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Battaglia navale combattuta il 7 ott. 1571 tra
l’impero ottomano e la Lega sacra di Stati cristiani (il papato, la
Spagna, Venezia, i Savoia, l’Ordine di Malta, Toscana, Genova,
Urbino). La flotta cristiana, comandata da don Giovanni d’Austria,
riuscì ad attaccare ai lati quella ottomana, grazie al
coordinamento del genovese G.A. Doria e del veneziano A. Barbarigo,
riportando una vittoria completa. La battaglia costituì il
primo successo cristiano dopo una lunga serie di sconfitte, ma non
mutò di fatto lo stato delle cose che vide continuare il
predominio della flotta ottomana in gran parte del Mediterraneo.
battaglia di Lepanto
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Battaglia di Lepanto
La battaglia di Lèpanto, detta anche delle Echinadi o delle
Curzolari (chiamata Epaktos dagli abitanti, Lepanto dai veneziani e
İnebahtı in turco), è uno storico scontro avvenuto il 7
ottobre 1571, nel corso della guerra di Cipro, tra le flotte
musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa
che riuniva le forze navali di Venezia, della Spagna (con Napoli e
Sicilia), di Roma, di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di
Savoia, del Ducato d'Urbino e del Granducato di Toscana, federate
sotto le insegne pontificie.
La battaglia, terza in ordine di tempo e la maggiore svoltasi a
Lepanto, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze
alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di
Müezzinzade Alì Pascià, che perse la vita nello
scontro.
Prologo
La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V
per soccorrere materialmente la veneziana città di Famagosta
(o Famagusta; in greco Ammocosthos; in turco Gazimağusa), sull'isola
di Cipro, assediata dai turchi e strenuamente ma invano difesa dalla
guarnigione locale.
L'occupazione ottomana dell'isola fu legittimata dai turchi con la
necessità di bloccare gli scali portuali da cui i pirati
cristiani erano soliti salpare per depredare le navi turche dirette
a Costantinopoli. L'isola inoltre era stata in passato un
possedimento musulmano. Solo dal 1480 era parte del dominio di
Venezia, città peraltro assai distante geograficamente. I
sultani ottomani dunque si sentirono legittimati a rivendicare il
controllo di Cipro, giovandosi, fra l'altro, del favore con cui
auspicavano sarebbe stata accolta la dominazione turca dalla
popolazione locale, che rimproverava ai veneziani un'eccessiva
ingerenza ed un troppo duro sfruttamento.
Il contesto più generale è quello di una lotta
generalizzata per il controllo del Mediterraneo. Benché tra
Oriente e Occidente gli scambi di persone, merci, denaro e tecniche
non cessassero mai e anzi fossero sempre intensissimi, il crescente
espansionismo ottomano in quegli anni preoccupava sempre più
i governi dell'occidente mediterraneo. Esso minacciava non solo i
possedimenti veneziani come Cipro, ma anche gli interessi spagnoli
per via della pirateria. Consapevole di questa tensione crescente,
Pio V ritenne allora che il momento fosse propizio per coalizzare in
una Lega Santa le troppo divise forze della cristianità,
alimentando lo spirito di Crociata per creare coesione intorno
all'iniziativa.
Il vessillo, benedetto dal Papa fu consegnato solennemente a Don
Giovanni d'Austria, nella basilica di Santa Chiara a Napoli il 14
agosto 1571.
Come base di ricongiungimento dell'armata cristiana era stata scelta
Messina, situata in posizione strategica rispetto al teatro
d'operazioni. Qui, a partire dal luglio 1571, dopo mesi di
difficoltose trattative, conversero le flotte alleate, giungendo dai
rispettivi scali di partenza. Ai primi di settembre, la flotta della
Lega era riunita al gran completo nel porto siciliano: al comando di
Don Giovanni erano 209 galere (di cui 203 o 204 avrebbero
effettivamente preso parte alla battaglia) e 6 galeazze, oltre ai
trasporti e al naviglio minore. Le forze risultavano così
composte: 12 galere del papa armate dal granduca di Toscana di cui 5
equipaggiate dai Cavalieri di Santo Stefano, 10 galere di Sicilia,
30 galere di Napoli, 14 galere di Spagna, 3 galere di Savoia, 4
galere di Malta, 27 galere di Genova (di cui 11 appartenenti a
Gianandrea Doria), 109 galere e 6 galeazze di Venezia (di cui 60
galere giunte da Candia).
