INDICE.
PARTE PRIMA.
La lingua della patria (A un giovinetto)
A quelli che non vorrebbero leggere
A chi dice che la lingua si sa
A chi dice: - Che cosa importa?
A un uomo d'affari
A chi non ci ha attitudine
A chi non ci ha tempo
A chi dice che ci avrà tempo
A un giovane d'ingegno
A chi studia le lingue straniere
A chi dice che basta leggere
A chi dice che s'impara la lingua dall'uso
A una signorina
La lingua e l'amor proprio
DEL PARLARE
Le miserie della loquela
IL SIGNOR Coso
Tra lo scrivere e il parlare c'è di mezzo il mare
Per imparare a parlar bene
La lingua italiana in famiglia
A ciascuno il suo (A una schiera di ragazzi di diverse regioni
d'Italia)
Il malanno dell'affettazione
Fra un parlatore ricercato e uno che parla alla
buona
LA SIGNORA PIESOSPINTO
Vergogna fuor di luogo
Bella musica sonata male
Stretta finale
L'AMÌO ENRÌO
Per imparare i vocaboli
Diversi modi di studiar la lingua
L'aristocratico
Il classificatore
Lo mnemonico
Il miscellaneo
Il vocabolarista
Il modo migliore
IL FALSO MONETARIO
Una corsa nel vocabolario
Una sosta
Rimettiamoci in cammino
In confessionale
Da "Pencolone" a "Piaccicone"
Lanterna magica
Cento pagine di corsa
Amenità del vocabolario
Ultima verba
Per finire
La memoria latente
Il pericolo
IL PROFESSOR PATARACCHI
PARTE SECONDA.
Le lagnanze d'un dialetto (Dialogo fra il dialetto piemontese e la
lingua)
La lingua che non si sa
La lingua che non si parla
La lingua approssimativa
La lingua che abbrevia
Dell'utilità di studiar le definizioni
Il dizionario dei sinonimi
SCRUPOLINO
Apologia del peggiorativo
Apologia del diminutivo
La lingua famigliare
La lingua faceta
Per variare il proprio vocabolario
IL PESCATORE DI PERLE
È errore? Non è errore? (78 errori in 47 righe. -
Come s'ha da fare. - Un coro di francesismi)
Le parole nuove (Pareri d'un senatore, d'un filologo, d'una
signora, d'un ingegnere industriale e d'un bello
spirito)
IL VISCONTE LA NUANCE
Per la difesa della lingua
A chi le dice peggio (Dialogo fra uno scrittore, un avvocato, un
professore di chimica, fisica e matematica, e un cronista di
giornale)
Contro i luoghi comuni (Tirata d'un avvocato)
"Gli ardiri" (Confessioni d'uno scrittore pusillanime a uno senza
paura)
L'alto là della grammatica
Quello che si può imparare dai Toscani
IL DOTTOR RAGANELLA
A traverso i secoli
I trecentisti
Dal Boccaccio a Leonardo
Da Leonardo al Machiavelli
Da Galileo all'Alfieri
Dal Foscolo al Carducci
Conclusione
UN PARLATORE IDEALE
PARTE TERZA.
Se ci possiamo fare uno stile
LO STILETTATORE
A che servono i precetti
Come s'ha da intendere la massima che si deve scrivere come si
parla
Pensarci prima
Con la penna in mano (Scena ideale)
La sfilata dei brutti periodi
CARLO IMBROGLIA
Il periodo perfetto
Il sogno d'uno scrittore falso
Una pagina di musica
Correggi e làsciati correggere
AL MIO LETTORE IDEALE
[1]
PARTE PRIMA.
[2 bianca]
[3]
LA LINGUA DELLA PATRIA.
A un giovinetto.
Tu ami la lingua del tuo paese, non è vero?
L'amiamo tutti. È inseparabilmente congiunto l'amore della
nostra lingua col sentimento d'ammirazione e di gratitudine che ci
lega ai nostri padri per il tesoro immenso di sapienza e di
bellezza ch'essi diedero per mezzo di lei alla famiglia umana, e
che è la gloria dell'Italia, l'onore del nostro nome nel
mondo. L'amiamo perché l'hanno formata, lavorata,
arricchita, trasmessa a noi come un'eredità sacra milioni e
milioni d'esseri del nostro sangue, dei quali, per secoli, ella
espresse il pensiero, e le sue sorti furon le sorti d'Italia, la
sua vita la nostra storia, il suo regno la nostra grandezza.
L'amiamo perché la parola sua ci scaturisce d'in fondo
all'anima insieme con ogni nostro sentimento, si confonde con le
nostre idee fin dalle loro sorgenti più intime, e non
è soltanto forma, suono, colore, ma sostanza del nostro
pensiero. L'amiamo perché è la nostra nutrice [4]
intellettuale, il respiro della mente e dell'animo nostro,
l'espressione di quanto è più intimamente proprio
della nostra indole nazionale, l'immagine più viva e
più fedele e quasi la natura medesima della nostra razza.
L'amiamo perché è il vincolo più saldo della
nostra unità di popolo, l'eco del nostro passato, la voce
del nostro avvenire, verbo non solo, ma essenza dell'anima della
patria.
*
E anche l'amiamo perché è bellissima,
ricchissima, potentissima, varia tanto, come disse uno dei
più grandi cultori suoi, da parere, più che un
idioma, un aggregato d'idiomi; capace di prendere infinite forme e
sembianze, stupendamente pieghevole a tutti gli stili, unica
nell'attitudine a riportare la nobiltà dello stile latino e
del greco, insuperata nell'abbondanza del vocabolario e nella
vivezza del colorito comico, maravigliosa "per l'immensa
facoltà delle metafore e per la fecondità della sua
natura sempre propria a produrre nuovi modi" onde "è tutta
coperta di germogli" come una terra fertilissima in perpetua
primavera; fresca ancora nella maggior parte dei suoi fiori e
delle sue fronde di sette secoli, e armoniosa come nessun'altra al
mondo. "Lodata e ammirata dagli stranieri, e anche invidiata"; ma
noi più l'amiamo per quella bellezza che soltanto a noi si
palesa. Le sue parole hanno per noi un suono che è come un
secondo significato nascosto, sfuggente a ogni espressione; la sua
armonia ci risveglia infiniti ricordi di sensazioni, di luoghi e
di forme umane, di voci e d'accenti conosciuti e cari di viventi e
di morti, [5] e pensieri e immagini e versi di maestri immortali,
diventati nostro spirito e nostro sangue; essa è per noi la
musica dell'affetto, del dolore, della gioia, dell'amor di patria,
piena di forze e di dolcezze misteriose, che non salgono fino alle
nostre labbra, ma vibrano e germinano nel più profondo
dell'anima nostra, come virtù secrete della nostra natura.
Anche per questo, perché è voce del nostro cuore e
lume della nostra coscienza, l'amiamo.
*
Ma che vale amar la propria lingua se non si studia?
Non solo; ma chi non la studia, e quindi la sa poco e male, quasi
come una lingua straniera, la può amar veramente? E
c'è bisogno di dimostrare che, non soltanto per amore, ma
per interesse nostro, per necessità la dobbiamo studiare?
Pensa un poco. In qualunque parte d'Italia tu sia nato, nella
lingua, non nel dialetto, quando piglierai in mano la penna,
dovrai sempre esprimere i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti, e
mille volte anche di viva voce. Mille volte, scrivendo e parlando,
dovrai manifestare italianamente, con la maggior efficacia
possibile, desidèri e bisogni tuoi, trattare i tuoi
interessi, movere l'affetto e la volontà altrui,
raccontare, argomentare, pregare, giustificarti, difenderti; e se
la lingua non conoscerai bene, ti sarà sempre una pena e
una vergogna il non poter dire come vorrai quello che avrai da
dire, il trovarti come a maneggiare uno strumento che ti sfugga
dalle mani, il sentire che dei tuoi sentimenti più profondi
e più gentili e dei tuoi [6] pensieri e delle tue ragioni
migliori una gran parte andrà perduta per gli altri
nell'espressione rozza, manchevole, priva d'evidenza e di forza.
Quello che hai inteso dire: che molti non riescono a farsi strada
nel mondo per mancanza di facoltà comunicativa, non
è vero soltanto per coloro che mancano di naturale
eloquenza; ma anche per quei moltissimi che, eloquenti nel proprio
dialetto, sono invece nel parlar la lingua, non conoscendola,
incerti, confusi, diffidenti di sè, inceppati continuamente
dal timore e dalla coscienza di parlar male. Quante volte nella
vita dipende un grave danno o un grande vantaggio nostro da un
nostro pensiero o sentimento espresso in un modo infelice, onde
non è inteso o è franteso, o significato invece in
una forma che svela tutto l'animo e va dritta alla mente e al
cuore della persona a cui è diretta! Quante cognizioni,
quante idee rimangono in molte menti, per sempre, come materia
informe e senza valore, perché manca a chi le possiede il
possesso della lingua per comunicarle alla mente altrui? Si dice
che l'uomo vale per quello che sa; ma vale anche in gran parte per
come sa dire quello che sa. Più che per il passato, ora che
son sempre più frequenti per tutti il bisogno e le
occasioni di comunicare ad altri le proprie idee, scrivendo per la
stampa, parlando in pubblico, partecipando in diversi modi alla
trattazione d'interessi comuni, la conoscenza della lingua
è necessaria. Non è soltanto un ornamento
intellettuale: è arma nella lotta per la vita, è
forza e libertà dello spirito, è chiave dei cuori e
delle coscienze altrui, è strumento di lavoro e di fortuna.
[7]
*
E dobbiamo studiar la lingua anche per dovere di
cittadini. Le lingue si trasformano col tempo, come ogni cosa si
trasforma: acquistano nuove voci e locuzioni, come gli alberi
mettono nuove foglie; ne pèrdono; di molte che esse
conservano, il significato si muta; si mutano le lingue nella
sostanza e nella struttura: è effetto d'una legge naturale.
Ma con la trasformazione naturale e inevitabile della lingua non
si deve confondere la corruzione, la quale consiste
nell'introdurvi, come si fa dai più, parole e frasi barbare
e non necessarie, idiotismi oziosi, modi dell'uso spurio, forme
che ripugnano all'indole sua. Ora, da questa corruzione è
dovere d'ogni cittadino colto preservare la lingua della patria,
perché, come ciascuno fa la parte sua, sia pure minima,
nella grande opera collettiva, da cui la lingua resulta,
così concorre ciascuno a corromperla, sia pure in parte
infinitesima, parlando e scrivendo male. Non è dovere
soltanto degli scrittori, è di tutti; perché dove
tutti maltrattano e guastan la lingua, finiscono anche gli
scrittori con essere travolti dall'universale barbarie. Nel grande
commercio nazionale della lingua è onestà il non
mettere in giro monete false. È vergogna per un italiano
colto l'esprimere barbaramente pensieri e sentimenti che scrittori
insigni di trenta generazioni espressero in forme italiane pure e
ammirabili. È irragionevole il vantarsi d'amare il proprio
paese quando si concorre a imbastardirne il linguaggio,
considerandolo come un campo che a tutti sia lecito di calpestare
e [8] lordare. Per la ragione stessa che rispettiamo e custodiamo
gelosamente la ricchezza infinita d'opere d'arte, che i nostri
padri ci lasciarono, dobbiamo rispettare e custodire il patrimonio
della lingua, che essi trasmisero e affidarono a noi come una
tradizione gloriosa, e che da noi si ha da tramandare ai nostri
figli, intatto e immaculato quanto lo consentano la legge del
tempo e la forza delle cose. Per amor di patria, dunque, per
sentimento di dignità nazionale e d'onestà
cittadina, per nostro interesse individuale e per vantaggio di
tutti, noi dobbiamo studiare la nostra lingua, quanto ci è
possibile, in qualunque classe sociale ci abbia posto la fortuna,
qualunque sia il nostro ufficio nella società e la natura
dei nostri studi professionali, in qualunque parte d'Italia siam
nati o destinati a vivere; dobbiamo studiarla perché sono
una cosa patria e lingua, pensiero e parola, parola e vita.
*
Ebbene, io scrivo con lo scopo unico di farti
prendere amore a questo studio, provandoti che non è punto
uno studio arido e noioso, come lo credono i più; ma che si
può fare con lo stesso diletto col quale si studia la
pittura e la musica da chi non vi cerca altro che il diletto. Tu
hai già compreso: non scrivo un trattato; non
scenderò a disquisizioni grammaticali minute, nè
salirò a quistioni alte di filologia, chè non
sarebbe affar mio, e non gioverebbe al mio scopo: tratterò
la materia semplicemente e praticamente, nella forma che mi pare
convenga meglio all'età tua. E scrivo non soltanto per [9]
te; ma anche per quella molta gente d'ogni età e
condizione, che potrebbe studiar la lingua con piacere e con
vantaggio, pure senza il sussidio utilissimo della conoscenza del
latino, nè d'altra preparazione letteraria, e che ci si
metterebbe volentieri, se non la trattenesse il pregiudizio comune
che v'occorra uno sforzo enorme della volontà e una
pazienza infinita, come per lo studio d'una scienza astrusa. Per
questo, strada facendo, mi staccherò da te qualche volta,
per rivolgermi ad altri; ma tu mi potrai venire accanto anche
allora, perché non mi scorderò mai che m'ascolti.
Faremo insieme un viaggio d'istruzione, e farò il possibile
perché riesca pure un viaggio di piacere. Può darsi
che in qualche punto tu t'annoi; ma spesso ti soffermerai a
pensare, e di tanto in tanto sorriderai, e ti farai buon sangue.
Non sono un maestro: sono una guida. Alla dottrina che mi manca
supplirò in qualche modo con la dottrina degli altri. Non
imparerai gran cosa da me lungo il viaggio; ma moltissimo poi da
te stesso, e con l'aiuto altrui, se io riuscirò, come
spero, a trasfondere nell'animo tuo un poco del vivo amore e
dell'allegra fede con cui mi metto al lavoro.
A QUELLI CHE NON VORREBBERO LEGGERE.
Vedo parecchi lettori, che dopo avere scorso la
prefazione, fanno l'atto di chiudere il libro.
Un momento, signori.
Chiedo il permesso di rivolgere poche parole a
ciascun di loro.
Poi ritornerò a te, giovinetto.
A chi dice che la lingua si sa.
- Che bisogno c'è di studiar la lingua? La
lingua si sa!
- È un'opinione di molti. Ella la saprà
meglio di molti altri, non ne dubito; ma si lasci dire che, se non
l'ha studiata, non la può sapere, non solo come dovrebbe,
ma neppure quanto i suoi bisogni richiedono. Ella possiede un
materiale di lingua che non è la terza parte di quello che
le sarebbe necessario per parlar bene, un piccolo corredo di
vocaboli e di frasi, che le servono a dire impropriamente e a un
di presso una grande quantità di cose, ciascuna delle quali
può esser detta con una parola o una frase [11] propria,
che dice per l'appunto quella cosa sola. Nel parlare come nello
scrivere, a ogni tratto, ella gira intorno al proprio pensiero,
non lo esprime che a mezzo, ed è costretta ad aggiungere e
a correggere per compiere e chiarire l'espressione che non le
riuscì compiuta e chiara alla prima. E, confessi la
verità: molte cose ella non le dice per non mettersi in un
impaccio. Vuol vedere che io le nomino subito venti, trenta
oggetti, operazioni, qualità o particolari d'oggetti, che a
tutti occorre di rammentare quasi ogni giorno, e che ella designa
sempre con una perifrasi o con una parola sbagliata? Vuol che le
dica lì per lì una filza di modi della lingua viva,
usatissimi in tutta l'Italia, e che non hanno sinonimi, ma che lei
non ha mai usati e che le riuscirebbero nuovi come modi d'un'altra
lingua? Ella conosce il francese? Non molto. Vuole scommettere che
se mi racconta in italiano l'aneddoto più semplice, io, che
non sono un linguista nè un pedante, ci trovo altrettante
improprietà quante ce ne troverebbe un francese s'ella gli
raccontasse l'aneddoto in francese? E mi sostiene che la lingua si
sa? Capisco come non si sappia d'ignorare le cose che non si sa
che esistano. Ma ella somiglia a chi credesse di saper la botanica
perché conosce i legumi che gli portano in tavola e i nomi
dei fiori che coltiva sul terrazzino.
A chi dice: - Che cosa importa?
- È uno studio di parole, insomma; che cosa
importano le parole?
- Che cosa importano le parole? Questa è
grossa, mi perdoni. È come dire: - Che cosa [12] importa
parlare e scrivere con chiarezza e con efficacia? Che cosa importa
l'usare, invece d'una parola o d'una frase propria, un'altra
parola o un'altra frase che, non esprimendo per l'appunto il
nostro pensiero, può farlo frantendere e costringerci
perciò ad esprimerlo un'altra volta in un'altra maniera,
che può esser peggiore della prima? Che cosa importa,
parlando e scrivendo, inciampare ogni momento in una
difficoltà, essere arrestati a ogni passo da un dubbio,
lasciare a mezzo una frase per cercare un vocabolo, doversi
spiegare coi gesti come i bambini e gl'idioti, e qualche volta
urtare, non volendolo, e offendere una persona, non per altro che
per non saper scegliere, nel farle un'osservazione o un rimprovero
o nel dirle una verità sgradita, la parola o la frase che
esprimerebbe lo stesso pensiero senza ferirla nell'amor proprio?
Che cosa importano le parole? Ma infiniti malintesi, risentimenti,
diverbi dolorosi nascono di continuo fra gli uomini da una parola
usata a sproposito, non per mal animo, ma per pura ignoranza o
mancanza di finezza nel sentimento della lingua. Ma mille volte
nella vita il primo giudizio che facciamo dell'ingegno, della
cultura, del grado d'educazione d'una persona, si fonda (e sia
pure a torto sovente, chè questo cresce valore
all'argomento) sopra il suo modo di parlare, e anche su poche
parole che le abbiamo udito dire, sopra una sgrammaticatura, sopra
un'espressione ridicola, sopra l'ignoranza d'una parola comune. Ma
ella stessa, signore, ella che dice che le parole non importano,
quando le occorre di parlar la prima volta con una persona che le
ispira reverenza, e di cui le preme [13] d'acquistarsi la stima e
la simpatia, ella stessa, sempre, anche inconscientemente,
s'ingegna di parlar meglio del solito, scegliendo i vocaboli con
cura e filando i periodi con garbo! O come si può dire: -
Che cosa importano le parole?
A un uomo d'affari.
- Quanto a me, consentirà che non ho bisogno
di studiar l'italiano. Sono un uomo d'affari!
- Mi scusi. È forse il dialetto la lingua
ufficiale degli affari? E in ogni modo, non pare a lei che un uomo
d'affari che ha studiato e parla e scrive correttamente e
facilmente la lingua, valga, a parità d'ingegno e
d'esperienza, qualche cosa di più d'un altro, il quale la
scriva come un barbaro e la balbetti come un ragazzo? Ma gli
uomini d'affari hanno soventissime volte da esporre, da
dimostrare, da discutere gl'interessi propri, con la penna o di
viva voce, a quattr'occhi e in riunioni private o pubbliche, in
lingua italiana. Ma se c'è gente al mondo a cui sia utile,
necessaria nell'espressione del proprio pensiero la
lucidità, la brevità, l'esattezza del linguaggio,
son loro, che hanno molte cose da dire e importanti e non facili,
e le hanno da dire alla lesta, a gente che non ha tempo da
perdere; cose nelle quali il non farsi bene intendere produce ben
più gravi inconvenienti che nei discorsi ordinari. Ma gli
uomini d'affari vivono pure fuor del giro dei propri interessi,
fra amici d'altre professioni, con signore, con artisti, con gente
di varia cultura, in mezzo ai quali portano il loro amor proprio,
non solo d'uomini d'affari, ma d'uomini di mondo, l'ambizione di
contar [14] qualche cosa anche fuor delle faccende e dei numeri,
il desiderio di farsi ascoltare, di divertire, di piacere, e se
non altro la cura di non far ridere parlando rozzamente e
lasciandosi scappare strafalcioni. E in fine, signor uomo
d'affari, vale per lei, come per tutti, questa ragione: che la
lingua nazionale, in certe classi della società, si deve
imparare non soltanto per sè, ma per i propri figliuoli; i
quali ad impararla, almeno fin che son piccoli, debbono essere
aiutati dal padre e dalla madre. Che figura farebbe un padre che
dicesse al suo figliuolo: - Caro mio, tu hai dieci anni; in
materia di lingua io non son più in grado d'insegnarti
nulla perché.... sono un uomo d'affari!
A chi non ci ha attitudine.
- Lo credo anch'io una buona cosa; ma allo studio
della lingua non ci ho attitudine.
- Oh bella! Che risponderebbe lei a chi le dicesse: -
Non son fatto bene, son di complessione debole: per questo non
faccio ginnastica? - Ma il non aver attitudine allo studio della
lingua è una ragione di più per istudiarla. Chi non
è dotato di buona memoria, e non ha facilità
d'esprimersi, né un vivo sentimento naturale della lingua,
deve e può supplire alla deficienza di queste
qualità con lo studio. Un'attitudine particolare ci vuole
per diventare scrittore o linguista; ma per imparar la lingua
quanto lo richiedono il dovere, l'interesse e la dignità di
qualunque cittadino colto, basta la volontà. Ci si provi un
poco. Ella non immagina quanto possa acquistare in materia di
lingua anche chi [15] non ci ha disposizione di natura, in un
periodo di tempo anche breve, e senza far grande fatica. Mi
dirà: - Non ci avendo disposizione, non ci ho amore, e
senza questo non si riesce a nulla. - Ma l'amore viene a poco a
poco, man mano che dello studio si riconoscono i profitti, come
viene all'erborizzatore esordiente, che, dopo aver classificato
nella sua mente un certo numero di piante, prosegue con più
alacrità, per il piacere d'accrescere il suo patrimonio di
cognizioni, e perché il lavoro gli riesce sempre più
facile. Può ella affermare che se stèsse chiusa un
mese fra quattro pareti senz'altri libri che di lingua, non
prenderebbe amore a questo studio quanto uno che ci avesse
disposizione? No, non è vero? E ci prenderebbe amore per il
solo fatto che sarebbe costretta, per cacciar la noia, a vincere
la prima riluttanza, insistendo su quella materia col pensiero,
come non ha fatto mai. Provi dunque a insistervi col pensiero una
volta, a fare una volta di proposito ciò che farebbe in
quel caso per forza, e vedrà che il difficile non sta che
nel principiare. E poi: - Non ci ho attitudine! - E come lo sa? La
mente umana è piena di sorprese; certe attitudini vi stanno
nascoste; scavi un po'; anche nel cervello, chi cerca trova.
A chi non ci ha tempo.
- Ci ho pensato molte volte, mi ci metterei; ma ho
altro da fare, mi manca il tempo.
- Non le può mancare. Non c'è altra
materia che si presti meglio a uno studio frammentario, fatto nei
ritagli di tempo libero, e anche nei momenti di riposo; a uno
studio [16] somigliante a quelle occupazioni fra intellettuali e
meccaniche, a cui si dànno molti per isvago. Se non
chiuderà il mio libro alle prime pagine, vedrà che
può studiare la lingua senza togliere un'ora alle sue
faccende quotidiane, anzi facendo servire queste a quello scopo,
imparando qualche cosa a ogni proposito, raccogliendo le
cognizioni quasi senza far deviare il suo pensiero dall'andamento
abituale. Ella mi dirà: - Ma ho mille pensieri, mille cure;
quando ci avrei tempo, non ci ho testa; per codesto studio ci vuol
l'animo tranquillo. - Ma appunto, ella ci troverà quiete e
sollievo, perché non c'è altro studio che giovi
quanto questo a distrarci dalle passioni che ci turbano, che
occupi e svaghi la mente, come questo fa, con una serie continua
di curiosità nascenti l'una dall'altra, contentando ad un
tempo l'animo con molte piccole conquiste quotidiane determinate,
con infinite piccole compiacenze prodotte dal continuo ripetersi
delle occasioni in cui si può spendere quello che
s'è guadagnato. E non mi dica neppure che è uno
studio per i giovani, ai quali è stimolo l'idea di
ricavarne un vantaggio per l'avvenire, non per gli uomini maturi,
a cui quello stimolo manca. No; bisogna pure che ci si trovi un
piacere indipendente da ogni concetto d'utilità futura,
poiché per tanti uomini, anche non letterati e scrittori,
è uno studio amoroso e costante, un conforto nella
vecchiaia e nella solitudine, l'ultima forma d'attività
della loro mente, come è per altri lo studio della natura.
Col quale, infatti, ha questo di comune lo studio della lingua:
che è infinitamente vario, e che i suoi confini
s'allontanano dinanzi a chi vi procede.
[17]
A chi dice che ci avrà tempo.
A lei, signorino, che mi dice: - Ci avrò
tempo! - darei volentieri una tiratina d'orecchio. Se c'è
studio che un ragazzo non debba rimandare a poi, è questo
della lingua. Non t'hai per male ch'io paragoni la tua memoria a
un foglio di carta asciugante? Vedi, quando questo è fresco
e pulito, come vi s'imprimono nette tutte le parole dello scritto
su cui lo premi, e vedi poi, quando è un pezzo che l'usi ed
è già nero in gran parte, come le parole vi
s'imprimono confuse, o non vi restano, o se ne perde l'impressione
in quella dello scritto che già lo ricopre. La tua bella
età è quella in cui la mente vergine e chiara
è più atta ad appropriarsi il materiale della
lingua, non soltanto per virtù della memoria ancor fresca,
ma anche perché, essendo tu spettatore più che
attore della vita, dalle parole non ti distraggono ancora le cose
così fortemente come faranno più tardi, quando avrai
mille cure, faccende e pensieri. Per questo tu hai inteso dire
mille volte che i ragazzi imparano le lingue più facilmente
degli uomini. Via via che s'allargherà il campo e
crescerà la difficoltà dei tuoi studi, ti
mancherà sempre più il tempo di dedicarti alla
lingua e dovrai fare uno sforzo sempre maggiore per impararla. E
non pensare che sia uno studio puramente letterario, che a te,
chiamato a questa o a quella scienza, non possa giovare. È
un errore madornale. Nel campo di qualunque scienza il possesso
della lingua, la facoltà di esprimersi con chiarezza e con
proprietà è parte della scienza [18] stessa. Vedi
che differenza c'è nel profitto che fanno fare ai giovani
gl'insegnanti che parlano bene e quelli che parlano male. E non
credere d'imparar la lingua con quel tanto che te ne insegnano: la
scuola non ti può che mettere sulla via d'impararla: al
modo particolare che ha ciascun di noi di sentire e di pensare,
noi soli possiamo trovar la lingua che lo esprima. E poi, che
logica è questa? Dici che a studiar la lingua ci hai tempo,
ossia, che è uno studio che non preme; ma d'ogni sproposito
o anche piccolo errore di lingua che sfugga a chi che sia, se tu
lo avverti, ne fai un carnevale. Non ti dar la zappa sui piedi,
dunque; mettiti all'opera; per qualunque via tu abbia da fare il
tuo cammino nel mondo, benedirai le fatiche che avrai dedicate a
questo studio nei tuoi primi anni.
A un giovane d'ingegno.
- Lo studio della lingua è per le teste
piccole, che, non avendo idee, hanno bisogno d'imparar parole....
- Lo crede davvero? Veda come andiamo d'accordo. Io
penso l'opposto. Credo che le teste piccole abbian meno bisogno di
studiar la lingua che le teste grandi, perché, avendo poche
idee, basta a loro un ristretto materiale di lingua ad esprimerle;
perché, pensando meno profondamente e meno sottilmente, non
occorre loro grande efficacia e finezza di linguaggio per rendere
il proprio pensiero. Ma chi ha vero ingegno, se non sa la lingua
bene, si trova tanto più impacciato a farsi valere quanto
ha più ingegno. Come non lo comprende? Non è
verità evidente [19] che deve posseder la lingua meglio
degli altri chi ha idee originali e sentimenti vivi e delicati da
esprimere, chi sa, intuisce e ricorda molte cose, e in ogni cosa
vede particolari che la maggior parte non vedono, chi dalla forza
del proprio ingegno e del proprio sentimento è portato
più degli altri ad analizzare, ad argomentare, a
raccontare, a descrivere, e nel descrivere, a scolpire e a
colorire le proprie immagini? E tanto più se il suo ingegno
è di quella natura particolare che si chiama spirito,
inclinato a coglier delle cose il lato ridicolo, e le relazioni
riposte di affinità e di contrasto comico intercedenti fra
di esse, e a giocare coi significati diretti e traslati dei
vocaboli, tanto più avrà bisogno di maneggiar con
destrezza la lingua, che appunto nel campo dello scherzo è
ricchissima. Se si paragona la lingua al danaro, si può
dire che chi non ha ingegno è rispetto ad essa come un uomo
quieto e assestato, senza vanità e senza desidèri,
che campa con pochi soldi, e chi ha molto ingegno è un uomo
pien di vita e d'ambizione, di raffinatezze aristocratiche e di
voglie giovanili, che ha bisogno di spendere e di spandere. Studi
dunque la lingua anche lei, che è un gran signore
intellettuale, per non ridursi poi a campare come un pitocco.
A chi studia le lingue straniere.
Mi dice un giovinetto, con accento d'alterezza: - Io
studio le lingue straniere. - Vuoi dire con questo che ti preme
più di saper le lingue straniere che la tua? Non me ne
maraviglierei più che tanto. C'è degli italiani [20]
che, volendo fare un viaggio di piacere e d'istruzione, vanno
prima a Parigi che a Roma; ce n'è altri, i quali dicono
sorridendo, con l'aria di darsi un vanto, che della più
parte dei propri pensieri s'affaccia loro alla mente l'espressione
francese o inglese prima che l'italiana; e conobbi anche un tale,
che a un esame di geografia, dopo aver detto benissimo i confini
della Persia, mise Firenze a settentrione di Bologna. No? Tu non
sei di quel numero? E tanto meglio. Ma non sarai mai abbastanza
persuaso di questa verità: che non si studia con amore, che
non s'impara bene nessuna lingua straniera, se non s'è
prima studiato con amore e imparato bene la propria;
poiché, se imparare una lingua straniera non è altro
che imparare a tradurre in questa i nostri pensieri da quella che
usualmente parliamo, come si può fare una buona traduzione
d'un cattivo testo? Come riuscire a dir con esattezza e con garbo
in un'altra lingua quelle cose che non sappiamo dire se non
confusamente e senza garbo nella nostra? E in che maniera
intendere e sentire le qualità degli scrittori stranieri,
se queste, in qualunque lingua, non s'intendono e non si sentono
se non paragonando le parole, le frasi, le forme a quelle che loro
corrispondono nella lingua che ci è famigliare? E ti
seguirà anche questo: che mentre non imparerai che male
altre lingue, ti si corromperà e confonderà nella
mente quel poco che sai della tua, perché, essendo poco e
mal fermo, non reggerà il materiale straniero che gli
verserai sopra, e ti troverai così ad aver acquistato varie
mezze lingue, senza possederne una intera; sarai come chi a un
vestito tutto [21] buchi ne sovrapponga un altro pieno di strappi,
che riman mezzo nudo a ogni modo. Dammi retta: fatti prima un buon
vestito italiano.
A chi dice che basta leggere.
- La lingua - dicon molti - s'impara leggendo.
Lo crede davvero, signor mio? Ma se anche ella non
legga che libri, dai quali la lingua si possa imparare, le dico
che ella vive in una grande illusione, salvo che li legga
principalmente con quello scopo, ossia badando più alla
forma che alla sostanza; cosa ch'ella non fa, senza dubbio, o che
può far tanto meno quanto più la sostanza dei libri
l'attrae e la diverte. Della ricchezza e della proprietà
della lingua, leggendo, ella sentirà qua e là, e
complessivamente, l'effetto; ma provi, finita la lettura d'un
libro, a cercar quante parole e frasi le sian rimaste nella mente,
in maniera da diventar sue, e da venirle poi sulla bocca o alla
penna nel parlare o nello scrivere, e vedrà che poco o
nulla le sarà rimasto. La memoria della lingua non si
rafforza che con l'esercizio, e nella lettura essa non si
esercita. S'impara la lingua anche leggendo, ma leggendo pochi
libri molte volte e attentamente, non già molti una volta
sola e di corsa, come dai più si suol fare; e l'avrà
esperimentato ella pure non scoprendo che alla terza o alla quarta
lettura, in libri scritti bene, una quantità di bellezze di
lingua, d'effetti particolari che fanno certi vocaboli collocati
in un certo punto, di ragioni profonde e sottili per cui certe
espressioni, e non cert'altre, furono usate. E se anche [22]
leggendo soltanto per ispasso, s'imparasse molta lingua, come si
potrebbe imparare la nomenclatura d'innumerevoli cose, di cui solo
una parte minima, in un certo numero di libri, può
ritrovarsi? Come apprendere la lingua viva e famigliare che, fuor
d'un certo genere di letteratura, manca nei libri quasi affatto? E
come acquistare l'agilità e la prontezza della mente che
occorrono per maneggiare il materiale linguistico e farlo servire
con garbo al pensiero? Tenga per fermo che leggendo libri per
vent'anni non imparerà tanta lingua quanto studiandola di
proposito un anno solo. Legga e rilegga senza studiare, e
verserà dell'acqua in un crivello.
