflesso di una reale e permanente (nel senso di acquisita) modificazione della struttura. Il principio dell'«errore» è complesso: può trattarsi di un impulso individuale per errato calcolo, o anche di manifestazione dei tentativi di determinati gruppi o gruppetti di assumere l'egemonia nell'interno del raggruppamento dirigente, tentativi che possono fallire.

3) Non si considera abbastanza che molti atti politici sono dovuti a necessità interne di carattere organizzativo, cioè legati al bisogno di dare una coerenza a un partito, a un gruppo, a una società. Questo appare chiaro nella storia per esempio della chiesa cattolica. Se di ogni lotta ideologica nell'interno della chiesa si volesse trovare la spiegazione immediata, primaria, nella struttura, si starebbe freschi : molti romanzi politico-economici sono stati scritti per questa ragione. E evidente invece che la maggior parte di queste discussioni sono legate a necessità settarie, di organizzazione. Nella discussione tra Roma e Bisanzio sulla processione dello Spirito Santo, sarebbe ridicolo cercare nella struttura dell'Oriente Europeo l'affermazione che lo Spirito Santo procede solo dal Padre, e in quella dell'Occidente l'affermazione che esso procede dal Padre . e dal Figlio. Le due Chiese, la cui esistenza e il cui conflitto è in dipendenza dalla struttura e da tutta la storia, hanno posto delle quistioni che sono principio di distinzione e di coesione interna per ognuna, ma poteva avvenire che ognuna delle due chiese avesse affermato ciò che invece ha affermato l'altra: il principio di distinzione e di conflitto si sarebbe mantenuto lo stesso ed è questo problema della distinzione e del conflitto che costituisce il problema storico, non la casuale bandiera di ognuna delle parti.

Nota II. La «stelletta» che scrive dei romanzi di appendice ideologici nei Problemi del Lavoro» (e che dev'essere il famigerato Franz Weiss), nella sua divertente filastrocca «il dumping russo e il suo significato storico», parlando appunto di queste controversie dei primi tempi cristiani, afferma che esse sono legate alle condizioni materiali immediate del tempo, e che se non riusciamo a identificare questo collegamento immediato è perché i fatti sono lontani o per altra nostra debolezza intellettuale. La posizione è comoda, ma irrilevante scientificamente. Infatti ogni fase storica reale lascia traccia di sé nelle fasi successive che ne diventano in un certo senso il migliore documento. Il processo di sviluppo storico è una unità nel tempo, per cui il presente contiene tutto il passato e del passato si realizza nel presente ciò che è «essenziale» senza residuo di un «inconoscibile» che sarebbe la vera «essenza». Ciò che si è «perduto», cioè non è stato trasmesso dialetticamente nel processo storico, era di per se stesso irrilevante, era «scoria» casuale e contingente, cronaca e non storia, episodio superficiale, trascurabile, in ultima analisi.

Scienza morale e materialismo storico.

La base scientifica di una morale del materialismo storico è da cercare, mi pare, nell'affermazione che «la società non si pone còmpiti per la soluzione dei quali non esistano già le condizioni di risoluzione». Esistendo le condizioni «la soluzione dei còmpiti diviene "dovere", la "volontà" diviene libera». La morale diventerebbe una ricerca delle condizioni necessarie per la libertà del volere in un certo senso, verso un certo fine e la dimostrazione che queste condizioni esistono. Si dovrebbe trattare anche non di una gerarchia dei fini, ma di una graduazione dei fini da raggiungere, dato che si vuole «moralizzare» non solo ogni individuo singolarmente preso, ma anche tutta una società di individui.

Regolarità e necessità.

Come è sorto nel fondatore della filosofia della prassi il concetto di regolarità e di necessità nello sviluppo storico ? Non pare che possa pensarsi a una derivazione dalle scienze naturali, ma pare invece debba pensarsi a una elaborazione di concetti nati nel terreno dell'economia politica, specialmente nella forma e nella metodologia che la scienza economica ricevette da Davide Ricardo. Concetto e fatto di «mercato determinato», e cioè rilevazione scientifica che determinate forze decisive e permanenti sono apparse storicamente, forze il cui operare si presenta con un certo «automatismo» che consente una certa misura di «prevedibilità» e di certezza per il futuro delle iniziative individuali che a tali forze consentono dopo averle intuite e rilevate scientificamente. «Mercato determinato» equivale pertanto a dire «determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell'apparato di produzione», rapporto garantito (cioè reso permanente) da una determinata super-struttura politica, morale, giuridica. Dopo aver rilevato queste forze decisive e permanenti e il loro spontaneo automatismo (cioè la loro relativa indipendenza dagli arbitrii individuali e dagli interventi arbitrari governativi) lo scienziato ha, come ipotesi, reso assoluto l'automatismo stesso, ha isolato i fatti meramente economici dalle combinazioni piú o meno importanti in cui realmente si presentano, ha stabilito dei rapporti di causa ed effetto, di premessa e conseguenza e cosí ha dato uno schema astratto di una determinata società economica (a questa costruzione scientifica realistica e concreta si è in seguito venuta sovrapponendo una nuova astrazione piú generalizzata dell'«uomo» come tale, «astorico», generico, astrazione che è apparsa la «vera» scienza economica).

Date queste condizioni in cui è nata l'economia classica, perché si possa parlare di una nuova «scienza-» o di una nuova impostazione della scienza economica (il che è lo stesso) occorrerebbe aver dimostrato che si sono venuti rilevando nuovi rapporti di forze, nuove condizioni, nuove premesse, che cioè si è «determinato» un nuovo mercato con un suo proprio nuovo «automatismo» e fenomenismo che si presenta come qualcosa di «obbiettivo», paragonabile all'automatismo dei fatti naturali. La economia classica ha dato luogo a una «critica dell'economia politica» ma non pare che finora sia possibile una nuova scienza o una nuova impostazione del problema scientifico. La «critica» dell'economia politica parte dal concetto della storicità del «mercato determinato» e del suo «automatismo», mentre gli economisti puri concepiscono questi elementi come «eterni», «naturali»; la critica analizza realisticamente i rapporti delle forze che determinano il mercato, ne approfondisce le contraddizioni, valuta le modificabilità connesse all'apparire di nuovi elementi e al loro rafforzarsi e presenta la «caducità» e la «sostituibilità» della scienza criticata; la studia come vita ma anche come morte e trova nel suo intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno immancabilmente, e presenta l'«erede» che sarà presuntivo finché non avrà dato prova manifesta di vitalità ecc.

