Perché, dopo aver goduto una
straordinaria fortuna sino a diventare la koiné degli
anni ’60 e ’70, il marxismo è caduto in Occidente in una crisi così profonda?
Certo, in questa vicenda hanno giocato un ruolo essenziale gli avvenimenti
storici che tutti conosciamo, culminati nel crollo dell’Unione Sovietica e del
«campo socialista». E, tuttavia, pur ineludibile,
questo tipo di spiegazione non è esaustivo: occorre approfondire l’analisi,
concentrando l’attenzione sulle debolezze intrinseche che il marxismo rivela in
Occidente anche negli anni in cui la sua egemonia sembra incontrastata. Ciò è
più che mai vero per l’Italia. Conviene prendere le mosse da un dibattito nel
1954 provocato da Norberto Bobbio. Questi, pur
giustamente insistendo sulla irrinunciabilità della
libertà «formale» e delle sue garanzie giuridico-istituzionali,
ascrive a merito degli Stati socialisti di aver «iniziato una nuova fase di progresso civile in paesi
politicamente arretrati, introducendo istituti tradizionalmente democratici,
di democrazia formale come il suffragio universale e l'elettività delle
cariche, e di democrazia sostanziale come la colletivizzazione
degli strumenti di produzione». E, tuttavia – è la conclusione critica – il
nuovo «Stato socialista» non ha ancora saputo trapiantare sul suo seno il
governo della legge e i meccanismi garantisti liberali, non ha ancora saputo
procedere alla «limitazione del potere» e versare «una goccia d'olio [liberale]
nelle macchine della rivoluzione già compiuta»[1]. Come
si vede, siamo ben lontani dalle posizioni assunte dal filosofo torinese
nell’ultima fase della sua evoluzione, allorché egli diviene in ultima analisi
un ideologo della guerra dell’Occidente: nel 1954 (mancano due anni dal XX
Congresso del Pcus e dallo scoppio della rivolta
ungherese) grandi sono l’influenza del marxismo e il prestigio dei paesi che ad
esso si richiamano; in questo momento, accanto alla «democrazia formale» Bobbio teorizza anche una «democrazia sostanziale»; per di
più sui paesi socialisti esprime un giudizio che non è univocamente negativo
neppure per quanto riguarda la «democrazia formale».
Quali sono le reazioni degli
intellettuali comunisti italiani? Per respingere o smussare le critiche rivolte
in primo luogo all’Unione Sovietica, a giustificazione parziale del ritardo
essi avrebbero potuto addurre lo stato d’eccezione permanente imposto al paese
nato dalla rivoluzione d’Ottobre e la minaccia di annientamente
nucleare che continuava a pesare su di esso. Galvano Della Volpe segue invece
una strategia del tutto diversa, concentrandosi sulla celebrazione della libertas maior (lo
sviluppo concreto dell’individualità garantito dalle condizioni materiali di
vita). In tal modo, per un verso sono svalutate le garanzie giuridiche dello
Stato di diritto, implicitamente degradate a la libertas minor; per un altro verso
si finisce con l’avvalorare la trasfigurazione cui Bobbio
procede della tradizione liberale quale campione della causa del godimento
universale per lo meno dei diritti civili, della libertà formale, della libertas minor, della generale «limitazione del
potere». A sostegno di tale visione il filosofo torinese rinvia all’inno che
alla libertà scioglie John Stuart
Mill nel suo saggio forse più celebre: On Liberty. Eppure, proprio in questo
saggio vediamo il liberale inglese giustificare il «dispotismo» dell'Occidente
sulle «razze» ancora «minorenni», tenute ad osservare un'«obbedienza assoluta»,
in modo da poter essere avviate sulla via del progresso[2]. Nel
1954 il «dispotismo» e l’«obbedienza assoluta» imposti dall’Occidente si
facevano ben avvertire nel mondo coloniale; negli stessi Stati Uniti i neri
continuavano ad essere largamente esclusi dai diritti politici e, talvolta,
persino dai diritti civili (nel Sud non era ancora dileguato il regime di
segregazione razziale e di white supremacy). Tutto preso dalla celebrazione della libertas maior, Della
Volpe non si preoccupa o non è in grado di richiamare l’attenzione sul
clamoroso infortunio di Bobbio.
Il fatto è che, pur presentandosi
in forma di volta in volta diversa, la rimozione della questione coloniale
caratterizza largamente il marxismo occidentale di quegli anni. Nel 1961 Ernst Bloch pubblica Diritto naturale e dignità umana. Come
emerge già dal titolo, siamo ben lontani dalla sottovalutazione cara a Della
Volpe della libertas minor; al contrario esplicita è la
rivendicazione dell’eredità della tradizione liberale, sottoposta tuttavia ad
una critica che disgraziatamente rassomiglia ad una trasfigurazione. Bloch rimprovera al liberalismo di propugnare
un’«uguaglianza formale e soltanto formale». E aggiunge: «Per imporsi, il
capitalismo è interessato solo alla realizzazione di un’universalità della
regolamentazione giuridica, che tutto abbraccia in modo uguale»[3].
Questa affermazione si può leggere
in un libro la cui pubblicazione cade nello stesso anno in cui a Parigi la
polizia scatena una spietata caccia agli algerini, affogati nella Senna o uccisi a bastonate; e tutto ciò alla luce
del sole, anzi dinanzi alla presenza di cittadini francesi che, sotto la
protezione del governo della legge, assistono divertiti allo spettacolo: altro
che «uguaglianza formale»! Nella stessa capitale di un paese capitalistico e
liberale vediamo all’opera una doppia legislazione, che consegna all’arbitrio e
al terrore poliziesco un gruppo etnico ben determinato. Se poi prendiamo in
considerazione le colonie e le semi-colonie e rivolgiamo lo sguardo ad esempio
all’Algeria o al Kenia o al Guatemala (un paese
formalmente libero ma di fatto sotto protettorato stanunitense),
vediamo lo Stato dominante, capitalistico e liberale, far ricorso su larga
scala e in modo sistematico alle torture, ai campi di concentramento e alle
pratiche genocide a danno degli indigeni. Di tutto
ciò non c’è traccia né in Bobbio, né in Della Volpe
né in Bloch.
E i popoli coloniali o di origine
coloniale continuano ad essere assenti allorché l’autore di Diritto naturale e dignità umana si
occupa di Grozio e di Locke
(l’apprezzamento del loro orientamento giusnaturalistico
non fa cenno del loro impegno a giustificare la schiavitù dei neri) o allorché
fa riferimento alla guerra d’indipendenza americana (l’omaggio reso ai «giovani
liberi Stati» passa totalmente sotto silenzio il peso della schiavitù nella
realtà politico-sociale e nella stessa Costituzione degli Usa)[4].
Tanto più singolare è tale silenzio
per il fatto che proprio in questi anni cominicia a
svilupparsi nella repubblica d’oltre Atlantico la lotta degli afroamericani. E’ una vicenda che attira l’attenzione a
Pechino di Mao Zedong, e
può essere interessante confrontare le prese di posizione di due personalità
tra loro così diverse. Se il filosofo tedesco denuncia il carattere meramente
«formale» dell’uguaglianza liberale e capitalistica, il dirigente comunista
cinese procede in modo ben diverso. Certo, sottolinea che i neri subiscono un
tasso nettamente più alto di disoccupazione rispetto ai bianchi, sono confinati
nei segmenti inferiori del mercato del lavoro e sono costretti ad accontentarsi
di salari decurtati. Ma ciò non è tutto: Mao richiama
l’attenzione sulla violenza razzista scatenata dalle autorità del Sud e dalle
bande da esse tollerate o incoraggiate e celebra «la lotta del popolo nero
americano contro la discriminazione razziale e per la libertà e l’uguaglianza
dei diritti»[5].
Bloch critica la rivoluzione borghese per il fatto
che essa «limitò l’uguaglianza a quella politica»; con riferimento agli afroamericani, Mao fa notare che
«la maggior parte di loro è privata del diritto di voto»[6].
Ridotti a merce e de-umanizzati dai loro oppressori, per secoli i popoli
coloniali hanno condotto battaglie memorabili per il riconoscimento, ma in Bloch si può leggere: «Il principio per cui gli uomini
nascono liberi e uguali è già presente nel diritto romano; ora dev’essere presente anche nella realtà». Ed ora vediamo la
conclusione dell’articolo di Mao già citato del 1963:
«Il malvagio sistema colonialista-imperialista si sviluppò con la riduzione in
schiavitù e la tratta dei neri, ed esso giungerà certamente a termine con la
loro completa liberazione»[7].
Accenti analoghi risuonano in
Vietnam, dove è in corso una grande lotta di liberazione nazionale diretta da
Ho Chi Minh, il quale già nel 1920 aveva messo in
stato d’accusa la Terza Repubblica francese in questi termini: «La cosiddetta
giustizia indocinese, laggiù, ha due pesi e due misure. Gli annamiti
non hanno le stesse garanzie degli europei e degli europeizzati». Non soltanto
sono «vergognosamente angariati e sfruttati», ma sono anche «orrendamente
martirizzati» e subiscono «tutte le atrocità commesse dai banditi del capitale»[8].
