LE TEORIE DEGLI ELITISTI (Capitolo 10)
Tra la fine del 1800 e l’inizio del ‘900 si è avuto in Italia
un notevole sviluppo della socoiologia anche se ad essa è
mancata grande originalità: solo un filone teorico è
riuscito a distinguersi e ad imporsi per la sua rilevanza e si
tratta delle teorie dei c.d “elitisti” cui esponenti più noti
sono Gaetano Mosca (1858-1941), Vilfredo Pareto (1848-1923) e
Roberto Michels (1876-1936).
D’altra parte i massimi studiosi italiani che si rifacevano al
marxismo, quali Antonio Labriola ed Antonio Gramsci, non si
consideravano sociologi, anzi, rifiutavano la sociologia in quanto
la identificavano, semplicisticamente, con il positivismo e, dunque,
incompatibile con la “filosofia della prassi” che Gramsci sosteneva.
Essi dunque, tenevano il medesimo atteggiamento critico proprio
dell’idealismo classico sostenuto da Croce e Gentile.
Al fine di ben inquadrare i punti caratteristici di queste teorie,
è molto importante ricordare il contesto storico e culturale
nell’ambito del quale esse sono nate e si sono sviluppate.
Caratteristico atteggiamento degli elitisti è un evidente
pessimismo nei confronti tanto della democrazia quanto del
socialismo. In particolare, la caduta delle destra retta da
Minghetti ed il passaggio del potere governativo alla sinistra di De
Pretis non aveva comportato quei profondi mutamenti nel modo di fare
politica tanto attesi ne’ quei radicali rinnovamenti democratici e
che la sinistra, durante la campagna elettorale, aveva così
largamente promesso. Anzi, la sinistra si trovò
nell’impossibilità di mantenere le promesse fatte sia per
esigenze economiche sia per questioni legate al mantenimento del
potere: fu dunque costretta a scendere a compromessi, all’interno
del Parlamento, con gruppi clientelari i cui interessi erano
indipendenti dalle forze e dalla tendenze politiche che avrebbero
dovuto rappresentare (il c.d. “trasformismo”). Questa situazione
creò una profonda frattura tra le masse, che si erano
espresse attraverso il sistema elettorale, e il potere politico
costituito, prigioniero dei suoi compromessi e le sue divisioni
formali. Quanto al socialismo, la preoccupazione costante degli
elitisti fu sempre quella di dimostrare come il materialismo storico
non aveva concrete possibilità di realizzarsi storicamente e
costituiva a sua volta un’illusione.
Piero Godetti, Guido Dorso e Filippo Burzio hanno cercato di
sviluppare le teorie elitistiche in senso liberale e democratico.
Negli Stati Uniti tali teorie sono state riprese anche al sociologo
radicale Charles Wright Mills il quale se ne è servito
storicizzando il principio, non considerandolo cioè
universale e inevitabile ma vero solo in una realtà storica
da negare per costruire un’autentica democrazia: finchè negli
USA dominano le élites politiche, economiche e militari le
masse sono manipolate e la democrazia è solo parvenza mentre
essa resta il vero obiettivo da raggiungere. Ecco come teorie nate
con l’intento di dimostrare l’impossibilità della democrazie
diventano strumento critico nei confronti di una società non
democratica storicamente determinata e considerata come storicamente
trasformabile.
GAETANO MOSCA (1858-1941)
Nel clima che abbiamo appena sopra descritto, appare, nel 1884, la
prima opera di Gaetano Mosca, Sulla teoria dei governi e sul governo
parlamentare, nel quale viene delineata l’idea centrale degli
elitisti cioè che inevitabilmente “una minoranza organizzata,
la quale agisce sempre coordinatamente, trionfa sempre sopra una
maggioranza disorganizzata”.
Mosca definisce tale minoranza organizzata come “classe politica” e
le varie forme di governo non rappresentano altro che i principi in
base ai quali coloro che detengono il potere lo legittimano e lo
esercitano: tali principi sono chiamati “formula politica”. Chi
è al potere, infatti, non ammetterà mai di esercitarlo
in quanto classe più adatta a governare ma tradurrà
sempre la giustificazione del suo potere in una formula astratta.
