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Émile Louis Victor de Laveleye (Bruges, 5 aprile 1822 –
Liegi, 3 gennaio 1892) è stato un economista e saggista
belga.
Liberale di tendenze socialiste, cattolico in seguito convertito al
protestantesimo, studiò presso il Collège Stanislas di
Parigi, in seguito alle università di Lovanio e Gand,
formandosi sotto l'influenza del filosofo François Huet. Si
dedicò alla letteratura e alla storia, ma è noto
particolarmente per i suoi studi di economia. Nel 1864, ricevette la
cattedra di economia politica presso l'università di Liegi.
Nel 1867, fu rappresentante del Belgio nella giuria dell'esposizione
universale di quell'anno. Fu inoltre membro dell'Accademia reale del
Belgio e corrispondente dell'Institut de France. Nei suoi saggi, si
occupò, prevalentemente, delle problematiche
economico-sociali che affliggevano l'Europa del suo tempo. Nel 1873,
fu tra i fondatori dell'Istituto di diritto internazionale e nel
1883 fu socio straniero dei Lincei.
Opere scelte
Mémoire sur la langue et la
littérature provençales (1844)
La question de l'or en Belgique (1860)
La Russie et l'Autriche depuis Sadowa (1870)
Essai sur les formes de gouvernement dans les
Sociétés Modernes (1872)
Des Causes actuelles de guerre en Europe et de
l'arbitrage (1874)
De la proprieté et de ses formes
primitives (1874)
La monnaie bimétallique (1876)
Éléments d'économie
politique (1882)
Citazione
Governanti d'Italia, abbiate dunque pietà della
povertà della popolazione! L'attentato di Passannante*
è un avvertimento. Nelle risposte che egli dà nel
corso dei suoi interrogatori, s'intravvede, a momenti, ciò
che passa nel cervello di coloro che sono profondamente irritati
dallo stato di indigenza delle classi meno abbienti. Il parlamento
continua a votare milioni e milioni per fortificazioni, corazzate,
uniformi, palazzi ed archi di trionfo. Non vede che sta preparando
la strada alle future rivoluzioni politiche e sociali. (da Nuovelles
lettres d'Italie, Paris-Bruxelles, 1884, p. 297; citato in Giuseppe
Galzerano, Giovanni Passannante, Galzerano, 2004, p. 62)
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*Giovanni Passannante
Giovanni Passannante (Salvia di Lucania, 19 febbraio 1849 –
Montelupo Fiorentino, 14 febbraio 1910) è stato un anarchico
italiano. Nel 1878 fu autore di un attentato fallito alla vita di re
Umberto I, il primo nella storia della dinastia Savoia. Condannato a
morte, la pena gli fu commutata in ergastolo. La sua prigionia fu
spietata e lo condusse alla follia, sollevando un enorme scandalo
nel mondo politico italiano. Venne, in seguito, trasferito in
manicomio, ove passò il resto della sua vita.
Il suo paese d'origine, in segno di penitenza, venne rinominato
nell'attuale Savoia di Lucania in onore della famiglia reale. A
prescindere dal suo gesto, alcune idee di Passannante, benché
da taluni giudicate confuse, entreranno a far parte dell'odierna
vita sociale italiana.
Biografia
Inizi
Nato a Salvia di Lucania, da Pasquale e Maria Fiore, fu l'ultimo di
dieci figli, quattro dei quali morti in tenera età. In paese
era soprannominato "Cambio" ed aveva una mano storpia a causa di una
scottatura nell'acqua bollente quando era ragazzino. Le difficili
condizioni economiche della famiglia lo costrinsero ad elemosinare
sin da bambino. Desideroso di apprendere, poté frequentare
solo la prima elementare, cercando di imparare a leggere e scrivere
da sé. Svolse lavori occasionali per aiutare la famiglia,
facendo il guardiano di pecore e il domestico.
In seguito, Passannante si recò a Vietri, lavorando come
sguattero, e poi a Potenza, trovando impiego come lavapiatti presso
l'albergo Croce di Savoia, ma verrà licenziato, a detta del
proprietario, per il suo carattere ribelle e perché passava
il tempo a leggere libri e giornali, anche se l'anarchico
negherà questa ragione, asserendo che si dedicava alla
lettura durante il tempo libero e che si autolicenziò in
quanto il suo datore, in quattro mesi di lavoro, non l'aveva mai
pagato.