Come si vede, nei testi qui citati di Mao e Ho Chi Minh non c’è né la sottovalutazione cara a Della Volpe
della libertas minor né l’illusione (comune, con
modalità diverse, a Bobbio, Della Volpe e Bloch), secondo cui capitalismo e liberalismo
garantirebbero comunque l’«uguaglianza formale» o addirittura l’«uguaglianza
politica». Sia il leader cinese sia quello vietnamita hanno in qualche modo
presente l’indicazione di Lenin: «Gli uomini politici più liberali e radicali
della libera Gran Bretagna [...] si trasformano, quando diventino governatori
dell’India, in veri e propri Genghis Khan»[9].
Nella stessa metropoli capitalistica e liberale si manifestano «continue
violazioni della parità [anche] giuridica delle nazioni»: a tale proposito nel
1920 Lenin fa l’esempio dell’«Irlanda» e dei «negri d’America»;
nell’Inghilterra come negli Stati Uniti sono calpestate le «garanzie dei
diritti delle minoranze nazionali»[10]. E
sia Mao che Ho Chi Minh
avrebbero potuto richiamarsi alle pagine in cui Marx denuncia il trattamento
dalla liberale Inghilterra riservato all’Irlanda (una colonia collocata in
Europa): è una politica ancora più spietata e terroristica di quella messa in
atto dalla Russia zarista e autocratica a danno della Polonia (MEW, XVI, 552).
Come si vede, nella denuncia delle macroscopiche clausole d’esclusione della
libertà liberale, il marxismo «orientale» si impegna, comprensibilmente, ben
più di quello «occidentale».
2. Althusser e la critica dell’«umanismo»
Ritorniamo al dibattito provocato
da Bobbio nel 1954. C’è un intervento sensibilmente
diverso da quello di della Volpe. La polemica col filosofo torinese è ora così
sviluppata: «Quando mai e in quale misura sono stati applicati ai popoli
coloniali quei principi liberali su cui si disse fondato lo Stato inglese
dell'Ottocento, modello, credo, di regime liberale perfetto per coloro che ragionano
come Bobbio?». La verità è che la «dottrina liberale
[...] è fondata su una barbara discriminazione tra le creature umane», che
infuria non solo nelle colonie ma nella stessa metropoli, come dimostra il caso
dei neri statunitensi, «per così grande parte privi di diritti elementari,
discriminati e perseguitati»[11].
In questa presa di posizione non c’è alcuna degradazione a libertas minor della «libertà formale» ma, al tempo stesso, non si perde di
vista il fatto che a negare il suo godimento a masse sterminate di uomini è
stato storicamente proprio l’Occidente liberale. L’intervento appena visto si
deve ad un autore oggi quasi del tutto dimenticato, ma che risponde al nome di
Palmiro Togliatti, a quel tempo segretario generale del Pci.
Siamo in presenza di un esponente del «marxismo occidentale»? Intanto, è da
notare che non si tratta di un filosofo di professione bensì di un politico di
professione, per di più organicamente legato – almeno così ritengono i suoi
critici – all’orientaleggiante «socialismo reale».
Ma concentriamoci sull’espressione
utilizzata da Togliatti: «barbara discriminazione tra le creature umane». E’
una condanna ispirata da quell’«umanesimo integrale»,
in cui secondo Gramsci consiste il comunismo; d’altro
canto abbiamo visto Bloch innalzare nel 1961 la
bandiera della difesa della «dignità umana». E in quegli stessi anni
l’umanesimo gioca un ruolo centrale in Sartre, che
procede ad un’appassionata denuncia del colonialismo, a partire proprio dall’evidenziamento delle teorie e pratiche di de-umanizzazione
da esso sviluppate. Siamo in presenza di espressioni diverse di quell’«umanesimo» che più tardi diviene la bestia nera di Louis Althusser. Com’è noto, il
giovane Marx denuncia la società esistente in quanto negazione dell’«umanesimo
positivo» (positiver Humanismus) e
del «compiuto umanismo» (vollendeter Humanismus)
(MEW, Erg.Bd., I, 583 e 536), dell’«umanesimo reale»
(realer Humanismus)
(MEW, II, 7) e formula il suo programma rivoluzionario, enunciando
l’«imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti, nel cui ambito l’uomo
è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole» (MEW, I, 385).
Per Althusser queste formulazioni sono ingenuità
ideologiche, felicemente superate dal Marx maturo, a partire grosso modo dal
1845, allorché si sarebbe verificata la «rottura epistemologica» e la retorica
umanistica, dimentica della lotta di classe, sarebbe stata soppiantata dal
materialismo storico o meglio dalla scienza della storia.
In realtà questa presunta retorica
continua a risuonare più forte che mai nel Manifesto
del Partito Comunista, che chiama a rovesciare un sistema, quello
capitalistico, che misconosce la dignità umana della stragrande maggioranza
della popolazione: ad essere messi in stato d’accusa sono rapporti
economico-sociali che comportano la «trasformazione in macchina» (MEW, IV, 477)
dei proletari, degradati sin dalla fanciullezza a «semplici articoli di
commercio e strumenti di lavoro» (MEW, IV, 478), a «semplice accessorio della
macchina» (MEW, IV, 468), ad appendice «dipendente e impersonale» del capitale
«indipendente e personale» (MEW, IV, 476).
E’ vero, il Manifesto del Partito Comunista rientra secondo Althusser
tra le «opere della maturazione teorica» e non tra le «opere della maturità»
pienamente conseguita[12]. Vediamo allora in che termini Il capitale mette in stato d’accusa il
sistema capitalista: la caccia al profitto comporta uno «“sperpero” di vita umana, degno di Timur-Tamerlano»
(MEW, XXIII, 279, nota 208). E’ un sistema che non esita a sacrificare vite umane
appena in formazione e incapaci di qualsiasi difesa: ecco il «grande ratto erodiano dei fanciulli compiuto dal capitale agli inizi del
sistema di fabbrica nelle case dei poveri e degli orfanotrofi, per mezzo del
quale esso s’incorporò un materiale umano
del tutto privo di volontà» (MEW, XXIII, 425, nota 144). Terribili sono i costi umani del capitalismo.
Si pensi alla formazione dell’industria tessile in Inghilterra: ci si procura
la materia prima necessaria recingendo e destinando al pascolo le terre comuni
che prima assicuravano la sussistenza di larghe masse che ora, espropriate,
sono condannate alla fame e alla disperazione: sì – sintetizza Il capitale citando Tommaso Moro – «le
pecore divorano gli uomini» (MEW,
XXIII, 747, nota 193). La società borghese ama autocelebrarsi
come «un vero Eden dei diritti innati dell’uomo»,
in realtà nel suo ambito il «lavoro umano», anzi «l’uomo in quanto tale […] svolge un ruolo piuttosto misero» (MEW
XXIII, 189 e 59). Se appena passiamo dalla sfera della circolazione a quella
della produzione, ci accorgiamo che, ben lungi dall’essere riconosciuto nella
sua dignità di uomo, il lavoratore salariato «porta al mercato la propria pelle
e non ha null’altro da aspettarsi che la... conciatura» (MEW, XXIII, 191).
La critica dei processi di
de-umanizzazione insiti nel capitalismo risuona con forza ancora maggiore
allorché Marx parla della sorte riservata ai popoli coloniali: con «l’aurora
dell’era della produzione capitalistica» l’Africa si trasforma in una «riserva
di caccia per i mercanti di pellenera» (MEW, XXIII,
779). Spostiamoci ora in Asia e nell’impero coloniale olandese: ecco all’opera
«il sistema del furto di uomini a Celebes al fine di ottenere schiavi per Giava»,
con «ladri di uomini» (Menschenstehler)
appositamente «addestrati a tale scopo» (MEW, XXIII, 780). Ancora a metà
dell’Ottocento vediamo negli Usa lo schiavo nero assumere compiutamente la
forma di semplice «proprietà» al pari delle altre, mentre la legge sulla
restituzione degli schiavi fuggitivi sancisce la trasformazione degli stessi
cittadini del Nord in «cacciatori di schiavi» (MEW, XV, 333). Nel frattempo, a
Sud alcuni Stati si specializzano nell’«allevamento di negri» (Negerzucht) (MEW,
XXIII, 467) ovvero nel «breeding of slaves» (MEW, XXX, 290: lettera a Engels del 29 ottobre
1862). Sì, rinunciando ai tradizionali «articoli di esportazione», questi Stati
«allevano schiavi» in qualità di merci da «esportare» (MEW, XV, 336). D’altro
canto, scoppiata la guerra, ecco proprietari di schiavi abbandonare aree considerate
poco sicure per trasferirsi al Sud, trascinando con sé il loro bravo «black chattel» (MEW, XXX, 290: lettera a Engels del 29 ottobre
1862). Come si vede, anche negli scritti della maturità ricorrente è in Marx il
motivo critico che rimprovera alla società borghese di ridurre la stragrande
maggioranza dell’umanità a «macchine», a «strumenti di lavoro», a «merce» che
può essere tranquillamente «sperperata», ad «articoli di commercio» e ad
«articoli di esportazione», a beni mobili di dui il
padrone può dispore come di un «bagaglio», a bestiame
da allevare ovvero a pellame di cui andare a caccia o da destinare alla
conciatura.