La flotta della Lega, salpata da Messina il 16 settembre si mosse
con velocità differenti e si trovò riunita solo il 4
ottobre successivo nel porto di Cefalonia. Qui la raggiunse la
notizia della caduta di Famagosta (agosto 1571) e dell'orribile fine
inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano
comandante la fortezza.
Il 1º agosto Famagosta si era arresa ed era stato raggiunto
rapidamente un accordo con Lala Mustafà, il comandante della
spedizione ottomana. I turchi avrebbero messo a disposizione delle
imbarcazioni per evacuare i veneziani a Candia, mentre altra parte
dell'accordo prevedeva che la popolazione civile non sarebbe stata
molestata. Nel documento di capitolazione il comandante turco si era
impegnato promettendo e giurando per Dio et sopra la testa del Gran
Signore di mantenere quanto nei capitoli si conteneva.
Qualche giorno dopo però, alla consegna delle chiavi della
città ai nuovi possessori, c'erano stati scontri verbali tra
Bragadin e il comandante turco, che irrimediabilmente avevano
portato alla rottura dell'accordo. Sembra che Lala Mustafà si
fosse inizialmente adirato con Bragadin e i suoi capitani dopo aver
scoperto dell'uccisione, durante la tregua, di decine di soldati
turchi prigionieri dei veneziani, vicenda testimoniata da alcuni
superstiti fuggiaschi che avevano raccontato l'accaduto. Inoltre
Bragadin si era opposto alla decisione del Pascià di
trattenere a Famagosta uno dei capitani veneziani come garanzia del
ritorno delle imbarcazioni turche al porto. La richiesta di
trattenere un comandante italiano come ostaggio era ragionevole, ma
viziata dall'errore di non essere stata inserita direttamente nel
capitolato del 1º agosto.
L'ostinazione e l'insolenza di Bragadin avevano scatenato la rabbia
di Mustafà, che a sua volta aveva avuto una reazione di
eccessiva violenza, tanto da guadagnarsi, una volta tornato in
patria, la disapprovazione ed il rimprovero da parte dello stesso
sultano. Infatti Mustafà aveva fatto imprigionare i veneziani
sulle galere turche, aveva fatto decapitare i capitani al seguito di
Bragadin e infine quest'ultimo dopo una serie di torture era stato
scorticato vivo. La sua pelle era stata poi riempita di paglia e
innalzata sulla galea del Pascià, che l'aveva condotta a
Costantinopoli.
Apprese dunque le notizie di Famagosta e nonostante il maltempo le
navi della Lega presero il mare e giunsero, il 6 ottobre davanti al
golfo di Patrasso, nella speranza di intercettare la potente flotta
ottomana. Si noti che i principali Stati d'Italia e le più
grandi potenze europee dell'epoca, come ad esempio la Spagna,
avevano dovuto coalizzarsi per poter sperare di battere l'Impero
ottomano, allora all'apice della sua potenza. Va notato che, fino al
XV secolo i turchi non avevano vantato particolari attitudini alla
vita marinara. La loro forza, più che per l'armamento o per
la tecnica e strategia militari, in cui non superavano per
qualità i contingenti occidentali, si era manifestata
soprattutto per il tenace spirito di coesione e solidarietà,
che tradizionalmente contraddistingueva i corpi armati ottomani.
Il 7 ottobre 1571, domenica, Don Giovanni d'Austria fece schierare
le proprie navi in formazione serrata, deciso a dar battaglia: non
più di 150 metri separavano le galee.