A Potenza conobbe Giovanni Agoglia, ex capitano dell'esercito
napoleonico e anch'egli originario di Salvia, il quale, notato
l'interesse del ragazzo per gli studi, lo portò con sé
a Salerno, assumendolo come domestico e assegnandogli un vitalizio
per migliorare la sua istruzione. Passannante alternò la
lettura della Bibbia a quella dei giornali e degli scritti di
Giuseppe Mazzini. Inizialmente cattolico e fervente nelle pratiche
religiose, si convertirà al culto evangelico ed
abbandonerà le forme esteriori, anche se la fede in Dio
rimarrà viva in lui.
Attività politica
Passannante iniziò a frequentare circoli filomazziniani e
conobbe Matteo Melillo, uno dei maggiori esponenti internazionalisti
di Salerno. La frequentazioni di associazioni repubblicane gli
procurò i primi problemi con la legge. Nella notte tra il 15
e il 16 maggio del 1870, due guardie di pubblica sicurezza trovarono
Passannante mentre stava affiggendo proclami rivoluzionari.
Passannante, venuto a conoscenza di un'imminente insurrezione in
Calabria contro il governo, tentò di incitare la popolazione
salernitana a fare altrettanto.
I manifesti di Passannante erano un'invettiva contro le monarchie e
il papato, inneggiando alla Repubblica, a Mazzini e Garibaldi (ad
ogni modo, Passannante rivedrà, anni dopo, il suo pensiero
sul condottiero nizzardo, accusandolo di simpatie verso la
monarchia). Le guardie lo arrestarono con l'accusa di sovversione.
Aveva con sé una copia de Il popolo d'Italia, giornale
mazziniano, che gli fu sequestrata e fu trattenuto in carcere per
tre mesi. Secondo la deposizione di un inquilino che abitava nello
stesso palazzo di Passannante, questi stava imparando il francese e
progettava l'assassinio di Napoleone III, accusandolo di essere
«la causa di impedimento all'attuazione della Repubblica
Universale».
Uscito di prigione e tenuto sotto sorveglianza dalla prefettura di
Salerno, tornò brevemente presso la famiglia a Salvia e, di
ritorno a Salerno, trovò impiego come cuoco presso la
fabbrica dei tessuti degli Svizzeri. Si licenziò e
aprì un locale, La Trattoria del Popolo, in cui Passannante
elargiva spesso pasti gratuiti, il quale venne chiuso nel dicembre
del 1877. Orientatosi verso le idee anarchiche, si iscrisse alla
Società Operaia di Pellezzano, che lasciò, in seguito,
per contrasti con gli amministratori; entrò poi alla
Società di Mutuo Soccorso degli Operai e grazie al suo
attivismo i membri passarono da 80 a 200. Passannante lasciò
anche questa organizzazione per gli stessi motivi. Nel giugno 1878
si trasferì a Napoli, dove visse alla giornata cambiando
diversi datori di lavoro.
L'attentato
Alla morte del padre, Umberto I, accompagnato dalla moglie
Margherita e dal figlio (il futuro re Vittorio Emanuele III),
preparò un viaggio nelle maggiori città italiane per
poter mostrarsi al popolo. Nei giorni antecedenti al fatto, vi
furono diverse proteste di matrice internazionalista nella
città partenopea, che furono represse dalle autorità.
Un comizio tenuto dall'operaia femminista Annita Lanzara e dai
tipografi internazionalisti Luigi Felicò e Taddeo Ricciardi
venne interrotto dall'ispettore di pubblica sicurezza. Alcuni
partecipanti come Pietro Cesare Ceccarelli, Francesco Saverio
Merlino, Francesco Gastaldi, Giovanni Maggi e Saverio Salzano
vennero arrestati mentre distribuivano volantini rivoluzionari.
Il 17 novembre 1878, la famiglia regnante, assieme al primo ministro
Benedetto Cairoli, era in visita a Napoli. Venne preparata
un'accoglienza sfarzosa, nonostante le polemiche avutesi in
consiglio comunale sulle spese elevate per il ricevimento reale.