A chi dice che s'impara la lingua dall'uso.
Qui sento un coro d'italiani settentrionali che
esclamano: - Studiare la lingua! Ma la lingua s'impara dall'uso!
Da qual uso l'imparate voi, cari signori? In casa voi
parlate quasi tutti e fuor di casa quasi sempre il vostro
dialetto, e quando non parlate questo, parlate e sentite parlare
un italiano povero e scorretto, pieno zeppo d'idiotismi e di
francesismi. In materia di lingua s'usa fra noi non toscani,
perché parliamo tutti male, una grande tolleranza
reciproca, per effetto della quale nessuno studia di correggersi,
e ognuno sèguita per tutta la vita a ripetere gli stessi
spropositi, senz'arricchire il proprio linguaggio di dieci parole
in un anno. Anche quei pochi che hanno studiato la lingua e che,
scrivendo, sono corretti e sfoggiano una certa ricchezza di
vocaboli e di frasi, quando parlano, parlano poco meno [23]
scorrettamente e poveramente degli altri, appunto perché
della lingua non hanno l'uso, perché delle frasi e dei
vocaboli, che cercano e trovano nello scrivere, non vien loro alla
bocca, non avendoli essi famigliari, che una minima parte. Come si
può dunque imparare la buona lingua da un uso cattivo? Come
imparare centinaia e centinaia di voci e locuzioni che intorno a
noi nessuno dice mai? V'è mai occorso di sentir degli
stranieri che credono d'aver imparato l'italiano dall'uso in dieci
anni di soggiorno in una città dell'Alta Italia? V'avranno
fatto scappare. Dall'uso, fra noi, si può imparare a parlar
con scioltezza; ma con proprietà, con varietà, con
colorito, con grazia! Corbellerie. Perdonatemi: m'è
scappata dalla penna.
A una signorina.
O signorina, anche lei? Ma come? Metterà tanta
cura ad abbigliare la sua graziosa persona e non ne vorrà
metter punto a vestire i suoi pensieri? Porrà tanto studio
a camminare con grazia e nessun impegno a parlar con garbo?
Cercherà con tant'arte di modular dolcemente la sua voce e
non le importerà di pronunziare con dolcezza parole spurie
e frasi barbare? E le parrà che non abbia a studiar la
lingua la donna, che per ragione di natura e per gli uffici a cui
è destinata, di madre, di consigliera, d'educatrice, di
consolatrice della famiglia, avrà tanti sentimenti amorosi
e pensieri gentili da esprimere, tante cose da dire, delle
più difficili a dire e a sentire, e che può e sa
dire essa sola, e che da lei sola si vogliono udire! E [24] come
farà, se non avrà studiato la sua lingua, a compiere
con la voce e con la penna questi uffici, per i quali occorre
conoscer della lingua tutte le grazie e le sfumature, possedere
tutte quelle parole e locuzioni proprie, morbide, agili, sottili,
che entrano quasi inavvertite nella coscienza e nel cuore,
persuadono e commovono, accarezzano e consolano? Non è uno
studio per la donna? Ma direi che è il primo studio che
ella ha da fare, poiché la madre è la prima maestra
dei suoi figliuoli, e perché in ogni società colta
sono, e non possono esser che le donne quelle che insegnano ed
impongono nella conversazione la dignità del linguaggio, la
finezza dello scherzo, l'urbanità della contraddizione. E
come si può far questo non conoscendo la lingua? Ah, ella
scuote il capo, con un sorrisetto: ho capito. È bella, ed
ha vanità femminea, non ambizione letteraria, e pensa che
un viso come il suo basterà, senza il sussidio del
vocabolario e della grammatica, ad attirarle da per tutto
l'ammirazione e l'ossequio. Ma s'inganna, signorina. Se sapesse
che peggior effetto fa una parola brutta sur una bocca bella, e
com'è più ridicola la sgrammaticatura detta con un
sorriso vanitoso! E se sentisse con che barbara compiacenza le
belle amiche commentano e portano in giro il piccolo sproposito
dell'amica bella! Andiamo, mi confessi che ha torto, e mi conforti
anche lei, almeno per un tratto di strada, della sua cara
compagnia.
LA LINGUA E L'AMOR PROPRIO.
Ritorno a te, giovinetto.
Hai visto che cosa s'ha da rispondere a chi dice: -
Che importano le parole? - A quella risposta debbo fare
un'aggiunta, che ti persuaderà anche meglio della
necessità di studiare la lingua.
In tutti i paesi del mondo sono argomento di ridicolo
gli errori di lingua. Non è qui il caso di cercare da quale
intima sorgente della ragione e del sentimento questo ridicolo
nasca. Si ride degli errori dei bambini, piacevolmente,
perché nei bambini è naturale l'errore; si ride
degli errori della gente del popolo, con un senso di compatimento,
perché derivano da un'ignoranza scusabile; si ride degli
spropositi di chi appartiene alle classi colte, facendone le
beffe, perché sono effetto d'un'ignoranza colpevole. E
avrai osservato che si ride involontariamente, spesso a nostro
malgrado, anche degli errori delle persone che amiamo e
rispettiamo. È quasi un istinto irresistibile, come al
veder fare certe smorfie a chi mangia e certi traballoni a chi
cammina.
[26]
Ora, com'è naturale in tutti questo
sentimento, è anche naturale che tutti, chi più, chi
meno, si vergognino e si stizziscano di suscitarlo. Benchè
ancora giovinetto, tu avrai visto più volte anche uomini
che non hanno alcuna pretensione a letterati, e che tollerano ogni
specie di scherzi, risentirsi al veder ridere d'una parola o d'una
frase sbagliata che sia loro sfuggita di bocca. Esiste veramente
nell'uomo un particolare amor proprio, che si potrebbe definire
l'amor proprio della parola, e che è singolarmente delicato
e irritabile. Non ti lasciar ingannare da chi lo nega e dice di
ridersene. Che cosa importano le parole? Ma l'importanza loro, che
tanta gente finge di disconoscere, è dimostrata di continuo
e da per tutto da infiniti segni. Domanda a quanti bazzicano
caffè e trattorie da molti anni, quante volte hanno inteso
a un tavolino accanto, anche fra gente di professioni lontanissime
dalla letteratura, discussioni accanite e interminabili
sull'italianità o sul significato d'un vocabolo. Vedi nei
giornali che pubblicano corrispondenze dei piccoli comuni, quante
volte i corrispondenti, polemizzando, si scherniscono e si
dànno a vicenda dell'asino per uno svarione di lingua o di
sintassi. Interroga qualunque scrittore noto, che non abbia
reputazione di strapazzar la grammatica, e ti dirà quante
lettere di sconosciuti riceve, che invocano il suo giudizio sulla
legittimità d'una voce o d'una locuzione, sulla quale
è corsa una scommessa. Fatti dire da maestri e da
professori quante lettere ricevano da padri e da madri, che
rivendicano la correttezza d'una parola o d'una frase segnata come
errore in un componimento del loro figliuolo, ragionando, citando
[27] esempi e accalorandosi come linguisti offesi nell'orgoglio. E
quanti battibecchi seguono negli uffici di tutte le
amministrazioni, per piccole quistioni di lingua, fra redattori di
minute risentiti d'un appunto linguistico e superiori feriti nel
sentimento della propria autorità letteraria! E in quante
assemblee un discorso per ogni verso sensato fallisce allo scopo
per una frase sgrammaticata che fa ridere! E quanti sono gli
uomini politici, anche illustri, al cui nome è rimasto
appiccicato per tutta la vita, come un'insegna derisoria, uno
sproposito di lingua, sfuggito loro una volta più per
sbadataggine che per ignoranza! Vedi se importano o no le parole,
e per l'effetto che producono negli altri gli errori, e per il
risentimento e le amarezze che da quegli effetti vengono a noi, e
se sia da darsi retta a chi sconsiglia i giovani dallo studio
della lingua, come da un perditempo.
E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica
che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice in
italiano, prova a dir lì per lì ch'egli ha fatto un
errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che salta su,
smentendo subito sè stesso, e ti rimbecca: - Come? Vuoi
fare il maestro a me?... Ma studia prima la lingua!
E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso,
chiudo la triplice prefazione, e mi metto in cammino.
[28]
DEL PARLARE.
Le miserie della loquela.
La prima cosa che ti devi proporre, mettendoti a
studiare la lingua, è d'imparare a parlarla correttamente e
facilmente.
A darti fermezza in questo proposito gioverà
più che altro la consuetudine, che tu devi prendere,
d'osservare la scorrettezza, la rozzezza, lo stento, le infinite
miserie e ridicolaggini del modo di parlare dei più, non
già nelle classi sociali inferiori, ma in quella medesima a
cui tu appartieni.
Troverai molti che, parlando italiano, perdono ogni
vivacità dello spirito, come se cambiassero natura; che ti
fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni
parola costasse uno scudo, e par che le posino l'una dopo l'altra
con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi; che per
raccontar la cosa più semplice e più futile fanno
una lunga e lenta tiritera, che metterebbe alla prova la pazienza
d'un santo.
Conoscerai altri che, per parlar corretto, si [29]
rifanno ogni momento indietro a rettificar una parola o a
correggere una frase, ti presentano due volte un periodo, prima in
brutta copia e poi messo a pulito, ti fanno assistere a tutta la
faticosa fabbricazione del proprio discorso, pezzo per pezzo e
giuntura per giuntura, e quando credi che l'abbian finito,
v'aggiungono ancora qualche commento e gli dànno qualche
ritocco; dopo di che, affaticati dal lavoro fatto, non hanno
più capo ad ascoltare la tua risposta.
Sentirai parecchi, che metton fuori ogni tanto una
parola o una frase francese, o del dialetto, o del loro gergo
professionale, con l'aria di non avvedersene, o di dirla per dar
varietà capricciosa o colorito comico al discorso; ma in
realtà perché non sanno l'espressione corrispondente
italiana; e screziano così il loro italiano per modo, che
non si sa ben dire che lingua parlino, e par di sentire di quei
sonatori ambulanti che suonano tre strumenti, tutti e tre
malamente, in una volta sola.
Udirai certi tali, che cercano di nascondere gli
spropositi come i prestigiatori fanno sparire le pallottole,
assordandoti con un precipizio di parole; che per distrarre la tua
attenzione dalla loro grammatica alzano la voce o dànno in
risate fuor di proposito, e si mangiano a mezzo le forme verbali
di cui non sono sicuri, e confondono le frasi dubbie con
l'accompagnamento d'una specie di rantolo catarrale, somigliante
al rugliare che fanno i cani tra l'uno e l'altro latrato.
Ma chi può dire tutte le industrie puerili e
ridicole a cui si ricorre per salvare il decoro nella disperata
lotta con la lingua italiana? Gli uni si riducono a parlare
più coi gesti e con gli [30] ammicchi che con le parole;
gli altri vanno avanti a furia d'intercalari e di luoghi comuni,
coi quali coprono tutti gli sbrani e tappano tutti i buchi del
discorso; questi, per prender tempo a cercare il vocabolo,
sciorinano dei ma che non hanno più fine, o piantano dei
però enormi, su cui s'appoggiano come sopra un bastone;
quelli, per poter raccogliere il periodo che scappa da tutte le
parti, fanno lunghe pause, anche nel dire una bazzecola, fingendo
un lavorìo profondo del pensiero, o una distrazione
improvvisa, o una svogliatezza di gente annoiata, che dica tanto
per dire, senza badare a quello che dice. Quante arti, quante
fatiche e figure ridicole per iscansare il ridicolo di non saper
parlare la propria lingua!
Ma per compier la mostra bisogna ricordare anche
quelli che non parlano; quelli che nelle compagnie dove si parla
italiano non vanno, o ci vanno come a un castigo, e ci stanno come
sulle spine, senza rifiatare, o parlando il meno possibile, anche
con danno proprio, e a costo di parere imbronciati o villani;
quelli che, per la stessa ragione, pigliano in uggia i conoscenti,
e anche gli amici italianeggianti, e da questi si fanno prendere
in uggia alla volta loro, burlandoli come d'una ostentazione di
saccenti e d'aristocratici; quelli che vanno più oltre, che
non nascondono la propria antipatia, dandole un altro colore,
verso tutti quegli italiani d'altre regioni, coi quali, per farsi
intendere, dovendo trattar con loro per forza, sono costretti a
parlare italiano. E c'è ancora la famiglia numerosissima
degli screanzati incorreggibili, che in qualunque compagnia si
trovino, pure sapendo di non esser capiti, s'ostinano
sfacciatamente a parlare il [31] proprio dialetto, a sventolare la
bandiera della propria ignoranza, sulla quale hanno scritto: - Chi
mi capisce, bene; chi non mi capisce, s'accomodi -; somiglianti a
quegli ubbriachi allucinati, che tiran via a ragionar coi
pilastri.
Ma c'è nella gran famiglia dei poveri della
parola un personaggio, che tu devi conoscere più
intimamente degli altri, perché rappresenta una tendenza
pericolosa e comunissima, dalla quale più che da ogni altra
ti hai da guardare. Egli sarà il primo d'una serie di
personaggi singolari, che io conobbi, e che ti farò
conoscere man mano, per ammaestramento e per ricreazione, nel
corso del viaggio che faremo insieme.
Ti presento per il primo il signor Coso.
[32]
IL SIGNOR COSO.
Le sue qualità più notevoli erano un
profondo disprezzo per l'arte della parola e un grande amore per
la pesca con l'amo; il quale amore derivava in parte da quel
disprezzo, perché diceva egli stesso che spessissimo andava
a pescare non per altro che per isfuggire alla noia di barattar
del fiato col prossimo.
Quando lo conobbi non era più giovane; ma
anche da giovane dicevano i suoi vecchi amici che era sempre stato
restìo al parlare come un tirchio allo spendere. Non che
fosse propriamente taciturno: alle conversazioni degli amici
prendeva parte; ma accennava ogni suo pensiero con poche sillabe,
in modo informe, e masticava il resto con voci inarticolate, e con
un atto del capo e un cenno trascurato della mano invitava
l'uditore a fare in vece sua il molesto lavoro di compiere
l'espressione dell'idea ch'egli aveva abbozzata. Con un come si
dice? si liberava dalla seccatura di dir la cosa; lasciava a mezzo
ogni periodo con un insomma, tu capisci; e con la parola coso
faceva di meno di mille vocaboli. [33] Per questo gli avevan dato
il soprannome di Coso. - "Sai, questa mattina ho veduto coso,
laggiù.... Dice che per quell'affare.... tu sai.... niente;
salvo il caso.... ma neanche nel caso.... Tu m'intendi -". Era
questa la forma tipica del suo discorso. - Tu sai.... coso -
diceva d'un amico ammalato, e non si curava neppure di dir che era
morto: indicava con un gesto che se n'era andato. Fu lui che
annunziò agli amici l'elezione del nuovo Papa, il cardinale
Pecci. - Eletto - disse. - Chi hanno eletto? - Coso - rispose; e
non pronunziò il nome che alla seconda domanda.
Era in parte affettazione, come si dice che usasse
fra certi nobili francesi del secondo Impero; ma era più
che altro una grande pigrizia, venuta a poco a poco a tal segno,
che gli dava molestia anche il parlare degli altri. Quando sentiva
un amico esprimere, discutendo, il proprio pensiero con un periodo
filato e lunghetto, lo guardava con l'aria di deriderlo per quella
fatica inutile ch'egli faceva, come avrebbe guardato uno che si
stroncasse a sollevare un baule per la curiosità di saper
quanto pesa. Quando il racconto di qualcuno si prolungava oltre un
minuto, non faceva complimenti: chiudeva gli occhi e fingeva di
dormire. Dal tempo che andava a scuola, dove a nessun professore
era mai riuscito di cavargli più di quindici righe su
qualunque soggetto di componimento, egli era venuto restringendo
sempre più il suo linguaggio, nel quale ai vocaboli si
sostituivano i gesti, e alla pronunzia scolpita un barbugliamento
d'addormentato. Egli aveva un gesto per dire: - Non ti fidar del
tale: è un briccone; - un gesto per annunziare che una [34]
commedia aveva fatto fiasco, che un certo affare non premeva, che
d'un altro affare non si voleva impicciare; e tutte le gradazioni
dello stupore, della maraviglia, del dispiacere esprimeva con una
sola esclamazione, diversamente intonata: - Oh diavolo! - E
s'aveva un bel burlarlo di questa sua stranezza: egli scrollava le
spalle e rispondeva: - Chiacchieroni! - Una volta sola, ch'io mi
ricordi, egli fece il miracolo di esprimere senza reticenze,
benchè in forma laconica, un suo pensiero filosofico, per
dar ragione della sua maniera di parlare. Udendo ripetere una
sentenza del Michelet: - Nous mangeons immensément trop; -
da che derivano alla società, secondo lo scrittore
francese, infiniti mali, egli disse che a quella si doveva
sostituire un'altra sentenza: - Noi parliamo troppo -
poiché di quasi tutti i nostri guai la vera cagione era
questa.
Ma non si può credere fino a che punto
arrivasse nel far economia di sillabe: fino a non farsi capire dal
fiaccheraio, al quale, invece di: - Alla Stazione di Porta Nuova -
diceva: - Alla Nuova -; fino a non pronunziar mai che una delle
due parole di cui si componesse il titolo del giornale, ch'egli
chiedeva al rivenditore; fino a bandire dal suo vocabolario tutti
i superlativi e gli avverbi lunghi; tanto che a sentirgli dire un
giorno: irremissibilmente e un'altra volta: mortificatissimo, lo
guardammo tutti stupiti. Da ultimo, poi, avendo inteso da un amico
toscano un verbo non prima conosciuto: cosare, se n'era
impadronito con la gioia d'un matematico che scopre una nuova
formola algebrica, e con quello s'alleggeriva anche più la
fatica [35] ingrata del parlare. Non diceva più al
cameriere della trattoria che levasse l'olio dal fiasco; ma: -
Cosami quel fiasco -, e così, cosare un plico, per mettervi
il suggello, e a un amico, indicandogli un uscio fresco di
vernice: - Bada, che ti cosi l'abito. - Se avesse trovato nella
lingua altre dieci parole come cosa e cosare, non gli sarebbe
occorso altro vocabolario, e ne avrebbe avuto d'avanzo.
poiché pensiero e parola nascono nella mente
gemelli, chi si disavvezza dall'esprimere il proprio pensiero, si
disavvezza a poco a poco anche dal pensare. Questo era
seguìto a lui: le facoltà di pensare e di parlare
gli s'erano arrugginite ad un tempo. Egli pensava a pensieri
indeterminati, monchi e sconnessi come il suo linguaggio, e
dall'inerzia del cervello gli era venuta una grande indifferenza
per ogni cosa. È questo l'ultimo e peggior danno nel quale
incorrono tutti coloro che per pigrizia rifuggono usualmente dalla
fatica di tradurre il proprio pensiero in parole. Negli ultimi
suoi anni Coso non leggeva nemmeno più i giornali: si
contentava di raccoglier le notizie politiche al caffè o
per la strada, e quando gliele davano con troppi particolari,
tagliava la parola in bocca all'amico, dicendogli: - Insomma,
hanno cosato il bilancio - oppure: - alle corte, avremo un
ministero Coso -, e aggiungeva un gesto che significava: - Basta,
basta; ho capito; oh che fastidio!
Coso abbandonò questa valle di lacrime e di
parole una diecina d'anni fa, in una città dell'Italia
meridionale, dove era andato per ragion d'impiego. E tal
morì qual visse, se è vero quanto si riseppe da un
suo nipote, che [36] l'assistette negli ultimi giorni: un capo
armonico, a dir la verità, che potrebbe aver inventato una
fiaba. Io la ripeto com'egli la disse, affermandoci che non ci
metteva nulla di suo.
Presentendo la propria fine, il buon Coso, che aveva
avuto sempre religione, fece chiamare il prete. A un certo punto
il nipote, che stava all'uscio, sentì il prete dire con
voce grave, in cui la pietà velava il rimprovero: - No,
caro signore, io non posso acconsentire a una domanda fatta in
codesto modo.
Il malato gli aveva espresso il suo desiderio con la
sua parola solita: il coso.
Pensando ch'egli volesse qualche oggetto, un ricordo
caro di famiglia, da rivedere l'ultima volta, il sacerdote aveva
guardato intorno per la camera. Poi, da un atto dell'infermo
avendo compreso, s'era risentito. Il coso era il Viatico.
L'infermo s'espresse meglio, e fu contentato. Ma per
poco il suo malaugurato vezzo di cosare non gli costò la
salute dell'anima.
Certo quelli che si lasciano andare fino a un tal
segno son rari. Ma quanti non sono quelli che parlano presso a
poco al modo di Coso; che, per infingardaggine intellettuale o per
disprezzo dell'arte volgare del discorso, non dànno del
proprio pensiero che briciole e sgoccioli, non mettono nella
conversazione che la materia bruta del loro concetto, lasciando
agli altri la cura di lavorarla, come una faccenda indegna di
loro? Il mondo n'è pieno. Ma se l'uomo si può
definire "l'animale parlante", codesti non sono uomini.... sono
cosi.
[37]
TRA LO SCRIVERE E IL PARLARE C'È DI MEZZO IL MARE.
Per dimostrarti che a parlar bene non basta studiar
la lingua, ma occorre fare uno studio e un esercizio particolare a
quel fine, ti racconto un aneddoto.
Circa trent'anni fa, ebbi una sera la fortuna di
desinare con una brigata di milanesi, fra i quali c'era uno
scienziato illustre, autore d'un libro notissimo di scienza
popolare, che è una delle opere più eloquenti e
meglio scritte della letteratura scientifica d'Italia. Lo
scienziato, ch'era un uomo d'indole vivace e di spirito
argutissimo, aveva poche sere avanti rallegrato quella stessa
compagnia raccontando in dialetto certi episodi comici d'un suo
recente viaggio nella Scozia; e il suo racconto era piaciuto per
modo, che anche quella sera, alle frutte, tutti i commensali
vollero che lo ripetesse, e mi dissero parecchi, mentre egli si
disponeva a parlare: - Sentirà, e riderà come non ha
mai riso. - L'illustre uomo incominciò, parlando italiano
per riguardo al nuovo uditore, e andò un pezzo innanzi nel
[38] racconto; ma l'uditorio, benchè avesse la miglior
voglia di ridere, rimase freddo; volevo ridere anch'io, ma non
potevo; mi sconcertava il disinganno che leggevo sul viso degli
altri; i quali aspettavano tutti qualche cosa che non veniva mai,
e parevano stupiti che non venisse, e intenti a cercarne dentro di
sè la ragione. E, infatti, il racconto procedeva male; lo
sforzo che faceva il parlatore per trovar parole e frasi comiche,
che poi non lo appagavano, ratteneva la sua vena; l'espressione
del suo viso che, manifestando quello sforzo, discordava dalla
comicità del discorso, ne distruggeva quasi al tutto
l'effetto; il suo gesto stesso riusciva impacciato come il suo
linguaggio; mancava al racconto la spontaneità, il
colorito, la vita. A un certo punto egli s'interruppe, facendo un
atto brusco d'impazienza, ed esclamò ridendo: - Oh,
lasciatemi un po' parlare il mio milanese! - e ripreso in milanese
il discorso, tirò via col vento in poppa, con tutt'altro
viso e tutt'altro accento, libero, arguto, amenissimo,
accompagnato fino alla fine dall'ilarità unanime e sonora
degli ascoltatori.
Mille casi consimili vedrai tu pure nella vita,
perché migliaia d'italiani colti, e che scrivono bene, si
ritrovano, parlando italiano, nello stesso impaccio nel quale si
trovò lo scienziato milanese. E la ragione dell'impaccio
sta in ciò: che fra il parlare e lo scrivere passa la
stessa differenza che fra il correre ed il camminare. Come, se non
è esercitata alla corsa, anche una persona ben formata, e
che ha nel camminare un portamento sciolto e elegante, corre senza
leggerezza e senza grazia e rimane senza fiato dopo un breve
tratto, così ogni italiano, che parli per [39] uso il suo
dialetto, pur conoscendo la lingua benissimo, se a parlarla non
s'è esercitato con particolare studio, se non ha acquistato
con quest'esercizio la prontezza intellettuale e l'agilità
meccanica necessaria al parlar bene, che è come un comporre
all'improvviso, non troverà lì per lì le
parole proprie, snaturerà il proprio pensiero,
parlerà stentato e slavato, traballando e inciampando a
ogni passo. Vedi dunque quanto importa che, prima d'ogni cosa, tu
t'eserciti a ben parlare; e dico: prima d'ogni cosa, perché
è un esercizio che puoi cominciare utilmente anche prima di
metterti a studiare il materiale della lingua nel modo che vedremo
poi. E ora t'accenno i preliminari della ginnastica; dopo i quali
passeremo agli attrezzi.
[40]
PER IMPARARE A PARLAR BENE.
Il parlar malamente, in chi più o meno conosce
la lingua, deriva in gran parte dalla consuetudine di non pensar
mai un momento, prima di aprir la bocca, al modo di dire il meglio
che si può quello che si vuol dire. E tu avvèzzati a
pensarci. Dirai: - Non s'ha sempre tempo. - Basterà che ci
pensi tutte le volte che ci hai tempo, e non tarderai a ricavarne
un profitto maggiore di quello che t'immagini, perché ti
riuscirà di dir meglio che per il passato anche molte di
quelle cose che sarai costretto a dire all'improvviso.
Si parla male generalmente anche per effetto della
consuetudine, che si prende per pigrizia, di lasciar quasi sempre
a mezzo l'espressione del proprio pensiero quando si vede che l'ha
capito a volo la persona a cui si parla. Questa consuetudine pigra
ci rende faticoso e difficile l'esprimer bene tutti quegli altri
pensieri, dei quali, perché sian compresi, dobbiamo dare
l'espressione compiuta. Ebbene, e tu abìtuati, parlando, ad
esprimere sempre tutto il tuo [41] pensiero, anche quando non sia
necessario, come faresti se lo dovessi mettere sulla carta.
Fa' qualche volta, mentalmente, quest'altro
esercizio, dopo che hai fatto o veduto qualche cosa, o sentito una
commozione, o ricevuto un'impressione qualsiasi; domanda a te
stesso: - Come direi se dovessi raccontare questo fatto, o
descrivere questa cosa, od esprimere questa commozione? - e
pròvati a farlo, supponendo di parlare a una persona colta,
con la quale tu non abbia famigliarità, e di cui ti prema
la stima e la simpatia.
Studia in special modo di dir bene tutte quelle
piccole cose che occorre dire ogni giorno, e anche più
volte il giorno; ti riuscirà facile trovarle e fissartele
in mente, poiché sono, per così dire, i luoghi
comuni della vita quotidiana e del linguaggio di ciascuno; e
quando ti sarai avvezzato a dirle facilmente e correttamente,
riconoscerai, dal vantaggio acquistato, maggiore della tua
aspettazione, che nel dir male quelle piccole cose, benchè
non sian molte e sian semplici, consiste principalmente il parlar
male di quasi tutti.
Bada anche a questo. Una delle nostre miserie,
parlando, è l'incertezza che ci arresta nel designare certi
oggetti, atti, fatti, sentimenti, per i quali sono usati
comunemente due o tre vocaboli di senso affine, ma di cui è
proprio uno solo; poiché, nell'atto che c'indugiamo a
scegliere, perdiamo il concetto della frase o del periodo, che poi
ci riescono alla peggio. Se nel dir la cosa più semplice,
come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che
abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo [42] aver
picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce
domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se
dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto,
fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare
e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo
un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio como
l'olio. Fìssati dunque in mente le parole proprie che in
tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che
sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con
questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e
corretto ad un tempo.
Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di
sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te
delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti
sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi
casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non
dev'essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori,
bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le
frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che
hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso
gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima
cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la
consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non
ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci
aprir gli occhi sui nostri.
Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un
esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi
che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le
facoltà eccitate, parla quasi [43] sempre meglio che ad
animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò,
quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando
hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un
ragionamento anche breve, che tu ti ci metta di buona voglia e con
vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima
quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi,
così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e
dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa;
va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a
frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi
prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al
viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo,
perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità,
d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in
un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o
annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che,
facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o
assai peggio; poiché la facoltà critica è in
tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando
s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo.
In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti
molto e presto se in casa tua c'è la buona consuetudine di
parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile,
rispettosamente, per farcela entrare. Ma....
Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai
nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto
un monte di vecchi manoscritti.
[45]
LA LINGUA ITALIANA IN FAMIGLIA.
Cara cugina,
Ringrazio te, tuo marito e i tuoi figliuoli grandi e
piccoli dell'allegra giornata che mi faceste passare in casa
vostra, e mantengo la promessa, che ti feci nell'accomiatarmi, di
rispondere per iscritto alle tue domande: - Ho fatto bene a metter
l'uso della lingua italiana in famiglia? Ti pare che i ragazzi ne
facciano profitto?
Risponderei di sì, con gran piacere, alla
prima domanda, se non avessi un gran dubbio sulla risposta da dare
alla seconda.
Osservai in casa tua che l'uso dell'italiano in
famiglia non giova gran fatto, che, anzi, riesce quasi più
dannoso che utile, se non è accompagnato dalla cura
continua di parlar bene, se non è vigilato, illuminato,
corretto assiduamente dal padre e dalla madre, se non si riduce,
in somma, a essere uno studio costante di tutti.
Osservai nella tua famiglia, come già in
altre, che i ragazzi si sono avvezzati a parlar l'italiano con
troppa disinvoltura. Sono belle [45] cose nel parlare la
vivacità, la scioltezza, la sicurezza di sè; ma solo
quando non derivino dal disprezzo della grammatica e
dall'inconsapevolezza dello sproposito. Ora, lascia che te lo
dica, i tuoi figliuoli parlano con facilità ammirabile un
italiano compassionevole, d'un tessuto tutto piemontese, ricamato
d'ogni specie d'idiotismi e di modi di conio gallico, e in tutto
il tempo che stetti con voi non gl'intesi correggere, né da
te né da tuo marito, neanche una volta. In casa vostra, per
quello che riguarda la lingua, regna la più scapigliata
anarchia. Girando per le stanze, feci ai tuoi figliuoli molte
domande, e sentii che a quasi tutte le cose dànno il nome
dialettale o francese: chiamano tiretto il cassetto, robinetto la
chiavetta, comò il cassettone, sopanta il palco morto. A
tavola, in quella discussione che fecero fra di loro intorno ai
propri insegnanti, e in cui parlarono, a dire il vero, con molto
brio e con molta arguzia, intesi dire dall'uno: - mi sono
sbagliato, - dall'altro: - niente del tutto, - da questo: - gli ho
fatto un bacio, da quello: - Mio professore di aritmetica, - da
più d'uno: - Che s'immagini! - e: - Mai più! - per:
nemmen per sogno; da tutti, e parecchie volte, vizio per vezzo o
consuetudine (pover'a noi, se anche il carezzarsi la barba fosse
un vizio!) e chiamare (Dio di misericordia!) per domandare. Parlai
di mode con la tua Eleonora, e trovai che ha preso da te tutta
quanta la terminologia francese che tu hai presa dalla tua sarta,
e discorrendo con Alberto dei suoi prossimi esami raccolsi dalla
sua bocca non so quante parole e frasi del nefando linguaggio
burocratico che tuo marito [46] porta a casa dall'ufficio. In
verità, s'io avessi ceduto alla tentazione, udendo parlare
italiano a quel modo, avrei fatto alla tua cara prole una continua
distribuzione di biscottini e di pacche. E quello che faceva
più forte la tentazione era il vedere che straziavano
così ferocemente la lingua con una faccia fresca da
innamorare, senz'essere arrestati mai dal minimo dubbio, senza dar
mai segno di sentire le proprie stonature, tirando via con una
speditezza e con un tono, che uno straniero non pratico della
nostra lingua, a sentirli, li avrebbe presi per toscani pretti
sputati, e di quelli che hanno la parola più pronta e
sicura.
Ah no, cara cugina. Codesta non è una scuola
di conversazione italiana; ma una baldoria linguistica, dove si fa
del vocabolario e della grammatica quello che in certe baldorie
bacchiche si fa delle stoviglie e del Galateo. A una scuola
così fatta mi par quasi preferibile l'uso del dialetto, col
quale i tuoi figliuoli, se non altro, non contrarrebbero abitudini
viziose, che è un danno grandissimo, poiché i
barbarismi, gl'idiotismi, le frasi errate che il ragazzo s'avvezza
a dire in famiglia, dove si parli italiano a vanvera, gli si
attaccano alla lingua per modo che gli riesce poi difficile
liberarsene anche da uomo. Dicono che Napoleone primo abbia detto
per tutta la vita section per session, rentes voyagères per
rentes viagères, point fulminant per point culminant, e
altri spropositi, per essersi avvezzato da ragazzo a pronunziare
in quel modo quelle parole, che in casa sua si pronunziavano male.