Descrizione della battaglia
Il centro dello schieramento cristiano cattolico si componeva di 28
galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8
galee genovesi, 7 galee toscane sotto le insegne pontificie, 3
maltesi, 1 sabauda, per un totale di 62 galee e 2 galeazze. Lo
comandava Don Giovanni d'Austria Comandante generale dell'imponente
flotta cristiana: ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto
Imperatore Carlo V e fratellastro del regnante Filippo II aveva
già dato ottima prova di sé nel 1568 contro i pirati
barbareschi. Con lui a bordo Francesco Maria II della Rovere -
figlio ed erede del Duca Guidobaldo II della Rovere - Capitano
generale degli oltre 2.000 soldati volontari provenienti dal Ducato
d'Urbino. Per ragioni di prestigio affiancavano la galea Real
spagnola: la Capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne
Capitano generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di
Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la
Capitana di Ettore Spinola, Capitano generale genovese, la Capitana
di Andrea Provana di Leinì, Capitano generale piemontese,
l'ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, Capitano
generale dei Cavalieri di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2 galeazze veneziane,
10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane sotto le insegne
pontificie, e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al
comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio
veneziano (da non confondere con l'omonimo doge veneziano morto nel
1501).
Il corno destro era invece composto di 25 galee e 2 galeazze
veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2
sabaude e 2 toscane sotto le insegne pontificie, per un totale di 53
galee e 2 galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.
Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 30 galee di Alvaro
de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3
toscane sotto le insegne pontificie, 2 genovesi. L'avanguardia,
guidata da Juan de Cardona si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4
veneziane.
In totale, la Lega schierò in battaglia una flotta di 6
galeazze e circa 204 galere. A bordo erano imbarcati non meno di
36.000 combattenti, tra soldati (fanteria al soldo del re di Spagna,
tra cui 400 archibugieri del Tercio de Cerdeña, pontificia e
veneziana), venturieri e marinai, verosimilmente tutti armati di
archibugio. A questi si aggiungevano circa 30.000 galeotti sferrati,
ovvero tutti i rematori, schiavi esclusi, cui venivano distribuite
spade e corazze per prendere parte alla mischia sui ponti delle
galere[15]. Quanto all'artiglieria, la flotta cristiana schierava,
approssimativamente, 350 pezzi di calibro medio-grande (da 14 a 120
libbre) e 2750 di piccolo calibro (da 12 libbre in giù).
Flotta ottomana
La flotta turca schierata a Lepanto, reduce dalla campagna navale
che l'aveva impegnata durante l'estate, era verosimilmente forte di
170-180 galere e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato
numero di fuste e brigantini corsari. La forza combattente,
comprensiva di giannizzeri (in numero tra 2.500 e 4.500), sipahi e
marinai, ammontava a circa 20-25.000 uomini. Di questi, sicuramente
armata d'archibugio era la fanteria scelta dei giannizzeri, mentre
la gran parte degli altri combattenti era armata di arco e
frecce[19]. La flotta ottomana, inoltre, era munita di minore
artiglieria rispetto a quella cristiana: circa 180 pezzi di grosso e
medio calibro e meno della metà degli oltre 2.700 pezzi di
piccolo calibro imbarcati dal nemico.
I turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco,
all'ala destra, mentre il comandante supremo Müezzinzade
Alì Pascià (detto il Sultano) al centro conduceva la
flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il
vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri
d'oro il nome di Allah. Infine l'ammiraglio, considerato il migliore
comandante ottomano, Uluč Alì (Giovanni Dionigi Galeni), un
apostata di origini calabresi convertito all'Islam (detto
Ucciallì), presiedeva all'ala sinistra; le navi schierate
nelle retrovie erano comandate da Murad Dragut (figlio dell'omonimo
Dragut Viceré di Algeri e Signore di Tripoli che era stato
uno dei più tristemente noti pirati barbareschi).
Esca
Don Giovanni decise di lasciare isolate in avanti, come esca, le 6
potentissime galeazze veneziane, che per prime aprono il fuoco.
Essendo le galeazze inabbordabili per la loro notevole altezza, il
comandante aveva inoltre deciso di togliervi un gran numero di
spadaccini e sostituirli con archibugieri, i quali crearono subito
gravi danni alla flotta turca. La potenza di fuoco della flotta
cristiana era infatti più forte rispetto a quella nemica,
grazie agli armamenti veneziani che negli anni precedenti erano
divenuti sempre più poderosi, mentre i turchi non erano
riusciti a tenere il passo con le innovazioni, ritrovandosi quindi
con un'artiglieria meno numerosa e potente.