La denuncia dell’antiumanesimo del
sistema capitalistico non è affatto dileguata e non può dileguare perché è al
centro del pensiero di Marx: il paragone a lui caro di schiavitù moderna e
schiavitù antica, schiavitù salariata e schiavitù coloniale sta a significare
la permanenza nell’ambito del capitalismo di quel processo di reificazione che
si manifesta in tutta la sua crudezza in relazione allo schiavo propriamente
detto, ridotto completamente a merce o a bestiame. Risultano così strettamente
intrecciati rigore scientifico e indignazione morale, ed è solo questo
intreccio a poter spiegare l’appello alla rivoluzione. Per fedele e impietosa
che sia, la descrizione della società esistente non può di per sé stimolare
l’azione per il suo rovesciamento, se non c’è la mediazione della condanna
morale; e questa condanna morale scaturisce in Marx dalla constatazione dei
processi di de-umanizzazione insiti nel sistema capitalistico; a partire di qui
la realizzazione di un nuovo ordine è avvertita come un «imperativo
categorico», e ciò negli scritti giovanili come in quelli della maturità. Se le
Tesi su Feuerbach
si concludono condannando i filosofi che si rivelano incapaci di «trasformare»
un mondo nel quale l’uomo è calpestato e umiliato, Il capitale è una «Critica dell’economia politica» – come suona il
sottotitolo – anche sul piano morale: l’«economista politico è criticato non
solo per i suoi errori teorici ma anche per la sua «stoica imperturbabilità» e
cioè per la sua incapacità di indignazione morale dinanzi alle tragedie
provocate dalla società borghese (MEW, XXIII, 756). La continuità
nell’evoluzione di Marx è evidente, e quello che Althusser
descrive come rottura epistemologica è solo il passaggio ad un discorso nell’ambito
del quale la condanna morale dell’antiumanesimo della società borghese è
espressa in modo più sintentico e più ellittico.
3. Dalla storia alla «scienza» ovvero dal materialismo all’idealismo,
dalla storia mondiale all’eurocentrismo
Ben si comprendono le ragioni
dell’atteggiamento assunto dal filosofo francese: sono gli anni in cui la
bandiera dell’«umanesimo» viene agitata per mettere la sordina alla lotta contro
l’imperialismo; è iniziato il processo che più tardi condurrà alla
capitolazione di Gorbaciov. A ben guardare, la
critica filosofica dell’umanesimo, in quanto incline ad occultare il conflitto
sociale e la sua asprezza, è al tempo stesso la polemica contro le «concezioni
tinte di riformismo e di opportunismo o, più semplicemente, revisioniste», che
in quegli anni si andavano diffondendo[13].
Disgraziatamente, tale polemica è condotta da posizioni errate. In primo luogo
è da tener presente che non solo l’appello alla comune umanità (e alla morale),
anche il richiamo alla scienza può far dimenticare la lotta di classe. E,
tuttavia, il filosofo francese prende giustamente posizione contro lo slogan
«scienza borghese, scienza proletaria» e attribuisce a merito di Stalin di
essersi opposto alla «follia» che pretendeva «a ogni costo di fare della lingua
una sovrastruttura» ideologica. Grazie a queste «semplici paginette»
– conclude Althusser – «intravedemmo che l’uso del
criterio di classe non era senza limiti e che ci facevano trattare come
un’ideologia qualsiasi la scienza, il cui titolo includeva le opere stesse di
Marx»[14].
Può essere considerato senza limiti l’uso del criterio di classe per la morale?
Possono essere realmente messe sullo stesso piano posizioni che rivendicano
l’unità del genere umano e posizioni che nella pratica, e talvolta in modo
esplicito persino nella teoria, promuovono la de-umanizzazione di larghe masse
di uomini, degradati ad Untermenschen
e destinati solo ad essere schiavizzati o annientati?
Polemizzando contro la lettura in
chiave umanistica del marxismo, Althusser non si
stanca di ripetere che Marx non parte dall’«uomo» o dall’«individuo» ma dalla
struttura storica dei rapporti sociali. Ma è singolare che il concetto di
«uomo» ovvero di «individuo» venga dato per ovvio. Conviene allora rinviare a Nietzsche il quale, dopo aver condannato la Comune di
Parigi scatenata da una «classe barbarica di schiavi» in nome della «dignità
dell’uomo» e della «dignità del lavoro» umano[15],
condanna l’«agitazione individualista»[16],
di un movimento, il socialismo, che ha il torto di voler trasformare in
individui e in persone coloro che per natura «non sono nessuna persona», bensì semplici «portatori, strumenti di
trasmissione»[17].
E cioè, ben lungi dall’essere un dato ovvio, il concetto di individuo e di uomo
in quanto tale è il risultato di gigantesche lotte per il riconoscimento,
condotte agitando per l’appunto la bandiera dell’umanesimo tanto disprezzato da
Althusser. Ciò vale già per i lavoratori salariati della
metropoli (spesso dalla tradizione liberale de-umanizzati e assimilati a
strumenti di lavoro, a macchine bipedi, a bestie da soma), ma vale in modo
tutto particolare per i popoli coloniali. Non ha senso contrapporre la
struttura storica dei rapporti sociali al concetto di uomo o di individuo in
quanto tale, per il fatto che quel concetto presuppone esso stesso radicali
trasformazioni politiche e sociali. Allorché afferma che in ultima analisi
l’umanesimo è borghese, Althusser argomenta in modo
analogo a Bloch: in un caso e nell’altro alla società
borghese si rimprovera soltanto di attenersi all’«uguaglianza formale» e in tal
modo vengono rimosse le disuguaglianze anche formali e i connessi profondi
processi che caratterizzano il capitalismo.
E’ vero, il filosofo francese
riconosce che ci può essere anche un «umanesimo rivoluzionario» scaturito dalla
rivoluzione d’ottobre[18],
ma su questo punto è assai esitante; e in tal modo si preclude la comprensione
delle gigantesche lotte per il riconoscimento condotte dagli «schiavi delle
colonie» (per usare il linguaggio caro a Lenin). Tanto più inevitabile è questo
risultato per il fatto che in Althusser la teoria di
Marx è solo un capitolo di storia del pensiero scientifico: «Prima di Marx solo
due grandi continenti erano stati scoperti alla conoscenza scientifica in
seguito a successive rotture epistemologiche: il continente matematico ad opera
dei greci […] e il continente fisico, ad opera di Galilei
e dei suoi successori»[19].
E’ un approccio che determina due conseguenze assai rilevanti: 1) Marx ha più volte insistito sul fatto che la sua
teoria è l’espressione teorica di un movimento reale; ora invece è il movimento
reale ad essere considerato il prodotto, per dirla con Althusser,
di una «rottura espistemologica», ovvero per dirla
con Della Volpe, di un metodo scientifico che fa tesoro della lezione di Galilei e, prima ancora, dell’Aristotele critico di
Platone. Assistiamo così ad uno stravolgimento idealistico del materialismo
storico, visto come il risultato della genialità di un singolo individuo,
lanciatosi alla scoperta di un nuovo continente! Dopo aver ripetutamente
rimproverato all’umanismo di occultare la lotta di classe, ora è proprio Althusser a far dileguare la lotta di classe alle spalle
dell’elaborazione del materialismo storico. 2) Lo stravolgimento idealistico
del marxismo è al tempo stesso la sua reinterpretazione
in chiave eurocentrica. In Engels, in Lenin, in Gramsci esso ha alle spalle la rivoluzione francese, e
questa finiva col rinviare, almeno potenzialmente, alle gigantesche lotte da
essa suscitate a Santo Domingo e culminate nell’abolizione della schiavitù
nelle colonie. Ora invece l’elaborazione del materialismo storico è il capitolo
di una storia che si svolge esclusivamente in Occidente.
4. Il «marxismo occidentale» legge il «marxismo orientale»: un equivoco di
massa
Althusser segue con profonda partecipazione
le lotte condotte dai popoli in condizioni coloniali e guarda con simpatia alla
Cina che aspira a collocarsi alla testa del movimento anti-imperialista;
e, tuttavia, sul piano teorico egli non sembra in grado di cogliere pienamente
il significato di tali lotte. Siamo in presenza di un fenomeno di carattere
generale. Nel corso degli anni ’60 e ’70 del Novecento un equivoco di massa
caratterizza in Europa e negli Stati Uniti la sinistra di orientamento
marxista: le grandi manifestazioni a favore del Vietnam si intrecciano
tranquillamente con l’omaggio tributato ad autori inclini a considerare
definitivamente superati i movimenti di liberazione nazionale. Nel 1966, in Dialettica negativa, Adorno liquida la
tesi hegeliana dello «spirito del popolo» (Volksgeist), e cioè del carattere
essenziale della dimensione e della questione nazionale, in quanto
«reazionaria» e regressiva «rispetto all’universale kantiano del suo periodo,
l’umanità ormai visibile», in quanto affetta da «nazionalismo» e «provinciale
nell’epoca di conflitti mondiali e del potenziale di un’organizzazione mondiale
del mondo». Peggio, si tratterebbe del culto tributato ad un «feticcio», ad un
«soggetto collettivo» (la nazione), nell’ambito del quale «i soggetti
[individuali] vi scompaiono senza traccia»[20].