La democrazia, secondo Mosca, in realtà è un’illusione
perché non è possibile concepire, nei fatti, il
governo di tutti: anche nella democrazia, dunque, ci sarà una
minoranza numerica che esplicherà effettivamente l’azione di
governo. Lo stesso discorso vale per la monarchia perché
anche il monarca ha bisogno di collaboratori e di un apparato di
funzionari, di un’organizzazione efficiente, dunque, di una
minoranza organizzata.
Secondo Mosca, anche se tale principio è inevitabile -nel
senso che si verifica in ogni forma di governo – non è
possibile però porre sullo stesso piano tutte le forme di
governo, anzi, egli va alla ricerca della forma migliore dimostrando
di non nutrire una sfiducia completa nei confronti del potere
politico .
Egli è critico nei confronti del sistema elettorale italiano
tanto da giungere ad affermare che non sono gli elettori ad eleggere
il proprio rappresentante ma è il deputato che si fa eleggere
dagli elettori. In particolare, per quanto riguarda la formazione
della “classe politica”, egli ne traccia una storia, affermando che
da sempre il potere è esercitato da una “classe speciale”
così definita in base ai valori prevalenti in quella
società. In un periodo primitivo è la forza fisica ad
essere apprezzata, quindi la classe politica è composta da
militari; i periodi di pace comporteranno anche sviluppo economico e
quindi ricchezza ed il potere passerà ai ricchi; man mano che
si svilupperà anche l’elemento intellettuale, la scienza si
applicherà alla politica, dunque, il sapere, il merito
personale, la virtù, il talento diverranno gli elementi che
selezioneranno la minoranza di governo.
Mosca prevede anche un’involuzione, nel senso che per certi periodi
può imporsi nuovamente il potere militare su quello economico
ed intellettuale: tale fenomeno è il “cesarismo” e Mosca lo
condanna in quanto ritiene che non possa durare a lungo nel tempo
perché, alla lunga, la superiorità morale ed
intellettuale prevale sempre sulla forza bruta e sulla
superiorità della massa.
La classe politica non è sempre reclutata dalle stesse
categorie sociali (in questo egli anticipa la “teoria della
circolazione delle elite” di Pareto) nel senso che gradatamente, chi
detiene il potere perde le attitudini al comando mentre queste
attitudini possono essere acquisite da altri che il potere non
detengono ancora formalmente e sono dunque destinati, in quanto
migliori, a conquistarlo.
Con il passare del tempo, probabilmente condizionato dalla politica
autoritaria di Crispi e dall’emergere delle organizzazioni operaie e
socialiste, Mosca appare avvicinarsi sempre più a una
concezione cautamente democratica in cui, però, sia sempre
evidente la superiorità di indole morale della classe
politica. Mosca, poi, a differenza di Pareto e Michels, prende le
distanze anche dal cesarismo fascista.
-Nel 1933 è pubblicata la sua Storia delle dottrine
politiche, opera nella quale ribadisce sempre il suo principio ma la
sua intransigenza è talmente attenuata da rappresentare una
difesa del sistema liberale anche se in senso conservatore.
Egli afferma che vi sono diversi tipi di organizzazione oligarchica
(= governo dei pochi):
-in quello feudale – il potere giudiziario, militare e politico sono
riuniti in un unico rappresentante (il barone nell’Europa del
Medioevo) per territorio ed il potere centrale dello stato non aveva
importanza dinanzi ai singoli poteri territoriali;
-in quello burocratico – le funzioni di governo sono distribuite
secondo la natura di esse (e non secondo il territorio)
perciò ogni ramo delle attribuzioni della sovranità
viene affidato ad altrettante gerarchie speciali di funzionari: la
minoranza che sta a capo di tutta l’organizzazione dello Stato
può esercitare un’azione più efficace e sicura ed
assai difficilmente una parte del territorio riesce ad organizzarsi
autonomamente;
-lo stato-città – è indipendente da altri poteri e
vede al suo interno una classe politica molto ampia in quanto si ha
un rapido avvicendamento nelle cariche da parte di molti membri
dell’intera popolazione (anche se, di fatto, a Roma e in Grecia
questi appartenevano ad un numero limitato di famiglie). Questa
forma di governo è apprezzata da Mosca per la fioritura di
arti, scienze e lettere possibile nel loro interno ed anche per le
possibilità di democrazia: il sistema liberale consiste nel
fatto che la trasmissione del potere viene fatto dal basso verso
l’altro (i funzionari sono eletti da coloro che dovranno a loro
sottostare) mentre nel sistema autocratico il gerarca supremo nomina
i suoi immediati collaboratori i quali, a loro volta, nominano i
funzionari.