Alì non tentò l'abbordaggio delle galeazze, definite
dei veri e propri castelli in mare da non essere da umana forza
vinti[21], ma decise di superarle e di scagliare tutta la sua flotta
in uno scontro frontale, mirando unicamente all'abbordaggio della
nave di Don Giovanni per provare ad ucciderlo demoralizzando
così la flotta della Lega Cristiana. Ed essendo in
superiorità numerica (167-235) tentò di circondarla,
utilizzando la tattica navale classica.
Scontro
Per i cristiani gli scontri coinvolsero all'inizio il veneziano
Barbarigo, alla guida dell'ala sinistra e posizionato sotto costa.
Egli dovette parare il colpo del comandante Scirocco, impedire che
il nemico potesse insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per
accerchiare la flotta cristiana. La manovra ebbe solo un parziale
successo e lo scontro si accese subito violento. La stessa galea di
Barbarigo diventò teatro di un'epica battaglia nella
battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte. Ferito gravemente
alla testa, Barbarigo, in seguito morì e le retrovie
dovettero correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la
disfatta: ma grazie all'arrivo della riserva guidata dal Marchese di
Santa Cruz le sorti si riequilibrarono e così Scirocco viene
catturato, ucciso e immediatamente decapitato. Al centro degli
schieramenti Alì Pascià cercò e trovò la
galea di Don Giovanni d'Austria, la cui cattura avrebbe potuto
risolvere lo scontro. Contemporaneamente altre galere impegnarono
Venier e Marcantonio Colonna. Molti furono gli episodi di eroismo:
l'equipaggio della galera toscana Fiorenza dell'Ordine di Santo
Stefano fu quasi interamente ucciso, eccetto il suo comandante
Tommaso de' Medici con quindici uomini. Con il vento a favore e
producendo un rumore assordante di timpani, tamburi e flauti i
turchi iniziarono l'assalto alle navi di Don Giovanni che erano
invece nel più assoluto silenzio. Quando i legni giunsero a
tiro di cannone i cristiani ammainanarono tutte le loro bandiere e
Don Giovanni innalzò lo Stendardo di Lepanto con l'immagine
del Redentore Crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i
combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa
da Pio V per la crociata. Improvvisamente il vento cambiò
direzione: le vele dei turchi si afflosciarono e quelle dei
cristiani si gonfiarono. Don Giovanni d'Austria perciò
puntò fulmineamente diritto contro la Sultana. Il reggimento
di Sardegna diede per primo l'arrembaggio alla nave turca, che
divenne il campo di battaglia: i musulmani a poppa e i cristiani a
prua. Al terzo assalto i sardi arrivarono a poppa. Don Giovanni fu
ferito ad una gamba. Più volte le navi avanzarono e si
ritirarono, Venier e Colonna dovettero disimpegnarsi per accorrere
in aiuto a Don Giovanni che sembrava avere la peggio assieme
all'onnipresente Marchese di Santa Cruz. Alla sinistra turca, al
largo, la situazione era meno cruenta ma un po' più
complicata. Giovanni Andrea Doria disponeva di poco più di 50
galee, quasi quante quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul
corno opposto ma davanti a sé trovò 90 galere,
cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani ed
oltretutto in un'area molto più ampia di mare aperto; per
questo pensò ad una soluzione diversa dallo, scontato negli
esiti, scontro diretto. Giovanni Andrea Doria infatti, a un certo
momento della battaglia, si sganciò con le sue navi genovesi
facendo vela verso il mare aperto.