Che nella vita economica moderna l'elemento «arbitrario», sia individuale, sia di consorzi, sia dello Stato, abbia assunto un'importanza che prima non aveva e abbia profondamente turbato l'automatismo tradizionale è fatto che non giustifica di per sé l'impostazione di nuovi problemi scientifici, appunto perché questi interventi sono «arbitrari», di misura diversa, imprevedibili. Può giustificare l'affermazione che la vita economica è modificata, che c'è «crisi», ma questo è ovvio; d'altronde non è detto che il vecchio «automatismo» sia sparito, esso si verifica solo su scale più grandi di quelle di prima, per i grandi fenomeni economici, mentre i fatti particolari sono «impazziti».

Da queste considerazioni occorre prendere le mosse per stabilire ciò che significa «regolarità», «legge», «automatismo» nei fatti storici. Non si tratta di «scoprire» una legge metafisica di «determinismo» e neppure di stabilire una legge «generale» di causalità. Si tratta di rilevare come nello svolgimento storico si costituiscano delle forze relativamente «permanenti», che operano con una certa regolarità e automatismo. Anche la legge dei grandi numeri, sebbene sia molto utile come termine di paragone, non può essere assunta come la «legge» dei fatti storici. Per stabilire l'origine storica di questo elemento della filosofia della prassi (elemento che è poi, nientemeno, il suo particolare modo di concepire l'«immanenza») occorrerà studiare l'impostazione che delle leggi economiche fu fatta da Davide Ricardo. Si tratta di vedere che il Ricardo non ha avuto importanza nella fondazione della filosofia della prassi solo per il concetto del «valore» in economia, ma ha avuto un'importanza «filosofica», ha suggerito un modo di pensare e d'intuire la vita e la storia. Il metodo del «posto che» della premessa che dà una certa conseguenza, pare debba essere identificato come uno dei punti di partenza (degli stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche dei fondatori della filosofia della prassi. È da vedere se Davide Ricardo sia mai stato studiato da questo punto di vista. (Cosí è da vedere il concetto filosofico di «caso» e di «legge», il concetto di una «razionalitâ» o di una «provvidenza» per cui si finisce nel teleologismo trascendentale se non trascendente e il concetto di «caso», come nel materialismo metafisico «che il mondo a caso pone».)

Appare che il concetto di «necessità» storica è strettamente connesso a quello di «regolarità» e di «razionalità». La «necessità» nel senso «speculativo astratto» e nel senso «storico concreto»: esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva, e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente come le «credenze popolari». Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell'impulso di volontà collettiva, ma è chiaro che da questa premessa «materiale», calcolabile quantitativamente, non può essere disgiunto un certo livello di cultura, un complesso cioè di atti intellettuali e da questi (come loro prodotto e conseguenza) un certo complesso di passioni e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all'azione «a tutti i costi».

Come si è detto, solo per questa via si può giungere a una concezione storicistica (e non speculativa-astratta) della «razionalità» nella storia (e quindi dell'«irrazionalità»).

Concetti di «Provvidenza» e di «fortuna» nel senso in cui sono adoperati (speculativamente) dai filosofi idealisti italiani e specialmente dal Croce: occorrerà vedere il libro del Croce su G. B. Vico, in cui il concetto di «Provvidenza» è tradotto in termini speculativi e in cui si dà inizio all'interpretazione idealistica della filosofia vichiana. Per il significato di «fortuna» nel Machiavelli è da vedere Luigi Russo t. Secondo il Russo, per il Machiavelli «fortuna» ha un duplice significato, obbiettivo e soggettivo. La «fortuna» è la forza naturale delle cose (cioè il nesso causale), la concorrenza propizia degli eventi, quella che sarà la Provvidenza del Vico, oppure è quella potenza trascendente di cui favoleggiava la vecchia dottrina medioevale — cioè dio — e per il Machiavelli ciò non è poi che la virtù stessa dell'individuo e la sua potenza ha radice nella stessa volontà dell'uomo. La virtù del Machiavelli, come dice il Russo, non è più la virtù degli scolastici, la quale ha un carattere etico e ripete la sua forza dal cielo, e nemmeno quella di Tito Livio, che sta a significare per lo più il valore militare, ma la virtù dell'uomo del Rinascimento, che è capacità, abilità, industria, potenza individuale, sensibilità, fiuto delle occasioni e misura delle proprie possibilità.

Il Russo ondeggia in seguito nella sua analisi. Per lui il concetto di fortuna, come forza delle cose, che nel Machiavelli come negli umanisti serba ancora un CARATTERE NATURALISTICO E MECCANICO troverà il suo INVERAMENTO ed approfondimento storico solo nella razionale provvidenza di Vico e di Hegel. Ma è bene avvertire che tali concetti, nel Machiavelli, non hanno mai un carattere metafisico come nei filosofi veri e propri dell'Umanesimo ma sono semplici e profonde intuizioni [quindi filosofia!] della vita, e come simboli di sentimenti vanno intesi e spiegati. ( Sulla lenta formazione metafisica di questi concetti, per il periodo pre-machiavellico, il Russo rimanda al GENTILE, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento (cap. «Il concetto dell'uomo nel Rinascimento» e l'«Appendice»), Firenze, Vallecchi. Sugli stessi concetti del Machiavelli, cfr. F. ERCOLE, La politica di Machiavelli.)

Un repertorio della filosofia della prassi.