E’ una presa di posizione che a posteriori delegittimava la guerra condotta dal
Fronte di Liberazione Nazionale
dell’Algeria, un popolo e un paese indubbiamente più provinciali, più arretrati
e meno cosmopoliti della Francia contro cui erano insorti. In ogni caso Adorno
si metteva nell’impossibilità di comprendere le grandi lotte che pure si
andavano svolgendo sotto i suoi occhi, a cominciare da quella guidata dal
Fronte di Liberazione Nazionale del
Vietnam.
Del resto, guardiamo in che modo su
questo punto argomenta il «marxismo orientale». Tre anni dopo la pubblicazione
di Dialettica negativa muore Ho Chi Minh. Nel suo Testamento, dopo aver chiamato i suoi
concittadini alla «lotta patriottica» e all’impegno «per la salvezza della
patria», sul piano personale egli traccia questo bilancio: «Per tutta la vita
anima e corpo ho servito la patria, ho servito la rivoluzione, ho servito il
popolo»[21].
D’altro canto, già nel 1960, in occasione del suo settantesimo compleanno, così
il dirigente vietnamita aveva rievocato il suo percorso intellettuale e
politico: «In principio a spingermi a credere in Lenin e nella Terza
Internazionale era stato il patriottismo, non il comunismo». A provocare grande
emozione erano stati in primo luogo gli appelli e i documenti che appoggiavano
e promuovevano la lotta di liberazione dei popoli coloniali, sottolineando il
loro diritto a costituirsi quali Stati nazionali indipendenti: «Le tesi di
Lenin [sulla questione nazionale e coloniale] destavano in me grande
commozione, un grande entusiasmo, una grande fede, e mi aiutavano a vedere
chiaramente i problemi. Così grande era la mia gioia, che ne piansi»[22].
Per quanto riguarda Mao basti pensare alla
dichiarazione da lui rilasciata nel 1949, all’immediata vigilia della
fondazione della Repubblica Popolare Cinese: «La nostra non sarà più una
nazione soggetta all’insulto e all’umiliazione. Ci siamo alzati in piedi […] L’era
nella quale il popolo cinese era considerato incivile è ora terminata»[23].
Ben si comprende l’atteggiamento
dei due grandi rivoluzionari. Alle loro spalle agisce la lezioni di Lenin, il
quale aveva così caratterizzato l’imperialismo: si tratta di un sistema, nel
cui ambito alcune sedicenti «nazioni modello» attribuiscono a se stesse «il
privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo ai popoli delle
colonie[24];
sì, «poche nazioni elette» pretendono di edificare il proprio «benessere» e
stabilire il proprio primato sul saccheggio e sul dominio del resto
dell’umanità[25].
E cioè, al di là del saccheggio economico e dell’oppressione politica, a
caratterizzare l’imperialismo è anche la gerarchizzazione
delle nazioni. I popoli sfruttati e oppressi sono al tempo stesso bollati in
quanto incapaci di autogovernarsi e di costituirsi
come Stato nazionale; la lotta per scuotersi di dosso questo stigma è una
grande lotta per il riconoscimento.
Ma in quegli anni l’omaggio a Ho
Chi Minh o a Mao o a Castro
non stimolava in alcun modo una presa di distanza dal nichilismo nazionale
assorbito alla scuola del marxismo occidentale. E al nichilismo nazionale non
era in grado di opporre resistenza neppure Sartre,
nonostante il suo forte impegno nella lotta contro il colonialismo. Come
chiarisce un capitolo centrale della Critica
della ragione dialettica (Lib. I, cap. C), il
filosofo francese fa discendere i diversi conflitti umani in ultima analisi
dalla «penuria» (rareté).
Il risultato di questa impostazione è devastante. Nella misura in cui sembra
determinare una lotta per la vita e per la morte, la condizione di penuria
finisce in qualche modo col giustificare i responsabili dell’oppressione, che
appaiono come i protagonisti di una tragica lotta per la sopravvivenza, che nel
presente s’impone in modo fatale e che nel futuro può essere eliminata solo da
uno straordinario sviluppo delle forze produttive. Sul versante opposto, gli
oppressi appaiono mossi solo dal desiderio di sfuggire a intollerabili
condizioni di vita; ma allora, dato che la lingua, la cultura, l’identità e la
dignità nazionale non giocano alcun ruolo, non si comprende la partecipazione
alla lotta contro l’oppressione nazionale di strati sociali che godono di un
confortevole tenore di vita o di un’agiatezza più o meno grande. Come si vede,
pur meritorie, la simpatia per i «dannati della terra» e l’indignazione per i
crimini del colonialismo e dell’imperialismo in Algeria o in Vietnam non
garantiscono di per sé un’adeguata comprensione della questione nazionale.
La ragione profonda di questo
atteggiamento contraddittorio sarà chiarita in modo esemplare, alcuni decenni
dopo, da Hardt e Negri: «Dall’India all’Algeria, da
Cuba al Vietnam, lo Stato è il regalo avvelenato della liberazione nazionale».
Sì, i palestinesi possono contare sulla nostra simpatia; ma, a partire dal
momento in cui «si saranno istituzionalizzati», non si può essere più al «loro
fianco». Il fatto è che «nel momento in cui la nazione inizia a formarsi e
diviene uno Stato sovrano vengono meno le sue funzioni progressiste»[26]. E
cioè, si può essere simpatetici nei confronti dei vietnamiti, dei palestinesi o
di altri popoli solo sino a quando essi sono oppressi e umiliati; si può
appoggiare una lotta di liberazione nazionale solo nella misura in cui essa
continua ad essere sconfitta! La sconfitta o l’inconcludenza di un movimento
rivoluzionario sono la premessa perché il ribelle possa autocelebrarsi
e godersi come ribelle che rifiuta in ogni circostanza di contaminarsi con il
potere costituito!
Ovviamente, i leaders
dei popoli in lotta per la loro emancipazione argomentano in modo del tutto
diverso. Nel settembre 1949, alla vigilia della conquista del potere da parte
dei comunisti, Mao richiama l’attenzione sul
desiderio di Washington che la Cina si «riduca a vivere della farina
americana», finendo così col «diventare una colonia americana»[27];
la lotta per lo sviluppo della produzione si configurava così come una
continuazione della lotta per l’indipendenza nazionale.
Per la verità, già il Manifesto del partito comunista aveva
scritto che «il proletariato si servirà del suo potere politico» e del
controllo dei mezzi di produzione in primo luogo «per accrescere, con la più
grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive» e in particolare
per sviluppare le «industrie nuove», che non hanno più una base nazionale e la
cui «introduzione» è «una questione di vita e di morte per tutte le nazioni
civili» (MEW, IV, 481 e 466). E, tuttavia, il problema di carattere generale su
cui richiamano l’attenzione Marx e Engels acquista in Oriente un’urgenza tutta
particolare. Dopo essersi scosso di dosso il giogo coloniale, i paesi e popoli
di nuova indipendenza sono impegnati a consolidarla sul piano economico: non
vogliono più dipendere dall’elemosina o dall’arbitrio dei loro ex-padroni;
ritengono essenziale spezzare il monopolio che i paesi più potenti detengono
della tecnologia più avanzata.
In effetti, un orientamento analogo
a quello già analizzato in relazione a Mao possiamo
vedere nel Vietnam. Mentre è in pieno svolgimento la guerra per l’indipendenza
e l’unità nazionale, l’allora primo segretario del Partito dei Lavoratori del
Vietnam del Nord dichiara che, dopo la conquista del potere, il compito più
importante risiede nella «rivoluzione tecnica». Ora «sono le forze produttive a
giocare il ruolo decisivo», si tratta dunque di impegnarsi a fondo in modo da
«arrivare ad una produttività più elevata, stimolando la costruzione
dell’economia e lo sviluppo della produzione»[28].
Ma in Occidente, proprio nel momento
in cui più imponente si sviluppa il movimento di sostegno alla resistenza
vietnamita e più forte si fa sentire l’influenza della Cina, nell’ambito della
sinistra marxista risuonano toni ben diversi. In Italia Mario Tronti pubblica un libro che riscuote subito un grande
successo. Ecco una delle sue tesi centrali: la rivoluzione socialista «sopprime
il lavoro. E proprio così abolisce il dominio di classe. Soppressione operaia
del lavoro e distruzione violenta del capitale sono dunque una cosa sola»[29].
Siamo nel 1966, l’anno in cui scoppia in Cina la Rivoluzione culturale. Ed à
questo punto che la commedia degli equivoci giunge al culmine.
La Rivoluzione culturale viene
lanciata con una precisa parola d’ordine: «Fare la rivoluzione e stimolare la
produzione». Tra i marxisti occidentali non sono rare le prese di posizione
simpatetiche o entusiastiche; viene però lasciata cadere la seconda parte di
questa parola d’ordine. Eppure ancora nel 1969, in occasione del IX Congresso
del Partito Comunista Cinese, Lin Piao,
in quel momento erede designato di Mao ribadisce:
«Proprio come è stato sottolineato
ne I 16 punti [che tre anni prima
avevano inaugurato la Rivoluzione culturale]: “La Grande rivoluzione culturale proletaria costituisce una potente
forza motrice per lo sviluppo delle forze produttive sociali nel nostro paese”,
la produzione agricola nel nostro paese ha ottenuto buoni raccolti per parecchi
anni consecutivi; si presenta anche una situazione vigorosa nella produzione
industriale e nella scienza e nella tecnologia; l’entusiasmo delle larghe masse
lavoratrici per la rivoluzione e la produzione ha raggiunto un livello senza
precedenti; numerose fabbriche, miniere e altre imprese hanno battuto di
continuo record nella produzione, portandolo a un livello mai visto nella
storia e la rivoluzione tecnica è in continuo sviluppo […] “Fare la rivoluzione e stimolare la produzione” – questo principio
è completamente giusto»[30].