Eventi del corno destro
Il ruolo cruciale di Gianandrea Doria è stato spesso oggetto
di disputa: gli avversari dei genovesi insinuarono che egli si fosse
defilato o per preservare il proprio naviglio o perché
obbediva ancora agli ordini di Filippo II o, si disse, perché
si era messo d'accordo con Uluc Alì per ridurre al minimo i
danni alle loro imbarcazioni (anche il comandante barbaresco come il
genovese affittava le galere al suo Signore). Gli storici genovesi e
spagnoli lo difendono definendo la sua iniziativa improntata a una
grande lucidità strategica. Nonostante avesse avuto l'ordine
di difendere e proteggere il fianco della flotta di Don Giovanni per
impedire l'accerchiamento delle sue navi che si trovavano sotto un
violento attacco frontale, inaspettatamente spaccò il lato
destro dello schieramento cristiano, puntando verso il mare aperto e
lasciando aperto un varco del qual approfittò rapidamente il
suo diretto avversario. Uluc Alì che fronteggiava il Doria si
insinuò all'interno della flottiglia genovese, apparentemente
in fuga e attaccò il fianco destro dello schieramento di Don
Giovanni, procurando forti perdite al centro della flotta della
Lega. Uluc Alì, con il vento in poppa, aggredì da
dietro la Capitana, la nave ammiraglia dei Cavalieri di Malta, al
cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell'Ordine. La Capitana
fu circondata da sette galee. Uluc Alì catturò il
vessillo dei Cavalieri di Malta, fece prigioniero Giustiniani e
prese a rimorchio la Capitana.
Oltre la Capitana di Malta, pagarono cara la manovra di Gianandrea
Doria anche la Fiorenza e la San Giovanni galere toscane della
flotta papale, e la Piemontesa della flotta sabauda, circondate da
un nugolo di galere di Uluc Alì. Non è stato ancora
chiarito il motivo di questa manovra del Doria: fatto sta che non
appena vide Uluc Alì impegnato in quella facile battaglia, il
genovese si diresse immediatamente contro il comandante barbaresco
che, vedendolo arrivare, diede l'ordine di sganciare le navi
catturate e di ritirarsi.
Il Papa in seguito minacciò di morte Doria se si fosse
presentato a Roma, dicendo che per il momento faceva meglio a
starsene lontano: le sue azioni erano, secondo il pontefice,
più da corsaro musulmano che da comandante della
cristianità; la sua galera e le navi genovesi avevano
subìto meno perdite di tutto lo schieramento cristiano, cosa
che colpì negativamente quasi tutti i comandanti nel raduno
generale che seguì la battaglia.
Epilogo
Al centro, il comandante in capo ottomano Müezzinzade
Alì Pascià, già ferito, cadde combattendo. La
nave ammiraglia ottomana fu abbordata dalle galee toscane Capitana e
Grifona e, contro il volere di Don Giovanni, il cadavere
dell'ammiraglio ottomano Alì Pascià fu decapitato e la
sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola.
La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì
enormemente a demolire il morale dei turchi. Di lì a poco,
infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste
abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Il teatro della
battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in
fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano
trascorse quasi cinque ore quando infine la battaglia ebbe termine
con la vittoria cristiana.
Don Giovanni d'Austria riorganizzò la flotta per proteggerla
dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte
le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria: i
turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117
vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate,
inoltre 30.000 uomini persi tra morti e feriti, altri 8.000
prigionieri. Inoltre vennero liberati 15.000 cristiani dalla
schiavitù ai banchi dei remi.
Gli Ottomani avevano salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e
se tatticamente si trattò di una decisiva vittoria cristiana,
la dimensione della vittoria strategica è dibattuta: secondo
alcuni la sconfitta segnò l'inizio del declino della potenza
navale ottomana nel Mediterraneo. Altri fanno notare che la flotta
turca si riprese rapidamente, riuscendo già l'anno successivo
a mettere in mare un grosso contingente di navi, grossomodo
equivalente a quelle messe in campo dalla Lega. Queste flotte erano
però meno armate e addestrate delle precedenti, e dopo
Lepanto la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grandi
battaglie, dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e al
disturbo dei traffici nemici.
Anche da parte cristiana si riaffermò una pirateria attiva.
Dopo Lepanto gli occidentali ebbero a disposizione migliaia di
prigionieri che furono messi ai remi assicurando, per diversi anni,
un motore nuovo alle loro galere.
La vittoriosa guerra di Candia, alla metà del XVII secolo,
mostra che il vigore delle forze turche era ancora temibile nel
Mediterraneo orientale. Tuttavia con l'inizio di una lunga serie di
guerre con la Persia, che proseguirono nel Caucaso e in Mesopotamia
per tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta
della Sublime Porta fu messa in parziale disarmo e ridotta. Inoltre
la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile a quella
veneziana fino alla fine del XVIII secolo.