Quando il corteo giunse all'altezza del "Largo della Carriera
Grande" nel mezzo di un pubblico festante, tante persone, in
particolare donne, si dirigevano verso la carrozza per porgere
suppliche. Passannante era tra gli astanti, attendendo il momento
opportuno per avvicinarsi alla carrozza del sovrano, che incedeva
lentamente nella piazza. Giunto il suo momento, l'attentatore
sbucò all'improvviso dalla folla, salì sul predellino,
scoprì un pugnale, che teneva avvolto in uno straccio rosso,
e tentò di accoltellare il monarca urlando: «Viva
Orsini! Viva la Repubblica Universale!».
Il re riuscì a difendersi, rimanendo leggermente ferito al
braccio sinistro. La regina lanciò in faccia all'aggressore
il mazzo di fiori che aveva in grembo e avrebbe urlato:
«Cairoli, salvi il re».Cairoli afferrò
l'attentatore per i capelli ma venne ferito da un taglio alla coscia
destra, una ferita non grave nonostante l'abbondante sangue versato.
Accorsero subito i corazzieri e il loro capitano Stefano De
Giovannini colpì l'anarchico con un fendente alla testa, il
quale venne subito tratto in arresto. La folla circostante, vedendo
un uomo ferito condotto via, non si accorse immediatamente del
fallito assassinio e pensò che Passannante fosse stato
investito dalla carrozza reale, quindi non vi fu alcun tentativo di
linciaggio. Il tutto si compì in un tempo così breve
che le altre carrozze vicine a quella reale non dovettero mai
fermare la loro marcia.
Arresto
Sanguinante per le ferite alla testa, non venne accompagnato in
ospedale per essere medicato e subì altre
sevizie.Affermò di aver agito da solo, di aver escogitato
l'attentato due giorni prima e negò di appartenere ad alcuna
organizzazione politica. Aveva compiuto il suo gesto con un pugnale
avente una lama di 8 cm circa che aveva ottenuto barattandolo con la
sua giacca. Nel fazzoletto rosso nel quale aveva nascosto l'arma,
Passannante aveva scritto: «Morte al Re, viva la Repubblica
Universale, viva Orsini».
Al momento dell'arresto, gli furono sequestrati i documenti, uno di
questi era una lettera, che Passannante definì il suo
«testamento», indirizzata ad un tale don Giovannino
pregandolo di elargire i suoi miseri averi ad alcune
persone.L'attentato provocò nella regina Margherita un forte
shock, nonostante durante la sfilata cercò di mantenere un
atteggiamento calmo e sorridente, la quale tornata alla reggia si
sentì male ed esclamò: «Si è rotto
l'incantesimo di Casa Savoia!».
Il giorno dopo, il re fu visitato da numerosi esponenti della
nobiltà e della politica meridionale, tra questi i lucani
Ascanio Branca, Salvatore Correale e Giuseppe Imperatrice, che
espressero rincrescimento per il fatto che Passannante fosse un loro
corregionale. Il re li rincuorò, promettendo di fare una
visita in Basilicata il prima possibile. La parola verrà
mantenuta e la coppia reale soggiornerà a Potenza tra il 25 e
il 27 gennaio 1881.
Conseguenze
L'attentato sconvolse il regno intero e produsse opposti sentimenti,
da una parte, con cortei di protesta solidali nei confronti del Re,
cui si contrapposero coloro che invece elogiarono l'attentatore. Il
giorno successivo, a Firenze, venne lanciata una bomba contro un
corteo monarchico: due uomini e una bambina restarono uccisi e una
decina persone furono ferite. Si attribuì la tragedia agli
internazionalisti e vennero arrestati diversi esponenti, i quali
verranno scarcerati per mancanza di prove. Uno di loro, Cesare
Batacchi, verrà graziato solo il 14 maggio 1900. Secondo
alcuni, l'arresto di Batacchi e degli altri internazionalisti
sarebbe stato una strumentalizzazione poliziesca per reprimere le
associazioni avverse alla monarchia.