Lin Piao
ribadiva insistentemente questo punto: «Dobbiamo […] fare con fermezza la
rivoluzione e stimolare con vigore la produzione, e adempiere e superare il
piano di sviluppo dell’economia nazionale. E’ certo che la grande vittoria
della Grande rivoluzione culturale proletaria continuerà a fare apparire nuovi
balzi in avanti sul fronte economico e nella nostra causa dell’edificazione
socialista nel suo insieme». Anzi, uno dei principali capi d’accusa rivolti al
deposto presidente della RPC, a Liu Shao-chi, era «la teoria dei passi di lumaca» e cioè l’incomprensione
del fatto che la rivoluzione culturale avrebbe prodigiosamente accelerato lo
sviluppo delle forze produttive e portato il paese in tempi rapidissimi al
livello dei paesi capitalistici più avanzati[31].
Non a caso la Rivoluzione culturale riprendeva e rilanciava il Grande Balzo in
Avanti del 1958, mediante il quale la Cina sperava di bruciare le tappe per
raggiungere i paesi capitalistici più avanzati.
Non si deve dimenticare che già nel
1937, nel suo saggio Sulla pratica,
riprendendo un motivo contenuto nel Manifesto
del partito comunista, Mao aveva sottolineato la
centralità dell’«attività produttiva materiale» e dello sviluppo delle forze
produttive al fine dell’accrescimento non solo della ricchezza sociale, ma
anche della «conoscenza umana»: sì, «la produzione su scala ridotta limitava l’orizzonte
degli uomini»; ed è in virtù anche di questa sua funzione pedagogica che
l’attività produttiva materiale non è destinata a scomparire neppure «nella
società senza classi», nel comunismo[32]. Ma
in Occidente la celebrazione di Mao poteva ben
coniugarsi con l’attesa della fine del lavoro; si citava spesso il saggio Sulla pratica, ma per rinviare solo alla
lotta di classe, rimuovendo sia la lotta per la produzione che la lotta per la
sperimentazione scientifica.
Nel marxismo occidentale al dimidiamento populistico della principale parola d’ordine
lanciata dalla rivoluzione culturale corrisponde il dimidiamento
del pensiero di Mao. Questi si sentiva fortemente
impegnato a cancellare due tipi di disuguaglianza: quella vigente all’interno
del popolo cinese ma anche, e forse ancora di più, quella che separava la Cina
dai paesi più avanzati: accelerando potentemente lo sviluppo delle forze
produttive, il superamento della prima contraddizione avrebbe reso possibile il
superamento anche della seconda; in tal modo la nazione cinese si sarebbe
alzata in piedi in modo stabile e definitivo, la lunga lotta per il
riconoscimento resa necessaria dall’oppressione e dall’umiliazione imposte
dall’imperialismo sarebbe stata coronata da un successo completo.
Ma in Occidente la rivoluzione
culturale, il pensiero e l’opera di Mao, la
rivoluzione cinese nel suo complesso finiva col ridursi ad uno slogan:
«Ribellarsi è giusto». Già dimidiato nel senso che
sappiamo, il grande rivoluzionario veniva altresì sottoposto ad una lettura
anarcoide. Faticosamente sconfitto ai tempi della Seconda Internazionale,
l’anarchismo conosce una clamorosa rivincita nel movimento del ’68.
5. Da Foucault a Negri: la progressiva
trasfigurazione dell’Impero
In questo clima spirituale e
politico, la cultura di orientamento marxista comincia ad essere ammaliata e
travolta da autori e correnti di pensiero che pure avrebbero dovuto essere
guardati con una certa distanza critica. Accreditato sin dai suoi inizi da Althusser[33],
irrompe massicciamente Foucault con la sua analisi
della pervasività ovvero dell’onnipresenza del potere
non solo nelle istituzioni e nei rapporti sociali ma già nel dispositivo
concettuale. E’ un discorso che affascina per il suo radicalismo e che per di
più consente di fare i conti col potere e l’ideocrazia
a fondamento del «socialismo reale», la cui crisi si manifesta sempre più
nettamente. In realtà, il radicalismo non solo è apparente, ma si rovescia nel
suo contrario. Il gesto di condanna di ogni rapporto di potere, anzi di ogni
forma di potere sia nell’ambito della società che nel discorso sulla società
rende assai problematica o impossibile quella «negazione determinata» (bestimmte Negation),
quella negazione di un «contenuto determinato» che, hegelianamente,
è il presupposto di una reale trasformazione della società, il presupposto
della rivoluzione[34]. Per
di più, questo sforzo di individuazione e demistificazione del dominio in tutte
le sue forme rivela lacune sorprendenti proprio là dove il dominio si manifesta
in tutta la sua brutalità: sì, assai scarsa o inesistente è l’attenzione
riservata al dominio coloniale.
Alla protesta per il massacro degli
algerini a Parigi promossa da Jean Paul Sartre e che vede la
partecipazione anche di Pierre Boulez,
amico di Foucault, quest’ultimo
non sembra associarsi. Più in generale, egli non sembra svolgere alcun ruolo
nella lotta contro la tortura e la feroce repressione con cui il potere cerca
di stroncare la lotta per la liberazione nazionale. E’ stato giustamente
osservato a proposito di Foucault che «la sua critica
del potere continua a guardare all’Europa»[35].
Si può andare oltre: il colonialismo e l’ideologia coloniale sono largamenti assenti nella storia che il filosofo francese
ricostruisce del mondo moderno e contemporaneo. A giudicare da essa, la
«comparsa del razzismo di Stato [è da collocare] all’inizio del ventesimo
secolo»[36],
mentre è l’avvento del Terzo Reich a segnare
l’«emergere di uno Stato assolutamente razzista»[37]. A
mettere in dubbio questa periodizzazione hanno
provveduto con larghissimo anticipo gli abolizionisti che nell’Ottocento
bruciavano in piazza la Costituzione americana, bollata come un patto col
diavolo per il fatto di consacrare la schiavitù razziale; ovvero quegli
abolizionisti che rimproveravano alla legge sugli schiavi fuggitivi del 1850 di
voler costringere ogni cittadino statunitense «a divenire un cacciatore di
uomini»: era passibile di punizione non solo chi avesse cercato di nascondere o
di aiutare il nero inseguito dai suoi legittimi proprietari ma anche chi non avesse
collaborato alla sua cattura[38]. A
parziale giustificazione di Foucault si potrebbe dire
che egli ignora questo capitolo di storia; ma almeno egli avrebbe potuto
leggere il commento di Marx sulla Fugitive Slave Law:
«Fungere da cacciatore di schiavi per conto dei proprietari sudisti di schiavi
sembrava essere il compito costituzionale del Nord» (MEW, XV, 333). In ogni
caso, non siamo in presenza di un razzismo che si manifesta solo a livello
della società civile: in base a esplicite norme giuridiche e costituzionali, a
decidere della collocazione sociale e del destino di un individuo è la sua
appartenenza razziale. Almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti anteriori
alla guerra di Secessione, la realtà dello Stato razziale emerge con più
nettezza che nel Terzo Reich: a definire l’ebreo, in
base alle leggi di Norimberga, era anche l’appartenenza alla religione ebraica
di questo o quell’antenato, mentre negli Usa la
religione non giocava alcun ruolo nella definizione del nero. A decidere tutto
era il sangue: one drop rule. Hitler non possedeva
schiavi (né neri né ebrei), mentre per i primi decenni di storia della
repubblica nordamericana quasi tutti i presidenti sono proprietari di schiavi
(neri).
Se non sulla storia degli Stati
Uniti Foucault avrebbe potuto concentrarsi sulla
storia della Confederazione secessionista o del Sud-Africa, oppure avrebbe
potuto fare una considerazione di carattere complessivo: se analizziamo i paesi
capitalisti congiuntamente alle colonie da essi possedute, possiamo renderci agevolmente
conto che il fenomeno denunciato da Ho Chi Minh in
relazione all’Indocina ha un carattere generale:
siamo in presenza di una doppia legislazione, una per la razza dei
conquistatori, l’altra per la razza dei conquistati. In questo senso lo Stato razziale
accompagna come un’ombra la storia del colonialismo nel suo complesso; solo che
questo fenomeno si presenta con maggiore evidenza negli Stati Uniti a causa
della contiguità spaziale in cui vivono le diverse razze. Ma Foucault non dedica aluna attenzione
alla storia dei popoli coloniali o di origine coloniale.
Dà da pensare anche la storia che
il filosofo francese traccia dell’ideologia razziale. Dunque, «alla metà del
XIX secolo», in contrapposizione alla tradizione annalistica impegnata a
consacrare la sovranità, si afferma un discorso del tutto nuovo,
antiautoritario e rivoluzionario, che scompone la società in razze (o classi)
in lotta e introduce «un principio d’eterogeneità: la storia degli uni non è la
storia degli altri»[39].