I morti di nobiltà cattolica vennero sepolti nella chiesa
dell'Annunziata a Corfù (spostati dopo il bombardamento dei
tedeschi del 13/09/1943 al cimitero cattolico di Corfù)
mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto Corfioti)
furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata "Dei Vechi" e
quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù
denominata fin da allora "Dei martiri". Molti prigionieri ottomani,
in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i
carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i
prigionieri uccisi dai turchi in precedenti occasioni, sia per
impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente. Quindi le
navi fecero rientro a Napoli.
La bandiera della nave ammiraglia turca di Alì Pascià,
presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la "Capitana" e la
"Grifona", si trova (e ognuno può vederla) a Pisa, nella
chiesa dei Cavalieri dell'Ordine Cavalleresco Sacro Militare
Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire, fondato da Cosimo I de'
Medici granduca di Toscana.
Armamenti
Lo schieramento cristiano vinse grazie alla schiacciante
superiorità numerica e alla superiorità
dell'equipaggiamento, che compensarono la mancanza di esperienza
delle truppe imbarcate, decisivo fu anche il vantaggio insito nella
collocazione avanzata delle galeazze e l'enorme sproporzione nel
numero dei pezzi d'artiglieria. Inoltre la fanteria era dotata di un
superiore armamento individuale: i suoi soldati potevano contare
sugli archibugi, (come la compagnia di tiratori scelti degli oltre
400 archibugieri di Sardegna), mentre quelli turchi erano ancora
armati con archi e dardi, mazze, scuri, spade e giavellotti. La
maggior parte dei soldati cristiani indossava corazze, sia del tipo
normalmente utilizzato dalla fanteria, sia di modelli (molto diffusi
tra i Genovesi) che potevano essere tolte rapidamente se si doveva
poi nuotare. I soldati ottomani, e ancor di più quelli
barbareschi, preferivano invece indossare armature leggerissime,
spesso in cuoio, oppure non indossarle affatto, in modo che se
fossero caduti in mare erano più liberi nei movimenti.
Il vascello più importante dello schieramento cristiano era
la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa
è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei
rematori. Parzialmente corazzata e pesantemente armata non solo a
prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà
possono trarre in inganno chi non le conosce, facendole confondere
con vascelli da carico: cosa che tra l'altro capitò ai
turchi. Solo sei di queste unità rinforzavano lo schieramento
cristiano ma furono devastanti sia per le galere nemiche sia per il
morale dei loro equipaggi. Con la galeazza si raggiunse l'apice
dell'evoluzione della galera, ma nel contempo essa ne
rappresentò anche il canto del cigno. Le galee con la loro
propulsione a remi furono progressivamente sostituite da velieri a
vela quadra e quindi progressivamente abbandonate.[28]
Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli possedevano
un buon rapporto gittata-efficacia fin quasi al chilometro se
puntate su schieramenti compatti. Naturalmente quel rapporto
peggiorava notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia
libertà di manovra.
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento
"in caccia". Si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e
generalmente più potente e pesante di quelli utilizzati dai
vascelli coevi. Il pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più
leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi
antiuomo. Le galere grosse e le capitane talvolta avevano pezzi
girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
L'armamento d'artiglieria delle galere ottomane, e ancor di
più di quelle barbaresche, era complessivamente più
leggero, poiché i loro capitani facevano grande affidamento
sulla velocità, sull'agilità e sulla
possibilità di muoversi in acque basse, e quindi non
intendevano appesantire i loro scafi. Spesso le loro galere avevano
un singolo grosso cannone in caccia (di calibro e potenza superiore
a quello delle galere della Lega), e pochissimi pezzi
d'accompagnamento. Sia la flotta cristiana che quella musulmana
prediligevano le costose, ma leggere e sicure, artiglierie in
bronzo, rari i pezzi in economica (ma pesante e pericolosa) ghisa,
per lo più fabbricati a Brescia e in Fiandra.