A Pisa, un'altra bomba venne esplosa durante una manifestazione a
favore del re, ma non si registrarono vittime. Venne arrestato un
tale Pietro Orsolini, che, nonostante diverse prove di innocenza,
morì nel carcere di Lucca nel 1887. La notte del 18 novembre
venne assalita una caserma a Pesaro con un deposito di 5000 fucili,
un internazionalista fu arrestato. Si registrarono sommosse in tutta
la nazione e il governo, che temeva un complotto anarchico contro la
corona, intervenne con un'opera di repressione. Vi furono scontri
con le forze dell'ordine in città come Bologna, Genova,
Pesaro e molte persone vennero arrestate al solo elogio verso
l'attentatore o alla sola denigrazione nei confronti del re, come
accadde a Torino, Città di Castello, Milano, Guglionesi, La
Spezia e Bologna.
Il poeta Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti
ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua
Ode a Passannante. Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode e
di tale componimento si conosce solo il contenuto dei versi
conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi:
«Con la berretta del cuoco, faremo una
bandiera». Pascoli, in seguito, verrà arrestato per aver
manifestato a favore degli anarchici che erano stati a loro volta
tratti in arresto per i disordini generati dalla condanna di
Passannante. Durante il loro processo, il poeta urlò:
«Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!».
Paul Brousse, direttore del giornale anarchico L'Avant-Garde di
Neuchâtel, pubblicò sulla propria testata un articolo
apologetico su Passannante ed altri attentatori come Juan Oliva
Moncasi, Max Hödel e Karl Nobiling. Il paragrafo presenta
l'anarchico lucano con simpatia e ammirazione, arrivando a definirlo
«una natura energica». La pubblicazione generò
polemiche e la Svizzera, asilo politico di numerosi anarchici,
ricevette accuse di essere un focolaio di cospirazione
antimonarchica a livello internazionale. I sovrani d'Italia,
Germania, Russia e Spagna fecero pressioni sul governo svizzero
affinché invalidasse l'attività del giornale per non
turbare i rapporti diplomatici. Così L'Avant-Garde fu
soppresso, Brousse venne arrestato ed espulso dalla Svizzera.
Durante il processo, Brousse si rifiutò di nominare l'autore
dell'articolo, il quale, secondo alcune voci, sarebbe l'anarchico
Carlo Cafiero, che si trovava in Svizzera in quel periodo.
Pochi giorni dopo il tentato regicidio, in Parlamento la condanna
dell'attentato fu unanime ma il governo Cairoli fu attaccato dalla
destra e da una parte della sinistra, con l'accusa di
incapacità nel tutelare l'ordine pubblico e di eccessiva
tolleranza nei confronti delle associazioni internazionaliste e
repubblicane. L'11 dicembre 1878, il ministro Guido Baccelli
presentò una mozione di fiducia al governo, che fu respinta
con 263 voti contrari, 189 favorevoli e 5 astenuti, costringendo
Cairoli a rassegnare le dimissioni.
Dibattiti
La notizia dell'attentato fece il giro d'Europa ed anche in questo
caso vi furono opinioni opposte. Alcuni organi di stampa (italiani e
stranieri) condannarono l'attentatore rivolgendogli diverse accuse,
persino prive di fondamento o puramente inventate. Il Republique
Française di Parigi indicò la Chiesa e gli ex regnanti
borbonici come mandanti del tentato regicidio; L'Arena di Verona e
il Corriere della Sera di Milano lo definirono un brigante che, in
passato, aveva ucciso una donna mentre, in una litografia pubblicata
a Torino, venne riportato che il padre di Passannante era un
camorrista e che suo figlio fu educato con sentimenti di odio e di
disprezzo per la libertà italiana. Il quotidiano La Stampa
scrisse che Passannante era già stato rinchiuso in passato a
Rocca d'Anfo e nel forte di Fenestrelle, descrivendolo come un
«omiciattolo cachettico, smilzo, butterato dal vaiolo».