In certe famiglie, come tutti usano certi intercalari e hanno un
certo modo di gestire, così [47] dicono tutti gli stessi
spropositi. Io ho osservato che i figliuoli dei padri mal parlanti
quasi tutti parlano male, anche se sono più colti dei
padri. Conosco un tale che disse per vent'anni scavezzare per
scavizzolare, traccheggiare per inseguire e vita libertina per
vita libera: un giorno lo chiarii dei tre errori, ed egli mi
confessò che erano un'eredità di famiglia, che in
casa sua, dove s'era sostituita la lingua al dialetto, egli aveva
sempre inteso usar quelle parole in quel senso: alle correzioni
che gli erano state fatte da ragazzo, fuor di casa, non aveva
badato; poi nessuno non aveva più osato di correggerlo, per
timore che se ne vergognasse, e così era andato innanzi
fino ai cinquanta, perdendo prima il pelo che il vizio.
Dunque, segui il mio consiglio: o ripigliate il
dialetto in casa, o mettetevi d'accordo, tu e tuo marito, per
frenare la licenza linguistica dei vostri rampolli, costituite fra
voi una commissione di vigilanza e di censura, che non lasci
passare nessuno sproposito, che ristabilisca nella vostra
famiglia, filologicamente anarchica, l'impero della legge. I
ragazzi, sulle prime, s'impazientiranno, tenteranno di ribellarsi;
ma finiranno con riconoscere la ragione, e parleranno forse con
minor facondia, che non sarà una gran disgrazia, ma con
maggior correttezza, che sarà una gran fortuna; e ve ne
saranno grati più tardi.
Intanto, ti prego di dar loro qualche avvertimento,
in forma canzonatoria, che è la più efficace. Di' a
Eleonora che se mi racconterà qualche altra disgrazia
arrivata a qualche sua amica di scuola, vorrò sapere una
buona volta di dove le disgrazie partono e con che treno arrivano,
[48] per potermi regolare. Di' a Enrico che me ne impipo per me ne
rido e buggerìo per baccano non sono parole pulite, e che
il dire che un ragazzo di sette anni è più vecchio
d'uno di cinque, è ridicolo. A Luigina, che mi disse tre
volte: - Ho fatto una malattia - di' che mi son dimenticato di
domandarle se non aveva di meglio da fare quando le è
venuta quella brutta idea. Avverti Mario che il dir che un
ufficiale ha tre medaglie sullo stomaco, invece di sul petto,
è come dire che le medaglie gli sono indigeste. Dirai anche
nell'orecchio a tuo marito che il verbo consumare, in italiano,
è transitivo, e che quindi la candela consuma è un
piemontesismo, ch'egli non deve tramandare ai suoi discendenti.
E anche a te un'osservazione nell'orecchio: brutto
come tutto è brutto di molto. Spero d'averti persuasa. E
scusa la franchezza del critico poiché vien dall'affetto
del cugino.
Il tuo
***
[49]
A CIASCUNO IL SUO.
(A UNA SCHIERA DI RAGAZZI DI DIVERSE REGIONI D'ITALIA).
Avete riso dei piemontesismi, non è vero? E
non ci ho a ridire. Ma non ne ridete troppo forte, vi prego,
perché quello che dissi della famiglia piemontese, dove si
parla un italiano piemontizzato, si può dire a un di presso
di migliaia di famiglie d'altre regioni, badando soltanto a
sostituire a quelli che citai altri dialettismi e idiotismi; dei
quali ciascuna serie vi farebbe rider pure tutti quanti, fuori che
uno. Volete che ne facciamo la prova? Desiderate ch'io vi persuada
con gli esempi? E io vi contento, nel miglior modo che m'è
possibile, così alla lesta.
E comincio da te, piccolo milanese. Ce
n'è così anche a Milano di famiglie per bene, nelle
quali i ragazzi credon mica di parlar male dicendo porsi
giù per "mettersi a letto" e menar su per "condurre in
prigione" e su e giù a ogni proposito; e qui dietro per
"qui attorno" e andar addietro a fare per "continuare a fare" e
aver [50] una cosa addietro per "averla con sè" e si
può no, e morir via, e mangiarsi fuori e smaniarsi, e che
bello! e che caro! e con più ne vuoi, più te ne
metto. Ti basterà questo piccolo saggio, m'immagino.
A noi, piccolo veneziano. A te pure, quando che parli
italiano, vien fatto di ficcare il che da per tutto, e non sei
buono da liberartene, e dici: non so cosa che voglia dire, non so
cosa che ci vorrebbe; e ti scappa detto lasciarsi tirar giù
per "lasciarsi indurre" e incapricciarsi in una cosa, e non
s'indubiti, e l'aspetta un momento; e ti sfugge ben sovente
scampare per "scappare" e balcone per "finestra" e altana per
"terrazza" e sgabello per "comodino". E che dire del tuo in fatti
che usi così spesso nel senso di "in somma", mettendo nella
frase una contraddizione di termini che mi fa spalancare la bocca?
- Sarà un capolavoro, come tutti dicono; ma in fatti non mi
piace. - Hai ragione di burlarti degli idiotismi altrui; ma in
fatti ne dici tu pure.
Sono da lei, caro bolognese. Pensava ch'io la potessi
dimenticare? Mo' ci pare! Venga qua, s'accomodi bene. Godo di
trovarla in buona salute. E il padre suo di lei? E la ragazzola? E
quel bazzurlone di suo cugino, come sta? Fa sempre l'ammazzato con
la signorina del terzo piano? Ella riconosce certamente che anche
ai bolognesi ne scappano di carine, che è frequentissimo
fra di loro il si per il ci, e il faressimo e il diressimo e il
questa cosa che qui e che lì; e che non è rarissimo
il sentir da loro, anche da gente colta, ghignoso per
"antipatico", gnola per "seccatura", benzolino per "panchetto",
zucca per "fiasco", chiarle per "ciarle". E, mi perdoni, intesi
anche [51] dire qualche volta "ubbriaco patocco" per ubbriaco
"fradicio". Questa è patocca! Ma ne ride ella pure, e tutti
contenti.
E tu, bel garzonetto genovese, non ti dar l'aria
d'impeccabile, se dunque sciorino anche a te una bella lista di
dialettismi comici che raccolsi a casa tua.... e in casa mia. Se
dunque per "se no" è uno dei più preziosi, non lo
puoi negare. Non me ne capisco per "non me n'intendo" non è
men peregrino. Scorrere per "rincorrere o inseguire" è
un'altra bella perla. E uomo di sua obbligazione per "uomo che sa
il fatto suo" è poco bello? Certo, tu non dirai mai
mugugnare, frusciare, frugattare, camallare, dar recatto alla
casa, in luogo di "brontolare, infastidire, frugacchiare, portar
sulle spalle, mettere in ordine", come da non pochi concittadini
tuoi intesi dire. Ma sii sincero: non t'è mai scappato
angoscia per "nausea" e angoscioso per "molesto" e inversare per
"rovesciare"? Non ti scappa proprio mai bugatta per "puppattola",
rango per "zoppo", marsina per "giubba"? Pensaci un po', figgio
cäo....
Cittadino romano, ti saluto, e mi fo lecito di dirti,
rispettosamente, che spesso sento dire dai tuoi concittadini: ce
sto, me dài, ve prometto, te parlo, se dice, e io so'
contento, e il tale non vo' venire, e troncare gl'infiniti: anda',
sta', di', e dire andiedi e stiedi, e li fiori e li cavalli, e le
mela e le pera, e subito che per "poiché" e al contrario
per "d'altra parte" e apposta per "appunto per questo" o
imbottatore e tiratore e spogliatore e lavatore per "imbuto,
cassetto, armadio, acquaio": una quantità d'ore e d'altri
idiotismi d'altre desinenze, che si volessi citartene mezzi [52]
no me basterebbe du' ora. Lascio stare il magnassimo e il
bevessimo per l'indicativo, che a te non c'è caso che
sfugga; ma chi sa quante volte tu pure, parlando italiano,
esclami: - Guarda sì che bellezza! - o dici che hai rifame
o che un Tizio t'ha fatto una vassallata o che non sai se quanto
una certa cosa ti convenga. A ciascuno il suo. Non ti stranire,
figliolo.
Partenopeo carissimo! Conosco un bravo avvocato
napolitano, che tiene due cari figlioli, i quali, parlando
italiano con me, chiamano qualche volta, senz'avvertirsene,
gradinata la scala, coppola il berretto, cartiera la cartella,
borro la brutta copia, spiega la traduzione; che dicono cacciar
l'orologio per "tirarlo fuori", abbiamo rimasto per abbiamo
"lasciato" l'ombrello a casa, nostro padre è andato a
parlare una causa a Salerno, voglio essere spiegato, esser levata
questa difficoltà, essere aperto il portone, e non mi fido
per "non mi sento" e vado trovando per "vado cercando" e nel
contempo per "nello stesso tempo". Stesso il padre, dispiaciuto di
quel modo di parlare, li avverte sovente che dicon troppi
napolitanismi; ma non serve: lo voglion bene, ma non dànno
retta a lui più che a me, e tiran via. Non ho detto per
canzonare a te, bada bene; ma vedi un po' se dei modi citati non
ne scappa qualcuno a te pure. Potrebb'essere. Se te ne scappa, sei
prevenito; colpisci l'occasione per correggerti, e stammi buono.
O piccolo abruzzese, e tu, non ancor baffuto figliolo
della Calabria, non vi fate corrivi se vi dico che sfuggono allo
spesso dei provincialismi a voi pure; e il senso lor m'è
duro, potrei aggiungere. Come v'ho da intendere quando mi [53]
dite scolla, andito, versatoio, coppino, ceroggeno, raschio,
quartino, pizzo del tavolino per "cravatta, ponte, acquaio,
cucchiaione, candela, sputo, quartiere, canto del tavolino"? e
lento per "magro" e sofistico per "discolo" e fanatico per
"vanesio"? Quando vi sento di parlare in quella maniera, sospetto
che vogliate scherzarmi, e non tanto mi piace. E vada quando vi
scappa detto che vi siete imprestato (per "fatto imprestare") un
vocabolario, che avete donato gli esami, fatto maturare un
compagno permaloso, liberato un pugno a un insolente, o che in
mezzo al vostro giardino ci vorrebbe piantato un bell'albero, o
che vi par mill'anni di giungere il ferio di Natale: si sorride, e
null'altro. Ma che si possa scoprire un canuto nella barba d'un
uomo, è incredibile, e mettersi un calzone solo non
è decente, e sparare gli uccelli alla caccia è
feroce, e dire: - Mio fratello ha picchiato, vado ad aprirlo -
è orrendo. Vi raccomando a porre attenzione a questi
errori; e perdonatemi la franchezza, perché, se ve
n'avreste per male, ne fossi troppo dolente.
Son da te, caro siciliano. Molte volte, nel tuo bel
paese, un ospite gentile mi disse sull'uscio: - Entrasse, signore,
s'accomodasse; mi facesse il piacere.... - Lo dici qualche volta
tu pure, non è vero? E accoppii non di rado il condizionale
col condizionale: se avrei tempo, v'andrei, o: se avessi tempo,
v'andassi; dico giusto? E per voi è fare un complimento
anche il regalare un orologio d'oro, e dite spesso buono per
"bello" e bello per "buono" e più meglio e più
peggio, e insegnarsi la lezione per "impararla" e mi scanto per
"mi perito" e accudire per "rivolgersi" [54] e qualche volta la
prima del mese, e questa, senz'altro, per "questa città" e
anche casa palazzata per "palazzo". Chiamate bevanda il
caffè e latte, come se non beveste altro nell'isola, o
zuppa ogni minestra, e galantuomo ogni signore; e così
fosse, che sotto un bel sopratutto e dentro una camicia arricamata
non si nascondesse mai una birba! Te n'ho da metter fora
dell'altre? No? Queste bastano? E dunque, come dice il tuo Meli,
dunca ascuta a lu patri, e teni accura
a sti pochi e sinceri avvirtimenti.
E anche a te, bruno Sardignolo, poiché ti vedo
ridendo dei sicilianismi, dirò amorevolmente il fatto tuo,
quantunque del tuo bel dialetto latineggiante io sia un po'
innamorato: a te che qualche volta, parlando italiano, alzi le
scale invece di salirle, e culli il tuo fratellino per dormirlo, e
non pigli caffè perché non ti prova, e chiami cotti
i fichi d'India maturi, e occhi cattivi gli occhi malati; a te che
parti al villaggio, e torni da campagna, e vai al braccetto con
gli amici, e a chi ti domanda l'ora alle dodici e dieci rispondi
che è assai ora che è sonato mezzogiorno, e a chi ti
rivolge domande indiscrete dici che non entri il naso negli affari
tuoi, e se non la smette subito, che finisca da una volta
d'importunarti. Per farla corta, non t'ho citato che una dozzina
d'esempi; mi dispiace d'esser troppo pochi; ma te ne potrei
pienare più pagine. A si biri, piseddu.
- Come? A me pure? - Sì, signorino, a lei
pure, e spero che me lo permetta, poiché sa che le voglio
un gran bene. Per insegnar la lingua [55] ai tuoi fratelli
d'Italia, che ti riconoscono maestro dalla nascita, devi guardarti
anche tu dai dialettismi, non con altrettanta, ma con maggior cura
degli altri; non devi lasciarti sfuggir mai, neppure una volta
l'anno (e ti sfuggono non di rado) voi dicevi, voi facevi, voi
andavi, e dichino e venghino, e leggano per leggono, temano per
temono, e lo stai e il vai imperativi, e il dove tu vai? e il che
tu vuoi? e nemmeno sortire per uscire, e bastare per durare, e
tornar di casa per "andar a stare" in un luogo dove non s'è
mai stati. E sebbene Dante abbia detto "lascia dir le genti"
è meglio che tu non dica genti in quel senso per non farmi
pensare che tu parli di tutti i popoli della terra; e che suoi per
"loro" abbia esempi classici, non toglie che sia più
corretto il far concordare l'aggettivo col sostantivo; e
m'ammetterai che a dire ignorante per "maleducato" si corre
pericolo di calunniare dei sapientoni; e una "minestra diaccia" se
vuoi esser giusto, non s'è mai portata in tavola da che
mondo è mondo. A rivederci, bocca fortunata, e porta un
bacio alla torre di Giotto.
E ora che giustizia è fatta, tiriamo innanzi.
[56]
*FQ*IL MALANNO DELL'AFFETTAZIONE.
Vi son due modi di parlar male: la sciatteria e
l'affettazione. Ma questo è peggior di quello,
perché chi parla sciatto è soltanto ridicolo, e chi
parla affettato è ridicolo e insopportabile. Non occorre
ch'io ti dica che cos'è l'affettazione. Te lo dicono i modi
proverbiali che la deridono: - Star sul quinci e sul quindi. -
Parlare in punta di forchetta. - Parlar come un libro stampato. -
È un misto di pedanteria e di leziosaggine. È la
consuetudine di scegliere fra i modi della lingua i meno
comunemente usati, credendo che il parlar bene consista nel parlar
diversamente dagli altri; è il servirsi di vocaboli e di
frasi poetiche, anche nei discorsi famigliari, per dir le cose
più usuali e più semplici; è l'usar locuzioni
e costrutti del bello stile letterario, per isfoggio di cultura e
d'eleganza, in luogo d'altre locuzioni e d'altri costrutti alla
mano, che si sdegnano come volgari, e che paiono volgari per la
sola ragione che tutti li sanno.
Hai visto mai dei bellimbusti che fanno il [57]
bocchino e par che sorridano continuamente alla propria immagine,
o tengon la bocca sempre aperta per mostrare i denti bianchi; che
pigliano atteggiamenti d'Apolli, gestiscono coi gomiti stretti al
busto e camminano in punta di piedi, dondolandosi come le anitre e
guardando intorno con gli occhi socchiusi o dilatati o languenti!
Sono caricature buffe e antipatiche, non è vero? E lo
stesso effetto producono quelli che parlano affettato. Ci
dispiacciono perché, parlando diversamente da noi, hanno
l'aria di dirci che noi parliamo male e che dovremmo parlare come
loro; non ci paiono sinceri perché la sincerità
parla semplicemente, ed essi parlano con artificio; e non li
possiamo prender sul serio perché, lambiccando a quel modo
il proprio linguaggio, mostrano di dar più importanza alle
parole che alle cose e di parlar soltanto per farci sentire che
parlan bene.
Senti un po'. Se uno t'annunzia la morte d'un suo
amico dicendoti: - Ieri, dopo una malattia lunga e dolorosa,
morì il tal dei tali, mio carissimo amico; morì fra
le mie braccia; le sue ultime parole furono per raccomandarmi i
suoi poveri bambini, che stavano accanto al letto piangendo -, tu
sei preso da un sentimento di pietà. Ma se ti dice invece:
- Ieri, dopo un lungo e fiero morbo, mancò ai vivi il tal
de' tali, amico mio dilettissimo; spirò sul mio seno, e i
suoi supremi accenti furono per commettere alle mie cure i suoi
sventurati pargoletti, che stavano all'origliere lacrimando; - tu,
invece di commoverti, non credi al suo dolore, e gli dài
del buffone.
L'affettazione falsa l'espressione d'ogni affetto,
[58] spunta l'arguzia, toglie forza alla ragione, vela la
verità, distorna la confidenza, getta il ridicolo su ogni
cosa, rende uggiose e moleste, e qualche volta anche odiose,
facendole apparire sotto un falso aspetto, persone dotate di
eccellenti qualità d'animo. Ed è un difetto
terribile, che guai a chi s'attacca, perché diventa in lui
come una seconda natura, della quale egli perde la coscienza, e
non se ne libera più per la vita. Ed è un difetto
disgraziatissimo, che il mondo deride e flagella anche nelle
persone più rispettabili, senza tregua e senza
pietà, fino alla morte.
*
In quest'affettazione eccessiva e ridicola non
c'è pericolo che tu cada. Ma ti devi guardare anche
dall'ombra dell'affettazione, anche da quel difetto, nel quale
quasi tutti cadiamo, di usare, parlando, una quantità di
parole e di locuzioni non proprie del linguaggio parlato; fra le
quali e le proprie, che non ignoriamo, e che usiamo anche spesso,
ci siamo avvezzati a non far differenza. Di tali parole e
locuzioni non ti posso fare un elenco compiuto, che sarebbe troppo
lungo; ma ti do qualche esempio in un dialogo nel quale un Tizio
mi racconta una sua avventura, ed io faccio il pedante della
naturalezza sui fiori della sua letteratura.
[59]
FRA UN PARLATORE RICERCATO E UNO CHE PARLA ALLA BUONA.
TIZIO. - Giunto che fui al bivio, stetti un momento
in forse se dovessi volgere a destra o a sinistra.
IL PEDANTE. - Mi permetta. Io direi: arrivato che fui
al bivio, stetti un momento in dubbio se dovessi voltare....
T. - ....Se dovessi voltare a destra o a sinistra.
M'arrestai, attendendo che passasse qualcuno, per chiedergli
l'indicazione che mi faceva d'uopo....
P. - Mi faceva d'uopo! E se dicesse semplicemente:
che m'occorreva? E invece di "attendendo": aspettando? E
domandargli invece di "chiedergli?"
T. - Ma, non scorgendo anima nata....
P. - Non vedendo anima viva....
T. - Piegai a destra e procedetti fino a una
chiesetta, cinta di cipressi, della quale mi sovvenne che m'aveva
parlato mio padre, quando mi narrò la sua gita al
castello.... Trova qualche cosa a ridire?
[60]
P. - Cinque cosette. Io direi presi invece di
"piegai", andai innanzi invece di "procedetti", circondata invece
di "cinta", mi ricordai invece di "mi sovvenne", mi
raccontò invece di mi "narrò". Vuol seguitare?
T. - Quivi scorsi due uomini distesi al suolo....
P. - Quanto amore per quello scorgere! E
perché non lì invece di "quivi?" E stesi per terra
in luogo di "distesi al suolo?" Il suolo!
T. - ....che sembravano assopiti....
P. - ....parevano addormentati, se non le par troppo
comune.
T. - Sostai....
P. - Si soffermò....
T. - ....e, osservandoli, venni in sospetto che
facessero sembianza, ma che non dormissero davvero. Non m'ero male
apposto....
P. - Com'è detto bene! Sospettai sarebbe
troppo andante; "far sembianza" è più nobile di far
mostra e di fingere; "non m'ero male apposto" non è un modo
di dozzina come non m'ero ingannato.
T. - Mi dileggia ella forse, signore?
P. - "Tolga il cielo!" O come può ella
"accogliere" un tal pensiero? "Proceda".
T. - Di repente, infatti, quasi per accordo, si
destarono entrambi, e l'un d'essi....
P. - Un momento. Mi lasci ammirare quel "di repente"
per a un tratto, e quell'"entrambi" per tutti e due, e l'"un
d'essi" per uno di loro. Questo si chiama "favellare"! Riprenda.
T. - (Capisco).... E l'un d'essi, con accento di
cortesia, che mal s'accordava con l'atteggiamento del suo volto,
mi disse: - Se passa di [61] qui per recarsi al castello, ha
errato; la riporremo noi sul retto cammino....
P. - Mi perdoni. Qui, benchè ammiri ancora, mi
parrebbe più naturale il dire: in tono cortese, e non
corrispondeva all'espressione del suo viso. Quell'"un d'essi",
poi, le avrà detto andare e non "recarsi", la rimetteremo,
non "la riporremo", sulla buona strada, non "sul retto
cammino...."
T. - (Che insopportabile seccatore!) Ciò
dicendo, sorsero ambedue da terra, e mossero alla mia volta....
P. - Approvato, e con plauso. Io avrei detto: dicendo
questo, s'alzarono tutt'e due, e vennero verso di me -; ma
riconosco che avrei parlato con meno squisita eleganza....
T. - Insospettito, indietreggiai. Essi accelerarono
il passo. Avevano in animo d'assalirmi, non cadeva dubbio. Si
figurerà di leggieri il mio spavento! Volli gridare; ma mi
venne meno la voce. Mi volsi in fuga; ma fu indarno: mi sentii
afferrare da tergo; mi fu forza arrestarmi....
P. - L'arresto anch'io per un momento, per farle
osservare che parla troppo bene. Avrebbe potuto dire in forma
più modesta: - Mi feci indietro. Quelli affrettarono il
passo. Volevano assalirmi; non c'era dubbio. S'immaginerà
facilmente il mio spavento! Volli gridare; ma mi mancò la
voce. Mi diedi alla fuga; ma fu inutile; mi sentii afferrare di
dietro; mi dovetti fermare... E allora?
T. - Allora gridai: - Aiuto! - Per buona ventura,
transitava là presso una brigata di villici, che i
malfattori non avevano veduti, perché eran celati dagli
alberi....
[62]
P. - Respiro! Ma quel "transitava" per passava, e
"celati" per nascosti, e "villici" per contadini....
T. - Quelli trassero tosto alle mie grida....
P. - Vuol dire che accorsero subito....
T. - I malandrini dileguarono....
P. - Come nebbia al vento.
T. - Fui salvo. Mi palpai. Non rinvenni più il
portamonete nella scarsella. Non c'eran che poche lire; non porta
il pregio di parlarne. Il peggio fu la paura, che non le saprei
ritrarre in parole.
P. - Capisco! "Ritrarre in parole" dev'essere una
cosa più difficile che l'esprimere semplicemente. Ma ella
si compiace troppo del difficile. perché non dire alla
buona che non si ritrovò più il portamonete in
tasca? E perché dire "non porta il pregio" invece di non
mette conto? In somma, se l'è cavata con la paura.
T. - Se non mi toccò maggior danno, debbo
saperne grado....
P. - Basta che ne sia grato....
T. - A quei buoni contadini. Ma la sera mi
sopravvenne la febbre.
P. - Le "sopravvenne"?
T. - Mi prese, andiamo; mi saltò addosso.
Questo m'incolse.... mi seguì per aver posto in non
cale....
P. - Se dicesse per aver trascurato....
T. - .... l'avvertimento di mio padre: che non
è saggio l'aggirarsi in quei pressi senza compagnia. Me ne
ricorderò quind'innanzi.
P. - Suo padre le avrà detto che non è
prudente l'andare in giro soli in quei dintorni. E farà
bene a ricordarsene. Ma farà anche bene d'ora in avanti a
parlare in un altro modo....
[63]
T. - Ma, insomma, non m'è sfuggito un errore!
P. - No; ma il suo discorso è stato una
stonatura da capo a fondo, un tessuto di parole e di frasi che non
s'usano mai da chi parla con naturalezza e con gusto, e che
riescono sgradevoli quanto gli errori, e rendono il suo parlar
corretto poco meno ridicolo d'un parlare sgrammaticato.
T. - Troppo gentile! La ringrazio.
P. - "Non porta il pregio." Ma non ponga "in non
cale" i miei consigli. "Se ne rinverrà" contento e me ne
"saprà grado." La riverisco e "mi dileguo."
T. - (Impertinente!)
Varie altre osservazioni che ti dovrei esporre
intorno all'affettazione nel parlare, le farai tu stesso
intrattenendoti qualche minuto con una rispettabile e amabile
signora, che ho l'onore di presentarti.
[64]
LA SIGNORA PIESOSPINTO.
Le avevan messo questo soprannome perché il
bel modo letterario a ogni piè sospinto era uno dei fiori
più frequenti del suo linguaggio abituale, tutto fiorito di
parole e di frasi eleganti.
Era vedova e sola, come la Roma di Dante; non
più giovane, d'ottimo cuore, stimata da tutti; ma aveva un
difetto terribile, per il quale s'eran ridotti pochissimi i
frequentatori del suo salottino, un tempo assai numerosi: il
difetto di parlare poeticamente. Cosa tanto più strana in
quanto la buona signora non la pretendeva punto a letterata,
quantunque di letteratura e d'arte discorresse quasi sempre; era
anzi in tali discorsi molto guardinga e modesta. Quel linguaggio,
che a noi riusciva affettato, per lei era naturalissimo, ed era in
fatti in perfetto accordo con tutte le altre manifestazioni del
suo essere. La sua voce, il suo accento, il suo modo d'atteggiarsi
e di camminare, la sua bizzarra pettinatura, tutta cernecchi e
riccioli artefatti, che le tremolavano intorno al capo come
bùbboli, e il suo abbigliamento tutto gale e fronzoli di
gusto [65] dubbio: ogni cosa rassomigliava al suo vocabolario e
alla sua fraseologia prescelta, che pareva fatta di rottami di
versi. Parlava in maniera da far credere che ogni parola d'uso
comune fosse per lei una parola triviale, che ogni frase
famigliare le ripugnasse come una frase indecorosa. Per esempio:
allegrezza, gioia, desiderio, ricordo, avvenimento, momento, erano
modi sbanditi dal suo dizionario; diceva: letizia, giubilo,
vaghezza, rimembranza, evento, istante. All'amico che entrava in
casa sua gettava qualche volta addosso una manata di fiori poetici
anche prima ch'egli si fosse seduto. - Ah, la riveggo alla fine!
Che accadde di lei? Credevo che avesse spiccato il volo verso
altri lidi o che fosse di mal ferma salute; vissi in affanno;
s'assida, ingrato amico, e si scagioni. - Anche parlando delle
cose più comuni usava questo linguaggio di gala. Era famosa
fra i suoi conoscenti la frase con cui aveva annunziato a un di
loro una piccola disgrazia toccata a una sua cagnetta, ricciuta e
infronzolata come lei; la quale faceva un certo mugolo strano, che
certi capi ameni dicevano un'affettazione. - Ah, signor mio! -
aveva detto. - Tale era la moltitudine di piccoli insetti che
infestavano la cute di questo sventurato animaletto....
Ma benchè affettato il linguaggio, era sempre
sincero il sentimento ch'ella esprimeva. Era commossa veramente
quando raccontava d'esser stata costretta, con suo gran dolore, ad
espellere una vecchia fante, dopo molti anni che l'aveva in casa,
per aver risaputo che quella la vilipendeva nel vicinato con le
più nefande calunnie. Quale atroce disinganno! Chi avrebbe
potuto [66] sospettare che con quel sembiante tutto dolcezza ella
albergasse nel petto un animo così malvagio! Che schianto
era stato per lei lo scoprire una nemica in quella donna, con la
quale essa aveva sempre largheggiato di doni e di favori, per lei
che aveva tanto bisogno di sentirsi aleggiare intorno la
benevolenza e la simpatia!
Naturalmente, il maggior piacere che ci attirasse nel
suo salotto era quello d'ammiccarsi l'un con l'altro e di
sorridere di nascosto alle più belle delle sue frasi: dico
le più belle perché il suo discorso era un ordito
così fitto di poeticherie, che non si sarebbe potuto
rilevarle tutte senza farsi scorgere; del che ci saremmo
vergognati. Ma essa non sospettava. Povera signora Piesospinto! Se
ci avesse sentiti giù per le scale! Il suo frasario c'era
diventato così famigliare che, fra di noi, andando da lei
ed uscendo, non parlavamo quasi più altro che alla sua
maniera. E, com'è naturale, glie n'erano affibbiate anche
parecchie che non le appartenevano. Ma la più amena di
tutte, qualcuno sosteneva che l'avesse detta davvero a una delle
sue amiche più strette, ed era un modo comunissimo, che
dice un'occorrenza altrettanto comune, nobilitato da lei nella
nuova forma: - andare della persona. -
Ammirabile era la costanza con cui usava certi modi
illustri invece di altri volgari, i quali non le venivano mai alla
bocca, come s'ella non li avesse mai né intesi né
letti, da tanto che le si era connaturata l'affettazione. Non
diceva mai sposare, per esempio, ma impalmare; mai, non so una
cosa, ma la ignoro; mai mi fa pietà, ma mi move a
pietà; mai aversi per male, ma recarsi ad onta. Gli
aggettivi, più che altro, erano [67] il suo forte; non
poteva metter fuori un sostantivo senza attaccargliene uno, che
era sempre pescato fra i più signorili della lingua.
- È un pezzo, signora, che non è stata
a Napoli?
- Da dieci anni non ho più veduto quella
nobilissima città.
- Ha letto la notizia della morte del tale?
- Si, ho letto la malaugurosa notizia.
- Le ha fatto piacere la promozione di suo cugino?
- Sì, ne ho avuto un piacere ineffabile.
Colta un inverno da grave malore, e condotta in forse
della vita, giacque a letto per lo spazio d'oltre due mesi, e chi
la trasse a salvamento, prodigandole ogni più amorevole
cura, fu un giovine medico amico nostro e suo, che della sua
vezzosa favella prendeva diletto grandissimo. Con lui e con un
altro frequentatore del salotto, non sì tosto ella fu fuor
di pericolo, mi recai a visitarla. Poi che fummo seduti accanto al
letto, la buona signora chiamò la fante, e le disse con
fievole voce: - Appressati, Carolina; dischiudi lievemente le
imposte, che entri un po' di chiarore....
Poi ci ringraziò, espresse la sua gratitudine
al medico, ci raccontò la storia del suo malore. E fu una
tal pioggia di fiori poetici da far pensare che durante la
malattia glie ne fosse germinato in casa un nuovo giardino. La
malattia le era saltata addosso ad un tratto, a guisa d'un colpo
di folgore. Stava per uscire di casa, era già sul limitare
dell'uscio, quando una subita nube le aveva come offuscato
l'intelletto, e s'era impossessata di lei una così grande
debolezza, che [68] appena aveva fatto in tempo a invocar
soccorso, e le erano mancati i sensi. Il portinaio, la portinaia,
la fante, accorsi tosto, vedendo il pallore mortale del suo volto,
l'avevano creduta esanime, e s'eran sciolti in pianto; poi
l'avevan portata sul suo letticciuolo, ed essa era rimasta tre
giorni così, quasi inconsapevole, come in istato di sopore,
agitato da torbidi sogni. E in questo modo continuò a
fiorettare, fin che ci accomiatò cortesemente lei stessa,
dicendoci d'uscire a più spirabil aere, ma che tornassimo
presto a riportarle il refrigerio della nostra cara amicizia.
Scendendo le scale, il medico faceto ci disse che la
povera signora era stata veramente gravissima; ma che anche quando
si trovava in pericolo aveva sempre parlato nel modo solito. Egli
si ricordava le parole testuali. - Ah, signor dottore! - gli aveva
detto. - Non mi lusinghi di vane speranze: io sento bene che
questa mia spossatezza è foriera di prossima fine. - E
soggiunse che, sentendola parlare a quel modo, aveva riconosciuto
la grande verità d'una osservazione fatta da Vittor Hugo, a
proposito d'un condannato a morte, il cui discorso gli era parso
mancante di naturalezza: che tutto si cancella davanti alla morte,
eccetto l'affettazione: che la bontà svanisce, che la
malvagità scompare, che l'uomo benevolo diventa amaro, che
l'uomo duro diventa dolce; ma l'uomo affettato rimane affettato. -
E concluse: - Basta, è scampata; fra un mese sarà
guarita; e io ne sono felicissimo perché, con tutti i suoi
fiori poetici, è una gran buona signora.
- Ah, questo è fuor di dubbio - disse il
comune amico - di gentili sensi dotata....
[69]
- E di non inculto intelletto - aggiunse il medico.