Sarebbe utilissimo un inventario critico di tutte le quistioni che sono state sollevate e discusse intorno alla filosofia della prassi, con ampie bibliografie critiche. Il materiale per una simile opera enciclopedica specializzata è talmente esteso, disparato, di diversissimo valore, in tante lingue, che solo un comitato di redazione potrebbe elaborarlo in un tempo non breve. Ma l'utilità che una compilazione di tal genere avrebbe, sarebbe di una importanza immensa sia nel campo scientifico sia nel campo scolastico e tra i liberi studiosi. Diverrebbe uno strumento di primo ordine per la diffusione degli studi sulla filosofia della prassi, e per il loro consolidamento in disciplina scientifica, staccando nettamente due epoche: quella moderna da quella precedente di imparaticci, di pappagallismi e di dilettantismi giornalistici.

Per costruire il progetto sarebbe da studiare tutto il materiale dello stesso tipo pubblicato dai cattolici dei vari paesi a proposito della Bibbia, degli Evangeli, della Patrologia, della Liturgia, dell'Apologetica, grosse enciclopedie specializzate di vario valore ma che si pubblicano continuamente e mantengono l'unità ideologica delle centinaia di migliaia di preti e altri dirigenti che formano la impalcatura e la forza della Chiesa Cattolica. (Per la bibliografia della filosofia della prassi in Germania sono da vedere le compilazioni di Ernest Drahn, citate dallo stesso Drahn nell'introduzione ai numeri 6068-6069 della Reklam Universal Bibliothek).

Occorrerebbe fare per la filosofia della prassi un lavoro come quello che il Bernheim ha fatto per il metodo storico. (E. BERNHEIM, Lehrbuch der Historischen Methode, ediz. 6a, 1908, Leipzig, Dunker v. Humblot.) Il libro del Bernheim non è un trattato della filosofia dello storicismo, tuttavia implicitamente le è legato. La cosidetta «sociologia della filosofia della prassi» dovrebbe stare a questa filosofia come il libro dei Bernheim sta allo storicismo in generale cioè essere una esposizione sistematica di canoni pratici di ricerca e di interpretazione per la storia — e la politica; una raccolta di criteri immediati, di cautele critiche ecc., una filologia della storia e della politica, come sono concepite dalla filosofia della prassi. Per alcuni rispetti occorrerebbe fare, di alcune tendenze della filosofia della prassi (e per avventura le piú diffuse per la loro grossolanità) la stessa critica (o tipo di critica) che lo storicismo moderno ha fatto del vecchio metodo storico e della vecchia filologia, che avevano portato a forme ingenue di dogmatismo e sostituivano l'int;rpretazione e la costruzione storica con la descrizione esteriore e l'elencazione delle fonti grezze spesso accumulate disordinatamente ed incoerentemente. La forza maggiore di queste pubblicazioni consisteva in quella specie di misticismo dogmatico che si era venuto creando e popolarizzando e che si esprimeva nell'affermazione non giustificata di essere seguaci del metodo storico e della scienza.

I fondatori della filosofia della prassi e l'Italia.

Una raccolta sistematica di tutti gli scritti (anche dell'epistolario) che riguardano l'Italia o considerano problemi italiani. Ma una raccolta che si limitasse a questa scelta non sarebbe organica e compiuta. Esistono scritti dei due autori che pur non riguardando specificatamente l'Italia, hanno un significato per l'Italia e un significato non generico, s'intende, perché altrimenti tutte le opere dei due scrittori si pub dire che riguardino l'Italia. Il piano della raccolta potrebbe essere costruito secondo questi criteri: 1) scritti che specificatamente si riferiscono all'Italia; a) scritti che riguardano argomenti «specifici» di critica storica e politica, che pur non riferendosi all'Italia, hanno attinenza con problemi italiani. Esempi: l'articolo sulla Costituzione spagnola del 1812 ha attinenza con l'Italia, per la funzione politica che tale costituzione ha avuto nei movimenti italiani fino al '48. Cosí ha attinenza con l'Italia la critica della Miseria della filosofia contro la falsificazione della dialettica hegeliana fatta dal Proudhon, che ha riflessi in corrispondenti moti intellettuali italiani (Gioberti, l'hegelismo dei moderati, concetto di rivoluzione passiva, dialettica di rivoluzione-restaurazione). Lo stesso si dica dello scritto di Engels sui moti libertari spagnoli del 1873 (dopo l'abdicazione di Amedeo di Savoia), che ha attinenza con l'Italia, ecc.

Di questa seconda serie di scritti non bisogna forse fare la raccolta, ma è sufficiente un'esposizione critico-analitica. Forse il piano più organico potrebbe essere quello in tre parti: 1) introduzione storico-critica; 2) scritti sull'Italia; 3) analisi degli scritti attinenti indirettamente all'Italia, cioè che si propongono di risolvere quistioni che sono essenziali e specifiche anche per l'Italia.

Egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale.

1) Ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione «gerarchica» della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz'altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea, la sola storicamente e concretamente universale, in quanto cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo e sono state da questo assimilate.

2) Ma anche la cultura europea ha subito un processo di unificazione, e nel momento storico che ci interessa, ha culminato nello Hegel e nella critica all'hegelismo.

3) Dai due primi punti risulta che si tiene conto del processo culturale che si impersona negli intellettuali; non è da parlare delle culture popolari, per le quali non si può parlare di elaborazione critica e di processo di sviluppo.

4) Non è neanche da parlare di quei processi culturali che culminano nell'attività reale, come si verificò nella Francia del secolo XVIII, o almeno è da parlarne solo in connessione col processo culminante in Hegel, e nella filosofia classica tedesca, come una riprova «pratica», nel senso a cui si è più volte e altrove accennato, della reciproca traducibilità dei due processi; l'uno, quello francese, politico-giuridico, l'altro, quello tedesco, teorico-speculativo.

5) Dalla decomposizione dell'hegelismo risulta l'inizio di un nuovo processo culturale, di carattere diverso da quelli precedenti in cui, cioè, si unificano il movimento pratico e il pensiero teorico (o cercano di unificarsi attraverso una lotta e teorica e pratica).

6) Non è rilevante il fatto che tale nuovo movimento abbia la sua culla in opere filosofiche mediocri, o per lo meno, non in capolavori filosofici. Ciò che è rilevante è che nasce un nuovo modo di concepire il mondo e l'uomo e che tale concezione non è più riservata ai grandi intellettuali, ai filosofi di professione, ma tende a diventare popolare, di massa, con carattere concretamente mondiale, modificando (sia pure col risultato di combinazioni ibride) il pensiero popolare, la mummificata cultura popolare.