Altri giornali espressero opinioni differenti; il tedesco Koelnische
Zeitung auspicò che l'attentato servisse come monito allo
stato italiano per comprendere meglio i bisogni del ceto subalterno;
l'inglese Daily News vide nel malcontento e nella miseria i fattori
che spinsero l'anarchico ad armarsi mentre il Satana di Cesena (che
verrà soppresso con l'accusa di propaganda contro il re e le
istituzioni) non lo considerò un assassino ma un
«infelice affascinato» dei mali che turbarono la
società del tempo. L'economista belga Émile de
Laveleye vide nel gesto di Passannante un
«avvertimento», un attentato non rivolto al re, ma alla
monarchia, «non la monarchia come istituzione politica, ma
come simbolo dell'ineguaglianza sociale». Il gesto di
Passannante spinse, tuttavia, il monarca nel garantire alcuni
sussidi al popolo e in comuni come Torre Annunziata, Castel di
Sangro, San Buono vennero distribuiti, gratuitamente, cibo e abiti
ai più poveri.
Alcuni repubblicani presero le distanze da Passannante e mandarono
felicitazioni al re, come Aurelio Saffi (in passato triumviro della
Repubblica Romana, con Mazzini e Carlo Armellini) e Alberto Mario,
secondo quest'ultimo un tale gesto «accresce la miseria
arruffandone il problema». Fu informato dell'accaduto
anche Francesco II, sovrano del decaduto regno delle Due Sicilie, in
quel momento in esilio a Parigi. Francesco II deplorò
l'attentatore, definendo la Basilicata «paesi cattivi: un nido
di socialisti... di socialisti, non esattamente, più
precisamente di comunisti partigiani!». Infine aggiunse:
«la nostra vita è solo nelle mani di Dio» e
«Dio non vuole che gli assassini riescano».
Anche Giuseppe Garibaldi seppe della notizia. Il 21 novembre 1878
inviò un telegramma di buon auspicio a Cairoli (che era un ex
camicia rossa) e al re Umberto I. Qualche giorno dopo, Garibaldi
indirizzò una lettera al giornale Capitale in cui scrisse
riguardo all'attentato che «Il malessere politico non è
altro che una conseguenza dei pessimi governi e questi sono i veri
creatori dell'assassinio e del regicidio» e nel 1880, in una
lettera al repubblicano francese Félix Pyat, definì
Passannante un «precursore dell'avvenire», una
dichiarazione che susciterà polemiche.
Situazione nella città natale
La sera stessa dell'attentato, Giuseppe Zanardelli, allora ministro
dell'Interno, informò tutte le prefetture del regno
sull'accaduto. Il prefetto di Potenza ricevette l'ordine di
perquisire l'abitazione dei parenti e di chiunque avesse avuto
rapporti con Passannante, inviando i carabinieri a Salvia. Nella
casa dell'anarchico furono trovati una stampa de La Marsigliese e
una copia del giornale La Nuova Basilicata datato 1871 contenente
notizie sulla Comune di Parigi. Vennero perquisiti tutti i luoghi
riconducibili all'attentatore ma i carabinieri annotarono, nel loro
rapporto, di non aver trovato nulla di criminoso.
Giovanni Parrella, sindaco di Salvia, il quale dovette prelevare
denaro dalle casse comunali per affittare un abito adeguato per
l'incontro, si recò a Napoli per porgere le sue scuse e
chiedere perdono ad Umberto I, il quale le accettò
dicendogli: «gli assassini non hanno patria». Fu, in
seguito, ricevuto dai consiglieri del monarca che, per ottenere la
clemenza, gli imposero il cambiamento di nome della città
d'origine dell'anarchico, rinominandola nell'attuale Savoia di
Lucania. Il sindaco accettò senza discutere e il comune
cambiò toponimo con regio decreto il 3 luglio 1879.Il cambio
di nome fu oggetto di discussione da parte di alcuni, ad esempio il
meridionalista Giustino Fortunato che, nel 1913, dirà:
«Io non so rassegnarmi che un così bel nome sia andato
capricciosamente cancellato!».