- E di non illeggiadro sembiante....
- Finiamola; non sta bene scherzare fin che non
s'è rimessa; ricominceremo quando sulla sua guancia "torni
a fiorir la rosa".
E si ricominciò, come Dio volle, con diletto
ineffabile.
[70]
VERGOGNA FUOR DI LUOGO.
Non basta, per parlar bene, sfuggire l'affettazione;
bisogna pure, quando occorre, non aver timore di parere affettati;
bisogna vincere un sentimento naturale e comunissimo, specie fra
noi italiani dell'Italia settentrionale, che si potrebbe chiamare
la "vergogna fuor di luogo" della lingua.
Noi, parlando italiano, siamo tutti riluttanti ad
usare parole e frasi che non appartengano a quello scarso
materiale linguistico che si possiede comunemente nella nostra
regione, e la nostra riluttanza deriva dal timore di parer pedanti
e ricercati adoperando modi insoliti; i quali appunto ci paiono
strani e affettati per la sola ragione che non siamo assuefatti a
dirli e a sentirli.
Per ispiegarti chiaramente la cosa ti riferisco una
discussione che, mutate poche parole, dovetti sostenere e
m'occorse di sentire cento volte.
Mi domanda un tale se non c'è in italiano una
parola che significhi "stringer molto la persona con cintura o con
busto o con altro, in modo [71] che essa paia meglio disposta, ma
che non abbia più liberi i movimenti."
- Certo che c'è. Striminzire. Una ragazza
striminzita nel busto. Dice anche il Giusti, per analogia, di
persone striminzite in una carrozza troppo piccola.
- Striminzire! Che parola strana!
- Strana perché? Per il suono? Non è
mica più strana d'impazientire e d'indolenzire, che tutti
dicono.
- Ma questa non l'ho mai intesa.
- È d'uso comune in Toscana, è in tutti
i dizionari, la usano molti italiani d'ogni provincia.
- Eppure, che so io? Parlando, non l'userei.
- Per che ragione?
- Non so.... Non oserei.
- Ma per la stessa ragione si dovrebbe interdire
l'uso d'una quantità d'altre parole proprie, necessarie,
italianissime. Per esempio, userebbe le parole rimpulizzire,
spericolarsi, spiaccicare, stintignare, baluginare, che in certi
casi significano una cosa che non si può dire per l'appunto
con un altro modo?
- Spiaccicare! Baluginare! Stintignare! (dopo aver
pensato un po', sorridendo). - No, glielo dico sinceramente, non
oserei. Saranno parole italianissime, e anche usatissime in altre
parti d'Italia; ma fra noi paiono strane.
- E picchia sullo strano! Ma strana le parrà
ogni parola che non abbia mai intesa. Quelle parole non paiono
punto strane e affettate, paiono naturalissime a tutti coloro che
le usano dove sono generalmente usate. La cagione dell'effetto che
producono in lei non sta in esse medesime; ma nel fatto che lei
non è usato a sentirle. Lei [72] stesso adopera ora come
naturali parole e frasi che, anni fa, la prima volta che le
intese, le saranno parse cercate col lumicino. Il tipo
dell'affettato e dell'inaffettato, in materia di lingua, ha detto
un grande maestro, non è altro che l'assuefazione.
- Avrà ragione. E non di meno.... che vuol che
le dica? Se, parlando in famiglia o fra amici, mi venissero sulla
punta della lingua le parole stintignare, striminzire, baluginare,
me le terrei in bocca, perché son certo che tutti quanti,
udendole da me, rimarrebbero come stupiti, e direbbero fra
sè, e fors'anche forte: - Cospetto! Tu peschi nel
vocabolario; tu diventi un linguista. Che lusso!
- Ma se tutti ragionassero così, la lingua
italiana, fra noi, rimarrebbe sempre allo stesso punto; nessuno
arricchirebbe mai il suo vocabolario d'una sola parola; dai dieci
anni in su si rimpasterebbero sempre lo stesso miserabile frasario
elementare. Se tutti avessero sempre ceduto a codesto sentimento,
nell'Italia settentrionale, in Piemonte, per esempio, si
parlerebbe ancora l'italiano come si parlava quarant'anni fa.
- O non si parla ora come si parlava allora?
- Ah no, per fortuna. Sono usati ora anche fra noi,
parlando italiano, sono anzi diventati comunissimi una
quantità di vocaboli e di locuzioni che quand'ero ragazzo
erano affatto sconosciuti. Quarant'anni fa non le sarebbe mai
occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare un sonno,
appisolarsi, fare uno spuntino, fare ammodo, uomo di garbo, gente
per bene, mi frulla per il capo, andare in visibilio, prendere in
tasca, faticare parecchio, e via discorrendo. Ora io [73] sento
questi modi ogni momento da giovani, da signore, da gente che non
pensa neppur per ombra a parlare scelto, e non c'è caso che
chi li ascolta si stupisca e sorrida con l'aria di dire: - Che
lusso! - Eppure, quando furono intesi qui le prime volte, tutti
quei modi debbono esser parsi strani come paiono a lei quelli che
ho citati.
- Le ripeto che avrà ragione; ma.... (tra
sè, scrollando il capo) Striminzire! Stintignare!
Baluginare!
Così è. E l'ha detto un grande
scrittore, che di queste cose s'intendeva: - La locuzione della
lingua in cui si scrive, la locuzione propria, unica, necessaria,
può far ridere, esclamare, urlare, dov'essa non è
conosciuta in fatto; e però sono impicci da cui uno non
può uscir solo: l'unico mezzo d'uscirne è d'uscirne
tutti insieme. - Il che vuol dire che tutti quanti dobbiamo
adoperarci a mettere in commercio, parlando, quella parte di
lingua che manca al nostro uso regionale, e che ci è
necessaria, anche a costo di far ridere, esclamare e urlare.
Incomincia dunque tu a far la tua parte. Ricordo certe famiglie
d'impiegati piemontesi e lombardi, stabilite in Firenze capitale,
nelle quali i bambini, che in casa parlavano italiano, portavano
ogni giorno dalla scuola una parola o una frase nuova, di cui il
padre e la madre ridevano: ne ridevano la prima volta, poi ci
s'avvezzavano, e poi dicevano quelle parole e quelle frasi essi
medesimi, da prima come per celia, dopo senz'avvedersene; e
così il bambino arricchiva il dizionario e insegnava a
parlare alla famiglia. E così devi far tu nel giro delle
persone fra cui vivi, usando [74] francamente le parole insolite,
come se ti venissero spontanee, vincendo la "vergogna fuor di
luogo" che è la cagione principale della nostra perpetua
miseria in materia di lingua. Miseria che conserviamo di
conseguenza anche nello scrivere, perché tutto quel
materiale di lingua, che conosciamo ma non usiamo parlando, non ci
verrà mai pronto all'occorrenza quando scriviamo, lo
dovremo sempre andar a cercare, e non lo cercheremo per pigrizia,
o lo useremo male, e sarà sempre per noi come quelle
stoviglie di casa che non si tiran fuori dall'armadio che per i
pranzi solenni, dove gl'invitati s'accorgono alla prima che non
siamo assuefatti ad usarle.
[75]
BELLA MUSICA SONATA MALE.
Impara a pronunziar bene. Non parla bene chi
pronunzia male. E noi, quasi tutti, pronunziamo l'italiano
scelleratamente.
Una bella lingua pronunziata male è come una
bella musica sciupata da un cattivo sonatore. Che vale che la
nostra sia una lingua ammirabilmente musicale se noi in mille modi
ne alteriamo i suoni, come se fosse per noi una lingua straniera?
Che serve che tanti grandi poeti, nei quali erano profondi e
finissimi il senso e l'arte dell'armonia, abbiano faticato a
comporre tanti versi squisitamente armoniosi, quando noi li
pronunziamo in maniera che se ci sentisse chi li fece ci
tratterebbe di cani e si tapperebbe gli orecchi? Che giova che la
lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili,
graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi
inaspriamo pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti,
se fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se
facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici,
se aggraviamo le leggiere e deformiamo le [76] graziose
strascicando o squarciando o strozzando le vocali, e dando all'u
un suono barbaro che trapassa l'orecchio come lo stridore d'un
chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l'armonia
della nostra lingua! E ci vantiamo d'aver orecchio musicale!
C'è da riderne, e da averne vergogna.
*
- Come ho da fare? - domanderai. - Ho da
toscaneggiare? - Così chiamano, per canzonatura, il
pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne
trovan contenti, come se non si potesse pronunziar l'italiano
correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non
è altro, in fatti, la cattiva imitazione della loro
pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c'è bisogno di
toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni
lettera il suo vero suono e a ogni parola il suo giusto accento,
come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in
trattatelli speciali. Tu non hai che da prendere uno di questi
libri, e con la scorta delle regole e delle indicazioni che vi
troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia
dialettale, cominciando dai più grossi e più
ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl'italiani delle
regioni subalpine. Avvèzzati prima d'ogni cosa a
pronunziare l'a larga, che noi tendiamo a restringere;
poiché c'è chi dice:
tanto gentile e tanto onesta pore,
e
cantando come donna innamorota
e
giunta sul pendìo
precipita l'etó;
[77] Dei del cielo! E a dir l'e e l'o larghe o
strette nelle parole in cui hanno l'uno o l'altro suono: a non
allargar la bocca come un imbuto per dir vérde,
frésco, césto, Róma, dóno,
enórme, e le desinenze degli avverbi in ente, che sono uno
degli orrori della nostra pronunzia, veramante! E a dare il suono
duro o molle all's, e dolce o aspro alla z dove tale dev'essere;
non come si suol fare da noi, che pronunziamo ad un modo rosa
fiore e rosa participio, zaino e zampa, cosa e sposa, pranzo e
pazzo; quando non si dice pranso e passo, come da molti si dice.
Ma abbiamo altri difetti di pronunzia, dei quali i libri non ci
possono correggere, come quello di triplicare spesso le consonanti
per timore di non far sentire abbastanza le doppie, come usano i
nostri burattinai quando fanno parlare i personaggi terribili:
ferrro, guerrra, sconquassso, trapassso; di raddoppiare l'r in
nero, fiero e simili, per rafforzarne il significato; di non far
sentire l'sc nelle parole come scendere e scempio, che pronunziamo
sendere e sempio; di pronunziare la doppia n faucale, come nel
dialettale laña, luña, nelle parole donna,
ginnastica e simili; di raddoppiare la c in molte parole
dov'è semplice, come bacio, cacio, mendacio, e di metter la
g in molte dove non entra (la povera Amaglia non sa gniente), e di
sopprimerla in altre dove dev'esser pronunziata (sua filia li tien
compania). Ma perché quell'atto d'impazienza?...
[78]
*
Ho capito. Ti pare ch'io metta alla berlina della
cattiva pronunzia la nostra cara provincia, e questo ti dispiace.
Ma non temere. Nessuno dei tuoi fratelli italiani ti
lancerà la prima buccia di mela, perché hanno tutti
coscienza d'esser grandi peccatori. Oltre che parecchi dei nostri
difetti di pronunzia sono comuni a varie regioni d'Italia,
ciascuna ne ha altri suoi propri, che stanno a paro coi nostri
peggiori. Rassicùrati. Non ti canzonerà il milanese
che allarga l'e senza discreziune e converte in u le o finali, e
pronunzia l'u alla francese cont una frequenza lacrimevole;
né il genovese che muta in ou il dittongo au, dice
aritemetica per aritmetica, e fa strage delle z; né il tuo
fratelo veneziano che di tutti i cittadini dell'aregno d'Italia
è il più indomabile ribelle alla leie della doppia
consonante. E il bolognese sostituisce l'e all'a nella finale
dell'infinito dei verbi, fa rimar Roma con gomma, toglie la z alle
ragaze, fa scomparir le vocali quanto pió gli è
possibile; e il romano ti dice che lo interressano le notizie
della guera, che le sue crature son ghiotte delle brugne e ch'egli
ha un debbole per i fonghi; e il napoletano.... No, non
darà la baia al piemondese il napolitano, che muta il t in
d dopo l'n, che pronunzia inghiostro e angora, e mobbile e doppo;
e neppure l'abruzzese che distende il dittongo uo in maniera da
attribuire a ogni buono una bontà infinita, e mette fra due
vocali un suono gutturale aspirato: non ti burlerà neppur
per idega. E neanche il siciliano sarrà fra i tuoi
canzonatori, egli che cangia in ea il dittongo ia e in u [79]
tante o e che dà all's davanti alle consonanti il suono
dello sh inglese, e ficca cossí spesso l'i fra il c e l'e,
anche chiamando la Concietta del suo cuore; e nemmeno il sardo,
che nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e
scempiarla dov'è doppia, non la cede a nessuno. Intesi
appunto ieri note due proffessori che discuttevano su
quest'argomento.
*
Dunque, stùdiati di correggere la tua
pronunzia. Ma pronunziar le parole corrette non basta. Il nostro
parlare manca generalmente d'armonia e di speditezza perché
non facciamo abbastanza troncamenti e elisioni, perché
diciamo una quantità di vocaboli e di sillabe superflue,
che allungan le frasi e rompono l'onda armonica e c'impacciano la
lingua. Sono, ciascuna per sè, superfluità minime e
durezze appena sensibili; ma che quando s'affollano, come segue
spesso, in un breve giro di parole, fanno un brutto sentire. Se,
per esempio, in un periodo, dove t'occorra di dire: gl'impeti
d'amore, l'ha detto senz'arrossire, m'ha fatto girar la testa,
quell'ingrato, un altr'anno, quella gran virtù, in un mar
di guai, non facevan nulla, non m'accorsi in tempo, per la qual
ragione, tu non tronchi e non elidi nulla, e dici invece: gli
impeti di amore, lo ha detto senza arrossire, mi ha fatto girare
la testa, quello ingrato, un altro anno, quella grande
virtù, in un mare di guai, non facevano nulla, per la quale
ragione, tu senti che il tuo parlare riesce assai meno armonico e
sciolto che nell'altra forma. Ed è singolare che, mentre
[80] riusciamo duri nel parlare per non far troncamenti e elisioni
dove potrebbero farsi, riusciamo spesso egualmente duri in
più d'un caso, in cui, in luogo di togliere, aggiungiamo
appunto per evitar la durezza, come nel dire: fanciulli ed
adolescenti, scrissi ad Edvige o ad Edgardo, selvatici od
addomesticati.
Bada a tutte queste piccole cose, e se vuoi avere una
buona norma, prendi l'edizione del romanzo I promessi sposi, dove
è raffrontato il primo testo con quello corretto nel 1840.
Il Manzoni, nel troncare e nell'elidere, s'è attenuto
rigorosamente alla norma del parlar fiorentino; e si potrà
discutere sulla sua idea, che la lingua parlata a Firenze debba
esser la lingua di tutti; ma non sul fatto che l'uso fiorentino,
per ciò che riguarda l'armonia del discorso, si possa
seguir da tutti fedelmente, senza timor di sbagliare. Bada
all'armonia nelle due edizioni comparate del romanzo, e ci
troverai un insegnamento utilissimo a scansar nel parlare ogni
ridondanza e ogni durezza di suoni.
*
Un'altra cosa. Ciascun dialetto è parlato con
certe intonazioni, modulazioni, cadenze, strascicamenti di voce e
raggruppamenti di suoni, che noi, quasi tutti, facciamo sentire
anche parlando italiano, e che dànno al nostro italiano il
colorito musicale, per dir così, del dialetto medesimo.
Dirai che questa musica dialettale essendo naturale in noi, noi
non la sentiamo, e quindi non possiamo liberarcene. No: la
sentiamo, chi più chi meno, perché mettiamo in
canzonatura [81] chi la esagera. La sentiamo in ogni modo quando
udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno
d'un'altra, perché, anche non conoscendolo di persona, lo
riconosciamo dei nostri. Ebbene, quando questo t'accade, osserva
le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e t'avvedrai che
sono proprie a te pure. E non pensare che perché tu non le
avverti abitualmente o non ti riescono sgradevoli, non siano
sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano
sgradevoli neppure a loro. Tanto le sentono che non son pochi
quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto, ci rifanno
il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura;
la quale essi non farebbero se la nostra musica dialettale non li
facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segua un caso simile, sta'
bene attento, chè ti può molto giovare. Io mi
corressi di certe intonazioni del dialetto udendo un attore
toscano che imitava mirabilmente il modo di recitare d'un celebre
attore piemontese, perché sentii la prima volta in quella
imitazione quelle intonazioni, come un'eco della mia voce. E credi
che non riuscirai a pronunziar bene l'italiano fin che non ti
sarai liberato di questa specie di melopea vernacola,
perché è quella che ti fa forza, in certo modo,
nella pronunzia viziosa delle parole, che quasi ti costringe,
senza che tu te n'avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all'uso
dialettale, in maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo
caso il proverbio francese, che dice: è la musica quella
che fa la canzone.
[82]
*
Un mazzetto di consigli, per finire. Avvèzzati
a leggere a voce alta scolpendo bene le parole. Quando vai al
teatro, sta' attento alla pronunzia degli attori che pronunzian
bene, e paragonala con quella di quegli altri attori, dei quali
riconosci il dialetto nativo. Fa' attenzione al modo di
pronunziare di tutti quegli italiani, dei quali non ti riesce di
capire in che parte d'Italia sian nati. E non dar retta ai pigri
che ti dicono: - È tempo perso; a nascondere il dialetto
nella lingua non si riesce. - Non è vero, e non è
tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni d'Italia, anche quelle
dove si parla un dialetto più dissimile dalla lingua,
dànno oratori forensi e politici, attori drammatici,
conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano
l'italiano perfettamente, o quasi; nei quali non si sente indizio
alcuno dei loro propri dialetti. Fa' il proposito di riuscire a
questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar
l'italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di
casa tua; poiché io m'immagino che tu abbia delle sorelle,
una almeno. E poiché me l'immagino, e vedo che la signorina
scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei
che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza
della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio;
ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini
ed elastici; perché a che serve avere la voce dolce se la
sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d'Italia
vedrà molte volte degli stranieri, che l'avranno
riconosciuta italiana, porger l'orecchio [83] per raccoglier dalla
sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che
rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona
pronunzia, perché la può fare senza suo incomodo.
Basterà che torca leggermente la bocca quando
sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa
come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una
dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi
neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano,
non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura
stucchevole.
[84]
STRETTA FINALE.
Animo, dunque. Comincia fin d'oggi ad avvezzarti a
parlar bene, e vedrai come sarai presto incoraggiato a proseguire
dai vantaggi che ne ricaverai. Primissimo dei quali sarà
quello di pensar meglio, perché dal parlar chiaro, proprio,
preciso, scolpito, dalla consuetudine di esprimer tutto il proprio
pensiero nel miglior modo che ci è possibile, s'è
immancabilmente condotti a "spiegarci con noi stessi e a meglio
intenderci noi medesimi", a formulare con maggior chiarezza e
maggior precisione il pensiero anche nell'officina silenziosa
della nostra mente. E sarai anche incoraggiato a proseguire dalla
sodisfazione che il tuo parlar bene produrrà evidentemente
negli altri, poiché è un fatto che chi parla con
chiarezza, precisione, facilità e speditezza, facendoci
risparmiar tempo e sforzo d'attenzione e imprimendoci nette nella
mente quelle cose che ci preme di ricordare, ci procaccia, oltre
che un piacere di natura artistica, un vantaggio, di cui gli siamo
grati. E ti sarà incoraggiamento e compenso quello ch'io
molte volte osservai ed [85] osservo: che è per quasi tutti
una sodisfazione d'amor proprio il sentir parlar bene l'italiano
da un concittadino della loro stessa regione, perché vedono
in lui una prova che essi pure, volendo, ci riuscirebbero, un
argomento vivente contro l'opinione di quegli italiani d'altre
regioni, i quali li dicono e li stimano inetti (la cosa è
frequente e reciproca) a parlare un italiano italiano. E queste
sodisfazioni avrai per tutta la vita, e con queste molte altre, in
mille casi, a mille diversi propositi, in mille forme diverse e
inaspettate, poiché non puoi immaginare quante simpatie,
quanti atti cortesi, quanti consensi, quante agevolezze non ci
derivan da altro nel mondo che dalla scioltezza, dalla grazia,
dalla convenienza della parola.
Ma per parlare bene bisogna possedere il materiale
della lingua, e in che maniera questo s'acquisti vedrai nella
seconda parte del libro. Chiuderà la prima un
bell'originale, che non è forse inutile che tu conosca.
[86]
L'AMÍO ENRÍO.
Aveva passato parecchi anni a Firenze; ma quello che
per ogni altro italiano, come direbbe l'Alfieri, boreale,
desideroso d'imparar la lingua, sarebbe stata una buona fortuna,
per lui era stata una disgrazia, perché in riva all'Arno
aveva perduto la naturalezza del parlare, e raccattato soltanto le
scorie idiomatiche che gli stessi toscani colti ributtano. Aveva
fatto là una gran retata d'idiotismi e di vezzi di lingua
mercatina, come se la fiorentinità non consistesse in
altro, e preso per giunta il malanno di pronunziar più
fiorentino dei fiorentini, esagerando istrionicamente tutte le
inflessioni di voce loro proprie, e aspirando la c perfin nelle
parole dov'essi non l'aspirano. Per questo lo chiamavamo
l'amío Enrío, essendo Enrico il suo nome di
battesimo. Non diceva più un tu, neanche a pagarglielo. -
Vieni te a ber la birra? - Se' stato te, se' stato! - Te mi
vorresti canzonare! - Bandiva il dittongo uo da ogni parola: non
diceva più che core, omo, bono, spalancando la bocca come
per [87] inghiottire un ovo sodo. E gl'icché t'ho da dire e
i questecchequí e i l'aresti a avere li spacciava a
canestrelli. Figurarsi la faccia che facevano a questa roba i suoi
"rozzi" amici pedemontani!
Ma quello che rendeva più uggioso il suo
toscaneggiamento era l'inettitudine dell'imitazione, poiché
spesso, anzi ogni momento, fra due parole pronunziate alla
fiorentina ne pronunziava una alla piemontese, che sonava come una
stecca falsa; ciò che faceva dire con ragione agli amici
che in ogni suo periodo dietro Stenterello saltava fuori Gianduia.
E sarebbe stato un amico piacevole, perché in
fondo era di buona indole, e di spirito arguto; ma riusciva
insopportabile per quella sua parlata artifiziosa e bastarda.
C'era fra gli altri, nella brigata degli amici, un genovese, che
pativa una vera tortura a sentirlo. - Che volete? - ci diceva. -
Quand'io gli sento dire aritmetica per aritemetica, Enna per
Etena, austríao per austriaco, mi vien la pelle d'oca. - E
allora era un doppio spasso, perché si rideva insieme del
critico e del criticato.
Un altro, che avesse parlato a quel modo, l'avremmo
corretto a furia di canzonature e di risate; ma a questo con lui
nessuno s'arrischiava, perché era un buon giovane, ma
ombroso, che non reggeva la celia, e tirava bene di scherma. I
tolleranti se ne spassavano senza che se n'avvedesse, gli altri
gonfiavano in silenzio, e così egli non aveva mai un
sospetto di far ridere le gente alle proprie spalle, e
toscaneggiava a tutto pasto, altero e felisce di tener lo scettro
della buona lingua e della bella pronunzia. Ma non riusciva a
ingannar nessuno, neppur la prima [88] volta che lo sentivano, e
nemmeno persone incolte, o che non fossero mai state in Toscana,
tanto è giusto il verso
Troppo toscano non toscan l'accusa.
Anche costoro, dopo venti parole, sentivano la
caricatura, la contraffazione grossolana, e sorridevano, incerti,
come domandando a sè stessi s'egli parlasse sul serio o per
burla, e aspettando che da un momento all'altro ripigliasse il
parlar naturale.
Di quando in quando, per effetto di quel suo parlare,
gli seguivano dei casi comici.
Un giorno, credendo d'aver lasciata la canna
(com'egli chiamava alla subalpina la mazza) in un caffè, vi
ritornò mezz'ora dopo, e domandò al padrone: - Ha
veduto la mi' anna?
Quegli, pensando che domandasse se era stata a
cercarlo nel caffè la sua signora, benchè gli
paresse un po' troppo famigliare quel modo di nominarla, gli
rispose di no, perché signore, in fatti, non ce n'era
state.
E allora l'amío, rivolgendosi al cameriere: -
Guarda un po' sotto il biliardo.
Immaginate la risata.
Un'altra volta, a un conoscente che gli andò a
chiedere informazioni intorno a un nuovo professore destinato al
Ginnasio del proprio figliuolo, disse fra l'altro: - È
d'umore un po' vivo; bocia, bocia sempre; ma in fondo è un
omo bono. - E quegli, scattando: - La grazia di quella
bontà! Da un professore che boccia tutti il mio ragazzo non
ce lo mando.
Ma queste piccole contrarietà non lo
correggevano. Egli seguitava a ingollar le c e a [89] profondere i
te sempre più allegramente; e con maggiore esagerazione e a
voce più alta toscaneggiava nei caffè e nei teatri,
dove ci occorreva spesso d'osservare intorno a lui quel fatto
psichico curiosissimo, che si potrebbe chiamare l'inversione o la
traslazione della vergogna: persone sconosciute che, udendolo,
chinavano il capo e restavan lì impacciate, e qualche volta
arrossivano, come se quel linguaggio falsificato e ridicolo
uscisse a loro malgrado dalla loro bocca, nel modo che escon le
parole dalla bocca dei farneticanti.
Ma quel mal vezzo finì con portargli
disgrazia.
Fu un caso curioso. Una sera, nella platea d'un
teatro, mentre egli toscaneggiava con un suo amico, a voce alta,
com'era solito, fu inteso da un signore toscano, che discorreva
con altri, lì accanto, e che, riconoscendo apocrifa quella
toscanità ostentata, sospettò che parlasse a quel
modo per rifare il verso a lui. Risentito, gli domandò
spiegazione. L'amío rispose con buon garbo, ma rimangiando
due o tre c di quelle che i toscani non mangiano; ciò che
ribadì il sospetto nell'altro, che gli tirò
un'impertinenza, la quale ebbe per risposta un urtone. Alle corte,
si barattarono i biglietti di visita, non ci fu modo di
raggiustarla, ne seguì un duello, e l'amío
Enrío ebbe una leggiera sdrucitura al braccio destro.
Andai a visitare il ferito con un comune amico; il
quale, prima di tirare il campanello, fece un'osservazione
consolante. - Tutto il male non vien per nuocere - disse. -
Quest'avventura l'avrà guarito dalla toscanite. - E lo
credevo io pure.
Lo trovammo sulla poltrona, col braccio al [90]
collo, d'ottimo umore. E proprio le prime parole che disse,
rispondendo al mio: - Com'è andata? - furon queste: - O che
vo' tu ch'i' ti dia?
- È incurabile! - esclamò l'amico
quando uscimmo. - E glie ne toccherà dell'altre. È
il suo destino. Egli ha da morir sul terreno, e di ferro etrusco.
[91]
PER IMPARARE I VOCABOLI.
Bisogna, la prima cosa, acquistare il materiale della
lingua.
Parlando a te, italiano, intendo dire con "materiale
della lingua" tutti quei vocaboli e quelle locuzioni che mancano
generalmente all'italiano parlato fuor della Toscana.
Gli uni e le altre si possono cercare ad un tempo; ma
sarà meglio che tu incominci coi vocaboli, che sono i
più necessari, e che per qualche tempo non t'occupi
d'altro.
Ci sono, prima di tutto, certe consuetudini del
pensiero, che tu devi prendere.
Delle moltissime parole che non sappiamo molte le
abbiamo lette o intese dire; ma non ci sono rimaste nella memoria
perché non abbiamo fermato su esse, neppure un momento,
l'attenzione. Bisogna dunque, ogni volta che ci cade sott'occhio o
ci viene all'orecchio una parola non compresa nel nostro
vocabolario abituale, guardarla in faccia come si guarda una
persona sconosciuta che ci si presenti, fare un atto della
volontà per ritenerla, metterci sopra, per così [92]
dire, il suggello del nostro pensiero. Se, leggendo o ascoltando,
avessimo fatto questo, non dico sempre, ma soltanto una volta su
cinque, anche senza ricorrer mai alla penna, avremmo tutti nella
memoria molte centinaia di vocaboli di più di quelli che
possediamo.
Poi: ogni volta che discorrendo ci manca una parola
per designare una data cosa, prender nota nella nostra memoria di
quella mancanza, e ripararvi quanto prima ci è possibile,
cercando quella parola. Ogni volta che ci càpita alle mani
o ci si presenta in qualunque modo un oggetto usuale od insolito,
domandare a noi stessi, non solo se lo sapremmo nominare a chi non
lo conoscesse, ma se glielo sapremmo descrivere nominando le sue
varie parti, e, non sapendo, cercare il nome delle sue varie
parti, per metterci in grado di descriverlo. Ogni volta che
troviamo in un libro una parola nuova, della quale non
comprendiamo il significato, non cercarla immediatamente nel
vocabolario, chè, trovata così subito senza fatica,
non ci rimane impressa; ma pensarci un po', cercare d'intenderla
da noi stessi, segnarla nella nostra mente con un punto
interrogativo; al quale essa rimarrà poi attaccata come a
un gancio quando sapremo che cosa significa, perché non si
dimenticano mai le parole nuove sulle quali s'è esercitata
la curiosità, e di cui c'è costato qualche sforzo
l'apprendere il senso.
Ma questo non basta. Tu, che sei sulla via degli
studi, devi fare questo studio in forma ordinata e metodica.
Proponiti, da principio, d'imparare i nomi di tutte
le cose che t'occorre ogni giorno di vedere, [93] toccare,
adoperare. Prendi uno di quei Prontuari dove son registrati tutti
i nomi degli oggetti d'uso domestico, con la descrizione di
ciascun oggetto, la quale comprende i nomi d'ogni sua parte.
Comincia dalla roba che porti addosso, per poi passare alle cose
che hai sempre tra mano, ai mobili della tua camera, alla mensa,
allo scrittoio, agli arredi e utensili di tutta la casa, alle
varie parti della casa stessa. Va' innanzi con ordine, a poco a
poco, fissandoti d'imparare ogni giorno un certo numero di nomi.
Non ti costerà alcuno sforzo il ritenerli, avendo sempre
sott'occhio le cose a cui si riferiscono, e a ritenerli
t'aiuterà il dirli spesso a voce alta, con pronunzia netta.
Passerai poi dalla casa al cortile, al giardino, a tutti gli
annessi e connessi della casa, e poi alle varie parti della
città e ai luoghi e ai servizi pubblici, e alle arti e ai
mestieri più comuni. E non considerar neppure come uno
studio quest'occupazione; fattene uno svago dello spirito. E ogni
volta che te ne sentirai un po' svogliato, pensa che ciascuna
delle parole che ti si stamperà stabilmente nella memoria
ti risparmierà mille volte, nel corso della vita,
un'incertezza, un impaccio, una piccola vergogna; che mille volte
la cognizione di una data parola ti toglierà, nel parlare e
nello scrivere, un intoppo, il quale romperebbe il corso del tuo
pensiero e la foga del tuo discorso; che ogni vocabolo che
s'impara, anche se paia superfluo, è come uno di quegli
utensili da nulla, dei quali non s'ha bisogno quasi mai, ma che
una o due volte in molt'anni son necessari, e se non si ritrovano,
non si sa che pesci pigliare.
E poi vedrai che anche questo studio, che ora [94] ti
par materiale, ti darà sodisfazioni che non t'aspetti.
Quando il tuo corredo di vocaboli sarà già
considerevole, t'accorgerai che ogni nuova parola ti
rimarrà impressa assai più facilmente che per il
passato, perché in quel particolare esercizio ti si
sarà fortificata e fatta tenace la memoria mirabilmente.
Riconoscerai, quando potrai nominare molte cose e particolari di
cose di cui prima non sapevi il nome, di quanti giri di parole, di
quante definizioni e descrizioni e lungaggini, che prima non
potevi scansare, potrai far di meno parlando, e che nuovo
sentimento di libertà e di sicurezza avrai nel parlare, non
essendo più impensierito di continuo dal timore
d'inciampare nell'impedimento d'una cosa comunissima, che tu debba
nominare e non sappia, o nella necessità di fare una
svoltata col discorso per non averla da nominare. E vedrai quante
volte, dopo che ti ci sarai avvezzato per proposito, ti
sarà un passatempo piacevole, trovandoti ad aspettare in
qualche luogo, come un'officina o una bottega o una sala, rifar
nella tua mente la nomenclatura di tutte le cose che avrai
dintorno; e come ti divertirai a osservare gli artifizi curiosi
coi quali la gente s'ingegna, nella conversazione italiana, di
nascondere la propria ignoranza dei vocaboli più necessari,
e di farsi in qualche modo capire; e che piacere sarà per
te in molti casi il levar d'impaccio chi parla, anche persone
d'età maggiore e di cultura superiore alla tua, porgendo
loro gli spiccioli per le minute spese del discorso.