7) Che tale inizio risulti dal confluire di vari elementi, apparentemente eterogenei, non maraviglia: Feuerbach, come critico di Hegel, la scuola di Tubinga come affermazione della critica storica e filosofica della religione, ecc. Anzi è da notare che un tale capovolgimento non poteva non avere connessioni con la religione.

8) La filosofia della prassi come risultato e coronamento di tutta la storia precedente. Dalla critica dell'hegelismo nascono l'idealismo moderno e la filosofia della prassi. L'immanentismo hegeliano diventa storicismo, ma è storicismo assoluto solo con la filosofia della prassi, storicismo assoluto o umanesimo assoluto. (Equivoco dell'ateismo ed equivoco del deismo in molti idealisti moderni: è evidente che l'ateismo è una forma puramente negativa e infeconda, a meno che non sia concepito come un periodo di pura polemica letteraria popolare).

Sorel, Proudhon, De Man.

«La Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 ha pubblicato un lungo (da p. 289 a p. 307) saggio di Giorgio Sorel col titolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito). Si tratta di uno scritto del 1920, che doveva servire di prefazione a una raccolta di articoli pubblicati dal Sorel in giornali italiani dal 1910 al 1921 (La raccolta è stata pubblicata dalla Casa ed. «Corbaccio» di Milano, a cura di Mario Missiroli col titolo L'Europa sotto la tormenta, forse con criteri molto diversi da quelli che sarebbero stati applicati nel 1920 quando la prefazione fu scritta: sarebbe utile vedere se nel volume sono riprodotti alcuni articoli come quello dedicato alla Fiat e qualche altro. Lo scritto del Sorel, pubblicato nella «Nuova Antologia», non è riprodotto nel volume, sebbene fosse stato annunziato come scritto dal Sorel a modo di prefazione: la scelta degli articoli riprodotti del resto, non permetteva la stampa di tale prefazione, che col contenuto del libro non ha niente a che vedere. Appare evidente che il Missiroli non si è attenuto alle indicazioni che il Sorel doveva avergli dato per compilare la raccolta, indicazioni che si possono ricavare dalla «prefazione» scartata. La raccolta è stata fatta ad usum delphini, tenendo conto solo di una delle tante direzioni del pensiero sorelliano, che non si può ritenere fosse giudicata dallo scrittore come la piú importante, perché altrimenti la «prefazione» sarebbe stata di altra intonazione. Alla raccolta precede invece una prefazione del Missiroli, che è unilaterale ed è in contrasto stridente con la prefazione censurata, della quale, poco lealmente, non si fa neppur cenno.).

Il ritardo nella pubblicazione del libro non è indipendente dalle oscillazioni che in Italia ha avuto la rinomanza del Sorel — dovuta a una serie di equivoci piú o meno disinteressati, — e che oggi è scaduta di molto: esiste già una letteratura antisorelliana. Il saggio pubblicato dalla «Nuova Antologia» riassume tutti i pregi e tutte le manchevolezze del Sorel: è tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, sibillino, ecc.; ma dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati eppur veri, obbliga a pensare e ad approfondire.

Qual è il significato di questo saggio? Esso risulta chiaramente da tutto l'articolo, che fu scritto nel 1920 ed è una patente falsificazione la noticina introduttiva della «Nuova Antologia» (dovuta forse allo stesso Missiroli, della cui lealtà intellettuale è bene non fidarsi) che conclude con queste parole: «... uno scrittore, che assegnò all'Italia del dopoguerra il primato intellettuale e politico in Europa». A quale Italia? Qualcosa in proposito potrebbe dire esplicitamente il Missiroli o si potrebbe trovare nelle lettere private del Sorel al Missiroli (lettere che dovrebbero essere pubblicate, secondo che è stato annunziato, ma non lo saranno o lo saranno non integre), ma si può arguire da numerosi articoli del Sorel. Da questo saggio è utile, pro-memoria, annotare alcuni spunti, ricordando che tutto il saggio è molto importante per comprendere Sorel e il suo atteggiamento nel dopoguerra:

a) Bernstein ha sostenuto (Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, trad. francese, pp. 53-54) che un rispetto superstizioso per la dialettica hegeliana ha condotto Marx a preferire alle costruzioni degli utopisti tesi rivoluzionarie assai prossime a quelle della tradizione giacobina, babeuvista o blanquista; non si comprende allora, però, come mai nel Manifesto non si parli della letteratura babeuvista che Marx indubbiamente conosceva. L'Andler è del parere (Vol. II della sua ediz. del Manifesto, p. 191) che Marx faccia un'allusione piena di disprezzo per la congiura degli Uguali, quando parla dell'ascetismo universale e grossolano che si riscontra nelle piú antiche rivendicazioni proletarie dopo la Rivoluzione francese.

b) Pare che Marx non si sia mai potuto liberare completamente dall'idea hegeliana della storia, secondo la quale diverse ere si succedono nell'umanità, seguendo l'ordine di sviluppo dello spirito, che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Alla dottrina del suo maestro egli aggiunge quella della lotta di classe: sebbene gli uomini non conoscano che le guerre sociali, nelle quali sono spinti dai loro antagonismi economici, essi cooperano inconsciamente a un'opera che il solo metafisico suppone. Questa ipotesi del Sorel è molto azzardata ed egli non la giustifica: ma evidentemente gli sta molto a cuore, sia per la sua esaltazione della Russia, sia per la sua previsione della funzione civile dell'Italia. (È da segnalare, a proposito di questo avvicinamento Russia-Italia, l'atteggiamento di D'Annunzio, in un tempo quasi coincidente, nei manoscritti fatti circolare nella primavera del 192o; conobbe il Sorel questo atteggiamento dannunziano? Solo il Missiroli potrebbe dare una risposta.) Secondo il Sorel «Marx aveva una cosí grande fiducia nella subordinazione della storia alle leggi dello sviluppo dello Spirito, che ha insegnato che, dopo la caduta del capitalismo, l'evoluzione verso il Comunismo perfetto si produrrebbe senza essere provocata da una lotta di classi (Lettera sul programma di Gotha). Sembra che Marx abbia creduto, come Hegel, che i diversi momenti dell'evoluzione si manifestino in paesi diversi, ciascuno dei quali è specialmente adatto a ciascuno di quei momenti. (Vedere la pref. del21 gennaio 1882 a una traduzione russa del Manifesto.) Egli non ha mai fatto una esposizione esplicita della sua dottrina; cosí molti marxisti sono persuasi che tutte le fasi dell'evoluzione capitalista devono prodursi nella stessa forma, presso tutti i popoli moderni. Questi marxisti sono troppo poco hegeliani.