L'intera famiglia dell'attentatore fu dichiarata folle e suo
fratello Giuseppe, risultato affetto da alienazione mentale, fu
internato nel manicomio criminale di Aversa. Si saprà, in
seguito che il fratello era malato di febbre palustre che, assieme
ad una scarsa alimentazione, lo aveva reso anemico. Il padre
defunto, che aveva perso i genitori a 9 anni, soffrì di
convulsioni che cessarono con l'età ed ebbe solamente
problemi di artrite reumatica; la madre, settantaduenne, aveva
tremori ed era affetta da neuropatia. Secondo il direttore del
manicomio, Gaspare Virgilio, le condizioni di salute dei genitori
ebbero effetti degenerativi sui figli. Per Virgilio, Passannante era
«semipazzo», «imbecille» e ritenne che
«fosse la mano di un uomo non sano quella che si armò
per immolare il figlio di colui che per antonomasia fu detto il
Galantuomo».
Interrogatorio
Oltre a Passannante, il 18 novembre 1878 vennero arrestati con
l'accusa di essere complici Matteo Maria Melillo, Tommaso Schettino,
Elviro Ciccarese e Felice D'Amato ma verranno scarcerati l'anno
successivo per insufficienza di prove.Numerose persone furono
interrogate e tacciate di essere in combutta con l'anarchico ma i
regi carabinieri e i giudici non riuscirono a trovare testimonianze
concrete. La mattina del 19 novembre, Passannante fu portato nel
carcere di San Francesco, rinchiuso in una cella di isolamento.
Mostrò sempre un atteggiamento calmo e impassibile, anche se
in alcune occasioni si lasciò andare al pianto. Sottoposto ad
esami psichiatrici, risultò sano di mente.
Cesare Lombroso instaurò una polemica con i periti convinto
della pazzia dell'anarchico (anche se mai lo visitò
personalmente), il quale venne risposto dal medico Augusto
Tamburrini che difese la validità della perizia. Soggetto
ad un lungo interrogatorio, Passannante non si definì
nè socialista nè internazionalista e si
proclamò solo un sostenitore della repubblica universale.
Nutriva risentimento verso i liberali che parteciparono ai moti
risorgimentali e che, a sua detta, tradirono i loro ideali per
ricoprire ruoli importanti ed arricchirsi, oltre ad asserire che il
movente del suo gesto era causato dalla miseria e dalle tasse.
Dichiarò di non aver nulla di personale contro Umberto I, ma
rancore verso tutti i monarchi.
Il 28 dicembre, il giornale Roma pubblicò un manoscritto
dell'anarchico intitolato Ricordo per l'avvenire al popolo
universale, dove espose la sua visione di società
egualitaria, il disprezzo verso la Monarchia, e la promozione di
assistenza economica per le fasce deboli come donne incinte, anziani
e ammalati. La sua richiesta di beneficio sociale fu originale per
l'epoca, basti pensare che bisognerà aspettare circa un
secolo per vedere realizzata la legge "Tutela fisica ed economica
delle lavoratrici madri" del 1950, che sino alla promulgazione della
nuova legge del 1971, escludeva le madri artigiane, mezzadre e
commercianti. Accanto alla pubblicazione, il quotidiano,
benché di ideali simili all'attentatore, derise il documento
e definì Passannante «un nuovo legislatore».
Processo e condanna
Il 6 e il 7 marzo 1879, davanti ad una folla gremita, venne
effettuato il processo e la sua difesa fu affidata all'avvocato
Leopoldo Tarantini. La nomina della giuria fu oggetto di
controversie e, anni dopo, l'anarchico Luigi Galleani dirà
che la loro estrazione fu «un oltraggio alle norme e alle
consuetudini giudiziarie». Anche l'attività di
Tarantini fu criticata dalle fazioni anarchiche e repubblicane:
Francesco Saverio Merlino definì l'avvocato «un secondo
accusatore, che andò a prendere ordini a Roma prima di
invocare per lui la clemenza reale»; per Galleani, Passannante
è «abbandonato al carnefice dal suo avvocato»
mentre un giornalista anonimo della Rivista repubblicana
considerò il suo operato una «difesa sconclusionata ed
infelice».
Terminato il processo, il procuratore generale Francesco La
Francesca chiese l'applicazione della condanna a morte,
benché solo un anno prima avesse scritto un opuscolo
sull'abolizione della pena capitale, tanto da essere premiato da
Pietro II, imperatore del Brasile. Il processo si concluse con la
condanna a morte e non mancarono controversie sul verdetto
poiché la pena di morte era prevista solo in caso di
regicidio. Merlino riporterà anni dopo, nella sua opera
L'Italia quale è, la confessione di un magistrato, in cui
sostenne che quattro giurati votarono per l'assoluzione e cinque per
le attenuanti ma non fu concessa né una né l'altra
La sentenza capitale suscitò le proteste degli
internazionalisti e sorsero iniziative a favore di Passannante.