Mettiti dunque a questo studio, non con l'impazienza
di chi ha uno scopo immediato; ma [95] tranquillamente, adagio
adagio, nei tuoi ritagli di tempo, contentandoti di poco ogni
giorno, e rimarrai maravigliato ben presto della quantità
di materiale linguistico, che senza fatica, quasi
senz'avvedertene, ti troverai accumulato nella memoria.
[96]
DIVERSI MODI DI STUDIAR LA LINGUA.
Suppongo ora che tu mi domandi in qual modo dovrai
proseguire, allargando il campo dello studio, dopo aver fatto la
preparazione che accennai riguardo ai vocaboli.
Darò alla tua domanda cinque risposte, le
quali mi furon date (quattro per iscritto e una a voce) da cinque
studiosi, che interrogai per conto tuo.
L'aristocratico.
Io non sono un registratore né un magazziniere
della lingua. Non mi servii mai della penna per questo studio.
Lessi e leggo gli scrittori migliori di tutti i secoli con la
matita alla mano, sottolineo ogni parola e ogni locuzione che mi
riesca nuova, e mi paia efficace, e usabile anche da uno scrittore
del tempo presente, e cerco d'imprimerla nella memoria insieme con
la frase o col periodo a cui appartiene, e, più che altro,
con l'idea ch'essa esprime o concorre ad esprimere. Non volli mai
trascrivere a parte frasi, locuzioni o parole perché, se si
metton sulla [97] carta, non si fa più sforzo della memoria
per ritenerle, sapendo che si rileggeranno poi; e anche
perché, quando si hanno di queste raccolte, facilmente si
cede alla tentazione d'andarvi a far provvista prima di mettersi a
scrivere, onde avviene che nello scritto si scopra la mano del
raccoglitore; e per quest'altra ragione, finalmente, che i modi
registrati così solitari, quando poi s'è dimenticato
il posto che occupavano, la serie d'idee a cui eran legati, il
significato e il valore che ricavavano dal contesto, s'adoperano
spesso in un senso che non è quello per l'appunto che
avevano dove li abbiamo trovati. Dunque, sottolineo soltanto, e
questo mi basta a riparare poi alle dimenticanze. Tutti i miei
libri son pieni di sottolineature. Quando, dopo un pezzo, ne
riapro uno, scorrendolo con l'occhio solamente, vi ritrovo in
pochissimo tempo tutto quanto v'è di meglio in materia di
lingua, e con la memoria delle voci e delle frasi mi ravvivo
quella dei pensieri, la quale corregge alla sua volta, se mi
s'è alterato nella mente, il concetto del significato e del
valore d'ogni frase e d'ogni voce. Così le mie note
linguistiche sono sparse in centinaia di volumi, e questa, a mio
giudizio, è la maniera più intellettuale di studiar
la lingua. Per me un periodo è come un viso umano: certi
studiosi della lingua ne staccano un occhio, un orecchio, il naso,
il mento, e li conservano a parte: io mi stampo nella mente tutto
il viso; voglio dire che affido la memoria della parola a quella
dell'idea. Aggiungo che quest'uso di sottolineare i libri me ne
rende particolarmente piacevole e utile la seconda lettura,
perché, ritrovandovi segnate tutte le mie prime [98]
impressioni, dalle quali spesso riescon diverse le seconde, mi
vien fatto di cercare le ragioni delle diversità, che
derivano o da un diverso stato dell'animo, o da nuove cognizioni
acquisite, o da gusti mutati, e quest'operazione mentale ha per
effetto d'imprimermi più profondamente nella memoria le
parole e le frasi. E non è da credere che riesca poi troppo
difficile il ritrovare, per chiarirsi d'un dubbio, una data parola
o locuzione in quel mare di segni, perché quest'uso di
sottolineare fortifica ed estende straordinariamente la
facoltà della memoria locale; tanto che di moltissime di
quelle si ricorda fino il punto della pagina dove restano e il
tratto particolare della matita con cui si sono segnate. Io ho
dinanzi agli occhi della mente centinaia di frasi e di vocaboli
sottolineati in centinaia di pagine, in cima, in fondo, nel mezzo,
da un lato e dall'altro, chiari e netti per effetto della
sottolineatura come se fossero in caratteri rilevati. Il mio
dizionario, il mio frasario è la mia biblioteca. I miei
fiori di lingua non sono stretti in mazzi, ordinati in tepidari,
affollati in aiuole; ma sparsi sur un vastissimo spazio, piantati
nella terra dove nacquero, olezzanti all'aria aperta e viva; e le
corse che ho da fare col pensiero per rivederli mi fanno bene alla
salute dello spirito, mi accrescono le forze e l'agilità
della mente. Per mantenermi nel possesso del mio materiale
linguistico mi debbo rimettere ogni tanto in conversazione diretta
coi grandi maestri da cui lo presi, e questo mi dà
occasione e modo di raccogliere dalla loro bocca nuovi tesori.
Ecco il modo di studiar la lingua, ch'io consiglierei ai giovani.
Non empite dei quaderni di note, chè [99] v'avvezzate a
pescar la parola per la parola, la frase per la frase. Non serve
avere in mente una locuzione se non è legata a un pensiero,
e se il pensiero vi resta, vi resterà quella con esso,
senza bisogno di metterla a sedere sulla carta, di dove non
accorrerà più pronta al vostro bisogno, e dovrete
andarla a prendere e tirar fuori a forza. Trattate la lingua da
gran signori, non da pitocchi. Ospitatela nel grande palazzo della
vostra memoria; non la soffocate nei ripostigli oscuri degli
scartabelli. La lingua è pensiero, è sentimento,
è bellezza; cercate nei grandi scrittori queste tre cose;
pensate, commovetevi, dilettatevi, e imparerete la lingua; essa vi
deve entrare nella mente e nell'animo a raggi d'idee, a ondate
d'affetto, a scosse d'ammirazione. E il modo ch'io consiglio
è anche il solo che non stanchi mai; chè, anzi,
tanto più riesce gradevole e profittevole quanto
più, andando innanzi con gli anni, s'impara a pensare, e il
leggere con la matita alla mano diventa un abito che non si
può più smettere; dovechè la pazienza di
raccogliere, trascrivere e rileggere delle note morte, facilmente
si perde, tanto più quanto si fa più vivo e acuto il
pensiero. Il mio è uno studio, un modo da pensatore e da
artista; l'altro è una fatica, come direbbe il Carducci, da
spazzaturai di parole. Nello studio della lingua sono
aristocratico.
Il classificatore.
Io sono nello studio della lingua, come in ogni altra
cosa, un uomo d'ordine, e in questo vo fino alla pedanteria. Fin
da quando principiai, mi persuasi che il metodo migliore di
studiare [100] era quello di raccogliere con la penna e di
disporre nella mia raccolta il materiale della lingua come si
dispongono i libri nelle biblioteche, per ordine di materie. Mi
fissai prima una serie di titoli, sotto i quali potessi
raggruppare tutte le voci e locuzioni che venivo notando negli
scrittori man mano che procedevo nelle mie letture. Presi tanti
quaderni, scrissi sopra ciascuno uno dei titoli, e sotto ciascun
titolo feci una seconda serie di divisioni. Per esempio, nel
quaderno Natura: - Cielo, mare, fenomeni meteorologici,
vegetazione, ecc. -; nel quaderno Passioni: - amore, gioia, ira,
odio, e via discorrendo. Un quaderno per i ritratti fisici, uno
per i ritratti morali, uno per il movimento (sia d'esseri viventi,
sia di cose inanimate), uno per il vestire, per il mangiare, per
il parlare, per le arti belle, per la critica letteraria, per il
linguaggio faceto, per i suoni e rumori; e potrei proseguire. Ogni
parola o locuzione ch'io legga negli scrittori, o senta dire, o
trovi nel vocabolario, la quale io mi voglia appropriare, la
scrivo nel quaderno, e sotto il titolo, a cui si riferisce. Dopo
che cominciai questo lavoro, furon fatte varie pubblicazioni
informate allo stesso concetto, ad uso degli studiosi; ma io tirai
innanzi egualmente, con la persuasione che nessuna di quelle
opere, anche se più ampia e meglio ordinata, m'avrebbe
giovato quanto quella che andavo facendo io medesimo;
perché fra il materiale di lingua scelto e raccolto da
altri e quello scelto e raccolto da noi, per ciò che
riguarda la memoria, corre presso a poco la stessa differenza che
tra il ricordare dei versi propri e il ricordare dei versi altrui.
In pochi anni, facendo [101] poco ogni giorno, ho raccolto un
materiale ricchissimo. Questo metodo presenta due grandi vantaggi.
Il primo è che, ricorrendo ogni tanto ciascuna serie di
note, per l'affinità che è fra di esse, che l'una
tira l'altra come le ciliege, molto facilmente si richiamano alla
memoria tutte o in gran parte. Il secondo è che, per la
stessa ragione dell'affinità, riesce singolarmente
piacevole il rileggerle. Ogni volta ch'io ripasso ciascuna di
quelle filze di parole e di modi di dire, che si riferiscono tutti
a un soggetto unico, mi si ravviva, con l'ammirazione della
ricchezza e della varietà della nostra lingua, la
volontà e il piacere di studiarla. Mi par di sentire un
linguista maraviglioso che sfoggi tutta la sua dottrina mettendo
fuori rapidamente tutto il vocabolario e tutto il frasario che si
possono usare a quel dato proposito, o che si diverta a dire in
cento modi diversi, con cento gradazioni di significato, con cento
sfumature di colore quella data cosa; o una folla di persone che
della stessa cosa discorrano tutte insieme, rivoltando l'idea per
tutti i versi, accennandone tutti i particolari, studiandosi
ciascuna di non servirsi della espressione altrui. È anche
un altro diletto dell'immaginazione vivissimo. Quando leggo le
pagine del movimento, per esempio, io vedo passare con tutte le
andature, scarrierare, arrancare, ballettare, sbalzellare,
saltabeccare, giravoltolare, capitombolare, volicchiare,
sguizzare, frullare, sfarfallare, ecc., ecc., movere in tutti i
modi possibili mille forme animate e inanimate, una danza
universale, un caos agitato d'immagini, che m'eccita il pensiero
come lo spettacolo reale d'un vasto movimento [102] svariatissimo
d'esseri viventi e di cose. Quando entro nella partizione
dell'Ira, mi par d'entrare in una bolgia dell'inferno, in mezzo a
una moltitudine d'energumeni, dove ciascuno grida una delle parole
o delle frasi notate, e in queste vedo le immagini delle facce
accese e gli atti violenti che accompagnano le voci, di cui l'una
risponde all'altra, come in un'assemblea politica fuor della
grazia di Dio. E le pagine dell'Amore! Non avete idea della
dolcezza che mettono nell'animo tutte quelle parole e frasi
d'amore ardente, tenero, voluttuoso, disperato, beato, che paiono
di tante coppie d'innamorati invisibili, le quali spandano
nell'aria, passando di volo, il grido del loro cuore. E
così nel vocabolario dei Suoni, voci, rumori, mi par di
passare da una sala di concerti in un'officina, dall'officina sur
un campo di battaglia, dal campo di battaglia nell'arca di
Noè; e scorrendo le pagine del mangiare e bere ho
l'illusione di sedere a una mensa di gastronomi eccitati, che non
parlino d'altro che di pappatoria, sfoggiando tutta la loro
dottrina terminologica intorno all'oggetto della loro passione; e
ripassando la raccolta relativa alla Natura, vedo aurore e
tramonti, rapide variazioni di tempo, aspetti diversi della
campagna, e passo fiumi, corro mari, salgo montagne, scendo nelle
viscere della terra, percorro in poche pagine tutte le latitudini
e assisto a cento diversi fenomeni del cielo e della terra. V'ho
data un'idea del mio metodo? Il quale offre ancora altri vantaggi.
Ogni volta che ho da scrivere, rileggo prima le pagine
dov'è raccolto un materiale di lingua relativo al mio
soggetto, e non solo mi ravvivo nella memoria, in quel modo, in
pochi [103] minuti, una quantità di voci e di locuzioni che
mi possono giovare; ma quella rapida lettura mi dà una
scossa alla fantasia, mi desta nella mente una folla d'immagini,
che formano come un preludio sinfonico, che sono per me come una
prima ispirazione efficacissima al lavoro che sto per imprendere.
Aggiungete che, raccogliendo e ordinando il materiale della lingua
in questa forma, l'atto di riflessione che s'ha da fare sopra una
quantità di parole e di frasi dubbie per determinare la
divisione in cui si debbono inscrivere, vi fa penetrar più
addentro con la mente nel significato di ciascuna; e che la
lettura ripetuta di tante serie di modi di senso affine vi
assuefà a meditare sulle sfumature dei significati, vi
chiarisce il criterio della scelta, vi raffina il senso della
lingua. In fine, quello che io feci e continuo a fare è un
dizionario mio, del quale ho una grande padronanza, nel quale
ritrovo con grande facilità ogni parola o frase di cui non
abbia o tema di non avere esatta memoria; un dizionario in cui
godo a tuffar le mani come in un mucchio di monete o di gemme che
io mi sia guadagnate o che abbia trovate io stesso a una a una; un
tesoro di lingua accumulato con gran cura, che io amo, che mi
compiaccio d'arricchire e d'abbellire, come una casa piena di cose
belle e utili, perfezionandone a mano a mano l'ordine e l'assetto,
con sentimento di proprietario e d'artista. Ecco come studiai e
studio la lingua. Mi ci volle molta pazienza in principio; poi
feci il lavoro con piacere; ora lo continuo con amore. E non credo
che ci sia metodo migliore: per le teste costrutte come la mia,
ben inteso.
[104]
Lo mnemonico.
In che modo studiai la lingua? In un modo
semplicissimo, per il quale non occorre il calamaio. È la
buon'anima di mio padre, dantista appassionato, che me ne diede
l'idea. Un giorno, dopo avermi letto e commentato il canto dei
Serpenti, ch'egli considerava come un miracolo di potenza
descrittiva: - Vedi - mi disse - in queste cinquanta terzine,
oltre le stupende bellezze d'invenzione e d'armonia, in quanti
diversi modi son dette mirabilmente cose difficilissime a dirsi,
quale maravigliosa proprietà di vocaboli, e quanta
ricchezza di lingua! Chi impara questo canto a memoria si mette in
capo più materiale di lingua che non ne potrebbe
raccogliere da qualche volume di bella prosa. - Io imparai quel
canto a memoria. Fu questo il mio primo passo sulla via che tenni
poi. Avendo esperimentato che con quel canto m'ero appropriato una
quantità di modi, i quali mi venivano facilmente alle
labbra o alla penna anche nel discorrere o nello scrivere di cose
che non avevano alcuna relazione con la materia del canto
medesimo, pensai: - Non sarebbe un buon modo d'imparar la lingua
quello di mandar a mente della poesia, che è facile a
imparare e a ritenere? - E d'allora in poi andai cercando e
studiando poesie e frammenti di poesie, particolarmente ricche di
buona lingua; ma, si noti, di lingua più conforme a quella
della prosa che non sia il così detto linguaggio poetico;
la quale si trova in special modo nella poesia faceta o satirica,
famigliare o popolare che si voglia dire. Ricordo che la seconda
cosa che [105] imparai fu un capitolo del Berni, e la terza i
duecento versi sciolti della Gita a Montecatini del Giusti: uno
dei componimenti poetici, ch'io mi conosca nella letteratura
italiana, più fitti di modi e di costrutti del linguaggio
parlato, e più facili a ritenersi, benchè non
rimato, per la fluidità insuperabile dello stile. Con
questo criterio scelsi poi tutte le altre poesie. Esperimentai un
particolare vantaggio nell'imparar sonetti; le cui locuzioni,
entrando nella mente strette e chiuse in una breve forma compiuta,
vi rimangono impresse più distintamente, quasi in disparte,
e pronte tutte insieme a ogni richiamo del pensiero; e però
imparai centinaia di sonetti di tutti i secoli. La
facilità, che acquistai con quest'esercizio, di mandar
versi a mente, non è credibile da chi non n'abbia fatto la
prova; né sarei creduto se dicessi quanti me ne insaccai
nella testa. E non ne perdetti, in molti anni, che un'assai
piccola parte, perché ebbi ed ho ancora la consuetudine di
riandare di quando in quando, un poco per volta, e con
cert'ordine, la materia acquistata. Spesso, nei ritagli di tempo,
nelle passeggiate solitarie, e di notte, quando non viene il
sonno, e dovunque aspetti qualcuno, mi ridico mentalmente dei
versi. Ma quello che me li stampò nella memoria in forma
incancellabile è l'uso, a cui sempre m'attenni e m'attengo,
quando m'occorrono lacune e incertezze, di non ripararvi mai
ricercando il testo; ma di cercare tranquillamente e pazientemente
nel mio capo le parole e le frasi che mancano, o che si sono
alterate; nel qual lavoro mi move una curiosità
d'indovinatore d'enigmi, che me lo rende oltremodo piacevole. Dopo
aver studiato per [106] lungo tempo nient'altro che versi, mi
diedi alla prosa, scegliendo nei migliori scrittori quelle pagine
diventate celebri per forza d'eloquenza, nelle quali è un
ritmo oratorio che rende più facile l'impararle a mente. E
studiai e so a menadito parecchie delle più belle parlate
dei personaggi del Decamerone, decine di pagine del Machiavelli,
quasi intera l'apologia di Lorenzino dei Medici, lettere del Caro,
frammenti di dialoghi di Galileo, discorsi del Carducci, molti dei
passi migliori dei Promessi sposi. Il maggior vantaggio di questo
studio è che con le parole e le frasi mi restano nella
mente la struttura dei periodi, la musica dello stile, l'andamento
del pensiero, proprio di ciascuno scrittore. E in che modo vi
restano! Non lo può immaginare chi non ha fatto un'egual
prova. A rischio di farla ridere alle mie spalle, le dico che
tutta quella prosa, quando la ridico a me stesso, o alla muta o di
viva voce, non mi par più roba d'altri, ma mia; che mi par
veramente che tutti quei pensieri siano usciti in quella data
forma dal fondo del mio cervello; ed è così fatta
l'illusione, che quando in luogo d'una parola o d'una frase del
testo me ne scappa un'altra, sento l'errore subito e scatto, quasi
offeso, come un musicista che senta una stonatura in una melodia
propria sonata da un altro. Da questo segue che nel parlare e
nello scrivere non m'accorgo punto delle locuzioni che adopero,
prese dalle pagine che so a memoria; poiché mi son tutte
così profondamente fitte nel capo, così intimamente
compenetrate coi pensieri abituali, che non le posso più
discernere da quell'altro materiale linguistico che abbiamo tutti
nella mente fin dall'infanzia, senza [107] saper né quando
né come vi sia penetrato. La ho persuasa della bontà
del mio metodo? Io ne son persuaso per modo dall'esperienza, che a
quanti giovani mi chiedon consiglio, do questo consiglio: -
Studiate a mente. Una pagina di prosa o di poesia, bella e ricca
di lingua, che vi stampiate nella memoria, che vi appropriate, che
vi assimiliate in maniera da parervi che sia pensiero, arte,
musica vostra, vi gioverà più di cento letture,
più d'un monte di note, più d'un mese impiegato a
scartabellar dizionarî. Studiate anche una cosa sola ogni
mese e vedrete qual vantaggio ne avrete dopo un anno. Cominciate
con la poesia, passate poi alla prosa. Oltre all'imparare il
materiale della lingua, scoprirete a poco a poco le più
segrete virtù musicali degli stili, le finezze più
squisite dell'arte dello scrivere, senza sforzo, per il solo
effetto della ripetizione. Vi formerete una biblioteca mentale in
cui troverete un piacere e un conforto grandissimo in mille
congiunture della vita, ogni giorno, ogni momento; un'Antologia
che avrete sempre aperta dinanzi agli occhi, dovunque siate, come
una visione permanente dello spirito; una raccolta inestimabile di
bellezze di lingua, non solitarie e fredde, ma contessute e
armonizzate dall'arte dei grandi maestri, animate dal pensiero,
scaldate dall'ispirazione: forma e sostanza, splendore e sapienza
ad un tempo. Io pensavo da principio che l'amore di questa maniera
di studio mi sarebbe scemato con gli anni; ma non scemò: si
fece più vivo. Ogni passo di scrittore ch'io so a memoria
è per me come un amico e un maestro di lingua che
m'accompagna da per tutto, sempre pronto a rallegrarmi e a
insegnarmi qualche cosa. Oggi ancora, quando leggo una poesia
[108] o uno squarcio di prosa magistrale, dico a me stesso: -
Facciamoci un nuovo amico, - e me lo faccio, con una
facilità maravigliosa oramai. Ella, per bontà sua,
dice che sono uno scrittore. Ebbene, sono diventato uno scrittore
in questo modo. E può scrollar le spalle chi vuole: io
continuo.
Il miscellaneo.
Un metodo, io? Ma le pare che un arruffone par mio
possa avere un metodo? Io non sono che un dilettante, che studia
la lingua per ispasso, in una maniera affatto irragionevole. Ho un
così detto Gran libro della lingua, nel quale esperimento
tutti i metodi; ma seguo di preferenza quello che tengono
inconsciamente i bambini nell'imparare a parlare: un curiosissimo
libro, in cui si rispecchia il disordine matto della mia mente, il
perpetuo trescone che ballano le idee nel mio capo. Lo vuol
vedere? È una maraviglia di scapigliatura intellettuale.
Mentre lei lo sfoglierà, io le darò le spiegazioni
occorrenti, e può darsi che si diverta.
Dicendo questo, tirò giù da uno
scaffale un grosso registro, che pareva il Libro maestro di una
Casa di commercio, e me lo mise aperto sul tavolo.
- Veda - mi disse - le prime pagine. Io vi cominciai
a notare parole e frasi prese dagli scrittori, man mano che li
andavo leggendo, senz'ordine di tempo né di materie. Vede
che si salta dal Boccaccio al Giusti, da Gino Capponi al
Guicciardini, dal Cellini al Leopardi. Noti qui, fra gli estratti
di due trecentisti, uno studio sulla [109] terminologia del
vestiario femminile, che feci sulla traduzione d'un romanzo
francese, fatta da Ferdinando Martini; e più oltre, accanto
a una pagina d'aggettivi prediletti da Dante, una serie di
locuzioni relative al vino, pescate nel ditirambo del Redi. Questo
le può dare un'idea del metodo. E ora veda lei, più
innanzi, se ci si raccapezza. Nelle pagine seguenti, in fatti,
trovai il più strano disordine che si possa immaginare.
Elenchi di proverbi toscani; infilzate di vocaboli e di frasi
ingiuriose; una pagina intitolata: - Vari modi di dar dell'asino
al prossimo; in un'altra pagina, sotto un grosso titolo: - Alla
gogna - registrati tutti i più marchiani francesismi e
idiotismi d'uso corrente nei giornali e nella conversazione, e ad
alcuni di quelli scritto accanto: - Guardati! -; quelli appunto,
mi spiegò l'amico, che solevano più spesso scappare
anche a lui nello scrivere e nel parlare. Alternati con questi,
altri elenchi di frasi e di parole, abbracciati da grandi graffe,
lungo le quali era scritto: - Ti fanno paura? - e disse ch'erano
modi efficaci ch'egli non usava mai, e che aveva messi in mostra
in quella forma per rammentare a sè stesso d'usarli. Poi
una serie di dizionarietti speciali: di giochi fanciulleschi, di
difetti fisici, di motti scherzosi, di colori, di piante, di
strumenti di lavoro, illustrati di figurine schizzate con la
penna, per chiarire il significato e facilitare la memoria delle
parole. C'eran disegnati un violino e una finestra, con su scritti
i nomi di tutte le loro parti, e una figura umana in caricatura,
che aveva scritto sopra il capo: pera, sul naso: nappa, sul mento:
bietta, su ventre: buzzo, sulle mani: mestole, sulle gambe: seste,
[110] sulle scarpe: - ciotole. Lessi una Pagina delle busse, nella
quale erano notate tutte le forme di percossa possibili, dal
rovescione al biscottino, con tutti i verbi con cui si può
designare l'azione: accoccare, appiccicare, appioppare, allungare,
ammenare, appoggiare, assestare, azzeccare, ammollare, affibbiare,
barbare, distendere, consegnare, fiancare, misurare, piantare,
rifilare, rivogare, somministrare, tirare: un tesoro di
gentilezze. Di tanto in tanto, in grandi caratteri: - Esercizi
ginnastici - e sotto, un dialogo strambo, nel quale due persone,
collegando a dispetto dei santi le idee più disparate, si
palleggiano tutte le locuzioni registrate nelle dieci o venti
pagine precedenti; o aneddoti o descrizioni bizzarre, in cui tutte
quelle locuzioni sono pigiate a forza, o periodi a chiocciola,
dove una stessa idea è espressa parecchie volte di seguito
in forma diversa. Alcuni di questi esercizi, intitolati Scrigni
poetici, erano sonetti e versi sciolti, nei quali l'amico aveva
incastrato una quantità di modi, per ricordarli meglio, in
grazia del ritmo. Fra due di queste poesiole c'era un discorso
d'un pedante marcio, tutto tessuto di quei vocaboli e di quelle
frasi antiquate, che nessuno usa più parlando, ma che
qualcuno s'ostina ancora a scrivere, sfidando eroicamente il
ridicolo; altrove il discorso d'un lezioso; più là
il soliloquio d'uno sgrammaticante, con le sgrammaticature
più frequenti nella conversazione della gente per bene. Mi
cadde sottocchio, fra l'altro, una pagina di Spazzature, dov'era
raccolto un buon numero di quelle frasi fatte, calìe
letterarie, o fiori secchi di rettorica, che ricorrono di continuo
nei discorsi e nei brindisi, e che son diventati odiosi [111] a
tutti oramai, anche a quelli che li usano, quando li sentono usare
dagli altri. Ma sopra ogni cosa attirò la mia attenzione e
mi parve strana una grande quantità di parole e di frasi
segnate a capo e a piè di pagina, sui margini, tra riga e
riga, a traverso lo scritto, un po' da per tutto, alcune in
istampatello, altre inquadrate in quattro tratti di penna, o
scritte con matita rossa, verde o turchina, o sormontate da un
Nota bene, o fiancheggiate da un punto esclamativo, o da un
crocione, o da una bandierina disegnata: parole e frasi, che
l'amico mi disse d'aver appuntate così a caso, dove prima
gli veniva, man mano che le intoppava nei libri, e contrassegnate
in quella maniera, perché attirassero il suo sguardo e gli
si rinfrescassero nella memoria quando egli sfogliava il librone
per cercarvi o per notarvi altre cose. Tutto il librone n'era
tempestato, e anche molte di queste note illustrate da piccoli
schizzi di figure umane, di mobili, d'utensili, d'oggetti d'ogni
genere; e v'eran qua e là delle pagine bianche, preparate
per altre note, coi titoli già scritti. Trovai in ultimo un
elenco di quei modi dialettali, che si sogliono scansare con gran
cura, benchè appartengano pure alla lingua, e siano
correttissimi, e nella pagina accanto una raccolta di frasi di
complimento antiche e moderne, alla quale faceva riscontro un
piccolo dizionario di moccoli smorzati, di quelle esclamazioni
vigorose di maraviglia o di dispetto, che la gente ben educata
sostituisce ai sacrati autentici, quando è in una compagnia
a cui si devono dei riguardi. Arrivato a questo punto,
benchè mi destasse un senso d'ammirazione l'amor della
lingua vivissimo che si [112] manifestava in quella strana
rigatteria filologica, non potei trattenere una risata. Ma il
bottegaio non se n'ebbe per male; tutt'altro. - Bene! - mi disse.
- Mi fa piacere di vederla ridere. È il commento che
desideravo e aspettavo, perché giustifica la mia mancanza
di metodo, ed è un modo di riconoscere che si può
far dello studio della lingua uno spasso amenissimo, come io
faccio appunto. Studiando la lingua io scrivo versi, recito la
commedia, lavoro di mosaico, faccio ginnastica con la penna,
rivedo le bucce agli altri e a me stesso, rido, tesoreggio,
disegno, fantastico, e serbo una libertà di spirito che
esclude ogni fatica e ogni noia. Non è un metodo; ma un
modo che credo convenientissimo a tutte le teste disordinate e
svolazzatoie com'è quella che porto sulle spalle. Veda, io
non darei questo libraccio per un peso eguale di biglietti da
cento. E se lo stampassi, credo che farebbe furore. Certo sarebbe
il trattato linguistico più originale che si sia pubblicato
mai, e forse non il più inutile. Dopo la mia morte, chi sa!
O lo lascerò alla Biblioteca Vittorio Emanuele, di Roma.
Il vocabolarista.
Per imparar la lingua io leggo assiduamente, oltre
gli scrittori, il Vocabolario. Non lo leggo soltanto perché
è il solo libro che, se non tutta, contiene quasi tutta la
lingua; ma anche perché mi diletta l'immaginazione, senza
turbarmi l'animo, non movendo in alcun modo le passioni; dalle
quali rifugge la mia indole tranquilla. Dico di più: che
per me non c'è altro libro che diletti altrettanto, per
poco che l'immaginazione [113] del lettore si presti a vivificar
la lettura. Per me le parole sono creature umane, e le colonne,
strade, dove passa una folla maravigliosa. In questa folla
incontro conoscenti e sconosciuti; indifferenti che lascio
passare, figure curiose con cui mi soffermo, vecchi amici che mi
son famigliari fin dai primi anni, persone con le quali ebbi
relazione un tempo, e che dimenticai in seguito, e che riconosco
con piacere, e altre che cercai un pezzo nel regno dei libri,
senza trovarle, e a cui faccio festa, come si fa a un amico
inaspettato, che ci venga a cavar da un impiccio. Vedo nelle
parole immagini di scienziati, di poeti, di pedanti, di villani,
di beceri, di patrizi, d'operai, facce benigne e sinistre, e
buffe, e tragiche, e figure di ragazze snelle e gentili, di
donnine semplici o affettate, e di vecchie venerabili, sei volte
secolari, che parlarono col Boccaccio e con Dante, e serbano la
fresca vivacità della giovinezza. E ciascuna mi desta un
pensiero, e alla più parte mi scappa detto qualche cosa,
passando. - Ti saluto, simpatia! - Mi rallegro con lei, finalmente
assunta all'onore del Vocabolario. - Passa via, svergognata. - O
lei, che mille volte m'è entrata e mille volte sfuggita
dalla mente, quando si risolverà a rimanervi? - Te non ti
ci voglio, chè non t'ho mai potuta patire. - Si fermi lei,
e mi dica bene una volta quello che vuol dire, chè non l'ho
mai saputo per l'appunto. - Le parole seguite da derivati e
diminutivi mi danno l'immagine di padri o di madri con un codazzo
di figliuoli e di nipoti grandi e piccoli; quelle cadute fuor
d'uso, di superstiti d'altre età, che si trascinino, e non
si ritrovino in mezzo alla folla giovanile [114] che passa, o
d'ombre di trapassati, ricordate nel dizionario da una lapide;
quelle di significati diversi, di faccendieri che facciano ogni
arte; le nuove, d'origine straniera, di viaggiatori arrivati di
fresco, con la valigia alla mano. E incontro greci e romani
antichi, e italiani d'ogni secolo, e visi e vestiari di tutte le
regioni d'Italia. Tutti i mestieri, tutte le scienze, usi e
costumi di ogni classe sociale e d'ogni popolo, tutti gli stati
dell'animo, tutte le forme e tutti gli strumenti
dell'operosità umana, tutti gli aspetti della natura e
tutte le epoche della storia mi passano dinnanzi nel Vocabolario.
Ed è il mio maggior diletto appunto questo passaggio
continuo dall'una all'altra idea disparatissima, questo procedere
a salti, a volate subitanee da cose materiali a cose ideali, da un
polo all'altro del mondo intellettuale, questa fuga vertiginosa di
luoghi, d'oggetti, di genti, d'orizzonti, di secoli, nella quale
il mio pensiero balena più fitto, la mia fantasia batte
più rapidamente l'ali che nell'impeto d'un'inspirazione
creatrice. E quanti ricordi mi destano le parole! Moltissime,
sonandomi nella mente, risvegliano e fanno uscire dai recessi
della memoria volti, nomi, casi, momenti della vita, che da
più o meno tempo vi stavano rimpiattati e ignorati. Una
parola antiquata o poetica mi rammenta una persona che spesso la
diceva, facendone pompa fra gli amici, i quali ne sorridevano,
toccandosi a vicenda col gomito; un'altra mi fa riudir l'accento
d'un lontano o d'un morto, che la pronunziava in certo modo suo
proprio; questa mi richiama alla mente un linguista che le mosse
guerra e uno che la difese, e le dispute che vi fecero intorno, e
le impertinenze che si [115] scambiarono pel fatto suo; quella mi
ricorda un verso celebre o un motto storico o una scena di
commedia o un angolo di salotto dove la intesi dire storpiata o a
sproposito. E a certi nomi di malattie mi si levan davanti le
immagini di amici perduti; rivedo certe tavole di banchettanti a
leggere certi vocaboli gastronomici; in certe parole onomatopeiche
infantili risento la voce dei miei figliuoli bambini; e molte mi
fanno balenare alla mente le sembianze degli scrittori che le
predilessero: la fronte grave del Machiavelli, gli occhi ardenti
del Foscolo, il viso pallido del Leopardi. Ho detto in che modo mi
diverto: mi domanderete in che modo imparo. Vi dico come.