Mosca, ha dunque un’apertura verso la democrazia, anche se cauta:
egli propende per un sistema misto nell’ambito del quale non
prevalga né l’elemento autocratico, né quello
aristocratico, né quello democratico.
Mosca vede con preoccupazione la concessione del suffragio agli
strati più incolti della popolazione e ripone le sue speranze
nella classe media, nei suoi valori di moderazione, esperienza,
istruzione.
Critiche
1) difficoltà nello spiegare come si forma una classe
politica -Rispondere a questa domanda sembra essere la principale
difficoltà di Mosca. Sebbene egli critichi il marxismo
(perché la sua concreta applicazione farebbe coincidere
potere politico e potere economico e la classe politica
trasmetterebbe questo suo potere agli eredi secondo un principio
inderogabile; si avrebbe dunque non maggiore libertà ma
maggiore coercizione) egli accetta l’idea del marxismo secondo cui
la classe politica viene spesso a formarsi in base
all’eredità economica perché essa comporta
superiorità culturale. E’ anche vero, però, che Mosca
dà l’impressione di considerare questa superiorità
morale insita negli individui e trascura il fatto che l’individuo,
anche se non sempre, si forma in un contesto di interazioni (quindi
nella società) e tale superiorità non può
essere quindi considerata un “a priori”.
2) Bobbio afferma che Mosca è un conservatore non
perché egli abbia affermato che una elite organizzata governi
una massa disorganizzata (il che è un dato di fatto) ma per
il modo con cui si valse di quella sua scoperta nel giudicare gli
eventi storici del passato e nel prendere partito di fronte alle
cose del suo tempo.
VILFREDO PARETO (1848-1923)
Pareto ha sempre negato il legame che lo connette a Mosca anche se
l’idea di quest’ultimo è da lui ampiamente accettata (una
minoranza organizzata ha sempre il sopravvento su una maggioranza
disorganizzata). E’ vero però che mentre per Mosca questa
minoranza di governo, doveva essere costituita da uomini che
praticassero una “politica scientifica” (cioè essi dovevano
ispirare le loro decisioni ai metodi e ai risultati delle scienze
sociali, e alla scienze politiche in particolare), Pareto deride
coloro che avevano riposto nella scienza la fiducia per un
miglioramento della società. Egli sostiene la
necessità di una sociologia fondata sul “metodo logico
sperimentale” che ai fatti si attenga realmente anche se tali
risultati sono indipendenti rispetto a ciò che può
essere utile e buono per la società.
Il suo pensiero lo ritroviamo tutto nella sua opera Trattato di
sociologia generale, del 1916.
In un primo periodo, egli era un accanito sostenitore del
liberalismo economico, contrario a qualsiasi intervento statale,
influenzato anche dalle idee del suo amico economista Maffeo
Pantaloni. Il suo modello è l’homo economicus, cioè
l’uomo che agisce in termini razionali per il raggiungimento
dell’utilità economica intesa in senso individualistico. Con
il tempo, però, egli si convinse che non si può dare
una spiegazione esauriente dell’attività umana in termini
economici: si rivolse pertanto alla sociologia. I suoi atteggiamenti
si fecero sempre più intransigenti nei confronti del
liberalismo borghese e del socialismo ed aderì al fascismo
sebbene con un atteggiamento sempre molto cauto.
Il pensiero di Pareto è caratterizzato da un ottimismo
epistemologico, nel senso che egli è convinto che la scienza,
con il suo metodo logico-sperimentale (un metodo cioè che si
attiene scrupolosamente ai dati di fatto e alle loro correlazioni
causali) può raggiungere una conoscenza razionale, e da un
pessimismo antropologico, nel senso che gli aspetti irrazionali
hanno, per ciò che concerne l’attività umana, un peso
molto maggiore rispetto a quelli razionali.