Sennonché, qalche tempo dopo si verifica una svolta:
«l’idea della razza, con tutto ciò ch’essa comporta al contempo di monista, di
statale e di biologico, si sostituirà all’idea della lotta delle razze». E’ un
vero e proprio rovesciamento: «Il razzismo rappresenta, letteralmente, il
discorso rivoluzionario, ma lo rappresenta rovesciato». Resta fermo che «la
radice da cui si parte è la stessa»[40]. Da
questo quadro sono «letteralmente» scomparsi i secolari processi di razzizzazione e de-umanizzazione che investono i popoli
coloniali, così come le grandi lotte per il riconoscimento a partire da quella
che, con la radicalizzazione della rivoluzione
francese, conduce all’abolizione della schiavitù nelle colonie.
Infine. Foucault
ritiene di poter affermare che «la grande ritualizzazione
pubblica della morte è scomparsa […] a partire dalla fine del diciottesimo
secolo»[41]. In
realtà, ancora nei primi decenni del Novecento, negli Usa della white supremacy il
linciaggio dei neri è organizzato come uno spettacolo di massa, annunciato
dalla stampa locale, al quale sono chiamati ad assistere e partecipare anche
donne e bambini e che si conclude con la distribuzione dei souvenir del rito
sacrificale.
Le rimozioni macroscopoiche
da me evidenziate producono risultati assai significativi anche sul piano
politico. Allorché Foucault tiene il suo corso di
lezioni al Collège de France qui analizzato – siamo nel 1976 – è ancora ben vivo il regime di apartheid del
Sud-Africa razzista. Per un altro verso, una decina di anni prima la Arendt aveva richiamato l’attenzione sul divieto che
continuava a colpire in Israele i matrimoni interrazziali e su altre norme di
analoga ispirazione, in paradossale analogia con le «infami leggi di Norimberga
del 1935»[42].
Ma quando l’autore francese si mette alla ricerca di un’altra realtà da
accostare al Terzo Reich all’insegna del «razzismo di
Stato», egli riesce ad individuarla solo nell’Unione Sovietica, il paese che
sin dalla sua fondazione aveva svolto un ruolo decisivo nel promuovere
l’emancipazione dei popoli coloniali e che ancora nel 1976 era in primo piano
nella denuncia della politica anti-nera e anti-araba, condotta rispettivamente
dal Sudafrica e da Israele!
E’ stato osservato che Foucault esercita una notevole influenza su Antonio Negri.
In effetti... Ai giorni nostri, autorevoli studiosi statunitensi di
orientamento liberal
descrivono la storia del loro paese come la storia di una Herrenvolk democracy, cioè di una democrazia che
vale solo per l’Herrenvolk
(è significativo il ricorso al linguaggio caro a Hitler),
per il «popolo dei signori» e che, per un altro verso, non esita a schiavizzare
i neri e a cancellare i pellerossa dalla faccia della terra. Empire, invece, parla in tono compunto
di una «democrazia americana» che rompe con la visione «trascendente» del potere,
propria della tradizione europea[43]. Né
l’apologia si ferma qui. Prendiamo una figura centrale della storia
dell’imperialismo Usa, e cioè Wilson. Nel momento in cui egli inizia la sua
carriera politica, il Sud da cui proviene vede lo scatenarsi delle squadracce
del Ku Klux Klan contro i neri. Ma il futuro presidente prende la
parola, con un articolo dell’Atlantic Monthly del gennaio 1901, per pronunciare una
requisitoria contro le vittime: i «negri» sono «eccitati da una libertà che non
comprendono», sono «insolenti e aggressivi, sfaticati e avidi di piaceri»! In
ogni caso «l’improvvisa e assoluta emancipazione dei negri» è stata una
catastrofe: ha provocato una situazione «assai pericolosa», che «le assemblee
legislative del Sud» (cioè i bianchi) sono costrette a fronteggiare con «misure
straordinarie» (i linciaggi e il terrore)[44].
A tale piattaforma ideologica e
politica, all’insegna della white supremacy sul piano interno e internazionale, Wilson
rimarrà sempre fedele. In questo contesto può essere collocato il grosso
bastone agitato e messo in atto nei confronti dell’America Latina. Né si deve
dimenticare che gli stessi rapporti con gli alleati europei sono spesso
caratterizzati da una rude Realpolitik. Non a caso, già da giovane Wilson sente
l’attrazione di Bismarck[45].
Tutto ciò non impedisce al presidente americano di intervenire nella prima
guerra mondiale in nome della missione democratica universale degli Stati
Uniti: è una «guerra santa, la più santa di tutte le guerre», una «trascendente
impresa», di cui sono protagonisti i «crociati» protagonisti americani. Questo
singolare intreccio di Realpolitik
e di idea religiosa di missione, suggellata da un rapporto privilegiato e
diretto col Signore, provoca la pungente ironia di Freud[46]. Ma
questo intreccio rende tanto più agevole il ricorso al pugno di ferro contro
l’opposizione pacifista. E’ una repressione che è ben più dura di quella
scatenata nello stesso periodo di tempo dalla Germania guglielmina
e che non a caso suscita l’ammirazione di Mussolini,
che sta percorrendo a passi rapidi la strada che lo condurrà allo squadrismo e
al fascismo[47].
Ma ora leggiamo Negri (e Hardt): a caratterizzare
Wilson è «un’ideologia pacifista internazionalista», ben lontana
dall’«ideologia imperialista di marca europea»[48]! Da
sempre gli ideologi del Manifest Destiny
insistono sul primato morale e politico degli Stati Uniti, sull’eccezione
ovvero sull’«eccezionalismo» rappresentato da un
paese, che è l’unica isola di libertà in uno sconfinato oceano di dispotismo:
in modo non dissimile argomenta Empire.
A questo punto propongo una sorta
di esperimento intellettuale o, se si vuole, di gioco. Mettiamo a confronto due
brani di due autori tra loro sensibilmente diversi, ma entrambi impegnati a
contrapporre posivamente gli Stati Uniti all’Europa.
Il primo celebra «l’esperienza americana», sottolineando «la differenza tra una
nazione concepita nella libertà e devota al principio secondo cui tutti gli
uomini sono stati creati uguali e le nazioni del vecchio continente, che non
furono di certo concepite nella libertà»[49].
E ora vediamo il secondo:
«Che cos’era la democrazia
americana se non una democrazia fondata sull’esodo, su valori affermativi e non
dialettici, sul pluralismo e la libertà? Questi stessi valori – insieme
all’idea della nuova frontiera – non alimentavano di continuo il movimento
espansivo del suo fondamento democratico, al di là delle astrazioni della
nazione, dell’etnia e della religione? […] Quando Hannah
Arendt scriveva che la Rivoluzione americana era
superiore a quella francese poiché la Rivoluzione americana andava intesa come
una ricerca senza fine della libertà politica, mentre la Rivoluzione francese
era stata una lotta limitata intorno alla scarsità e all’ineguaglianza,
esaltava un ideale di libertà che gli europei avevano smarrito ma che riterritorializzavano negli Stati Uniti»[50].
Quale dei due brani qui citati è
più apologetico? E’ difficile dirlo, anche se il secondo suona più ispirato e
più lirico: esso si deve alla penna di Negri (e di Hardt),
mentre il primo è di Leo Strauss, l’autore di
riferimento dei neoconservatori americani! Viene in mente l’osservazione di
Marx a proposito di Bakunin che, con tutto il suo
radicalismo anti-statalista, finisce col risparmiare l’Inghilterra, «lo Stato
propriamente capitalista», quello che costituisce «la punta di lancia della
società borghese in Europa» (MEW, XVIII, 610 e 608). L’anarchismo dei giorni
nostri va ancora oltre, risparmiando il paese che, agli occhi di una larga e
crescente opinione pubblica mondiale, è sinonimo non solo di capitalismo ma
anche di militarismo e imperialismo. E’ un paese che, agli occhi di eminenti
storici statunitensi di orientamento liberal, incarna
un «eccezionalismo» ben diverso rispetto a quello
immaginato da Strauss, Negri e Hardt:
«Solo negli Stati Uniti ci fu un legame stabile e diretto tra proprietà in
schiavi e potere politico. Solo negli Usa i proprietari di schiavi giocarono un
ruolo centrale nel fondare una nazione e creare istituzioni rappresentative»[51].
Ai suoi tempi Sartre
denunciava «quel mostro supereuropeo, l’America del Nord»[52].