M'arresto ogni momento a pensare. Ecco, per esempio, un vocabolo,
che soglio usare in un significato che non è propriamente
il suo: bisogna che me ne fissi nella mente, una volta per sempre,
il significato vero. Eccone un altro del quale abuso: vi segno
accanto: liberarsene, e segnerò poi quelli che
troverò, che vi si possano sostituire. Segno una parola
d'uso comune, che non uso mai, benchè sia spesso
necessaria: perché non l'uso? quale altra adopero invece?
che differenza passa fra l'una e l'altra? Trovo parole
efficacissime e generalmente usate che in nessun modo mi si
vogliono appiccicare alla memoria, come se ci fosse nella loro
forma e nel loro suono qualche cosa di ripugnante all'occhio della
mia mente e al mio senso dell'armonia: e faccio un atto vivo della
volontà per istamparmele nel cervello. Ad ogni vocabolo
segnato come fuor di corso, o d'uso non comune, cerco quello che
vi si è sostituito o che s'usa più comunemente in
sua [116] vece; mi provo a definire il significato di certe parole
prima di leggere la definizione stampata, e raffronto con questa
la mia; m'esercito a cercare esempi di scrittori o dell'uso
parlato corrente da aggiungere a quelli che il Vocabolario
registra; e via discorrendo. Vedete come e quanto si può
studiare sul Vocabolario! E non dico delle nuove parole che
imparo, che ignoravo affatto; delle nozioni elementari d'ogni
scienza, che acquisto o rettifico e chiarisco nella mia mente; dei
proverbi, delle sentenze, dei consigli pratici, utili alla vita,
delle infinite immagini, sussidio all'arte dello scrivere, che
raccolgo passando. Sin dalla prima lettura segnai con lunghi
tratti di penna sui margini tutte le serie di parole che non giova
rileggere, e così procedo ora senza perder tempo. E di
questa lettura non mi stanco mai. Sebbene io abbia letto il
Vocabolario tante volte che certe pagine, certe colonne mi son
rimaste nella memoria come armadi aperti, in cui vedo ogni parola
al suo posto, quasi nell'ordine alfabetico col quale v'è
collocata, mi dà sempre un nuovo diletto ogni lettura;
qualche cosa da imparare trovo sempre, sempre nuovi passaggi e
contrasti inaspettati e strani fra vocaboli che si toccano, nuovi
richiami di ricordi, nuove sorgenti di comicità, nuovi
segreti e virtù e maraviglie del verbo umano. E v'entro con
un senso sempre più vivo di reverenza pensando di quale
enorme lavoro di generazioni è il prodotto quell'enorme
materiale di lingua, che lunga e varia e venturosa vita ogni
parola ha vissuta, e per che mirabili vicende passeranno ancora la
maggior parte nei secoli, e che tesoro immenso di pensiero fu
accumulato e si spargerà [117] ancora per il mondo per
mezzo di quelle parole. Il Vocabolario! Ma è il grande
Museo, il tempio nazionale, la montagna sacra, sul cui vertice
risplende il genio della razza. E si tratta di freddo e vuoto
pedante chi lo studia! Ma io istituirei delle cattedre per
leggerlo e per commentarlo; ma.... Suona l'ora. Faccio punto.
È l'ora della mia lettura quotidiana. Salute.
[118]
IL MODO MIGLIORE.
Ora, dei cinque modi, che abbiamo visti, di studiare
la lingua, tu domanderai quale sia il meglio.
Il meglio, a mio parere, è il sesto. Voglio
dire un metodo, il quale raccolga quanto v'è di buono in
quei cinque.
Leggere attentamente i buoni scrittori, segnando sul
libro, se si può, per ritrovarle poi facilmente, le voci e
le locuzioni che ci riescon nuove e che ci vogliamo appropriare,
cercando di fissarcene nella mente, senza l'aiuto della penna, il
maggior numero possibile, con quanto occorre del testo a chiarirne
bene il significato e a farne sentire tutto il valore; mandar a
memoria poesie e squarci di prosa, nei quali al pregio del
pensiero o del sentimento e alla bellezza dello stile sia
congiunta una particolar ricchezza di lingua; notare il meglio del
materiale che si ricava dalle letture, dividendolo e
raggruppandolo intorno a certi soggetti, perché riesca
più facile ritenerlo e ritrovarlo; esercitarsi, scrivendo,
a maneggiare il materiale [119] raccolto con abbozzi di
componimenti, di periodi, anche di semplici frasi, che siano come
i bozzetti che buttan giù i pittori per acquistare la
padronanza della tavolozza; e leggere ad un tempo, rileggere,
studiare il vocabolario.
Quest'ultimo studio ti raccomando in particolar modo,
perché è quello che più difficilmente
s'inducono a fare i giovinetti.
Ma occorre intendersi bene.
Una trentina d'anni fa, con uno scritto diretto
particolarmente ai giovani, io raccomandai la lettura del
vocabolario. Nel corso di questi trent'anni parecchi mi scrissero,
e altri mi dissero presso a poco quello che segue: - Abbiamo
seguìto il suo consiglio, o meglio, ci siamo provati a
seguirlo; ma non c'è riuscito di tirare innanzi: la lettura
del vocabolario ci addormentava; ci vuole una pazienza di
Benedettini per reggerci; abbiamo smesso.
Ecco. Rispondo prima di tutto che senza pazienza non
si riesce a imparar la lingua in nessuna maniera, e che la
pazienza di studiare il vocabolario l'ebbero scrittori di grande
ingegno, come il Manzoni che postillò la Crusca per modo da
non lasciarne vedere i margini, Teofilo Gautier, che teneva il
vocabolario sul tavolino da notte, Gabriele d'Annunzio, che legge
persino dei vocabolari tecnici, dalla prima all'ultima parola.
Rispondo in secondo luogo che quella è una lettura che non
va fatta a modo dell'altre. Se tu ti metti a leggere il
vocabolario come un romanzo o una storia, con l'idea di correrlo
tutto d'un fiato, per finirlo il più presto possibile, e
liberarti dalla fatica, non solo ti farai nella mente una grande
confusione, senza [120] cavarne alcun frutto; ma non reggerai a
leggerne una decima parte, si capisce, chè
t'ammazzerà la noia prima d'arrivarci. È una lettura
che si deve fare a poco per volta, a pezzi e bocconi, con l'animo
tranquillo, quando ci si ha disposto lo spirito, e non di corsa,
ma a rilento, accompagnandola passo per passo, come ti disse il
Vocabolarista, con un lavoro di memoria, di ragionamento e
d'immaginazione. Bisogna, insomma, mettersi alla lettura e
procedervi per modo, che quello studio finisca a poco a poco con
non più richiedere uno sforzo di volontà, e diventi
una consuetudine, cessi d'essere una fatica, e si muti in un
piacere.
Dirai: - È presto detto.
Hai ragione: è presto detto. Ebbene,
farò qualche cosa di più. Ti propongo di fare una
prova insieme. Pigliamo, per esempio, il Novo dizionario italiano
del Petrocchi: una lettera qualunque, la lettera P, e leggiamola
tutta. M'ingegnerò di farti vedere come si deve leggere il
vocabolario, o, per dir meglio, ti farò vedere come io lo
leggo, in che maniera mi ci diverto e c'imparo, che è la
maniera in cui mi pare che anche tu ti ci possa divertire,
imparando; e nel far questo, userò con te la più
grande sincerità, come con un compagno di scuola: ti
confesserò le mie ignoranze, i miei stupori e i miei dubbi,
che ti gioveranno forse, se te ne ricorderai, nelle tue letture
avvenire. Sarà una prova un po' lunghetta, benchè io
proceda alla lesta, omettendo le parole più comuni, e anche
molte che non son tali, e un gran numero di vocaboli tecnici e
storici; ma ci occorrerà spesso di ricrearci divagando e
scherzando. All'opera, [121] dunque. Apro il secondo volume, alla
lettera P. Incominciamo.
Ma no. Tu avrai bisogno di respirare. Svaghiamoci
prima insieme con qualche personaggio ameno: con un nemico del
vocabolario, questa volta, per non uscir d'argomento.
[122]
IL FALSO MONETARIO.
Falso monetario della lingua, s'intende. Era un
pittore ligure, digiuno di lettere, ma pieno d'ingegno, che
parlava il più bizzarro italiano ch'io abbia mai inteso
dagli scali di Levante alle Colonie del rio de La Plata: tutte
parole storpiate, mutate di desinenza e di genere, o usate in
tutt'altro significato da quello loro proprio. Il suo magazzino
linguistico era come una tesoreria di monete false, adulterate o
calanti, ch'egli dava via a casaccio e in tutta buona fede. Questo
derivava principalmente dal fatto strano (ma nella gente incolta
non raro), che ogni parola insolita ch'egli leggesse o sentisse si
confondeva nella sua mente con un'altra parola usuale di suono
affine, o acquistava stabilmente nel suo concetto il primo
significato che, per certe analogie misteriose con altri vocaboli,
gli pareva dovesse avere. E siccome, avendo immaginazione viva e
spirito arguto, aveva bisogno, per esprimersi, d'un gran numero di
parole, e se ne appropriava di continuo, così gli fiorivano
sulla bocca gli spropositi con una [123] fecondità
maravigliosa. Per lui, ad esempio, donna in ghingheri e donna in
gangheri, inciprignita o incipriata erano la stessa cosa, e faceva
tutt'uno d'immerso e sommerso, evento e avvento, immane e immune,
stame e strame, eminente e imminente. Parlava nel modo che
può parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e
legge a vànvera, com'egli infatti udiva e leggeva. Usava
sgattaiolare per imitar la voce del gatto, sobbillare per fare il
solletico, cincischiato per azzimato. Diceva a un amico che s'era
fatto rader la barba: - Come sei tutto cincischiato questa
mattina! - e quello subito si tastava il viso, credendo che il suo
Sfregia lo avesse lavorato d'intaglio. Ricordo sfruconare, che per
lui era verbo omnibus. -. Questa mattina mi sono sfruconato a
colazione mezzo pollo. - Mi sfruconai l'abito contro il muro. - Lo
colsero sul fatto e lo sfruconarono ben bene. - Ho pagato dieci
lire questo straccio di cappello: m'hanno sfruconato. - Ad altre
parole faceva far cento servizi. Per esempio ad ambiente. Quando
il cielo era sereno: - Che bell'ambiente questa sera! - Che
cos'hai? Oggi non ti trovo nel tuo ambiente. - Per gli amici era
uno spasso. N'aveva ogni giorno una nuova, o parecchie. Fra le
più belle, che non riuscimmo mai a fargli smettere, c'era
voce stentorea per voce stentata e aureola per arietta. - Tirava
un'aureola deliziosa! - Un giorno, ritornando da Cavoretto, ci
disse che aveva trovato il paese tutto infestato. - Da qual
malanno? - domandammo. - Ma che malanno! - Voleva dire: il paese
in festa. Ma il più comico era la sicurezza con cui le
diceva, senza un sospetto al mondo dei [124] suoi reati
filologici, il colpo ardito con cui piantava lo sproposito, come
una bandiera vittoriosa. Le nostre risate non lo sconcertavano
minimamente. Alle osservazioni critiche scrollava le spalle. - Oh
che pedanti! - diceva. - Digrignare, digrugnare, ammaccare,
ammiccare, ruzzolare e razzolare, su per giù è lo
stesso. So bene che parlo un po' così, all'insaputa. Ma mi
capite sì o no? E tanto basta. - Di certi suoi qui pro quo
si capiva l'origine: era l'analogia fonetica fra due parole: da
sfracellare cavava sfracelo; gemicare credeva che volesse dire:
gemere sommesso. Ma come diamine poteva dire "una scaramuccia di
bicchieri sopra una tavola" per dire una quantità di
bicchieri in disordine, e si attuffarono per vennero alle mani? E
anche per quei nomi delle citazioni storiche proverbiali, che si
sogliono dir giusti anche da chi non ha cognizione alcuna del
fatto, faceva lo stesso lavoro. - La spada d'Empedocle. - L'anello
di Gigi. - L'orecchio di Dionisia. - Una che è una non
l'infilava, e aveva una grande smania di citare. Per gli amici che
conoscevano il suo ingegno, il suo modo vivo e colorito di
raccontare e di descrivere e la vera eloquenza con cui parlava
qualche volta dell'arte sua, quella profluvie di svarioni era una
singolarità piacevole, non derivante che da un'imperfezione
del suo organo uditorio e della sua facoltà mnemonica; ma
chi non lo conosceva, la prima volta che l'udiva parlare a quel
modo, sospettava che n'avesse un ramo, e lo guardava con
diffidenza.
Fra le molte scene lepide di cui fu causa la sua
maniera di parlare, ricordo quella che seguì in casa d'una
colta signora, alla quale lo presentammo. [125] - Signora - le
diss'egli, appena presentato -, io son fatto alla buona, non so
spiaccicare complimenti; ma so che lei preferisce la
sincerità alla raffineria.
La signora lo guardò, stupita; poi rispose: -
È vero. Preferisco mille volte la brusca sincerità
alla finzione cortese.
- Quanto a questo - ribattè l'artista - le
assicuro che l'infingardaggine non è fra i miei difetti.
Ciò detto, si staccò dal crocchio, per
parlar con altri; ma, voltatosi a un tratto e colto a volo un atto
che faceva a noi la signora, come per dirci: - Ma quest'artista
non ha il cervello a segno - credendo ch'ella accennasse d'aver
male al capo, le disse cortesemente: - È effetto del tempo,
signora. Anche a me questo tempo linfatico rende la testa pesante.
Fu quello uno dei suoi più "brillanti
successi." E appunto quello strano epiteto affibbiato da lui al
tempo, confondendo l'idea della linfa, umore del corpo umano, che
somiglia all'acqua, con l'idea dell'acqua piovana, è un
esempio che spiega
come si formassero nella sua mente certi strafalcioni.
E son più frequenti che non si creda i
parlatori di questo stampo, questi sbadatoni e fracassoni
terribili, che nel campo della lingua rovesciano e rompono ogni
cosa, come farebbe un toro imbizzarrito in un magazzino di
chincaglierie. Ma di maravigliosi come lui non n'intesi altri.
Quanti ameni ricordi ci lasciò, che sono nella nostra mente
sorgenti inesauribili di buon umore! Che impareggiabili trovate!
Quel tenore del teatro Balbo che gli stralciava gli orecchi con le
sue [126] detonazioni! E quel certo suo amico che gli aveva
raccomandato che gli telegrafacesse immediatamente l'esito di non
so quale concorso! E quel Crispi, il suo adorato Crispi, che
sarebbe diventato il perno motrice della politica europea! E
quelle guerre intestinali della Francia!
Tu mi perdonerai, mio buon anarchico della grammatica
e del dizionario, d'aver fatto ridere qualcuno alle tue spalle: tu
comprenderai che non l'ho fatto per mal animo. Non posso aver mal
animo con te, poiché per te serbo la più viva
gratitudine. Vedendoti pigliare quei granchi enormi, imparai a
scansare certi granchi minori, che di tanto in tanto pescavo io
pure; tu m'infondesti nell'animo, meglio d'ogni professore di
lettere, il terrore salutare del farfallone; e un'altra saggia
cosa m'insegnasti: a non giudicar mai lì per lì dal
modo di parlare, per malandato che questo sia, le facoltà
intellettuali d'un mio simile. Ti ringrazio dunque pubblicamente;
e non per burla, ma per affetto mi servo ancora delle tue parole
per dirti che la tua memoria mi è sempre sommersa nel
cuore, e che vi rimarrà finchè la Parca non recida
lo strame della mia vita.
[127]
UNA CORSA NEL VOCABOLARIO.
P.
P. - Quattordicesima lettera dell'alfabeto. Che
novità! Un momento. Nota che è in generale maschile;
più spesso maschile che femminile, dicono altri. Ma sul
genere delle lettere bisogna fissarsi bene perché occorre
spesso di rammentare questa o quella vocale o consonante per
canzonare errori d'ortografia o di pronunzia del prossimo, ed
è ridicolo, nell'atto stesso che si canzona un errore
d'altri, sbagliare o mostrare incertezza riguardo al genere della
lettera a cui s'accenna. Nota anche quel P. C., per
congratulazioni o condoglianze. Siccome le condoglianze si fanno
quasi sempre per morti, non ti pare che quel p. c., usato da
molti, sia un po',... villanamente asciutto, salvo che si tratti
della morte d'un cane? Chi, per condolersi con me d'una disgrazia
qualsiasi, mi scrive un semplice p. c., m'ha l'aria di voler dire
per canzonatura o per cavarmela. Ed è veramente canzonatura
il fare un atto di gentilezza con un'avarizia così
spilorcia d'inchiostro.
[127]
PACCA, PACCHINA. - Colpo della mano aperta. - Non
m'occorre, dirai; ci sono tant'altre parole per dir la stessa
cosa! Adagio un po'. Se tu dici a un bambino, per ischerzo: - Bada
che ti do una manata o uno scapaccione -, all'orecchio della mamma
può sonar male lo scherzo. Se dirai una manatina o uno
scapaccioncino, dirai una parola che non è d'uso corrente.
Pacchina è la parola che fa al caso. Inezie! Ma, nel
parlare come nello scrivere, si manifesta appunto in queste inezie
il senso della convenienza e della finezza.
Hai ragione, invece, se mi dici che si può far
di meno della parola PACCHÉO, che vien dopo, per dir
baggeo, uomo stupido. È da notarsi che di queste parole che
suonano scherno o disprezzo, come di quelle che designano
percosse, il vocabolario è mirabilmente ricco: se lo
leggerai tutto, ci troverai una miniera di modi d'ingiuriare il
prossimo e di termini relativi all'arte di menar le mani;
ciò che non è un segno consolante della gentilezza
della natura umana. Non c'è forse altra famiglia di modi
più numerosa, se non è quella che si riferisce alla
"noia di mangiare e bere".
E a proposito, ecco la parola PACCHIARE, mangiare,
che molti lombardi stupirebbero di trovar nel vocabolario
italiano: è il loro paciáa, donde paciada, mangiata,
d'uso volgare. E tu, piemontese, troverai, andando innanzi, un
gran numero di parole del tuo dialetto, che credi non siano della
lingua. Rideresti, per esempio, se sentissi dire in italiano:
PACCHIUCO, che è il piemontese paciocc; fango, mota e
simili. Ed eccolo qua, seguito da Pacchiucone, pasticcione, che
è il [129] piemontese paccioccon. E c'è poco sotto
Pacioccone, più somigliante dell'altro al vocabolo
dialettale, ma che in italiano ha significato diverso, cioè
di persona grassa, e par che dica la cosa anche col suono.
Questo pacioccone anonimo ci conduce nel regno della
pace.
Il pane è la pace della casa. Che profonda
verità! A quante cose fa pensare questo semplice proverbio,
in cui balenano tutte le tristezze e le tempeste domestiche che
derivano dalla miseria! E nota l'esempio: - Viene avanti con tutta
la sua pace. - Non c'è l'immagine viva dell'indole,
dell'aspetto, dell'andatura d'una persona?
PACIERE. Ebbene? Niente. Sorrido a un ricordo mio,
d'un'antica edizione del Conte di Carmagnola del Manzoni, che ebbi
tra mano da ragazzo, nella quale all'ultima scena, dove il Conte
dice di sperare che la propria morte riconcilierà il duca
Visconti con la figliuola, in vece di: è un gran pacier,
era stampato: è un gran piacer la morte; ed è quasi
mezzo secolo che ogni volta ch'io trovo quella parola mi ricordo
d'essermi scervellato un bel pezzo a pensare come fosse potuta
sfuggire ad Alessandro Manzoni quella stramberia.
PACIFICONE. Ecco una parola comunissima che in venti
volumi che ho sulla coscienza sono ben sicuro di non aver usata
mai, benchè mi sia occorso chi sa quante volte d'esprimere
l'idea ch'essa esprime; ciò ch'io feci senza dubbio con
più d'una parola, o con un'altra meno propria. Dunque,
memento.
- Come? - mi domanderai -; anche alla Padella ci
dobbiamo fermare? - Sì, signore, e [130] c'è il suo
perché; sono anzi due. Lo sai che si chiama occhio il foro
che è nel manico dell'utensile benemerito, per attaccarlo
al chiodo? E sai che si chiama padella il piattello di latta, di
cristallo o d'altro, che si mette sotto il lume o sul candeliere
per riparar l'olio o la cera? - Ma son minuzie, - mi rispondi -; o
se m'occorrerà due volte o tre nella vita di nominar quelle
cose! - E batti! Ma siccome (e già lo dissi) ci sono altre
migliaia di piccole cose, che nella vita avrai da nominar poche
volte, se tu trascurerai d'impararne i nomi perché son cose
di poco conto, ti troverai migliaia di volte impacciato. Ti
capaciti? E nota il vantaggio che ti dà la lettura del
Vocabolario, dove, essendo detti tutti i significati di ciascun
vocabolo, tu puoi imparare insieme i nomi di diversi oggetti,
ciascun dei quali ti rammenterà l'altro. Vedi, per esempio,
più avanti, la parola PALA. Pala, attrezzo comune, pala del
remo, pala del timone, pala delle ruote dei molini. - Vedi PALCO.
I palchi fronzuti d'una quercia, i palchi delle corna, i palchi
delle pine, un vestito di seta con trine a tre palchi; palco
morto, quello che si dice in piemontese sopanta. - Poi PALLINO.
Pallino da caccia, pallino delle bocce, della sella, della
balaustrata, della chiave maschia; soprannome d'un cane, d'un
cavallo, ecc.; bambino grassoccio. Più sotto, dietro
PARACADUTE, una filza di cose che parano: PARACAMINO, PARAFOCO,
PARAFUMO, PARAMOSCHE, PARAOCCHI, PARATASCHE, PARACENERE, PARACIELO
d'un pulpito, d'una carrozza, d'un tetto, ecc. Si piglia la lingua
a retate.
Rifacciamoci indietro. Ecco una bella parola per dire
una cosa che ci occorre di dire [131] spessissimo: PADREGGIARE,
d'un figliolo o d'una figliola che somiglia al padre, o, come si
dice famigliarmente, che tira dal padre. - Per solito le figliole
padreggiano, i figlioli madreggiano. - Ecco la parola PAESANO, che
noi dell'Italia settentrionale non adoperiamo quasi mai nel senso
di contrapposto a forestiero o a militare: - Vino paesano,
ufficiale vestito da paesano. - Ecco alle parole PAGA e PAGARE una
serqua di modi quasi tutti relegati fuor del nostro vocabolario
parlato. - PAGACCIA, un cattivo pagatore. - Essere il PAGA della
compagnia - dar le paghe, le busse. - Pagare a sgocciolo, alla
stracca, coi gomiti, a chiacchiere, a respiro, sul tamburo, sulla
cavezza, alla banca dei monchi, il giorno di San Mai, pagar di
schiena. - E alla parola: PAGLIA: aver altra paglia in becco - (un
altro amore) - mangiarsi la paglia di sotto i piedi (rifinire ogni
cosa) - batter la paglia (vagar col discorso) - rompersi il collo
in un fil di paglia - per ogni fuscello di paglia (per un
nonnulla)....
Segue una serie di nomi di cose utili a sapersi.
PALIOTTO, l'arnese di stoffa o altro che si mette davanti
all'altare; PALLA, il quadretto di tela per coprire il calice, e
il globo di vetro che si mette ai lumi; PALMENTO, la grande cassa
dove casca la farina che esce dalle macine (donde il modo:
mangiare a due palmenti); PEDANA, tappeto per sotto i piedi;
PEDAGNÓLO, il fusto dell'albero ancor giovane; PEDALE, il
fusto dell'albero da terra all'inforcatura; PELLÉTICA,
pelle della carne da mangiare, o pelle floscia o cascante della
persona; PELO, di marmi o pietre o vasi, fenditura sottilissima
somigliante ad un pelo. Sapevi tu i nomi di tutte queste cose? No?
[132] Ebbene, ti dico nell'orecchio che parte gl'ignoravo anch'io,
e parte li avevo dimenticati. E PALANDRA, per abito d'uomo a lunga
falda? Che cosa dice il Sor Palandra? Mi par di vederlo.
Una sosta.
Sostiamo un poco, e voltiamoci indietro. Vedi, nel
breve tratto percorso, quante parole abbiamo trovate, che ci hanno
destato un ricordo storico, portato l'immaginazione in ogni parte
del mondo, a cose remotissime di spazio e di tempo, dalle
palafitte lacustri dell'età preistorica alle architetture
palladiane, dai paleosauri fossili ai bacilli del Pacini! Abbiamo
visto passare la paggeria pomposa delle Corti, i principi
orientali portati in palanchino, i trionfatori romani in veste
palmata, i giovani greci lottanti al Pancrazio, e dame e sonatori
di lira e poeti tragici e ninfe cacciatrici di Diana ravvolte
nella palla, e i lottatori delle feste panatenée in onor di
Pallade, e i Bolognesi antichi plaudenti alla battaglia d'ova e di
porci della Pachetta. Ci son balenati dinanzi Attilio Regolo, che
con le palpebre arrovesciate, spasimando, guarda il sole, e
Carlomagno circondato di Paladini, e i Palleschi e i Piagnoni,
partigiani e avversari dei Medici, e i Francesi caduti nel sangue
delle Pasque Veronesi, e Paisanetto, la maschera genovese, e
Pantalone, la maschera veneziana, e Pantagruele, figlio di
Gargantua; e di là da questa maravigliosa processione, una
fuga di palazzi famosi, i palmizi ridenti di Liguria e di Sicilia,
e il Palatino e il Panteon e le paludi Pontine e l'orizzonte
immenso della Pampa. Pensasti mai, leggendo [133] altri libri, a
tante cose e così diverse in così breve tratto di
lettura? E quante n'ho tralasciate! Ma
Rimettiamoci in cammino.
PANACÈA. Tu non sei di quelli che pronunziano
panácea, non è vero? Non t'aver per male della
domanda: non di rado io sento dire stentoréo per
stentóreo, e qualche volta anche Satìro per
Sátiro, santissimi numi! E come sono efficaci le maniere: -
LEVAR DI PAN DURO -, per mangiar molto, non lasciar che il pane
diventi duro in casa; - MANGIARE IL PAN PENTITO - FINIR DI MANGIAR
PANE, per morire, e - PAN DI RICATTO - che si dice quando uno
rifà agli altri quello che hanno fatto a lui. E
RIMBRONTOLARE IL PANE a uno non è più espressivo di
rimproverare e rinfacciare? E com'è ben significato e quasi
effigiato l'ipocrita untuoso in BOCCA PARI, poiché FAR LA
BOCCA PARI vuol dire accomodar la bocca per ipocrisia! Un'altra
parola, PARI, che non s'usa quasi punto fuor di Toscana,
benchè serva a dire molte cose che non si possono dire
altrimenti che meno bene, o con più parole, ciò che
in fondo è il medesimo. Per esempio, come diresti tu in
altre parole: camminar pari pari o portar una cosa pari pari,
perché non si spanda l'acqua che v'è dentro?
PARARE. È una di quelle tante parole comuni
alla lingua e al dialetto, le quali noi non usiamo in certe forme
perché, essendo queste anche dialettali, non le crediamo
forme italiane. Di' la verità: oseresti dire che una stanza
è buia perché c'è la casa di faccia che PARA?
PARA, senz'altro, sottintendendosi il sole, la luce? E dire: -
[134] Escimi davanti che mi PARI? E: un pastrano che PARA il
freddo? E a un bambino, offerendogli qualche cosa: PARA bocca?
PARA mano? PARA il grembiule? PARA il sacco? - No. Vedi, dunque.
Ma di queste parole e locuzioni dialettali e italiane ne abbiamo
già trovate parecchie nelle pagine antecedenti, e ne
troveremo di più in seguito. - TIRAR LA PAGA, per
riscuoterla. - Essere una cattiva paga, un cattivo pagatore. -
PAGHEREI che tu provassi il gusto che c'è a far questi
lavori - Non PAPPARE d'una cosa, non intendersene - Non aver
PAURA, non temere il confronto. - PELAR gli uccelli, le castagne,
PELARSI una mano con un ferro rovente. - Farsi PELARE, per farsi
tagliare i capelli. - PRENDERE di qui, di là, da questa
parte, da questa strada, per avviarsi. - PIGLIARSI, per isposarsi.
Pare che que' due si PIGLINO. - Lo so DA PER ME, viene DA PER
SÉ. - PILUCCARE uno (plucchè, piemontese) per
pigliargli i denari. - È un PIGLIA PIGLIA (ciapa, ciapa). -
E PAPPINO, PASTONE, PATAFFIONE, PATATUCCO, PIOTA, QUEI POCHI, per
servo d'ospedale, pasto per le galline, uomo grossolano, uomo
stupido e bizzarro, pianta di piede grosso, quattrini. Vedi di
quanti vani scrupoli e paure ti puoi liberare leggendo il
vocabolario.
Conosci i modi: PARLARE con le seste, PARLUCCHIARE
sul conto altrui, PASSAR PAROLA a qualcuno d'un affare, aver
PASSATO con alcuno POCHE PAROLE, entrar in parole, pigliarsi a
parole? - Provati a trovare un altro modo che equivalga appunto
quest'ultimo, e vedi se PARTICOLARE, nella frase: - Tu sei
PARTICOLARE, veh! - da noi non mai usato, non dice qualche cosa di
[135] più di curioso e qualche cosa di meno d'originale o
strano, che qualche volta sarebbe troppo. E diciamo mai pascolare
in senso attivo, come nell'esempio: - Andò a PASCOLARE le
pecore -? PASSATELLA, di donna avanzata in età, è
uno di quei modi riguardosi, da registrarsi nel Galateo della
lingua, i quali possono attenuare, in certi casi, il risentimento
d'una signora rispettabile. E nota pure, perché ti
può occorrere: - tirare una PASSATELLA, che è mandar
la boccia in modo che tocchi quella dell'avversario per rimoverla.
- CANTARE A PAURA, che bel modo di dir: cantare per ingannar la
paura! E PENCOLARE nel senso di esser dubbio tra il sì e il
no? Ricordo un ragazzetto fiorentino che mi disse: - Io volevo che
mi lasciassero andar solo a vedere il serraglio: la mamma
pencolava, pencolava.... - Nota (e noto anch'io, perché son
parole che imparo con te): - PECETTA, per seccatore (bellissimo):
Levami questa PECETTA di torno. - PASTRANAIO, chi alla porta d'un
teatro o altro prende e conserva i pastrani. - PATACCONE, un
orologio grosso e vecchio. - PATATE (volgarmente) i calli. -
PECORELLE, la schiuma dei cavalloni. - PEDINARE, il correre per
terra degli uccelli....
In confessionale.
Qui apro una parentesi, che già volevo aprire
alla parola Paleografia, poi a Paleolitico, a Paleontologia, a
Palingenesi, a Palinsesto, a Paralipomeni, e che dovrei poi aprire
a Pirronismo o a Prammatica e ad altri vocaboli, se non lo facessi
in questo punto. Zitto! Non ti domando [136] se di tutti quei
vocaboli sai il significato: ti tratto da uomo. Quelle ed altre
molte appartengono a una famiglia di parole che si potrebbero
chiamare: della scienza sottintesa: parole che si senton dire
sovente nelle conversazioni della gente colta o mezzo colta, e che
spessissimo si leggono nei giornali; le quali molti non sanno o
sanno soltanto per nebbia che cosa significhino, e sarebbero
impacciatissimi a dirlo; ma fingono di capirle, perché
hanno coscienza che è alquanto vergognoso il non conoscerne
il significato. Fra quanti bravi signori, se fossero sinceri,
seguirebbe la scena di quei due giurati del Fucini, i quali, di
parola in parola, finiscono col dichiararsi a vicenda di non
sapere che cosa voglia dir recidiva, che credevano un delitto
snaturato! Ebbene, questo è uno dei tanti vantaggi della
lettura del Vocabolario: che tutti, scorrendo le sue pagine,
possiamo colmare una quantità di piccole lacune della
nostra cultura, le quali non confesseremmo neppure a un amico,
aggiustare i conti della nostra coscienza letteraria, di nascosto,
senza dover arrossire, come con un maestro fidato, che s'interroga
a quattr'occhi, e che dà le risposte nell'orecchio, e non
risponde soltanto alle nostre domande, ma ci svela pure molte
nostre ignoranze inconsapevoli, e vi ripara ad un tempo. Cito fra
le tante che ci passeranno sott'occhio una sola parola:
preconizzare, che quasi tutti sanno, ma che moltissimi non
intendono nel suo significato vero, poiché cento volte io
l'intesi usare nel senso di presagire, dove significa
propriamente: proclamare l'elezione d'un vescovo, e quindi, per
traslato, proclamare che che sia. Il Giordani [137]
preconizzò all'Italia l'ingegno del Leopardi. E si sente
dire: - Io preconizzai la pioggia fin da ieri! - E a proposito di
pioggia: una PASSATA D'ACQUA, una PASSATINA, per piccola pioggia,
e che passa presto, come dice bene la cosa!