Egli distingue le azioni logiche – che sono quelle che uniscono
logicamente i mezzi al fine – dalle azioni non logiche ed aggiunge
che un’azione è razionale quando non solo i mezzi sono
effettivamente adeguati ai fini (fine oggettivo) ma il soggetto
agente ne è anche pienamente consapevole (fine soggettivo).
Nella società questa coincidenza tra fine oggettivo e fine
soggettivo avviene di rado e le azioni non logiche sono di gran
lunga quelle che predominano e ciò accade anche nell’ambito
dell’attività scientifica.
Pareto definisce teorie pseudoscientifiche quelle teorie che dicono
di rifarsi esclusivamente alla realtà empirica mentre di
fatto sono costruzioni legate allo stato d’animo dei loro autori:
pseudoscientifico per Pareto è il darwinismo sociale (in
quanto si fonda su un postulato indimostrato) così come il
materialismo storico. Pareto riconosce a Marx l’esattezza della sua
critica delle ideologie, il carattere sovrastrutturale della morale
e della religione, ma è un irriducibile avversario del
marxismo per quanto riguarda la teoria della lotta di classe e della
vittoria finale del proletariato in quanto vede in essa un’utopia,
un desiderio non suffragato da alcuna prova empirica.
Nell’affermazione circa il carattere prevalentemente irrazionale
dell’attività umana, Pareto indica già implicitamente
la distinzione fondamentale tra residui e derivazioni.
In poche parole, la concezione antropologica di Pareto può
essere così riassunta: gli uomini sono per lo più
mossi da impulsi emotivi, non razionali, (i residui) ma essi non
riconoscono questa base non razionale delle loro azioni e mascherano
tali azioni dando a esse spiegazioni pseudo-razionali (le
derivazioni).
I residui sono definiti come manifestazioni di sentimenti, di forze
irrazionalii che condizionano l’azione dell’uomo e la stessa sua
attività intellettuale.
Pareto procede dunque ad una classificazione dei residui e delle
derivazioni, nel tentativo di mettere in evidenza da una parte, le
essenziali esigenze umane (quelle più profonde e insconcie) e
le azione che ne derivano e, dall’altra, le “giustificazioni” che
gli uomini pongono al loro operato.
I residui sono divisi in sei classi con ulteriori suddivisioni
interne:
1)“istinto delle combinazioni” – indica la tendenza da parte
dell’uomo di fare accostamenti. E’ molto importante perché
è quello che spinge gli uomini a riunirsi ed è quindi
fondamento della civiltà stessa ed è anche quello che
induce gli uomini a dare spiegazioni logiche dei fenomeni attraverso
connessioni causali non verificate ne’ verificabili;
2) “persistenza in aggregato” – essa fa si che gli uomini, una volta
formatasi una combinazione, tendano ad attribuire ad essa una certa
stabilità (es. le relazioni di classi sociali);
3) “bisogno di manifestare con atti esterni i sentimenti” – un
esempio è l’esigenza di esprimere con attività esterne
i sentimenti religiosi (esteriorità dei culti);
4) “residui in relazione con la società” – alla sua base sta
l’impulso a vivere in società (es: altruismo, gerarchia,
solidarietà);
5) “dell’integrità dell’individuo e delle sue dipendenze” –
ad esempio, il senso della proprietà;
6) “residuo sessuale” – che non coincide con l’impulso sessuale ma
con i sentimenti a esso connessi.
L’uomo, però, non si vuole riconoscere come irrazionale, di
conseguenza, tende a spiegare la sua attività irrazionale
come fosse razionale (residuo 1). Questa stessa esigenza, d’altra
parte, risponde ad un sentimento: è di per sé
irrazionale ma fa sì che vi sia questo continuo bisogno di
giustificare “a posteriori” il proprio operato come logico. Questi
principi di giustificazione sono appunto le derivazioni.
1) affermazione – che sussiste per virtù propria;
2) autorità – si ha quando si assume come prova di
verità la fonte pseudoautorevole da cui giunge
l’affermazione;
3) accordo con sentimenti e principi – che spesso si intreccia con
quelle delle prime due classi (es.: una cosa è vera
perché trova consenso; tutti credono in Dio quindi Dio
esiste);
4) prove verbali – Pareto porta l’esempio della retorica, delle
ambiguità proprie di alcune parole spesso usate per costruire
discorsi pseudoscientifici.