Ora, invece, Empire non solo
contrappone positivamente gli Stati Uniti all’Europa ma sottoscrive altresì la
tesi della Arendt sulla netta superiorità della
rivoluzione americana rispetto a quella francese: è evidente che in tale
confronto in bianco e nero la deportazione e la decimazione dei pellerossa e la
schiavitù dei neri, sviluppata vigorosamente dalla prima e abolita dalla
seconda, non giocano alcun ruolo. E Negri e Hardt non si lasciano impressionare dal fatto che, assieme
al giacobinismo, la Arendt trascina sul banco degli
imputati anche Marx, l'autore
della «dottrina politicamente più dannosa dell'età moderna», il responsabile di
«una vera e propria capitolazione della libertà davanti alla necessità»: egli
si è lasciato influenzare in ciò dal «suo maestro di rivoluzione, Robespierre»
e ha rovinosamente influenzato a sua volta «il suo più grande discepolo, Lenin»[53]. E
dunque, assieme alla condanna senza residui delle due rivoluzioni che hanno
messo in discussione il sistema mondiale della schiavitù e dell’oppressione
coloniale, Negri e Hardt sottoscrivono la
liquidazione del filosofo che, nel condannare la schiavitù salariata in atto
nella metropoli, rinvia talvolta in modo esplicito talaltra in modo implicito
alla schiavitù vera e propria che susssiste nelle
colonie. E’ l’auto-dissoluzione del «marxismo occidentale».
6. «Marxismo occidentale», «marxismo orientale»
A questo punto è opportuno
riesaminare la distinzione-contrapposizione formulata a suo tempo da Perry Anderson tra «marxismo
occidentale» e «marxismo orientale»[54].
Conviene in primo luogo analizzare le diverse condizioni storiche in cui l’uno
e l’altro si sono trovati ad agire. Prendiamo le mosse dal 1917. Se in
Occidente fa scuola in primo luogo con la denuncia delle conseguenze rovinose
(la carneficina e l’affossamento della democrazia) provocate dalla gara e dalla
guerra inter-imperialista, in Oriente invece la rivoluzione d’ottobre suscita
un’eco straordinaria grazie all’appello agli «schiavi delle colonie» a spezzare
le catene dell’oppressione e dell’umiliazione nazionale. Se in Occidente lo Stato-nazione era il Moloch
sanguinario che sacrificava milioni di uomini alla sete di dominio e agli
interessi del grande capitale, in Oriente era l’obiettivo da conseguire per
scuotersi di dosso il giogo coloniale e porre fine alle pratiche schiavistiche
e genocide messe in atto a danno dei barbari ad opera
delle grandi potenze capitalistiche. Nelle due aree in cui il mondo risultava
diviso l’imperialismo si faceva sentire in modo diverso; non c’è contraddizione
bensì piena convergeza tra questi due aspetti. E,
tuttavia, si sono mai incontrati il marxismo occidentale e quello orientale? Il
primo ha mai compreso realmente il secondo?
C’è da fare un’ulteriore
considerazione. A partire dal delinearsi delle prime difficoltà e tragedie del
regime nato dalla rivoluzione d’ottobre ma soprattutto a partire
dall’evidenziarsi della crisi del «socialismo reale», la divaricazione tra
marxisti orientali e marxisti occidentali ha visto contrapporsi da un lato
marxisti che esercitano il potere e dall’altro marxisti che sono
all’opposizione e che si concentrano sempre più sulla «teoria critica», sulla «decostruzione», anzi sulla denuncia del potere e dei
rapporti di potere in quanto tali. E’ qui propriamente l’atto di nascita del
«marxismo occidentale», che progressivamente nella sua lontananza dal potere
ritiene di individuare la condizione privilegiata per la riscoperta del
marxismo «autentico», non più ridotto a ideologia di Stato.
Ma ha un fondamento reale questa
autocoscienza orgogliosa e forse arrogante? C’è un’altra faccia della medaglia,
spesso dimenticata. Si potrebbe dire che il marxismo orientale si è trovato in
una situazione più favorevole per comprendere e assimilare una tesi essenziale
di Marx:
«La profonda ipocrisia,
l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non
appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo
gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude» (MEW, IX, 225).
Il marxismo occidentale si è
concentrato invece pressocché esclusivamente sulle
«forme rispettabili» del dominio borghese e capitalistico. Una volta persa di
vista la sorte riservata in primo luogo ai popoli coloniali e di origine
coloniale, la critica pur assolutamente necessaria del «socialismo reale» è
sfociata in una banale apologetica liberale e in una liquidazione
indifferenziata della storia del comunismo novecentesco. Illuminante è la
parabola di Colletti, discepolo di Della Volpe. Ma non meno significativo è il
modo di atteggiarsi di due autori che pure a sinistra continuano a essere
considerati un punto di riferimento. Parlando dell’Unione Sovietica di Stalin
(e implicitamente di tutti i paesi che hanno dovuto piegarsi alla logica del
«socialismo in un solo paese»), Hardt e Negri
scrivono: «E’ una tragica ironia del destino che, in Europa, il socialismo
nazionalista finisse per somigliare al nazionalsocialismo […] La macchina
astratta della sovranità statale costituiva il centro di entrambi i sistemi»[55]. In
questo spericolato bilancio storico, i popoli in condizioni coloniali o
semi-coloniali continuano a non giocare alcun ruolo. Vengono tranquillamente
accostati e assimilati due paesi, di cui il primo ha dato un poderoso impulso
al processo di decolonizzazione e il secondo si è proposto di ereditare e radicalizzare la tradizione coloniale, sino al punto da
considerarla attuale nella stessa Europa orientale.
Se invece teniamo presente il mondo
coloniale, il bilancio storico del Novecento risulta ben diverso da quello caro
all’ideologia dominante (e oggi persino ai reduci del «marxismo occidentale»).
Anche a voler concentrare l’attenzione esclusivamente sulla democrazia
«formale» e cioè sul governo della legge e sulle libertà classiche della
tradizione liberale, possiamo ben dire che le società nate dall’ottobre si sono
avvitate su se stesse e hanno finito col cancellare ogni forma di democrazia; epperò, al tempo stesso esse hanno stimolato la richiesta
di democrazia ed emancipazione, di riconoscimento, le richieste provenienti dai
popoli coloniali o dai paesi collocati alla periferia della metropoli
capitalistica. In questo secondo caso è stata proprio la metropoli democratico-borghese a soffocare nel sangue le rivendicazioni
democratiche.
L’influenza positiva dell’Unione
sovietica e del «campo socialista» può essere constatata anche per quanto
riguarda una popolazione di origine coloniale collocata nel cuore stesso della
metropoli capitalistica. Mi riferisco agli afroamericani.
Essi sono oppressi da un regime di terroristica white supremacy nel momento in cui scoppia la
rivoluzione d’ottobre. Ma a partire da essa si avverte un’inquietudine nuova
tra i neri che, senza lasciarsi intimidire dalla caccia alle streghe, dichiarano:
«Se lottare per i propri diritti significa essere bolscevichi, ebbene noi siamo
bolscevichi e gli altri si devono rassegnare»[56].
Facciamo un salto di quindici anni. E’ il periodo più tragico nella storia
dell’Unione Sovietica. La collettivvizzazione dell’agricoltura
fondamentalmente imposta dall’alto e dall’esterno ha diffuso su larga scala il
gulag, mentre si profila all’orizzonte il Grande Terrore. Ma è interessante
vedere in che modo il paese scaturito dalla rivoluzione d’ottobre continua ad
essere recepito dagli afroamericani. Questi, grazie
all’azione del Partito comunista degli Usa, cominciano a ricevere ciò che il
regime di supremazia bianca ostinatamente negava loro: una cultura che andava
ben al di là dell’istruzione elementare tradizionalmente impartita a quanti
erano destinati ad erogare lavoro semiservile al servizio della razza dei
signori. Ora, invece, nelle scuole organizzate dal Partito comunista nel Nord
degli Usa o nelle scuole di Mosca, i neri si impegnano a studiare l’economia,
la politica, la storia mondiale; interrogano queste discipline in modo anche da
comprendere le ragioni della dura sorte ad essi riservata in un paese che pure
si atteggia a campione della libertà. In coloro che frequentano tali scuole
interviene un mutamento profondo: l’«impudenza» loro rimproverata dal regime di
white supremacy è
in realtà l’autostima in loro sino a quel momento impedita e calpestata. Una
donna nera, delegata al Congresso internazionale delle donne contro la guerra e
il fascismo, che si tiene a Parigi nel 1934, è straordinariamente impressionata
dai rapporti di uguaglianza e fraternità, nonostante le differenze di lingua e
di razza, che si instaurano tra le partecipanti a questa iniziativa promossa
dai comunisti: «Era il paradiso sulla terra». Coloro che giungono a Mosca –
osserva uno storico statunitense contemporaneo – «esperimentano un senso di
libertà inaudito nel Sud» degli Usa. Un nero s’innamora di una donna bianca
sovietica e la sposa, anche se poi, al rientro in patria, non la può condurre con
sé, ben conoscendo il destino che nel Sud attende quanti si macchiano della
colpa della miscegenation
e dell’imbastardimento razziale[57].
E, tuttavia, anche là dove infuria il regime di white supremacy si diffonde un clima nuovo: si
guarda con speranza all’Unione Sovietica e a Stalin come al «nuovo Lincoln», il
Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo completo alla schiavitù dei
neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai
linciaggi che essi continuavano a subire[58].
Queste speranze non sono andate del
tutto deluse. Riflettiamo sui tempi e le modalità che caratterizzano la fine
del regime di supremazia bianca. Nel dicembre 1952 il ministro statunitense
della giustizia invia alla Corte Suprema, impegnata a discutere la questione
dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La
discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi
anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede
democratica». Washington – osserva lo storico americano che ai giorni nostri
ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di
colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati
Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo
nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo
crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane»[59].