c) La questione: prima o dopo il '48? Il Sorel non intende il significato di questo problema, nonostante la letteratura in proposito (sia pure letteratura da bancarella) e accenna al «curioso» (sic) cambiamento che si produsse nello spirito di Marx alla fine del 185o: nel marzo egli aveva firmato un manifesto dei rivoluzionari rifugiati a Londra, nel quale era tracciato il programma di una agitazione rivoluzionaria da intraprendersi in vista di un nuovo prossimo sconvolgimento sociale, che Bernstein trova degno del primo venuto dei rivoluzionari da club (Social. teorico, ecc., p. 51), mentre poi egli si convinse che la rivoluzione nata dalla crisi del '47 finiva con quella crisi. Ora gli anni dopo il '48 furono di una prosperità senza eguali: mancava dunque per la rivoluzione progettata la prima delle condizioni necessarie: un proletariato ridotto all'ozio e disposto a combattere (cfr. Andler, I, pp. 55-56, ma di quale edizione?) Cosi sarebbe nata nei marxisti la concezione della miseria crescente; che avrebbe dovuto servire a spaventare gli operai e indurli a combattere in vista di un peggioramento probabile anche in una situazione prospera. [Spiegazione infantile e contraddetta dai fatti, anche se è vero che della teoria della miseria crescente è stato fatto uno strumento di tal genere, un argomento di immediata persuasione : e del resto si trattò di un arbitrio? Sul tempo in cui nacque la teoria della miseria crescente è da vedere la pubblicazione di Roberto Michels].

d) Su Proudhon: «Proudhon apparteneva a quella parte della borghesia che era più vicina al proletariato; per questo i marxisti hanno potuto accusarlo di essere un borghese, mentre gli scrittori più sagaci lo considerano come un ammirevole prototipo dei nostri (cioè, francesi) contadini e dei nostri artigiani (cfr. Daniel Halévy nei "Débats" del 3 gennaio 1913)». Questo giudizio del Sorel si può accettare. Ed ecco come il Sorel spiega la mentalità «giuridica» del Proudhon : «In ragione della modicità delle loro risorse, i contadini, i proprietari delle più piccole fabbriche, i piccoli commercianti sono obbligati a difendere aspramente i loro interessi davanti ai tribunali. Un socialismo che si proponga di proteggere i ceti posti sui gradini più bassi dell'economia, è naturalmente destinato a dare una grande importanza alla sicurezza del diritto, e una tendenza siffatta è particolarmente forte presso quegli scrittori che, come Proudhon, hanno la testa piena di ricordi della vita campagnola». E dà ancora altri spunti per rinforzare questa analisi, che non persuade del tutto: la mentalità giuridica del Proudhon è legata al suo antigiacobinismo, ai ricordi letterari della Rivoluzione francese e dell'antico regime che si suppone abbia portato all'esplosione giacobina proprio per l'arbitrarietà della giustizia : la mentalità giuridica è la sostanza del riformismo piccolo-borghese del Proudhon e le sue origini sociali hanno contribuito a formarla per altro e «pili alto» nesso di concetti e di sentimenti: in questa analisi il Sorel si confonde con la mentalità degli «ortodossi» da lui tanto spregiati. Lo strano è che il Sorel, avendo una tale convinzione sulla tendenza sociale del Proudhon, lo esalti e talvolta lo proponga a modello o fonte di principi per il proletariato moderno; se la mentalità giuridica del Proudhon ha questa origine perché gli operai dovrebbero occuparsi della quistione di un «nuovo diritto», di una «sicurezza del diritto», ecc.?

A questo punto, si ha l'impressione che il saggio del Sorel sia stato mutilato e che manchi precisamente una parte, riguardante il movimento italiano delle fabbriche: dal testo pubblicato, è possibile immaginare che Sorel abbia trovato nel movimento delle commissioni interne rivolte a controllare i regolamenti di fabbrica e in generale la «legislazione» interna di fabbrica che dipendeva unicamente dall'arbitrio incontrollato degli imprenditori, il corrispettivo delle esigenze che Proudhon rifletteva per i contadini e gli artigiani. Il saggio, cosi come è pubblicato, è incoerente e incompleto; la sua conclusione, riguardante l'Italia («Molte ragioni mi avevano condotto, da gran tempo, a supporre, che quello che un hegeliano chiamerebbe il Wehgeist, spetta oggi all'Italia. Grazie all'Italia, la luce dei tempi nuovi non si spegnerà»), non ha nessuna dimostrazione, sia pure per scorci e accenni, al modo del Sorel. Nell'ultima nota c'è un accenno ai consigli degli operai e contadini in Germania, «che io consideravo conformi allo spirito proudhoniano» e un rimando ai Materiali per una teoria, ecc. (pp. 164 e 394). Sarebbe interessante sapere se veramente il saggio è stato mutilato e da chi; se direttamente dal Missiroli o. da altri.