Lo stesso residuo può essere sorretto da una pluralità
di derivazioni.
Con lo schema di classificazione dei residui e delle derivazioni,
Pareto vuole dimostrare che non può esserci affermazione
valida al di fuori del metodo logico-sperimentale, cioè della
scienza. Essa sola può far usciere l’uomo – e solo come
scienziato – dall’insieme dei condizionamenti esaminati: tutto il
resto, nella vita dell’uomo è regolato dai residui e dalle
derivazioni.
Così, Pareto, dopo aver chiarito cosa è scienza e cosa
è speudoscienza, passa all’analisi scientifica dei principi
che regolano il funzionamento della stessa società ed inizia
con lo studio delle élites.
Egli afferma che per ogni ramo dell’attività umana vi
è una “classe eletta” costituita dagli elementi
oggettivamente migliori in tale attività. Di conseguenza,
nella società, abbiamo due strati: lo stato inferiore (la
classe non eletta) e uno strato superiore (la classe eletta) che, a
sua volta, si ripartisce in classe eletta di governo e classe eletta
di non governo.
Le classi elette non costituiscono entità statiche
(circolazione delle élites) nel senso che all’inizio,
effettivamente, la classe eletta è costituita da coloro che
hanno più doti per governare ma questa loro forza si perde
con il tempo mentre, contemporaneamente, nella classe inferiore si
formano nuove energie: si verranno così a formare nuove
aristocrazie in un processo ininterrotto.
L’uso della forza è necessario per governare e la condanna di
esso è sempre unilaterale: è diretta verso gli
avversari mentre la si giustifica quando è presente nella
parte in cui si milita. Dunque, tale condanna essendo legata a
motivi affettivi è essa stessa irrazionale.
La società, quindi, è formata da un insieme di
elementi in equilibrio: un mutamento in un settore comporta il
mutamento in un altro settore. Mantenere questo equilibrio dinamico
della società è compito dei residui (e non dalle
derivazioni) e solo i lenti mutamenti che si verificano in essi
portano al mutamento sociale.
Critiche
1) Notiamo innanzitutto come Pareto abbia tentato la costruzione di
una teoria, dal valore scientifico universale, sistematica ed
onnicomprensiva, secondo la quale non c’è fenomeno sociale
passato o futuro che non possa trovarvi una sua collocazione. In
essa, poi, si parla di società in generale e non delle
società. Ecco i motivi per i quali, nonostante tutte le
critiche che Pareto rivolge ad essa, quest’opera di Pareto va
riallacciata alla tradizione sistematica di Comte e di Spencer
piuttosto che ad autori come Durkheim e Weber che hanno colto
l’impossibilità di ridurre tutte le società e tutta la
realtà sociale entro un unico schema esplicativo.
2) La legge della circolazione delle elite prevede un movimento
chiuso (in cui cioè il mutamento da un lato, è ridotto
a un moto circolare e, dall’altro è ridotto a fenomeno di
superficie) ed è data da Pareto come legge universale ed
inderogabile. Non viene così colto da Pareto il senso
dell’infinità delle manifestazioni umane nella storia il
quale è invece centrale nei suoi contemporanei che si rifanno
allo storicismo tedesco e contribuiscono al dibattito circa il
metodo delle scienze storico sociali che in esso si sviluppa.
3) Pareto accetta senza riserve i prodotti dell’esperienza e
dell’osservazione e ciò non gli permette di cogliere il nesso
tra realtà storico-sociale e pensiero, tra i problemi
pratici, economici e politici di una data società storica e
le teorie che in essa si elaborano.
4) Egli odia in particolar modo l’idea tipica della sociologia
ottocentesca secondo la quale la scienza della società deve
contribuire al miglioramento della società stessa, a una sua
maggiore razionalità.
5)Il suo ottimismo epistemologico, che lo riallaccia al positivismo
ottocentesco (secondo cui è possibile conoscere
oggettivamente la società), è accompagnato da un forte
pessimismo antropologico che vede l’uomo come essere essenzialmente
irrazionale che ha bisogno di fede più che di scienza, di
derivazioni (=giustificazioni) più che di scoperte
scientifiche.