Da "Pencolone" a "Piaccicone".
Credo che avrò detto cento volte uno che
pencola o pende camminando, e non dissi né scrissi mai:
PENCOLONE, che m'avrebbe fatto risparmiare parecchie parole.
Notiamolo per ragione d'economia. - L'albero cade dalla parte che
pende. I timorati della grammatica direbbero: dalla parte da cui o
dalla quale pende; ma è un modo che stride come un paletto
arrugginito. PENNA. Qui c'è un grappolo di modi che ti
possono occorrere ogni momento: PENNA CHE FA, CHE INTACCA, SCRIVE
CORRENTE, FA GROSSO, SOTTILE, STRIDE, SCHIZZA, LASCIA (non finisce
il tratto), SBAVA. - PENNATA, quanto inchiostro prende in una
volta la penna. - PENSIERO. Nota la locuzione: HO FATTO PENSIERO
di ritirarmi: è più che ho pensato e meno che ho
fatto proposito. - PENSUCCHIARE, pensare meschinamente. Questo
scrittore non pensa, ma pensucchia. - PENTOLINO. È bello il
modo: TORNARE AL PENTOLINO, per tornare alla sobrietà, alla
vita parsimoniosa di casa, dopo aver scialato. To': c'è
anche un modo per dir l'atto di riunire i cinque polpastrelli
della mano. FA' PEPINO, se ti riesce, si dice a chi ha le mani
aggranchiate dal freddo. E giusto, mostrami la mano: questa
pellicola staccata dalla carne vicino all'unghia si chiama PEPITA.
Tágliatela, e osserva l'uso del per nei modi seguenti, che
[138] per noi sono insoliti: - Si volsero PER ponente - Assalirono
il nemico PER fianco - PER bambino, ha molto giudizio. - PER
gobbo, dicono in Toscana, è fatto bene - Levò quel
ragazzo DI PER le strade - Dare una cosa PER DI. Gli hanno dato
questo quadro PER DI Raffaello. - E l'uso del perché in
quest'altro esempio: - La cagione perché io lo cacciai di
casa - più svelto che per la quale. PERDOVE. Volle sapere
il perché, il percome e IL PERDOVE. - Vedi com'è
graziosa la parola PERSONALINO per figura: - Quella ragazza ha un
bel PERSONALINO -, e com'è espressivo il costrutto: - I
facchini la mancia la pesano -; il quale tu usi ogni momento nel
dialetto, e non l'useresti in italiano, pensando che sia un errore
l'oggetto doppio: corbellerie! PESTARE uno di nerbate, un modo
vigoroso. PESUCCHIARE, per pesare abbastanza. Questo bambino non
pare; ma PESUCCHIA. PETTATA, salita piuttosto forte: fare una
pettata. - PETTEGOLATA, azione da pettegoli; bada: non
pettegolezzo. PRENDERE PER IL PETTO uno, fargli violenza. Un
piacere lo fo; ma non voglio esser PRESO PER IL PETTO. -
PIACCICHICCIO. Con questo PIACCICHICCIO di fango, non si cammina.
- PIACCICONE, PIACCICONA, chi fa le cose lentamente. - PIPA, per
naso grosso.... altrimenti Nappa, che è la napia del nostro
dialetto....
A proposito di Piaccicone, è da notarsi il
gran numero di parole comprese nella sola lettera P, le quali
definiscono il carattere, l'aspetto, il modo di moversi e
d'operare d'una persona; tutte occorrenti spessissimo, in special
modo nel linguaggio parlato. Per esempio: - Quel PALLIDONE
d'Eugenio. - Se tu dici invece: quella faccia [139] pallida, non
fai capir così bene che Eugenio è pallido sempre,
naturalmente. - PANCETTA, chi ha la pancia grossa. Maestro
Pancetta; scherzoso, ma non impertinente. - PAPPATACI, chi soffre,
mangia e tace. - PEPINO, è un PEPINO, di ragazzo o donna
arguta e frizzante. - PETECCHIA, uomo spilorcio. - PIDOCCHIO
riunto, rivestito, rifatto, rilevato, ignorante arricchito e
superbo. - PISPOLETTA, PISPOLINO (da pispola, uccello cantatore),
donnetta vezzosa, o ragazzo o bambino piacente. E ne tralascio
molte altre, che vedremo un'altra volta, per finir con Puzzone,
persona che puzza, e anche persona superba. - Tìrati in
là, puzzone, che mi mozzi il fiato. - Che si crede d'essere
quella puzzona? - E poiché si parla di puzzo, nota,
com'è detto bene di persona senza sentimenti e senza idee:
- SENZA PUZZI E SENZA ODORI -; che si potrebbe riferire anche a
scrittori e a libri corretti, ma vuoti e freddi, che lasciano nel
lettore.... il tempo che trovano. E ora, per riprender fiato,
un'altra occhiata alla
Lanterna magica.
Quante cose, oltre la lingua, in quest'altro breve
tratto che abbiamo percorso, e in altre poche pagine che possiamo
precorrere con lo sguardo! Armati ad ogni passo: Pentacontarchi,
Peltasti, Petardieri, Pretoriani; magistrati romani, con la
pretesta strisciata di porpora, plaudenti ai gladiatori dal Podio;
e poeti e re e numi e genti d'ogni età e d'ogni latitudine,
dai Pelasgi ai Lapponi.... che fabbricano pane con la corteccia
del PIN DI RUSSIA. E che strana processione, Pilade, Pilato,
Pindaro, Plinio, re Pipino, Petrarca, [140] Platone, Plutone!
Abbiamo visto Pegaso trasvolare nelle nubi, passare il
pétaso alato di Mercurio, Psiche spiar le forme dell'amante
incognito, Ulisse sterminare i Proci, Teseo giustiziare Procuste,
Pirra far degli uomini coi sassi, Progne cangiarsi in rondine e
Proteo in cento forme, e Perillo fabbricare l'orrendo bue
ciciliano, rogo e tomba di bronzo di corpi vivi. Abbiamo visto
fender l'acque le piroghe degl'Indiani, scorrer sull'Egeo la nave
capitana del Morosini il Peloponnesiaco, errar sul Ponte Eusino
l'ombra d'Ovidio; e Aristotele passeggiare nel Peripato e la
procuratessa Grimani in piazza San Marco; e meditar sulla pila
Alessandro Volta, e fuggire dalle Tuileries la testa a pera di
Luigi Filippo; e lontano, verdeggiar nell'azzurro i giardini
pensili di Babilonia e la vetta del monte Pimpla, sacro alle Muse.
Che fantasmagoria, per gli Dei Penati!
Cento pagine di corsa.
Di corsa, perché è ancora lunga la
strada, e tu la rifarai da te a più bell'agio. PIAGGELLARE,
lodare, dar dell'unto, più discreto di piaggiare, e anche
nel senso di ninnolare, divertir con ninnoli. - PIANGERE. Di un
vestito che non si confà a una persona si dice con traslato
felicissimo che le PIANGE addosso, perché fa le grinze d'un
viso piangente, e di scarpe tutte rotte: scarpe che PIANGONO a
cent'occhi. Dire che ho cercato tante volte il contrapposto di
valligiano, colligiano, senza trovarlo, ed eccolo qua: PIANIGIANO:
me lo appiccico sulla fronte. PIANTACAROTE.... Ma questa è
una parola comunissima, come l'azione che esprime. Ora, ecco una
manciata di modi [141] comuni a vari dialetti, di grande
efficacia. - PIANTAR spropositi. - PIANTAR uno a un dato posto (in
senso canzonatorio). - L'hanno PIANTATO agli arresti. - PIANTARE
una ragazza. - PIANTARE un amico lì su due piedi. (Un poeta
usò argutamente, in questo senso, la parola Piantagione). -
PIANTAR gli occhi in faccia a uno. - PIANTARE il discorso, e
andarsene. - PIANTAR casa. - PIARE, degli uccelli che cantano in
amore, e PÍO PÍO; e si dice anche PIARE delle
castagne e delle patate che mettono: - Non lo vedete che queste
castagne PÌANO? - PIENO, una delle tante parole che nel
vocabolario hanno il sacco: - PIENO zeppo, pinzo, colmo, gremito -
bicchiere PIENO RASO - piatto PIENO a CUPOLA - nel PIENO INVERNO -
nel PIENO DELLA NOTTE. - e così PIGLIARE: PIGLIARE a
cambio, a chiodo, a calo, e nel senso d'accendersi: - questo lume
non PIGLIA - e in altri significati: - vino che PIGLIA d'aceto -
pianta che non PIGLIA - mastice che PIGLIA appena.... Ah che
miseria! Pensare che io pure, vecchio al mondo, dico quasi sempre
queste cose in altri modi tanto meno spicci e meno propri! -
PINZO, PINZARE è proprio del morso degl'insetti. - Nota i
modi: - Starà poco a piovere. - Piove a paesi (in qua e in
là). - PÍPPOLO, che è una piccola escrescenza
delle piante in forma di bacca, si dice pure d'un'escrescenza
della carne: ho un amico al quale una gallina portò via un
píppolo dal naso con una beccata. PÍTTIMA, per
persona noiosa, è anche del nostro dialetto. A POCHINI A
POCHINI se ne spende tanti, molto più espressivo e garbato
che a poco a poco. - POPONE fatto, strafatto. - POPONE per gobba.
Mi ricorda il sonetto del Fucini, dove al [142] prete gobbo che
dice che l'uomo è fatto a somiglianza di Dio, Neri
risponde: - Con quel popone non me l'ha a dir lei. - O sciocco,
va' a dare il colore ai poponi.
Amenità del vocabolario.
Da quest'ultimo esempio possiamo prender le mosse a
una corsettina allegra, per vedere una quantità di modi
proverbiali e di motti e d'esempi lepidi e arguti, che nelle
pagine precedenti abbiamo saltato a piè pari. Se leggerai
tutto il vocabolario, vedrai che ce n'è a profusione, che
alle immagini e ai pensieri tristi vi predominano di gran lunga
gli ameni, che il libro della lingua, insomma, è
generalmente un libro gaio, gran motteggiatore e burlone; e nei
suoi motti non troverai soltanto fiori e vezzi di lingua faceta,
ma anche molte sagge sentenze e verità utili e sani
consigli. Rifacciamoci un po' indietro, e spigoliamo alla lesta,
senza tralasciarvi certi modi un po' volgari, ma efficacissimi,
che è bene conoscere, benchè non sia bene
adoperarli.
- Fàtti in là, disse la padella al
paiolo. - Non si può esprimere più argutamente il
concetto d'una persona di cattiva reputazione che ostenta timore
d'insudiciarsi nella compagnia d'un'altra della stessa tacca. -
Sei come la padella, che tinge e scotta. - C'è da rivomitar
le palle degli occhi, a mangiar certe bazzoffie delle trattorie. -
Ti s'ha a portare il panchetto? A chi non finisce di chiacchierare
per la strada. A Parigi, quando due comari stanno a chiacchiera un
pezzo davanti a una bottega, esce il bottegaio [143] con due
seggiole, dicendo: - Ces dames seront peut-être mieux sur
des chaises. - Aver della pappa frullata nel cervello, essere un
baggeo. Di una cosa nauseante: - Fa venir su la prima pappa. -
Soffiar nella pappa, fare la spia. - Da pappardelle (certe
lasagne): il condotto delle pappardelle, la gola. - Pappa tu che
pappo io (comune, credo, a tutti i dialetti), alludendo a due
persone che mangiano d'accordo in un affare. - Eh, non mi pappar
vivo! A chi risponde arrogante. - Aspetto che passi la mia, diceva
quell'ubbriaco che si vedeva girar intorno le case e non riusciva
a trovar la sua porta. - Far passare il vino da Santa Chiara,
degli osti che lo annacquano. - Nella sua testa c'è andato
a covare un passerotto, di persona senza senno. - Il SE, il MA, il
FORSE, è il patrimonio dei minchioni. - Dottor Pausania, a
persona che parla con molte pause e con prosopopea. Di una persona
magra: - gli si sentono i paternostri nella schiena: - da
paternostri, le pallottoline maggiori della corona del Rosario,
alle quali somigliano i nodi della spina dorsale. A chi fa il
superbo perché è arricchito, per ricordargli il
tempo quand'era povero: - Ti ricordi quando con una pedata ti
rifacevi il letto? ossia, quando dormivi sulla paglia. - Il caldo
dei lenzuoli non fa bollir la pentola (anche dialettale), la
poltroneria non è guadagno. - Pare una pentola di fagioli
(si sottintende "in bollore") di persona catarrosa. - Dio ti
benedica con una pertica verde. - Pillole di gallina (le ova) e
sciroppo di cantina aiutano a star sani. - Di persona segreta: -
Più chiuso delle pine verdi. - Tu fai piovere! A chi parla
con affettazione o canta male. - [144] E ponza e ponza e ponza,
venne fuori la Monaca di Monza, fu detto del Rosini, che con quel
romanzo credeva d'aver ammazzato I Promessi Sposi; e si dice di
chi fa un grande sforzo, che poi non dà degno frutto. - E
udendo un suono di quel vento che esce dallo stomaco: - Al tempo
dei porci erano sospiri. - Proserpina, di donna scarruffata. Vatti
a pettinare, che con codesti ciuffi mi pari una Proserpina (la
figlia di Giove e di Cerere, rapita da Pluto). - Non esce mai dal
bagno: o che ci sta in purgo? Dal mettere una cosa in purgo, o in
molle, perché prenda o perda certe qualità. -
È meglio puzzar di porco che di povero, dicono i poveri che
si vedon malmenati. Vespasiano a Tito, che gli chiedeva come mai
avesse messo un'imposta sull'orina, mise una moneta sotto il naso,
e domandò: - Puzza questa?
Ultima verba.
POLIARCHÍA. Tu capisci la mia strizzatina
d'occhio: questa è una di quelle tali parole che è
convenuto che tutti intendano, e di cui non è prudente
domandare la spiegazione, in presenza d'altri, a una persona che
si rispetta. - POLPETTA, tu saprai per prova che cosa significhi
in traslato: sgridata. Bello il verbo PORGERE nel senso di
suggerire: - Fa' quello che la natura ti porge. - Dice il popolo,
in Toscana: - Un animo mi PORGE, il cuore mi PORGEVA di fare una
data cosa. POSARE. Nota bene. Noi diciamo troppo spesso deporre,
che è ricercato, per posare il cappello sopra una seggiola
o il candeliere sul tavolo o altro simile; io intesi anche gridare
a un cane: - Deponi quell'osso, come nelle tragedie si dice a un
re: - Deponi quel serto. Corbezzoli! - Positivo. Si dice
famigliarmente di positivo per sicuramente, senza dubbio. A
primavera c'è la guerra DI POSITIVO. - Posteggiare, far la
posta, non si dice soltanto d'un animale alla caccia, ma anche
d'una persona: L'ho POSTEGGIATO un pezzo all'angolo di via
Garibaldi, dove passa ogni giorno; ma non comparve. - Si dice che
PUÒ il sole, il vento in un luogo, per dire che ci batte
forte, ed è un modo tanto efficace quanto lesto. Eccoci a
PRATICA. E qui ammonisco me stesso: - Si ricordi bene, signor E.
D., che si dice far LE PRATICHE da avvocato, e non la pratica,
come dice lei, e far pratiche, non le pratiche, per far quello che
occorre a riuscire in un intento. E tu pure, figliuolo, a
proposito di PRECIPIZIO, avverti, discorrendo, di non PRECIPITAR
le parole, le sillabe, il racconto, che è un vezzo per cui
si dice un PRECIPIZIO di spropositi; e già fanno tutto male
gli uomini PRECIPITOSI; e non te la PRENDERE (è un modo
anche dialettale) se t'ammonisco con tanta franchezza. Su PRESA
tiriamo via, perché tu capisci che cosa significa negli
esempi: un muro che non ha fatto ancora PRESA, una colla, una
pasta che non fa PRESA. Ma facciamo alto a PRESTIGIO, che il
vocabolario definisce: influenza, forza abbagliante, ma di cui si
fa ora un abuso ridicolo, adoperandolo nel significato più
ristretto di stima e d'autorità, e anche di serietà
solamente, tanto che tutti credono d'aver del prestigio da
perdere, e io intesi dire persino d'un cane da guardia, che aveva
perduto ogni prestigio in una fattoria, per averci lasciato
entrare [146] i ladri di notte. - Grazioso il verbo PROSPERARE in
senso transitivo: - Il Signore vi PROSPERI! - PUGNO, ribeccarsi un
pugno, mescere fior di pugni. Sentii dire in Toscana: - Quattro
pugni bene scolpiti, che è proprio uno scolpire l'idea. -
Mi piace PUNTARE nel senso di fissare con insistenza una persona:
La smetta, giovanotto, di PUNTAR quella ragazza; e anche
riflessivo, per ostinarsi: - Se si PUNTA, non ottieni nulla. - Ed
ecco alla parola PUNTO un mazzo di modi da ricordarsi: - Far punto
e da capo, stare a punto e virgola, ci sono i punti e le virgole
(in uno scritto perfetto), capitare in brutto punto, prendere in
buon punto (nel momento buono), se s'affatica punto punto
s'ammala, non è ancora in punto (all'ordine). Per primo
punto ti dirò.... - PURE DI, in senso ellittico. PUR di
campare, fa di tutto: esprime il concetto con assai più
forza che per campare, dicendo l'amor della vita anche più
forte del sentimento della dignità e della rettitudine.
PUZZARE, PUZZACCHIARE. - Passa di qui a naso ritto: par che si
PUZZI tutti! - Il pesce PUZZA DAL CAPO. - Azioni che PUZZAN di
ladro. Diciamo anche noi nel dialetto che una cosa non pagata, ma
presa a credito, puzza d'inchiostro, e d'una cosa che si ritrova o
si riceve inaspettatamente, e che ci fa comodo: - Un pastrano a
questi freddi? Non puzza. - Nota che noi usiamo quasi sempre, in
vece di PUZZO, puzza, che è del linguaggio letterario. - Un
puzzo che assaetta, un puzzo che si schianta, che si scoppia. - Di
questo puzzo non ce n'ho mai avuto in casa mia: s'intende di
questi peccati, di queste cattive azioni. E per rumore, putiferio:
- Per un nulla non importava far tanto puzzo! [147] - E ancora
vari nomi di cose, d'uso raro fra noi, ma che è bene
aggiungere al nostro vocabolario manchevole: - POSATURA, quella
che lascia l'acqua nella boccia, e che noi diciamo fondo, che
è proprio del caffè, com'è del vino e
dell'aceto fondigliólo. - PRODA del campo, del tavolino,
del letto, del muro, del fosso, che noi diciamo malamente orlo. -
PULCESECCA, sinonimo faceto di strizzatura o pizzicotto, o anche
il segno che ne rimane. - Mi son fatto una pulcesecca con la
fibbia, e in un sonetto del Fucini: e giù na pulcesecca 'n
tel nodello. - PULCIAIO, un luogo pieno di pulci o sudicio. - Son
capitato in un pulciaio di locanda! - PULCINAIO, un luogo pieno di
pulcini. - PULISCISCARPE e PULISCIPIEDI, che si mette all'entrata
delle case, e che si chiama Raschino se è di ferro. -
PULSANTINO, la mollettina degli orologi, che serve, calcandola e
girando il gambo, a rimetter l'ore. - PUNZONE, forte colpo dato
con le nocche o con la mano puntata. Gli diede un punzone nel
petto che lo mandò con le gambe levate. - E questo è
l'ultimo vocabolo della processione del P, che se finisce poco
bellamente con due scarpe per aria, non è mia colpa.
Per finire.
Credo di non averti seccato. Non ti saresti seccato
neppure, credo, s'io non avessi fatto molte omissioni per
abbreviarti il cammino. Ho detto molte, ma sono moltissime, e in
special modo di nomi storici, di termini architettonici,
matematici, filosofici, chimici, nautici; ai quali forse, leggendo
in luogo mio, tu ti saresti arrestato. [148] Anche ho trascurato
un monte di vocaboli con cui ti sarebbe passata dinanzi una
varietà grande d'animali rari, di minerali, d'erbe, di
fiori, d'alberi, di frutti, di medicinali, d'alimenti,
d'abitazioni e di paesaggi, e d'armi e di macchine d'offesa e di
difesa antiche e moderne, e di vestimenta e di costumanze e di
giochi e di feste dell'età passate e del tempo presente,
che alla mia immaginazione presentavano, durante la lettura,
un'altra fuga ammirabile d'immagini, di là da quella che tu
vedevi con me, seguitando le mie citazioni. E ho tralasciato voci
imitative, interiezioni, esclamazioni, facezie, proverbi, quanto
era necessario che tralasciassi, insomma, per ridurre in una
ventina di pagine più di quattrocento colonne di stampa. E
queste quattrocento colonne non rappresentano che una lettera.
Vedi che vasta e succosa e dilettevole lettura è quella del
Vocabolario, e immagina quanto avrai imparato quando su tutte le
lettere dell'alfabeto avrai fatto il lavoro che abbiamo fatto
insieme sopra una sola, ma con più attenzione, e
smettendolo e ripigliandolo a intervalli, dopo ciascun dei quali
ritornerai all'opera con maggior curiosità e con più
vivo ardore e con la mente meglio esercitata a scegliere, a
osservare e a imparare. Sei persuaso? E dopo questo, se qualcuno
ti dirà che a leggere il Vocabolario si muor di noia e si
sciupa il tempo e il cervello, mandalo.... alla lettera P.
[149]
LA MEMORIA LATENTE.
Ora ti debbo dire alcune cose per preservarti da un
senso di scoraggiamento, dal quale è probabile che tu sia
preso a quando a quando, nel primo corso dei tuoi studi.
T'accadrà qualche volta di passare in rassegna
mentalmente il materiale di lingua che crederai d'aver accumulato
in vari mesi di letture e di appunti, e troverai nella tua memoria
ben poca cosa, ti parrà che una gran parte di quel
materiale ti sia sfuggito come un liquido da un vaso forato, e che
un'altra parte ti sfugga nell'atto che lo cerchi, e rimarrai
scoraggiato da quel disinganno, e quasi avvilito.
Ebbene, sarai in errore.
Una gran parte del materiale della lingua si va a
riporre da sè in certi scompartimenti secreti della
memoria, dove noi lo portiamo senz'esserne consapevoli, e donde
non esce se non quando è chiamato fuori da certe idee, con
le quali è legato da fili sottilissimi, invisibili, per
così dire, al nostro pensiero, e quindi non afferrabili
dalla nostra volontà. Ma, nel parlare e [150] nello
scrivere, quando vorrai esprimere certi pensieri e nella ricerca
viva dell'espressione le tue facoltà intellettuali si
ecciteranno, tu vedrai che ti verranno sulle labbra e alla penna
una quantità di parole, di frasi e di costrutti, che non
sapevi di possedere, e che ti parrà di non aver cercati.
È una cosa che segue a tutti quelli che studiano la lingua,
e che è per loro una sorpresa gradevole, come di trovare
nelle tasche o nei cassetti carte preziose o danari dimenticati.
Non ti sgomentare, dunque, se dai ripostigli della tua memoria non
esce che pochissima lingua, quando a questa tu gridi: - Fuori! -
non per bisogno, ma per vederla soltanto, per metterla in mostra a
te stesso. Quando n'avrai bisogno davvero, saranno le tue idee
urgenti e imperiose che andranno a picchiare all'uscio delle mille
celle in cui le parole stanno nascoste, ciascuna alla cella di
quella che le conviene e le appartiene, e te le porteranno di volo
sulla carta e alla bocca. E ti porteranno vocaboli e frasi che da
lungo tempo non s'eran più fatte vive nella tua mente, e
che ti parrà d'imparare in quel punto, e della forma felice
in cui ti verranno espressi certi pensieri, rimarrai maravigliato
come di roba non tua, che ti fosse suggerita da un altro, o come
se scoprissi in te un altro te stesso, che parli e scriva una
lingua più ricca, più propria, più efficace
di quella che tu possiedi. Sii certo di questo. Molto spesso,
ritrovando nel dizionario o nei tuoi appunti certi modi segnati da
te un pezzo addietro, esclamerai: - Guarda! Questo m'era scappato
di mente. - No, non t'era scappato; vi stava rimbucato, e dormiva,
aspettando che venisse a risvegliarlo [151] un'altra parola o
frase di senso o di suono affine, una voce sfuggevole dell'animo,
un'idea sua parente od amica, alla quale egli si sarebbe
manifestato ed offerto. Prosegui dunque con animo a leggere, a
notare, a raccogliere, poiché tutto il materiale di lingua
che ti metti in capo vi si ordina e vi si collega in mille modi,
come in una officina oscura, a poco a poco, con un lavorìo
spontaneo, del quale tu non hai coscienza. E non ne sarà
affatto perduta neppur quella parte che non verrà fuori al
bisogno, perché di molte voci e locuzioni effettivamente
dimenticate, tu sentirai nella tua memoria il vuoto che v'avranno
lasciato, e di là le spierai e moverai per rintracciarle e
prima o poi le ripiglierai al laccio per sempre. Prosegui nello
studio, con viva fede nelle forze latenti e nel lavoro misterioso
e maraviglioso della memoria, che ti sarà per sè
medesimo un argomento di studio e una fonte di diletto profondo.
[152]
IL PERICOLO.
Ancora un'avvertenza, prima di rimetterci in cammino.
Bada che nello studio della lingua, in special modo
per chi v'ha inclinazione naturale, c'è un pericolo: il
pericolo d'un così brutto malanno, che se io avessi anche
solo un leggerissimo dubbio di potertelo tirare addosso con le mie
esortazioni e i miei consigli, vorrei piuttosto che tu buttassi il
mio libro sul fuoco come un libro scellerato. Sì, se nel
culto della letteratura tu dovessi fare allo studio della lingua
una troppo gran parte, riporre in essa il meglio dei tuoi sforzi e
dei tuoi godimenti intellettuali, ridurti a considerarla, in
somma, non come un mezzo, ma come un fine, e diventare uno di quei
perdigiorni delle lettere che badano soltanto a baloccarsi con le
parole e con le frasi, come se queste non fossero forme e suoni
vanissimi quando non servono a dir qualche cosa che piaccia o che
giovi, io ti direi che è meglio per te rinunziare a questo
studio, e continuare a scrivere e a parlar male per tutta la vita.
E sappi [153] che il malanno c'entra dentro lentamente, senza che
ce n'avvediamo. La nostra innata pigrizia intellettuale c'induce a
poco a poco a tenere in conto d'un nobile esercizio dell'ingegno
il facile lavoro di accumular vocaboli e locuzioni, e a credere
che sia arte e scienza ciò che con l'arte ha che fare come
la preparazione dei colori con la pittura, e con l'alta matematica
lo studio della tavola pitagorica.
Non occupandoci più d'altro che di lingua,
finiamo con non cercare e non raccoglier più altro nelle
opere dell'ingegno altrui; ci avvezziamo a non veder più
bellezza che nella bellezza della parola, a non badar più
che alla forma anche nelle pagine più splendide di pensiero
e più calde d'affetto, a non più pensare noi
medesimi, scrivendo, se non quanto è necessario ad aver
qualche cosa da dorare e da infronzolare con gli orpelli e coi
nastrini del nostro guardaroba linguistico. Ed ecco lo studioso
della lingua che, naturalmente, a grado a grado, diventa pedante e
intollerante, come il bigotto diventa superstizioso e misantropo;
che non ha più altro nel cranio che una grammatica e nel
petto che un vocabolario, e nelle cui mani la lingua perde lume,
calore e vita, per ridursi una materia inerte e fredda, da mettere
in mostra a diletto di chi ha gli occhi confitti in una fronte
vuota; ecco il linguaio degenerato, uggioso e ridicolo, che sempre
e da per tutto dove imperò, isterilì la letteratura,
uccise l'arte e prostituì l'idolo che stupidamente adorava.
Ma tu non ti lascerai andare per quella china; tu
terrai sempre per fermo che ogni studio diretto a parlare e a
scriver bene sarà fatica, peggio [154] che sprecata,
rivolta a tuo danno, se ti distoglierà dall'esercitar
l'ingegno a un più alto fine; tu studierai la lingua per
diventarne padrone, non per fartene servo, per servirtene, non per
adorarla; tu ne farai forza e bellezza, ma non la sostanza stessa
del tuo pensiero, che si dissolverebbe nel vuoto, non l'alimento
unico del tuo intelletto, per cui si muterebbe in veleno.
No, tu non seguirai la via del professor Pataracchi.
[155]
IL PROFESSOR PATARACCHI.
Fu forse l'ultimo dei veri, grandi, formidabili
pedanti italiani; per i quali io non capisco come non sentano
ammirazione anche i loro avversari e le loro vittime,
perché è sempre ammirabile chi combatte ferocemente,
senza tregua, fino alla morte, per una causa ch'egli crede santa;
anche se sia una causa sballata. E per tutta la vita il professor
Pataracchi, paladino di Nostra Santa Lingua Immacolata, ritto
sulla rocca sacra del Purismo, già rotta da ogni parte,
eroicamente ostinato ed intrepido, menò la spada sui
barbari assalitori, e ne fece memorando sterminio.
Il suo Credo era questo. Lingua e nazione sono una
cosa sola: dunque chi offende la lingua tradisce la patria; dunque
chi parla e scrive male, chi contamina l'idioma nativo di
francesismi e d'idiotismi, ha da essere odiato e vituperato come
il più nefando dei malfattori. E poiché in questa
fede era sincero, la professava, con logica rigorosa e costante,
anche nella pratica della vita, non curandosi né
d'inimicizie né di danni che glie ne potessero incogliere.
E siccome il suo [156] purismo arrivava a tal segno, da respingere
ogni frase o parola che non avesse il suggello della
classicità più genuina, fino a non ammettere in
alcun modo nessun vocabolo nuovo, per quanto fosse giustificato
dal bisogno o dall'uso comune, si capisce com'egli dovesse odiar
mezzo mondo e si facesse prendere in tasca da quasi tutti quelli
che gli s'avvicinavano.
Dico quasi tutti, non tutti, perché a me e a
pochi altri, che sapevamo quanto un'offesa alla lingua lo facesse
veramente soffrire, egli destava, insieme con l'ammirazione del
suo foco sacro, un sentimento di schietta pietà.
perché dirgli una parola o una frase che gli pareva
illecita era come forargli le carni con un punteruolo d'acciaio:
avrebbe gridato in mezzo alla strada, se non avesse temuto di far
gente. A chi gli rivolgeva una domanda in forma scorretta, non
rispondeva, o tardava un pezzo a rispondere, per fargli capire che
l'aveva offeso e per lasciargli il tempo di ritrattar l'ingiuria.
A certi cattivi scrittori e parlatori, quand'io lo conobbi, aveva
levato il saluto da anni. Domanderete perché non lo levasse
a me pure. Ma coi giovani che lo frequentavano con buona
disposizione d'alunni, e fingevano di consentir con lui e di voler
battere la sua via, usava qualche indulgenza. Non faceva
però complimenti nemmen con loro quando gli toccava d'udire
o di leggere in qualche loro scritto una locuzione o un costrutto
di lega impura. Diceva fuor dei denti: - Queste son bricconate, mi
scusi. - Questo non è uno scrivere da galantuomo. - O dove
ha pescato questa porcheria? - Per lui non c'era differenza fra il
commettere un atto di lesa maestà del suo [157] dizionario
e rubare un orologio o fare una cambiale falsa. Avrebbe voluto che
nel Codice penale ci fosse un articolo per questo genere di reati.
E non faceva grazia a nessuno. Nessuno scrittore lo contentava
perché il buon effetto di qualunque pagina più bella
e eloquente, se pur lo sentiva ancora, gli era distrutto ipso
facto da una sola parola illegittima ch'egli v'inciampasse. Anche
quei pochi puristi della sua razza, che rimanevano in Italia, e
ch'erano generalmente canzonati per la loro feroce pedanteria,
anche quelli li giudicava di manica troppo larga, troppo cedevoli,
vilmente propensi a venire a patti con la barbarie invadente. Ed
è a notarsi che furioso in particolar modo era contro i
suoi concittadini toscani, e contro i fiorentini più che
mai, ch'egli accusava d'essere i primi e più infesti
corruttori della loro lingua. Già erano imbarbariti i suoi
coetanei; ma erano assai peggio i loro figliuoli. Diceva che
"veniva su una generazione toscana senza freno né legge, la
quale preparava al suo paese un triste avvenire" perché nel
suo concetto un parlatore o scrittore "maculato" non poteva che
seminar dei guai in qualunque campo o forma d'azione operasse.
Ricordo d'avergli udito dire, all'annunzio di non so che nuovo
Ministero: - Ministro dei lavori pubblici quello sgrammaticante?
Ne vedremo delle belle! - Non avevano altra sorgente anche i suoi
odi politici, perché di politica non si curava, e non
riconosceva altra quistione nazionale o sociale che quella della
lingua. E sebbene, in fondo, fosse tutt'altro che un cattivo uomo,
serbava i suoi odi linguistici oltre il rogo. Udendo ch'era morto
un tal letterato, una delle sue bestie nere: - Come uomo [158] -
disse, - lo compiango; come scrittore.... è una pestilenza
di meno.