Errico Malatesta e Francesco Ginnasi furono autori di un manifesto
pieno di invettive contro il re, redatto a Ginevra e diffuso in
Italia. Le copie furono sequestrate, mentre Malatesta e Ginnasi
furono costretti alla fuga. Il ministro di giustizia Diego Tajani,
in passato avvocato che si batté per la clemenza di Giovanni
Nicotera, condannato a morte e poi perdonato da Ferdinando II di
Borbone per i fatti della Spedizione di Sapri (1857), si
schierò, invece, contro la grazia di Passannante. Anche gli
organi di stampa si divisero, come il Piccolo di Napoli che
invocò la commiserazione mentre la Perseveranza di Milano
sostenne l'esecuzione capitale.
Tarantini fece ricorso in Cassazione che venne rigettato. Lo stesso
Passannante era contrario, egli non cercava la grazia poiché,
secondo le sue parole, non avrebbe portato alcun vantaggio alla sua
causa mentre la morte l'avrebbe reso un "martire politico" e avrebbe
giovato alla rivoluzione. Dopo il diniego della Cassazione,
l'avvocato preparò una domanda di grazia da consegnare al re,
ultima alternativa rimasta. Con Regio Decreto del 29 marzo 1879,
Umberto I concesse la grazia a Passannante, commutando la pena in
ergastolo. Il re firmò il decreto di motu proprio, dicendo al
ministro di giustizia: «Ho deciso di far grazia a Passannante:
egli era un povero illuso». La notizia della clemenza sovrana
fece il giro d'Italia e venne accolta positivamente da gran parte
dell'opinione pubblica e della stampa. A grazia ricevuta,
l'anarchico, nonostante ringraziò il re, aveva scritto una
lettera in cui lo considerava ancora un suo "nemico"; la missiva,
però, venne sequestrata dal direttore del carcere.
Passannante sconterà la pena a Portoferraio, sull'isola
d'Elba.
Pena
Arrivato a Portoferraio, Passannante venne condotto nella prigione
della Torre della Linguella (nota anche come Torre del Martello e in
seguito ribattezzata Torre di Passannante). La cella era
piccolissima, umida, buia, senza servizi igienici e posta sotto il
livello del mare. Il pavimento, in terra battuta, permetteva
l'infiltrazione di acqua marina, provocando nell'ambiente condizioni
di insalubrità. Attaccato ad una corta catena di 18
chilogrammi, che gli consentiva di fare solo due o tre passi, ed in
completo isolamento, non poté ricevere visite e lettere.
Nonostante il Corriere dell'Elba annunciò che in quella
gabbia angusta «sarà tenuto per qualche tempo, dipoi
sarà posto insieme agli altri a subire la vera pena della
galera», in realtà Passannante vi rimase per 10 anni.
Con il passare del tempo tale detenzione influì sulla sua
salute, sia mentale che fisica. Si ammalò di scorbuto, fu
colpito dalla taenia, perse i peli del corpo, la pelle si
scolorì, le palpebre si rovesciarono sugli occhi, le guance
si vuotarono e si gonfiarono e, secondo alcune testimonianze,
arrivò a cibarsi dei propri escrementi. I barcaioli che
passavano nelle vicinanze della torre udivano spesso le urla di
strazio del detenuto. Dopo due anni, i carcerieri lo fecero salire
al di sopra del livello del mare ma le condizioni di vita rimasero
immutate.
Nel frattempo, in città come Roma e Ancona furono mosse
manifestazioni a favore dell'anarchico. Paul Brousse, in esilio a
Londra dopo l'articolo elogiativo su Passannante, propose una
raccolta di denaro per attenuare la pena dell'anarchico o persino di
preparare un'eventuale fuga. Si tentò di coinvolgere anche
gli internazionalisti francesi e tedeschi ma l'iniziativa non venne
mai concretizzata. Ad Alessandria d'Egitto, venne costituito il
Gruppo Passannante, presieduto dall'internazionalista pisano Oreste
Falleri, ex garibaldino fuggito in Egitto a causa delle persecuzioni
antirepubblicane.