Nota I. Non si può comprendere il Sorel come figura di «intellettuale rivoluzionario» se non si pensa alla Francia di dopo il '70, come non si può comprendere il Proudhon senza il «panico antigiacobino» dell'epoca della Restaurazione. Il '70 e il '71 videro in Francia due terribili disfatte, quella nazionale, che pesò sugli intellettuali borghesi e la disfatta popolare della Comune che pesò sugli intellettuali rivoluzionari: la prima creò dei tipi come Clemenceau, quintessenza del giacobinismo nazionalista francese, la seconda creò l'antigia-cobino Sorel e il movimento sindacalista «antipolitico». Il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario, meschino, antistorico è una conseguenza del salasso popolare del '71 (È da vedere in proposito la Lettre à M, Daniel Halévy nel «Mouvement socialiste», 16 agosto e 15 settembre 1907); da esso viene una curiosa luce per le sue Riflessioni sulla violenza. Il salasso del '71 tagliò il cordone ombelicale tra il «nuovo popolo» e la tradizione del '93: Sorel avrebbe voluto essere il rappresentante di questa rottura tra popolo e giacobinismo storico ma non gli riuscì.

Nota II. Gli scritti del Sorel del dopoguerra hanno una certa importanza per la storia della cultura occidentale. Il Sorel attribuisce al pensiero del Proudhon tutta una serie di istituzioni e di atteggiamenti ideologici di questo periodo. Perché il Sorel ha potuto far questo? È assolutamente arbitrario questo suo giudizio? E data l'acutezza del Sorel come storico delle idee, che esclude, almeno in gran parte, una tale arbitrarietà, da quali esperienze culturali è partito il Sorel e non è tutto ciò importante per un giudizio complessivo dell'opera sorelliana? È certo che occorre ristudiare Sorel per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente. Occorre tener presente che si è esagerato molto sull'«austerità» e «serietà» morale e intellettuale del Sorel; dall'epistolario col Croce risulta che egli non sempre vinceva gli stimoli della vanità, ciò risulta, per es., dal tono impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (titubante e sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con gli elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c'era molto dilettantismo, molto «non impegnarsi mai a fondo», quindi molta intrinseca irresponsabilità negli atteggiamenti «politici» del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «culturali-politici», «intellettuali-politici», «au dessus de la mêlée»: anche al Sorel si potrebbero muovere molte accuse simili a quelle contenute nell'opuscolo di un suo discepolo: I misfatti degli intellettuali. Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare, con una analisi accurata, ciò che vi è nelle sue opere di superficiale, di brillante, di accessorio, legato alle contingenze della polemica estemporanea, e ciò che vi è di «polposo» e sostanzioso, per farlo entrare, cosi definito, nel circolo della cultura moderna.

Nota III. Nel 1929, dopo la pubblicazione di una lettera in cui Sorel parlava di Oberdan, si moltiplicarono gli articoli di protesta per alcune espressioni usate dal Sorel nelle sue lettere al Croce e il Sorel fu «stroncato» (particolarmente violento un articolo di Arturo Stanghellini riportato nell'«Italia Letteraria» di quei giorni). L'epistolario fu interrotto nel numero successivo della «Critica» e ripreso, senza accenno alcuno all'incidente, ma con alcune novità: parecchi nomi furono pubblicati solo con le iniziali e si ebbe l'impressione che alcune lettere non siano state pubblicate o siano state espurgate. Da questo punto incomincia nel giornalismo una valutazione nuova del Sorel e dei suoi rapporti con l'Italia.

Per certi rispetti al Sorel si può accostare il De Man, ma quale differenza tra i due! Il De Man si imbroglia assurdamente nella storia delle idee e si lascia abbagliare dalle superficiali apparenze; se un appunto si può invece muovere al Sorel è proprio in senso contrario, di analizzare troppo minutamente il sostanziale delle idee e di perdere spesso il senso delle proporzioni. I1 Sorel trova che una serie di avvenimenti del dopoguerra sono di carattere proudhoniano; il Croce trova che il De Man segna un ritorno al Proudhon, ma il De Man tipicamente non capisce gli avvenimenti del dopoguerra indicati dal Sorel. Per il Sorel è proudhoniano ciò che è «spontanea» creazione del popolo, è «ortodosso» ciò che è di origine burocratica, perché egli ha sempre dinanzi come ossessioni, da una parte la burocrazia dell'organizzazione tedesca e dall'altra il giacobinismo, ambedue fenomeni di centralizzazione meccanica con le leve di comando in mano a una banda di funzionari.

Il De Man rimane, in realtà, un esemplare pedantesco della burocrazia laburista belga: tutto è pedantesco in lui, anche l'entusiasmo. Crede di aver fatto scoperte grandiose, perché ripete con un formulario «scientifico» la descrizione di una serie di fatti più o meno individuali : è una tipica manifestazione di positivismo, che raddoppia il fatto, descrivendolo e generalizzandolo in una formula e poi della formulazione del fatto fa la legge del fatto stesso. Per il Sorel, come appare dal Saggio pubblicato dalla «Nuova Antologia», ciò che conta in Proudhon è l'orientamento psicologico, non già il concreto atteggiamento pratico, sul quale, in verità, il Sorel non si pronunzia esplicitamente: questo orientamento psicologico consiste nel «confondersi» coi sentimenti popolari (contadini e artigiani), che concretamente pullulano dalla situazione reale fatta al popolo dagli ordinamenti economico-statali, nel «calarsi» in essi per comprenderli ed esprimerli in forma giuridica, razionale; questa o quella interpretazione, o anche l'insieme di esse, possono essere errate, o cervellotiche, o addirittura ridicole, ma l'atteggiamento generale è il più produttivo di conseguenze pregevoli. L'atteggiamento del De Man è invece quello «scientista»: egli si china verso il popolo non per comprenderlo disinteressatamente, ma per «teorizzare» i suoi sentimenti, per costruire schemi pseudo-scientifici; non per mettersi all'unisono ed estrarre principi giuridico-educativi, ma come lo zoologo osserva un mondo di insetti, come Maeterlink osserva le api e le termiti.