Per quel che riguarda le armi di piccolo calibro, all'importanza
della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la
capacità di penetrazione delle protezioni individuali
nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di
ricarica del soldato. Non bisogna sottovalutare l'arco composito (o
arco turchesco appunto) che era l'arma più diffusa tra la
fanteria di marina ottomana, esso aveva una gittata ed una
precisione superiore a quella dell'archibugio, oltre che una
velocità di ricarica superiore; si trattava però di
un'arma meno letale (moltissimi furono i soldati cristiani feriti,
ma non uccisi, e che continuarono a combattere), e non in grado di
perforare le pesanti corazze spagnole. Per questo motivo molti
giannizzeri erano già stati armati con archibugi e moschetti,
di qualità leggermente inferiore però a quelli
prodotti in Italia e in Spagna, e con polveri meno efficienti.
Significato religioso
La battaglia di Lepanto per i Cristiani ebbe un profondo significato
religioso. Prima della partenza lo stesso pontefice Pio V aveva
benedetto lo stendardo di Lepanto raffigurante il Redentore
Crocifisso, issato poi sulla nave ammiraglia, la Real, a protezione
della flotta e aveva concesso l'indulgenza ai componenti della
flotta della Lega e ai combattenti.
La vittoria cristiana, accompagnata da solenni Te Deum di
ringraziamento, fu attribuita all'intercessione della Vergine Maria,
tanto che Papa Pio V nel 1572 istituì la festa di Santa Maria
della Vittoria, successivamente trasformata nella festa del SS.
Rosario, per celebrare l'anniversario della storica vittoria
ottenuta, si disse, per intercessione dell'augusta Madre del
Salvatore, Maria.
Conseguenze
La battaglia di Lepanto fu la prima grande vittoria di un'armata o
flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano. La sua
importanza fu perlopiù psicologica, dato che fino a quel
momento i turchi erano stati per decenni in piena espansione
territoriale e avevano precedentemente vinto tutte le principali
battaglie contro i cristiani d'oriente.
La scarsa coesione tra i vincitori impedì alle forze alleate
di sfruttare appieno la vittoria per ottenere una supremazia
duratura sugli Ottomani. Non solo: l'esercito cristiano non
riconquistò neppure l'isola di Cipro, che era caduta da
appena due mesi in possesso ottomano. Questo a causa del volere di
Filippo II, il quale non voleva che i Veneziani acquisissero troppi
vantaggi dalla vittoria, visto che essi erano i più strenui
rivali del progetto politico spagnolo di dominio della penisola
italiana..
Nel 1573 la Serenissima fu quindi costretta a firmare un trattato di
pace a condizioni poco favorevoli. Il Gran Visir Sokollu, in
quell'occasione, disse ai Veneziani che avrebbero potuto fidarsi
più degli ottomani che degli altri Stati europei, se solo
avessero ceduto al volere del Sultano.
Dal canto suo, l'Impero Ottomano, nella persona del sultano,
esprimeva all'ambasciatore veneziano a Costantinopoli
(presumibilmente un anno dopo Lepanto), le sensazioni della Porta
sulla sconfitta: Gli infedeli hanno bruciacchiato la mia barba;
crescerà nuovamente.
Poco dopo Lepanto, la Porta iniziò effettivamente un'opera di
ricostruzione della flotta che si concluse l'anno successivo. A
seguito di questo riarmo la marina turca riacquistò la
superiorità numerica nei confronti delle potenze cristiane,
ma non riuscì a conquistare una sostanziale supremazia nel
Mediterraneo, soprattutto nella sua metà occidentale. Le
nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in fretta,
tanto che l'ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben
armate e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita
con legname marcio e cannoni mal fusi.
La battaglia di Lepanto ebbe anche importanti conseguenze
all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le varie Reggenze
barbaresche governavano il Maghreb in nome del Sultano ottomano, e
sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla
sua potente flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la
Spagna. Dopo questa battaglia fu chiaro che la flotta turca non era
invincibile, mentre la Spagna, pur vittoriosa, era troppo impegnata
a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli, e quindi le
Reggenze barbaresche "rialzarono la testa", guadagnando spazi
d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche
contro gli interessi del Sultano.