L'onorevole Agostino Bertani, che incontrò l'anarchico
già dopo il suo arresto nel 1879, dopo un lungo diverbio con
il ministero, ottenne il permesso di recarsi a Portoferraio per
visitarlo una seconda volta, accompagnato dalla giornalista Anna
Maria Mozzoni. Nel 1885, il deputato radicale e la giornalista
giunsero alla fortezza; a Bertani fu imposto di vederlo solo
attraverso la serratura e nel massimo silenzio, poiché il
detenuto non doveva accorgersi della presenza di altre persone. Il
politico rimase scioccato per la condizione in cui versava (secondo
la Mozzoni, «per molti giorni ne ebbe guastati l'appetito ed
il sonno») ed esclamò: «Questo non è un
castigo, è una vendetta peggiore del patibolo; il re non sa
nulla, non è possibile che lo sappia, egli non tollererebbe
un fatto che getta su lui un'ombra odiosa; è una
vigliaccheria da cortigiani». Bertani e la Mozzoni
denunciarono il trattamento inflitto a Passannante, suscitando
un'enorme scandalo politico e mediatico. Il deputato minacciò
anche un'interpellanza parlamentare che però non verrà
mai effettuata, probabilmente a causa delle sue precarie condizioni
di salute che lo condurranno alla morte l'anno seguente.
Il ministro dell'Interno, Giovanni Nicotera, tentò di
difendersi dicendo che il condannato venne segregato «anche
per suo desiderio. Le visite erano state sconsigliate dal sanitario
e sfuggite dal condannato; il cibo era quello prescritto dal
medico.». La Mozzoni si rivolse direttamente ad Umberto I e
gli inviò una lettera, esortandolo ad intervenire contro le
violazioni della pena ma non ricevette risposta. Secondo Galleani,
il re sapeva della tortura inflitta all'anarchico e fu lui stesso ad
autorizzarla; anche Amilcare Cipriani ritenne che il sovrano lo
lasciò impazzire in galera, poiché gli attentatori non
venivano uccisi, anzi «prolungano la loro vita, perché
sentano meglio la morte». Il fascicolo carcerario, conservato
in un magazzino di stoccaggio a Perugia, non è, attualmente,
consultabile al pubblico.
Morte
Su sollecitazione di Bertani e della Mozzoni, al prigioniero, che
nel frattempo aveva contratto una malattia mentale, fu certificata
una perizia psichiatrica condotta dai professori Serafino Biffi e
Augusto Tamburini (gli stessi che lo avevano visitato dopo
l'arresto) e, questa volta, fu dichiarato insano di mente. Nel 1889
fu trasferito, segretamente, presso la Villa medicea
dell'Ambrogiana, il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino.
Le sue condizioni psichiche e fisiche erano ormai irreversibili. Non
poté essere visitato da nessuno, eccetto alcuni privilegiati.
Nel suo ultimo periodo di vita, non diede mai segni di
aggressività e, nonostante l'atroce detenzione, non si era
spenta in lui la passione per la scrittura anche se, qualche volta,
gli venne l'impulso di distruggere i suoi quaderni.
Coloro che lo visitarono e gli domandarono se avesse ripetuto il
gesto, egli rispose di non essersi mai pentito di ciò che
aveva fatto. Gli venne permesso di coltivare un orticello, cosa che
fece per circa tre anni prima di estirpare tutto. Rimase solo una
pianta che venne chiamata Il limone di Sor Giovanni.
Nel 1908 divenne cieco e, dopo aver passato i suoi ultimi due anni
in cecità, si spense nel manicomio all'età di 60 anni
(5 giorni dopo ne avrebbe compiuti 61). Il referto del manicomio di
Montelupo Fiorentino, spedito nello stesso giorno al comune di
Savoia di Lucania, riportò una broncopolmonite come causa del
decesso. La sua morte verrà ricordata da numerosi esponenti
del movimento anarchico, tra cui Luigi Galleani, Luigi Bertoni,
Michele Schirru e Randolfo Vella.