Non c’è dubbio: in questa vicenda ha giocato un ruolo essenziale la preocupazione per la sfida oggettivamente rappresentata
dall’Urss di Stalin e dall’influenza da essa
esercitata sui popoli coloniali e di origine coloniale.
Abbiamo visto che, al contrario di
larga parte di quello occidentale, il «marxismo orientale» ha saputo mettere
ben a fuoco la barbarie coloniale del capitalismo. Ma non si tratta solo di
questo. Ricordiamo che Lenin sottoscrive e considera «magnifica» la «formula»
della Logica hegeliana secondo cui
l’universale dev’essere tale da abbracciare in sé «la
ricchezza del particolare»[60].
E’ in omaggio a questa impostazione che personalità come Lenin, Ho Chi Min, Mao, Castro ecc. non hanno
mai messo in contraddizione patriottismo e internazionalismo, anzi hanno sempre
visto nella lotta di liberazione delle nazioni oppresse un momento essenziale
della marcia dell’internazionalismo e dell’universalismo, di quello che Gramsci definisce l’«umanesimo integrale». Non così invece
nel marxismo occidentale. Da un lato – si pensi soprattutto a Althusser – le categorie di umanità, popolo, nazione sono
state guardate con sospetto, come tradimento della lotta di classe: è un
atteggiamento di un purismo superstizioso, che dimentica come anche le
categorie di socialismo, rivoluzione e classe operaia possono essere piegate in
senso conservatore e persino reazionario (valga per tutti l’esempio della National-sozialistische deutsche Arbeiterpartei di infausta hitleriana memoria). In ogni
caso alla preoccupazione di Althusser si può
rispondere con una penetrante osservazione di Mao:
«In ultima analisi, la lotta nazionale è una questione di lotta di classe»[61].
Dall’altro lato – si pensi
soprattutto a Adorno e ai giorni nostri a Negri – diffuso è stato il disdegno
per le lotte di liberazione nazionale, messe in contraddizione con
l’internazionalismo e l’universalismo. Non a caso, ai giorni nostri, sovrano è
il disprezzo che i reduci del marxismo occidentale ostentano per gli sforzi che
paesi come la Cina e il Vietnam fanno per consolidare l’indipendenza anche sul
piano economico, in modo anche da poter dare – dichiara Deng
Xiaoping nel 1987 – «un reale contributo all’umanità»[62]. Per
un verso o per l’altro, a causa della visione riduttiva della lotta di classe
ovvero a causa della visione astratta dell’universale, il marxismo occidentale
per lo più non è riuscito a comprendere l’unità di universale e particolare.
Questo attenersi ad una visione
astratta e pura dell’universale, se da un lato ha impedito un’adeguata
comprensione dei movimenti di liberazione nazionale (che continuano a
svilupparsi anche dopo la conquista del potere), dall’altro lato ha reso
impossibile la comprensione di un motivo di fondo della crisi del «campo
socialista». La rottura tra Urss e Jugoslavia nel
1948, e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, i
conflitti acuti, le quasi-guerre ovvero le guerre
vere e proprie che insorgono tra Urss e Cina, Cina e
Vietnam e Vietnam e Cambogia, tutto ciò dimostra quanto sia difficile la pur
necessaria opera di conciliazione dell’internazionalismo (l’universale) col
rispetto degli interessi, delle identità, delle sensibilità nazionali (il
particolare). A questo problema ha accennato talvolta, nei suoi momenti
migliori, il Partito Comunista Cinese[63];
quanto al marxismo occidentale esso ha quasi sempre letto quei conflitti in
modo stereotipo quali scontri tra dispotismo stalinista e spirito libertario e
tra burocrazia e masse, ovvero tra coerenza rivoluzionaria da un lato e
opportunismo o revisionismo dall’altro, ovvero, in modo ancora più sbrigativo,
quale dimostrazione della sostanziale estraneità di entrambe le parti in lotta
all’«autentico» socialismo e marxismo.
Infine, il marxismo occidentale ha
goduto la sua lontananza dal potere come una condizione privilegiata o
esclusiva per lo sviluppo delle potenzialità critiche della teoria di Marx. Ma,
se per un verso può accrescere la lucidità dello sguardo, per un altro verso la
lontananza dal potere e il disdegno nei confronti del potere possono anche
appannare la vista; possono rendere più difficile la comprensione dei grandi
conflitti mondiali, possono favorire un atteggiamento idealistico e in ultima
analisi la fuga dalla storia. Solo così si può spiegare la tesi di Bloch secondo cui la rivoluzione borghese «limitò
l’uguaglianza a quella politica». Anche a volerci occupare esclusivamente della
metropoli occidentale, si tratta di un’affermazione storicamente insostenibile:
basti pensare alla lunga durata della discriminazione censitaria
e sessuale.
Nel complesso, nel corso degli
anni, il marxismo occidentale ha finito col rappresentare involontariamente due
fondamentali figure della filosofia hegeliana: nella misura in cui si appaga della critica e anzi nella critica
trova la sua ragion d’essere, senza porsi il problema di formulare alternative
percorribili e di costruire un blocco storico alternativo a quello dominante,
esso è l’illustrazione della saccenteria del dover essere; allorché poi gode
della lontananza dal potere come di una condizione della propria purezza, esso
incarna l’anima bella. Forse non è un caso che ai giorni nostri riscuota grande
successo a sinistra un libro che già nel titolo invita a «cambiare il mondo
senza prendere il potere»[64]. L’autodissoluzione del marxismo occidentale si configura qui
come l’abbandono del terreno della politica e l’approdo alla religione.
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[4] Bloch
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[5] Mao Zedong 1998, p. 377.
[6] Bloch
1961, p. 7; Mao Zedong 1998, p. 377.
[7] Bloch
1961, p. 79; Mao Zedong 1998, p. 379.
[8] In Lacouture
1967, p. 37.
[9] Sostanze
infiammabili nella politica mondiale (1908), in Lenin 1955-70, vol. XV, pp.
178-9.
[10] Primo
abbozzo di tesi sulla questione nazionale e coloniale (giugno 1920), in Lenin
1955-70, vol. XXXI, p. 162.
[11] Togliatti 1974-84, p. 866.
[12] Althusser
1967, pp. 17-8.
[13] In Althusser,
Balibar 1968, p. 149.
[14] Althusser
1967, p. 6.
[15] Nietzsche
1988, vol. I, p. 117 (La nascita della
tragedia, 18)
[16]
Nietzsche 1988, vol. XII, p. 503.
[17]
Nietzsche 1988, vol. XII, pp. 491-2.
[18] In Althusser, Balibar 1968, p. 150.
[19] Althusser
1969, p. 24.
[20] Adorno 1970, pp. 304-5 e 307.
[21] Ho Chi Minh
1969, pp. 75 e 78.
[22] In Lacouture
1967, pp. 39-40.
[23] Mao Zedong 1998, pp. 87-8.
[24] Sul
diritto di autodecisione delle nazioni (maggio 1914), in Lenin 1955-70, vol XX, pp. 416-7.
[25] Dichiarazione
dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato (1918), in Lenin 1955-70,
vol. XXVI, p. 403.
[26] Hardt,
Negri, 2002, pp. 133 e 112.
[27] Mao Zedong 1969-75, vol. IV, p. 467 (Il fallimento della concezione idealistica della storia, 16
settembre 1949).
[28] Le Duan
1969, pp. 61-3.
[29] Tronti
1966, p. 263.
[30] Lin Piao 1969, pp. 61-2.
[31] Lin Piao 1969, pp. 64-5 e 48-9.
[32] Mao Zedong 1969-75, vol. I, pp. 313-4.
[33] In Althusser, Balibar 1968, p. 27.
[34] Hegel
1969-79, vol. V, p. 49.
[35] Taureck
2004, pp. 40 e 116.
[36]
Foucault 1990, p. 52.
[37]
Foucault 1990, p. 169.
[38] Cfr. Losurdo 2005a, cap. IV, § 2.
[39]
Foucault 1990, pp. 62 e 56.
[40]
Foucault 1990, p. 63.
[41]
Foucault 1990, p. 160.
[42] Arendt 1993, pp. 15-6.
[43] Hardt, Negri, 2002, p. 158.
[44] In
Logan 1997 p. 378.
[45]
Heckscher 1991, pp. 44 e 298.
[46] Losurdo
2007, cap. VI, § 11 e cap. II, § 1.
[47] Losurdo
1993, cap. 5, §§ 2 e 7.
[48] Hardt,
Negri, 2002, pp. 166-7.
[49]
Strauss 1998, pp. 43-4.
[50] Hardt,
Negri 2002, pp. 352-3.
[51] Davis
1982, p. 33.
[52] Sartre
1967, p. XXII.
[53] Arendt
1983, pp. 65-6.
[54]
Anderson 1997.
[55] Hardt,
Negri, 2002, p. 115.
[56]
Franklin 1983, p. 398.
[57]
Kelley 1990, pp. 94-6.
[58]
Kelley 1990, p. 100.
[59] Cfr. Losurdo 2005a, cap. X, § 6.
[60]
Lenin 1969, p. 89.
[61]
Mao Zedong 1998, pp. 379.
[62]
Deng Xiaoping 1994, p. 222.
[63] Losurdo 2005b, cap. V, § 2.
[64] Holloway
2004.