6) Siccome gli uomini hanno bisogno di miti e sulla base dei miti si
mantiene unita la società, anche Pareto, assieme a Durkheim e
Weber, è da considerare fra coloro che si preoccupano nella
loro sociologia dei fondamenti “religiosi” della società.
7) Dato che i residui e, anche se in minor misura, le derivazioni,
contribuiscono all’integrazione sociale, i sociologi funzionalisti
vedono in Pareto un precursore.
8) Ancor più di Mosca è un accanito conservatore
perché egli concepisce la storia, nei suoi tratti essenziali,
come un eterno ripetersi e, di conseguenza, l’azione (dalla quale
origina il mutamento) non ha senso.
9) (Busino) -Per Pareto gli appartenenti alla classe eletta sono
tali in quanto naturalmente “dotati”: sfugge a Pareto il fatto che
niente ha provato fino ad ora l’esistenza di doti naturali mentre
è vero che una dote è considerata tale solo
perché, in una data società, si è deciso di
valorizzare questa o quella capacità;
10) (Bobbio) - In Pareto va visto il grande demistificatore delle
ideologie con i quali gli uomini celano la realtà. La
differenza, però, è che per Marx la critica alle
ideologie ha una funzione pratica, rivoluzionaria, mentre per Pareto
è patrimonio di una ristretta cerchia di scienziati.
ROBERTO MICHELS (1876-1936)
In Michels, l’influenza del marxismo è evidente soprattutto
perché, nato e cresciuto nell’ambiente culturale tedesco, da
giovane, aveva militato da marxista nell’ala sinistra del partito
socialdemocratico, contro i revisionisti. Forte è anche
l’influenza del sindacalismo di Sorel e, poi, della sociologia di
Weber. Stabilitosi poi in Italia, subì l’influenza degli
studi di Mosca e Pareto ed aderì al fascismo.
Nella sua opera più famosa, La sociologia del partito
politico (1911), centrale è l’idea elitistica della
necessità di una minoranza organizzata mentre marxismo,
socialismo, democrazia e partecipazione diretta delle masse al
potere, sono i suoi costanti bersagli.
Michels afferma che le masse sono deboli e in quanto tali non
possono conservare il potere; per farlo, è necessario che si
organizzino ma ciò comporta uno stravolgimento nella loro
struttura. Ogni organizzazione politica, sia essa un partito o un
sindacato, ha bisogno di una struttura, di personale specializzato e
ciò comporta, inevitabilmente, una selezione per la
formazione di tale personale e l’impossibilità da parte della
massa in quanto tale di esercitare un potere diretto. Si crea dunque
un’organizzazione gerarchica nell’ambito della quale è
possibile che, all’inizio, il capo governi come “servitore delle
masse” ma presto saranno le masse a essere sottomesse al gruppo
minoritario organizzato. E’ questa la legge di ferro
dell’oligarchia.
Tale principio ha trovato, in effetti più conferme che
smentite, ed è anche vero quanto affermato da Michels e
cioè che questo fenomeno si riscontra anche nelle democrazie
e all’interno dei regimi che si rifanno al marxismo.
A Michels va il merito di non aver accettato la distinzione tra
maggioranza disorganizzata e minoranza organizzata come un dato di
fatto ma di aver spiegato sociologicamente il processo di formazione
delle élites.
Le sue affermazioni, però, vanno criticate per alcuni
aspetti:
1) Michels spiega il formarsi di una oligarchia all’interno di un
partito politico però egli non considera che è un
conto trovarsi dinanzi a un unico partito, la cui oligarchia domina
incontrastata, e altro conto è trovarsi in una società
in cui vi sia una pluralità di partiti, anche se all’interno
di ognuno tende a verificarsi quanto egli ha indicato;
2) Michels considera priva di importanza che la minoranza
organizzata governi in una società in cui una classe ha la
proprietà privata dei mezzi di produzione oppure in una
società senza tale proprietà privata in quanto egli
afferma che il formarsi di un’oligarchia comunque comporta una serie
di privilegi. Però, un conto è parlare di privilegi
che derivano dalla diversa organizzazione politico-economica della
società e un conto è considerare i privilegi che
derivano dall’organizzazione burocratica.