Il De Man ha la pretesa pedantesca di porre in luce e in primo piano i cosi detti «valori psicologici ed etici u del movimento operaio; ma può ciò significare, come pretende il De Man, una confutazione perentoria e radicale della filosofia della prassi? Ciò sarebbe come dire che il porre in luce il fatto che la grande maggioranza degli uomini è ancora alla fase tolemaica, significhi confutare le dottrine copernicane, o che il folclore debba sostituire la scienza. La filosofia della prassi sostiene che gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale nel terreno delle ideologie; ha forse escluso il popolo da questo modo di prender coscienza di sé? Ma è osservazione ovvia che il mondo delle ideologie é (nel suo complesso) più arretrato che non i rapporti tecnici di produzione: un negro appena giunto dall'Africa può diventare un dipendente di Nord, pur mantenendosi per molto tempo un feticista e pur rimanendo persuaso che l'antropofagia sia un modo di nutrirsi normale e giustificato. Il De Man, fatta un'inchiesta in proposito, quali conclusioni ne potrebbe trarre? Che la filosofia della prassi debba studiare oggettivamente ciò che gli uomini pensano di sé e degli altri in proposito è fuori dubbio, ma deve supinamente accettare come eterno questo modo di pensare? Non sarebbe questo il peggiore dei meccanicismi e dei fatalismi? Còmpito di ogni iniziativa storica è di modificare le fasi culturali precedenti, di rendere omogenea la cultura a un livello superiore del precedente ecc. In realtà la filosofia della prassi ha sempre lavorato in quel terreno che il De Man crede di aver scoperto, ma vi ha lavorato per innovare non per conservare supinamente. La «scoperta» del De Man è un luogo comune e la sua confutazione una rimasticatura poco gustosa.

Con questo «conservatorismo» si spiega il discreto successo del De Man, anche in Italia, almeno in certi ambienti (specialmente nell'ambiente crociano-revisionista e in quello cattolico). Del libro principale del De Man, Croce scrisse un annunzio nella «Critica» del 1928, il De Ruggiero scrisse una recensione nella «Critica» del 1929; la «Civiltà Cattolica» e il «Leonardo»: recensioni nel 1929; G. Zibordi vi accennò nel suo libretto su Prampolini; un annunzio librario molto elogiativo ne fece la Casa Laterza per la traduzione Schiavi e lo Schiavi ne parlò come di gran cosa nella sua prefazione; articoli di adesione pubblicò «I problemi del Lavoro» che riprodusse le tesi finali non riportate nella traduzione Schiavi. L'«Italia Letteraria» dell'11 agosto 5929 ne pubblicò una recensione di Umberto Barbaro. Scrive il Barbaro: «...una critica del marxismo che, se si vale delle precedenti " revisioni " di carattere economico, in massima è fondata su di una questione tattica (sic) relativa alla psicologia delle masse operaie». «Dei molti tentativi di andare " au de là " del marxismo (il traduttore, il noto avvocato Alessandro Schiavi, modifica un po' il titolo, in " superamento " in senso crociano e assai giustificatamente [!] per altro, poiché il De Man stesso considera la sua come una posizione in antitesi necessaria per una sintesi superiore) questo non è certamente dei più poderosi e tanto meno dei più sistematici; anche perché la critica si basa prevalentemente appunto su quella misteriosa e fuggevole, benché certo affascinante pseudo-scienza che è la psicologia. Nei riguardi del " movimento " questo libro è piuttosto disfattista e talvolta fornisce addirittura argomenti alle tendenze che vuole combattere: al fascismo per un gruppo di osservazioni sugli stati affettivi e sui " complessi " (in senso freudiano) degli operai da cui derivano idee di " gioia del lavoro " e di " artigianato " ed al comunismo e fascismo insieme per la scarsa efficacia degli argomenti in difesa della democrazia e del riformismo».

Recensione di Paolo Milano nell'«ICS» del settembre 5929. Il Milano distingue nell'opera del De Man due apporti: la massa di osservazioni psicologiche sulle fasi di sviluppo, le deviazioni, le reazioni contraddittorie del movimento operaio e socialista negli anni recenti, una sagace collezione di dati e documenti sociali, insomma: l'analisi dell'evoluzione riformistica delle masse operaie da un lato e dei gruppi padronali dall'altro, secondo il Milano, è ricca e soddisfacente; e la discussione teorica da cui dovrebbe risultare il «superamento del marxismo» (esattamente, per il De Man, il «ripudio» del marxismo). Per il De Man la filosofia della prassi, nel suo fondo meccanicistica e razionalistica. (!), è superata dalle indagini più recenti, che hanno assegnato alla concatenazione razionale soltanto un posto e neppure il più ragguardevole nella serie dei movimenti degli atti umani. Alla reazione meccanica (!) della dialettica marxistica, la scienza moderna (!) ha vittoriosamente (!) sostituito una reazione psicologica, la cui intensità non è proporzionale (?) alla causa agente. Per il Milano: «E' ormai chiaro che qualunque critica alla concezione marxistica della storia porta automaticamente ad impostare il contrasto tra interpretazione materialistica e interpretazione idealistica del mondo e ad assegnare in sostanza una priorità all'essere o al conoscere».

Il De Man è sfuggito a questo problema o meglio si è fermato a mezza strada, dichiarandosi per una concezione dei fatti umani come generati da «moventi psicologici» e da «complessi» sociali, cioè il De Man è influenzato dalla psicologia freudiana, soprattutto attraverso le applicazioni alle dottrine sociali, ten tatene dall'Adler. Osserva il Milano: «Si sa d'altronde che labile terreno sia la psicologia nelle indagini storiche: tanto più equivoco in ricerche del tipo di queste, di cui si parla. I fenomeni psicologici infatti si prestano ad essere volta a volta indicati come tendenze volitive o come fatti materiali; tra queste opposte interpretazioni oscilla anche il De Man ed evita quindi una presa di posizione sul punto cruciale del contrasto. Davvero psicologica piuttosto un lettore accorto giudicherà che sia l'origine dell'opera del De Man: nata da una crisi di sfiducia e dalla constatazione dell'insufficienza delle dottrine marxistiche integrali a spiegare i fenomeni che all'osservazione dell'autore si erano offerti durante lo spicciolo lavoro politico. Nonostante le ottime intenzioni, il tenore del libro non supera questa documentata e mossa constatazione né riesce ad una confutazione teorica sul piano adeguato e col vigore " necessario "»; e conclude: «La riprova ne dà l'ultimo capitolo, in cui la trattazione vorrebbe conchiudersi col raccomandare un pratico contegno politico. Il De Man, egualmente evitando i due estremi di una tattica di presa del potere e di un apostolato esclusivamente idealistico, consiglia una generica educazione delle masse e con ciò si pone fuori di quel socialismo, di cui pure per tutta l'opera si era dichiarato fedele e illuminato seguace».

Nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929, nell'articolo «Per la pace sociale» (del p. Brucculeri) che commenta il famoso lodo emesso dalla Congregazione del Concilio nel conflitto tra operai e industriali cattolici della regione Roubaix-Tourcoing, c'è questo passo: «Il marxismo — come dimostra nelle sue più belle pagine il De Man, — è stato una corrente materializzatrice del mondo operaio moderno». Cioè le pagine del De Man sono tutte belle, ma alcune sono più belle ancora. (Dato questo atteggiamento dei cattolici verso la tendenza del De Man, può spiegarsi come Giuseppe Prezzolini, accennando nel «Pegaso» dell'ottobre 1930 al volume del Philip sul Movimento operaio americano, qualifichi il Philip come un «democratico cristiano» sebbene dal libro una tale qualifica non risulti e non sia giustificata). Nei fascicoli della «Civiltà Cattolica» del 5 ottobre e 16 novembre 1929 è pubblicato un saggio molto diffuso sul libro del De Man. L'opera del De Man è reputata «nonostante le sue deficienze, la più importante e, diciamo pure, geniale, di quante finora ne annoveri la letteratura antimarxista». Verso la fine del saggio c'è questa impressione complessiva: «L'A. (il De Man), benché abbia superato una crisi di pensiero, respingendo con gesto magnanimo, il marxismo, è tuttavia ondeggiante, e la sua intelligenza sitibonda di vero non è a pieno soddisfatta. Egli batte sulle soglie della verità, raccoglie dei raggi, ma non spinge innanzi per tuffarsi nella luce.

Auguriamo al De Man che, compiendo la sua crisi, possa elevarsi, come il gran vescovo di Tagaste, dal divino riflesso che è la legge morale nell'anime, al divino infinito, alla sorgente eternamente splendida di tutto ciò che per l'universo si squaderna».

Da un articolo di Arturo Masoero. Un americano non edonista (in «Economia» del febbraio 1931) risulta che molte opinioni esposte da H. De Man, Gioia del lavoro, e quindi anche in altri suoi libri, sono prese delle teorie dell'economista americano Thorstein Veblen, che ha portato nella scienza economica alcuni principi sociologici del positivismo, specialmente di A. Comte e dello Spencer; il Veblen vuole specialmente introdurre l'evoluzionismo nella scienza economica. Cosí troviamo nel Veblen l'«instinct of worhmanship», che il De Man chiama «istinto creatore». W. James nel 1890 aveva esposto la nozione di un istinto costruttivo («instinct of constructiveness») e già Voltaire parlava di un istinto meccanico (Cfr. questa grossolana concezione dell'«istinto» del De Man con ciò che scrive Marx sull'istinto delle api e su ciò che distingue l'uomo da questo istinto. ). Ma pare che il De Man abbia preso dal Veblen anche quella sua mirabolante e grossolana concezione di un «animismo» negli operai su cui tanto insiste nella Gioia del lavoro. Cosf il Masoero espone la concezione del Veblen: c, Presso i primitivi l'interpretazione mitica cessa di essere un ostacolo e spesso diventa un aiuto per ciò che riguarda lo sviluppo della tecnica agricola dell'allevamento. Non può che giovare, infatti, a questo sviluppo il considerare come dotati di anima o addirittura di caratteri divini le piante e gli animali, poiché . da una simile considerazione derivano quelle cure, quelle attenzioni che possono portare ai miglioramenti tecnici e alle innovazioni. Una mentalità animista è invece decisamente contraria al progresso tecnico della manifattura, all'esplicarsi dell'istinto operaio sulla materia inerte. Cosf il Veblen spiega come all'inizio dell'età neolitica, in Danimarca la tecnica agricola fosse già tanto avanzata mentre rimase nullo per lungo tempo lo sviluppo della tecnica manifatturiera. Attualmente l'istinto operaio, non più ostacolato dalla credenza nell'intervento di elementi provvidenziali e misteriosi, va unita a uno spirito positivo e consegue quei progressi nelle arti industriali, che sono propri dell'epoca moderna».

Il De Man avrebbe preso cosi dal Veblen, l'idea di un «animismo operaio» che il Veblen crede esistito nell'età neolitica, ma non più oggi e l'avrebbe riscoperto nell'operaio moderno, con molta originalità.

E' da notare, date queste origini spenceriane del De Man, la conseguenzialità del Croce che ha visto nel De Man un superatore del marxismo ecc.

Tra Spencer e Freud, che ritornò ad una forma di sensismo più misterioso ancora di quello settecentesco, il De Man meritava proprio di essere esaltato dal Croce e di vedersi proposto allo studio degli italiani intelligenti.

Del Veblen è annunziata la traduzione in italiano per iniziativa dell'on. Bottai. In ogni modo in questo articolo del Masoero si trova in nota la bibliografia essenziale. Nel Veblen si può osservare, come appare dall'articolo, un certo influsso del marxismo. Il Veblen mi pare che abbia avuto anche influsso sulle teorizzazioni del Ford.

Passaggio dal sapere, al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere.

L'elemento popolare «sente», ma non sempre comprende o sa; l'elemento intellettuale «sa», ma non sempre comprende e specialmente «sente». I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall'altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati. L'errore dell'intellettuale consiste che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed esser appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l'oggetto del sapere) cioè che l'intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il «sapere»; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell'intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (cosl detto centralismo organico).

Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti — tra governanti e governati — è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d'insieme che solo è la forza sociale; si crea il «blocco storico».

Il De Man «studia» i sentimenti popolari, non consente con essi per guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna: la sua posizione è quella dello studioso di folclore che ha continuamente paura che la modernità gli distrugga l'oggetto della sua scienza. D'altronde c'è nel suo libro il riflesso pedantesco di una esigenza reale: che i sentimenti popolari siano conosciuti e studiati cosí come essi si presentano obbiettivamente e non ritenuti qualcosa cli trascurabile e di inerte nel movimento storico.