È giusto dire che della purità assoluta
che voleva dagli altri, egli dava l'esempio, non solo in quel
pochissimo che scriveva, ma anche parlando; ciò che gli
doveva costare una cura assidua e faticosissima, perché, in
somma, non viveva mica fuori del mondo presente, e le parole
nuove, i francesismi correnti, gl'idiotismi d'uso universale e
necessario dovevano penetrare e sonar di continuo anche nel
cervello suo, come nei polmoni di tutti entrano i microbi
dell'aria. Ma di lingua era dotto davvero, e non c'era caso che
peccasse. Di certe cose, delle quali, senza peccare, non avrebbe
potuto discorrere, non discorreva mai. Certe novità, a cui
non si poteva dar altro che un nome nuovo e barbaro, non c'era
verso di fargliele nominare. Altre le nominava con un vocabolo
antico, o di conio proprio, risolutamente, non dandosi alcun
pensiero di non essere capito, o d'esser franteso, o di far ridere
gli uditori; il che seguiva sovente. Chiamava, per esempio, una
dimostrazione popolare: una raunata di popolo; guardie del fuoco,
i pompieri; traino, il treno della strada ferrata (partirò
col traino diretto, diceva): un banchetto, non di trecento
coperti, ma di trecento tovaglioli; negava la medesimezza della
così detta casa di Dante in Firenze. E non diceva mai
semplicemente il re, poiché era monarchico umilissimo, ma
neanche Sua Maestà, che condannava come modo improprio:
diceva la maestà del re: la maestà del re
arriverà domani. Ma i due più belli esempi della sua
audacia di purista, diventati famosi a Firenze, sono [159] le voci
antiche con le quali s'ostinava a designare due imposte, ch'egli
chiamava gravezze: l'imposta progressiva e quella della ricchezza
mobile, già esistenti ai tempi della Repubblica: la decima
scalata e l'arbitrio. E tutte queste parole, e le altre,
pronunziava con aria di sfida fra i "neologizzanti" quasi
gettandogliele in faccia (scrivo così perché
è morto) e dicendogli con gli occhi: - Beccatevi questo, e
fatene vostro pro, pezzi d'ignoranti.
Variatissimo e comicissimo era il suo vocabolario di
pedante vituperatore di barbari; nell'uso del quale egli graduava
il vituperio con rigorosa giustezza. Da modo non bello, brutta
voce, vociaccia, robaccia, veniva su su a mostriciattolo,
mostruoso vocabolo, voce appestata, abbominevole voce, parola
infame. Così d'un francesismo tollerabile si contentava di
dire: sente di francese, e via via: e' pute di francioso (il
francioso aggravava) o di gallico (che era più grave di
francioso); francesismo vile, fetentissimo, sgangherata voce
gallica, scempiata metafora transalpina. E in diversi modi
egualmente fieri e lepidi ammoniva i giovani a rifuggire da quei
delitti: - Al fuoco questa parolaccia! - Al gasse! - Alla cassetta
della spazzatura! - Deh, non lo dire! - Via quest'orrore! - La
lasci agli acciabattoni! - E lascio altre sue maniere usuali: -
Goffe eleganze romanzieresche, sconce sgrammaticature
segretariesche, stomachevoli parole muschiate, sguaiate
leziosaggini, turpi granciporri: n'aveva una collezione infinita.
Ma non era mai così bello a vedere e a sentire
come quando scorreva un libro nuovo e [160] sospetto, con quel
viso sanguigno e minaccioso, con quei baffi irti, che
s'appuntavano contro la pagina come penne d'istrice, con quelle
unghie adunche, piantate sui margini, come pronte a graffiare.
Egli segnalava il francesismo con una contrazione del viso come se
vedesse correre fra le righe un insetto schifoso. La
manifestazione più tenue del suo sdegno era un pugno sul
tavolino. Quando una parola o una frase lo urtava più
forte, prorompeva in invettive contro il fantasma dell'autore: -
Ah, italiano rinnegato! - Camerlingo degli spropositi! -
Sgrammaticato malfattore codardo! - E l'ultima espressione della
sua collera era un riso ironico forzato, che gli scopriva i denti
canini, accompagnato da uno scotimento di spalle, con cui fingeva
un'ilarità smodata. Ma dopo questo sforzo, sbatteva il
libro nel muro e andava fuor della grazia di Dio. - A questo punto
siamo arrivati! Ma è un'aberrazione, una demenza
universale. L'Italia va in isfacelo. Quando non c'è
più lingua non c'è più nulla. È
finita. Oh bastarda razza di traditori!
Povero professor Pataracchi! Conservarmi la sua
benevolenza costò a me qualche fatica; ma deve aver
faticato più lui a non levarmela. Chi sa quante volte fu in
procinto di dirmi come Virgilio all'Argenti: - Via costà
con gli altri cani! - poiché, in somma, gli dovevo parere
un ipocrita, io che per tenermi nelle sue buone grazie gli davo
ragione a parole, ma seguitavo a scrivere come un Ostrogoto, non
potendomi ribellare alla terminologia dei regolamenti,
poiché scrivevo di cose militari. - Ma è proprio
proprio costretto - mi domandava [161] qualche volta - a servirsi
di codesto orribile gergo caporalesco? - Io rispondevo di
sì, e mi giustificavo umilmente. Ed egli mi diceva: - La
compiango! - E forse fu la compassione che mi mantenne la sua
amicizia.
Il giorno prima di lasciar Firenze per sempre,
m'andai ad accomiatare da lui. Fu più affettuoso che non
m'aspettassi. Forse lo impietosiva il pensiero ch'io m'andavo a
stabilire a Torino, poiché a lui, per rispetto alla lingua,
Torino doveva parere un covo brigantesco, dove io non potessi far
altro che una miseranda fine. M'accompagnò per un tratto di
via del Cocomero. All'angolo di via degli Alfani, prima di
lasciarmi, mi disse qualche parola benevola, raccomandandomi la
lingua. Forse gli avrei lasciato un buon ricordo di me, se non
avessi più aperto bocca; ma all'ultimo momento guastai la
frittata.
- Se per combinazione - gli dissi - venisse una volta
a Torino, abbia la bontà d'avvertirmene. Mi metterò
ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla.
- Grazie, - rispose stringendomi la mano. - Buon
viaggio, e a rivederla.
E mi lasciò.
Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un
cenno, e mi disse: - Senta. Combinazione, per caso o
casualità, mi perdoni, è orribile.
E se n'andò senza dir altro. Furon quelle le
ultime parole ch'io intesi dalla sua bocca purissima.
Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi
morì sulla breccia, ravvolto negli avanzi della sua
bandiera.
[162 bianca]
[163]
PARTE SECONDA.
[164 bianca]
[165]
Nel corso degli studi che farai sulla lingua, con la
penna alla mano, nei vocabolari e negli scrittori, se vorrai
impadronirti durevolmente delle cognizioni che verrai acquistando
e ricavarne il maggior vantaggio possibile nel parlare e nello
scrivere, sarà bene che tu le ordini nella tua memoria,
raggruppandole intorno a certi concetti, che dovrai tener sempre
presenti. A ciascuno di tali concetti, o per dir meglio, divisioni
della materia, dedicherò un breve capitolo. Sarà una
serie di consigli e d'avvertenze intorno alle relazioni della
lingua coi dialetti, alla lingua che non si sa, alla lingua che si
sa, ma non s'usa, alla lingua impropria, alla lingua abbreviativa,
ai sinonimi, alle definizioni, ai modi famigliari, al linguaggio
faceto, al modo di variare il proprio materiale linguistico.
Ragioneremo poi dei francesismi e delle parole nuove, degli
spropositi più frequenti e dei luoghi comuni più
usuali del linguaggio corrente, e delle licenze lecite e di quelle
che offendono i diritti della Grammatica; e in fine faremo insieme
una corsa a traverso la letteratura italiana per scegliere gli
scrittori che tu dovrai leggere e studiare di preferenza. Non ti
spaventare della via lunga: la percorreremo alla lesta, scherzando
spesso da buoni amici, e ricreandoci ogni tanto nella compagnia
d'originali piacevoli. Adelante, Pedrito.
[166]
LE LAGNANZE D'UN DIALETTO.
DIALOGO FRA IL DIALETTO PIEMONTESE E LA LINGUA.
(Il dialetto è il piemontese; ma il dialogo
può star benissimo con qualunque altro dialetto d'Italia,
sostituendovi altre voci e locuzioni a quelle che son citate ad
esempio).
LA LINGUA. - Buon giorno, fratello. Tu hai la cera
rannuvolata.
IL DIALETTO. - Me la vedo come in uno specchio,
Signora, e mi duole di presentarmi a Voi in quest'aspetto.
L. - perché mi chiami Signora? Altre volte ti
dissi che mi piace esser chiamata sorella. La fortuna e la gloria
non m'hanno fatto montare in superbia. Non siamo, tu ed io, rami
dello stesso tronco? figliuoli della stessa madre? legati ancora e
per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni, dalle
quali lo straniero riconosce in noi, a primo aspetto, il comun
sangue latino? Che cosa t'affanna, fratello?
D. - Ti ringrazio, sorella illustre e venerata. [167]
(Scattando) Ma è proprio questo pensiero che mi fa
stizzire: d'aver che fare con una razza d'ingrati, i quali,
disconoscendo i vincoli che mi legano a te, credono di farti onore
disprezzandomi, e, parlando e scrivendo italiano, rifiutano un
monte di parole e di frasi mie come se fossero barbare per il solo
fatto d'esser mie, e vanno predicando ai ragazzi che, per non
offenderti, debbono rifuggir da me come dalla peste bubbonica.
L. - Lo so.
D. - E che ne dici?
L. - Confòrtati. Mi fanno sovente la stessa
lagnanza i tuoi fratelli. E scrisse pure un grande maestro che
ogni italiano, per imparar la lingua, la dovrebbe studiare tenendo
tanto d'occhi aperti sul proprio dialetto; con che volle dire che
v'è in ciascun dialetto una grande quantità di modi
e costrutti comuni alla lingua; conoscendo i quali, ed usandoli,
riuscirebbero tutti ad esprimersi in italiano con assai più
facilità ed efficacia che ora non facciano, poiché a
quelle forme che si presentano loro spontanee, ed essi rifiutano
come puramente vernacole, ne sostituiscono altre quasi sempre men
naturali, appunto perché cercate, e meno proprie,
perché meno naturali.
D. - Ecco la gran verità, sii benedetta! Mi
disprezzano per onorarti, e offendono te, disprezzandomi; mi
fuggono come un nemico, quando si potrebbero giovare di me come
d'un maestro.
L. - Dici il vero. Ma non pensar che ti disprezzino.
Ogni giorno sento dire da italiani di questa o di quella provincia
che il loro dialetto è più vivace, più vario,
più espressivo della lingua, e che col proprio dialetto
soltanto riesce loro [168] di dire tutto quello che vogliono,
d'esprimere tutte le particolarità d'ogni loro pensiero,
tutte le sfumature d'ogni sentimento. Vedi dunque! Ma è
singolare. E non sospettano che la grande difficoltà
ch'essi trovano a dire in italiano tutto quello che vogliono,
deriva principalmente dal credere non italiane una buona parte di
quelle forme con le quali appunto possono dir tutto nel vernacolo.
D. - Tu mi riconforti, sorella. Ma se sapessi quanti
affronti mi tocca d'ingollare! Ne sento da ogni parte e d'ogni
specie. È dialetto; dunque moneta falsa: è la
massima. Sento molti ridere quando uno dice, parlando italiano: -
legger la vita, mangiar la foglia, bruciare il pagliaccio, trovare
una bella vigna, tirarsi da banda, battere il taccone, ridere sul
mostaccio ad un tale, far filare uno, far pressa a un altro,
tramutare un tavolino, battere una culattata in terra, andar
lì lì per morire, tirare avanti la famiglia.... O
dimmi tu: non sono modi italiani, di tua proprietà
incontestabile, sorella mia?
L. - Li riconosco.
D. - O dunque! E ne potrei citare mille e passa.
Giusto, eccone un altro, che guai a chi gli scappa. Bisogna
sentire come si spassa certa gente colta alle spalle dei poveri
ignoranti che s'ingegnano di parlare italiano, per certe parole e
frasi italianissime, credute piemontesismi grossolani. Ho sentito
una famiglia intera dare in una risata perché alla domanda:
- che tempo fa? - la serva rispose: - È nuvolo! - Diedero
in un'altra risata, un'altra volta, a sentirle dire: -
Com'è peso questo bimbo! - La stessa cosa, un giorno
ch'ella disse: - La botte versa; [169] bisogna stopparla. - Ma
aspetta, che te ne citi dell'altre più curiose, coi
commenti relativi degli italianissimi. - Sono uscito senza niente
in capo. - Bell'italiano! - Se ci sono stato? Quelle belle volte!
- Ah quelle belle volte, che perla! - Grazie! Ho mangiato il mio
bisogno. Un signore che mangia il suo bisogno! - No, l'assicella
va messa per così. Per così parli la lingua,
Ostrogoto? - Dove sta il tale? Deve star per qui (qui vicino). Dio
di misericordia! - Svelto come sei, fai un momento a arrivare a
casa. - O come si fa a fare un momento, citrullo? - Dopo la Norma,
andrà su l'Ernani. L'Ernani che va su! A quale altezza? -
Se non c'è appunto sei miglia, siamo lì. Dove
lì? - Ah, povera Italia! Dimmi ancora: c'è qualche
cosa che offenda la tua purità in tutto quello che ho
detto?
L. - Nulla, fratello. Son tutte forme della lingua
parlata, usatissime da chi più mi conosce e mi rispetta.
D. - Deo gratias. Se tu sentissi, in certe case, dove
si parla l'italiano per istituto, che rabbuffi toccano a dei
poveri ragazzi quando si lasciano scappare di bocca spasseggiare,
slargare, sgraffignare, disgruppare, ciaramellare, tambussare,
ciucciare, impappinarsi! - Questo è italiano di Porta
Palazzo: bene spesi i denari per mandarti a scuola! - A un ragazzo
che diceva piangendo: - M'hanno dato! (delle busse, era
sottinteso), udii rispondere: - E te lo meriti, se parli italiano
in codesta maniera. - E: - berrai quando parlerai meglio - a un
altro, che chiedeva dell'acqua dicendo che aveva una sete del
diavolo. E non parlo delle correzioni che fanno molti insegnanti
ai componimenti scolareschi; nei quali, [170] oltre agli errori
inevitabili nella prima età, bollano come strafalcioni, per
la sola ragione che sono dialettali, una quantità di modi
correttissimi, che i piccoli scolari, poveretti, non sono in grado
di giustificare. Se ne vuoi sentire....
L. - Ne son curiosa.
D. - E io ti contento. Ho appunto sott'occhio i
componimenti d'una quarta classe elementare, corretti da una
maestrina, della quale non si può dire che non conosca la
lingua, chè anzi scrive benino. Ebbene, ci trovo segnati
come piemontesismi, con la matita rossa, una decina almeno di
modi, che tu certamente non ripudii. - Torino fa 350 000 abitanti.
C'è un frego rosso sul fa. - La famiglia costumava
festeggiare il natalizio del babbo. Condannato costumava. - La
mamma si tapinava tutto il giorno. Bollato il tapinava. - Doman da
sera. Tre punti d'esclamazione. - Un dopo desinare verrò da
te. Un frego rosso all'un dopo desinare e al verrò,
chè s'ha da dire andrò, si capisce. Passò da
Torino, invece di per, sottolineato. - Disse che non ci sarei
riuscito; ma io l'ho fatto bugiardo. Un punto interrogativo rosso
accanto a questo modo. - Son nato del 1891. Riprovato il del.
Figurava di non volere; ma non aspettava altro. Sostituito
fingeva. - E tu non vieni? fa la sorella. Crociato il fa. - Una
cosa fatta come va. Un tratto rosso anche a questo. E se ne vuoi
dell'altre, che ho pescate altrove, ce n'ho un cestone....
L. - Codeste mi bastano, chè ne so molte
anch'io. Quanto rosso sciupato, dio buono! E questo è
risibile, che i più di coloro che si dànno tanta
cura per iscansar codesti pretesi errori [171] dialettali, si
lasciano sfuggire a ogni tratto dialettismi veri e bruttissimi,
per isbadataggine, o perché non li conoscon per tali. Ed
è naturale: non si può badare insieme a ogni cosa:
mentre si guardan dagli uni, inciampano negli altri.
D. - E così dagli altri italiani mi fanno dar
del barbaro coi dialettismi veri, e mi trattano di barbaro essi
medesimi dando la caccia ai dialettismi falsi. E mi son ristretto
a citare vocaboli. Lascio da parte un gran numero di forme
sintattiche, di legature, di giri di frase svelti e efficaci, che
sono cosa mia e tua ad un tempo, di cui potrei cavare esempi dai
tuoi più grandi e puri scrittori, e da cui si guardano
parlando e scrivendo italiano, come da azioni disoneste, per usare
invece forme scontorte, giunture che stridono, costrutti forzati e
pesanti; che sono nel concetto loro i soli corretti. E m'hanno
l'aria di gente che fabbrichi dei ponti per passare un fil
d'acqua...
L. - Ed è vero anche questo, fratello. E hanno
ragione al par di te i fratelli tuoi, che un fanno le stesse
lagnanze. Ma il tempo vi renderà giustizia, non dubitare.
Via via ch'io sarò conosciuta e parlata da un numero sempre
maggiore d'italiani, scoprendo questi da sè quante voci e
forme son comuni a me e ai loro vernacoli, e gli scrittori
mettendole in mostra e in commercio, sempre più si
farà manifesta la vanità di gran parte della fatica
che ora si dura a scansare errori immaginari, e una sempre
più larga parte dell'esser tuo si confonderà col mio
nelle lettere, e ti sarà reso l'onore che meriti, e saranno
lamentati gli oltraggi che ora ti si recano, e si [172]
trarrà da te forza, vita, colore, varietà,
comicità, naturalezza, per parlare e per scrivere
italianamente. Mi credi?
D. - M'hai racconsolato. Ti ringrazio.... e ti
riverisco, Signora.
L. - Chiamami sorella.
D. - Sorella ti posso chiamare nel corso dei nostri
colloqui; ma non presentandomi a te, né accomiatandomi.
Nell'atto di salutarti, il mio amor fraterno è sovrappreso
da un senso di riverenza. Dietro di te, vedo Dante.
[173]
LA LINGUA CHE NON SI SA.
Ne abbiamo già detto qualche cosa; ma di
passata, ed è bene riparlarne.
Intendo dire principalmente di quel gran numero di
nomi di cose, che noi non sappiamo e che non ci curiamo di sapere,
perché di quelle date cose non abbiamo mai occasione o
bisogno di parlare se non nel dialetto; ma che deve imparare chi
studia davvero la lingua, perché questa non si saprà
mai che malamente se non se ne studia più di quanto occorre
a parlarla alla meglio fra di noi, dove non se ne parla che mezza.
Noi la dobbiamo studiare, non in relazione coi nostri bisogni
immediati e abituali, ma come se fossimo certi di dover quando che
sia andar a vivere in una regione d'Italia dove neanche una parola
del nostro dialetto sia intesa, e dove, per conseguenza, ci sia
necessario parlare sempre e d'ogni cosa in lingua italiana. Ora le
cose delle quali ignoriamo il nome italiano sono innumerevoli, e
noi non c'illudiamo che sian poche se non perché, parlando
la lingua, ci siamo assuefatti per modo a scansare di [174]
nominarle, che quasi non ci accorgiamo più del nostro
gioco. E questa illusione è anche maggiore nei giovinetti
che, vivendo in un giro più ristretto d'idee e di faccende,
hanno di solito meno cose da dire che gli uomini, e con minori
particolari, e con minor necessità d'essere esatti. Ma se
potessero i giovanetti immaginare in quanti impicci si
troverebbero parlando la lingua, quando fossero trasportati di
sbalzo in un'altra regione d'Italia, fuor del piccolo mondo della
famiglia e della scuola in cui è circoscritta la loro vita,
quanta parte di lingua s'accorgerebbero d'ignorare, assolutamente
necessaria, e soprattutto quante cose si troverebbero costretti
ogni momento a descrivere, invece di nominarle, con molto stento e
non senza vergogna, se questo potessero immaginare, credo che non
occorrerebbe loro altro eccitamento per indursi allo studio.
A questo proposito ebbi da ragazzo una lezione che mi
riuscì utilissima.
Da qualche tempo studiavo la lingua, e mi illudevo
che fosse un gran che quel poco patrimonio di parole e di frasi
letterarie, che m'ero ammucchiato nel capo; e ne menavo gran
vanto. Un giorno fui invitato a colazione da un mio vecchio zio,
che stava in una villetta, sulla riva d'un torrente, a qualche
miglio dalla piccola città piemontese, dov'era stabilita
allora la mia famiglia. Era uno spirito mordace, benchè
buono d'indole, dotto di storia, e conoscitore profondo della
lingua, della quale s'occupava ancora con amore. Eravamo alle
frutte, quando il discorso cadde su quest'argomento, ed io vantai
i miei studi di lingua col tono d'un filologo, che [175] potesse
parlare in cattedra della materia. Spiacque la mia sicumera al
buon vecchio; il quale sorrise con aria maliziosa, e mi disse: -
Vediamo dunque un poco, signor linguista, se la dottrina
corrisponde al vanto. Vuol ella scommettere che senza uscire dal
giro delle cose che abbiamo sotto gli occhi, di nove su dieci che
glie ne accenno ella non sa il nome, e neppure delle operazioni
usualissime che vi si riferiscono? - E cominciò la prova,
che m'è rimasta bene impressa nella mente, perché
egli mi fece notar le parole con la matita.
- Eccoti il fiasco -, mi disse. - Sai come si dice
gettar via dal fiasco pieno un poco di vino per purgarlo da
qualche cosa di poco netto? No? Sboccare il fiasco. Sai come si
chiama l'operazione di riempire un fiasco scemo? No? Rabboccarlo.
E come si dice con una sola parola vuotare un mezzo fiasco?
Neppure. Si dice ammezzarlo, un fiasco ammezzato. Hai detto che
questo vino è un po' infortito, ed è vero: comincia
a prendere il fuoco; ma sai come si dice del vino infortito che
pizzica la lingua e il palato? La parola propria? No. Si dice che
ha l'appinzo. Guarda questo bicchiere: vedi questo spazietto
interposto nella sostanza del vetro? Sai come si chiama?
Púlica. E la parte più sottile della lama di questo
coltello, che è fermata nel manico? Códolo. E il
dente della forchetta? Rebbio. E questo? Reggifiasco. E
quest'altro? Reggiposate. E ciascuna di queste ciocchette di
chicchi che formano il grappolo, sai che si chiama
racìmolo? E fiócine la buccia dell'acino? E
vinacciuolo il granello sodo che v'è dentro? E il nome di
questa buccia interiore della [176] castagna? Peluria, andiamo. E
questa parte della lattuga, composta delle foglie più
piccole e più tenere, che fanno cesto, come la chiami?
Grùmolo. E il reticino per scoter l'insalata? Nemmen
questo. Scotitoio. O veda un po', signor linguista!
Riprese fiato e tirò innanzi. - Ora ti servo
le frutte. Son certo che non sai che si dicono sfarinate le pere
come queste, che non reggono al dente, come le patate, che
sfarinano; né che si dicono maculate quelle che portano
segni delle mani; né che si chiamano nocchi queste specie
d'osserelli dei frutti, che è lo stesso nome, nocchio,
della parte del fusto dell'albero indurita e gonfiata per la
pullulazione dei rami. E guarda questo baco della pera che
s'attorce: tu non sai che con parola propria si dice che
s'assérpola. Rifacciamoci un po' indietro. Tu hai rotto la
punta a un ovo a bere: sai che si chiama scocciare l'ovo? Hai
preso la parte superiore del gelato: sai che si dice scolmare il
gelato? E a proposito dei tordi che hai mangiati, sai che si dice
dare un fermo ai tordi la prima cottura che si da loro
perché non vadano a male? Ora senti: come dici del pan
fresco che fa questo rumore, quando si preme? Che scroscia,
signorino. E di questa crostata sotto il dente? Che
scrógiola, da non confondersi con sgrigiolare, che è
il rumore delle scarpe nuove. E dell'olio che bolle? Che grilla o
grilletta; e sfriggolare del rumore che fa il pesce o altra cosa,
posta a soffriggere nella padella. E agitar così il liquido
nella bottiglia sai che si dice sciaguattare? E uscire a gorgo
l'uscir dall'acqua così, dalla bottiglia capovolta? E
l'uscire in quest'altro modo: venir giù filo filo? To', e
come si chiama questa pozza che ha fatto [177] l'acqua buttata in
terra? Stroscia. E a questa radura del tovagliolo che nome
dài? Ragnatura. E questo, dove infilerai il tovagliolo?
Girello, signor linguista. E potrei seguitare, se ti garbasse.
Io m'alzai da tavola, stizzito, e per nascondere la
stizza, m'andai a affacciare alla finestra. Ma il vocabolarista
implacabile mi si venne a mettere accanto, e riattaccò. -
Ti voglio regalare un'appendice - mi disse. - Supponi di dover
andare di qua, partendo dall'orto, fino a quel ceppo di case che
è là di faccia. Tu parti da quell'angolo dove son
piantati i baccelli, e non sai che si chiama baccellaio, ci
scommetto. Suppongo che tu inciampi nel ceppo di quel noce
tagliato a fior di terra, e non sai che si chiama ceppaia. Passi
all'ombra di quel filare d'alberi, e non sapresti dire che son
potati a capitozza. E non sai neppure che si chiama cavaticcio
quel mucchio di terra intorno al quale devi girare, e palancola il
tavolone su cui passerai quella gora, dove si raccolgono tutti gli
scoli del campo, e che ha pure un nome che non sai: capifosso. Non
ti domando neppure se sai che si chiama capezza quell'ultimo solco
che fa vivagno al lato del campo, e callaia quell'apertura fatta
nella siepe per entrar nel campo vicino, e macereto quell'ammasso
di macerie d'una vecchia casa che è in riva al torrente,
dove vedi quel ragazzo che bada alle vacche. E a proposito, qual
è il nome proprio della campanella che hanno al collo le
vacche? E quello del tempo nel quale l'erba suol nascere? E quello
della rena raccolta sulle rive del torrente, dove passa ora quel
contadino che v'affonda i piedi?... Cam-pá-no, er-ba-tu-ra,
re-nic-cio. E quei punti del torrente dove l'acqua è [178]
profonda, e una pietra che vi si getti fa un tonfo, si chiaman
tónfani, una bella parola onomatopeica; e quello dove il
torrente fa una gran voltata si chiama girone; e dove l'acqua fa
un rigiro vorticoso si dice che fa un mulinello.... Che cosa ne
dici? C'è ancora qualche lacunetta, pare, nella tua
dottrina linguistica.
Mentre egli parlava, io mi tenni sempre in un
silenzio cocciuto, sorridendo un po' ironicamente, per fargli
supporre che molte di quelle parole le sapessi, e non le volessi
dire per dispetto; ma in realtà mi riuscivan nuove quasi
tutte. E seguitai a tacere mentre le notavo sur un foglio di
carta, a sua dettatura. Ma mi rodevo dal dispetto davvero, e in
cuor mio lo trattavo di pedante fradicio e di spazzaturaio di
vocaboli, e dicevo che aver nel capo un magazzino di parole non
era saper la lingua. La lezione fece frutto, non di meno. Quando
fui a casa, pensai che in cento altri luoghi, in mezzo a cose
affatto diverse da quelle che mio zio m'aveva indicate, io avrei
dovuto rispondere altrettante volte: - non so - a chi m'avesse
interrogato com'egli aveva fatto, e compresi per la prima volta il
vuoto enorme che mi restava a riempire nella mente prima di
potermi vantare di saper la lingua. Mi posi allora sul serio allo
studio della nomenclatura. Ma non ebbi la costanza di proseguirlo
come avrei dovuto. E dell'averlo trasandato risento e lamento il
danno spessissimo, perché son costretto a ogni tratto,
scrivendo, a posar la penna per cercare come si chiama questa o
quella cosa, e non sempre trovando subito, perdo la pazienza e il
filo delle idee e il calore dell'ispirazione; e spesso non [179]
trovo, e mi tocca a interrogare amici, a voce e anche per lettera;
e qualche volta son ridotto a non scrivere una cosa che vorrei
scrivere perché mi manca la parola e il tempo di cercarla.
E non dico della vergogna di dover rispondere molte volte: - non
lo so - a chi mi domanda il nome di questo o di quell'oggetto, che
tutti i ragazzi toscani sanno nominare; vergogna, dico,
perché nel sorriso degl'interrogatori non sodisfatti leggo
bene il pensiero che non m'esprimono: - E son cinquant'anni che
studia la lingua!
[180]
LA LINGUA CHE NON SI PARLA.
Via via che procederai nello studio, sempre
più sarai maravigliato del gran numero di parole e di
locuzioni vive, che, pure essendo usate da scrittori d'ogni
regione d'Italia, non si sentono mai, o di radissimo, nella
conversazione della gente colta fuor della Toscana, come se non
appartenessero alla lingua parlata; e dalla considerazione di
questa povertà della lingua che si parla intorno a te,
sempre più sarai eccitato a studiare.
Per dimostrarti la verità di quanto affermo,
ti cito alcuni modi notati da me, fra i moltissimi ch'io non sento
mai dire né da piemontesi, né da lombardi, né
da liguri, né da veneti, che anche parlino e scrivano
decorosamente la lingua. Pensa un poco tu pure se t'occorse mai
d'udir le parole malmenìo, rigirìo, rodìo,
rosicchío, pigío, friggío, brusío,
sbatacchío, fulminío, almanacchío,
battío (battío di mani), delle quali si comprende
alla prima il significato anche da chi non le abbia mai udite
né lette. Così intesi mille volte accennare, per
esempio, quelle pieghe graziose che fanno per grassezza il collo e
le gambe dei bambini; ma mai, posso dir mai in vita mia, con la
parola più propria, che è riseghinetta, o
riségolo. [181] Occorre spessissimo di dir le cose
seguenti: la fanghiglia, che rimane nelle strade dopo la pioggia;
una quantità di roba vegetale, guasta o non adoperabile,
che fa impaccio e lordura; un laidume invecchiato sulla persona o
sur un muro; una macchia di sudiciume vistosa; un'operazione lunga
e noiosa da non cavarne costrutto nessuno; una stanzuccia misera e
stretta; un segreto intrigo amoroso; un aiuto o guadagno o risorsa
inaspettata; un soffio di vento che vien da una fessura o
apertura; un minuzzolo di che che sia, in senso spregevole;
l'irritamento che fanno alla gola certe vivande fritte nell'olio o
nel burro non più fresco; la bella mostra che fanno di
sè cose o persone, o il crescere, cuocendo, di certe
pietanze, che riescono più abbondanti che non paressero; e
inquietarsi, arrabbiarsi a trattar con qualcuno o a far qualche
cosa. Ebbene, io non sento mai, o quasi mai dir queste cose con le
parole usatissime in Toscana e dagli scrittori: belletta, pattume
o pacciame, loia, struggibuco, sgabuzzino, ripesco, rincalzo,
spiffero, trìtolo, rancico, compariscenza, appariscenza,
compàrita, assaettamento. Così non mi ricordo d'aver
mai inteso da un mio corregionale i verbi anfanare (andar qua e
là senza saper dove), frucchiare (metter le mani, per
smania di darsi faccenda, in più e diverse cose), frizzare
(vuol far lo spiritoso, ma non frizza), frullare (mi sentii
frullare un sasso accanto all'orecchio), rigirare (rigirarsela
bene), raccenciarsi, rinquattrinarsi, spappolare (di cosa morbida
che, toccandola, si disfà fra le dita); né i modi:
aver entratura con uno, trovar l'inchiodatura (trovar modo o
argomento certo di far che che sia), avere il restío, [182]
avere il suo ripieno (in una cosa, vale a dire il fatto suo),
averla graziata, far monte, farla bassa, baciar basso, lavorar di
fine, gettarsi in grembo a uno, levarla del pari, fare una cosa a
saetta, dare un'indossata a un abito, stare a uscio e bottega; e
potrei seguitare per decine di pagine.
Non è a dire che queste e altre parole e
maniere siano sconosciute: molti le sapranno o le sanno; ma non le
usano parlando perché non le hanno alla mano, perché
esse non fanno parte del loro vocabolario orale, di quella
provvisione di lingua che si porta con sè, e che si spende
giornalmente, nella conversazione ordinaria; e però, quanto
all'uso, è come se non le sapessero.
Dunque, se non ti vuoi ridurre a parlar la lingua
povera che generalmente si parla, bada bene, leggendo, a tutti
quei modi che intorno a te non senti mai dire, e cerca quali sono
i modi che s'usano di solito in luogo di quelli, e raffronta gli
uni con gli altri; e per stamparti nella mente quelli insoliti, e
perché non vadano dentro gli armadi chiusi, ma restino
sugli scaffali aperti della memoria, dove ti s'offrano alla vista
e alla mano a ogni occorrenza, lega ciascun d'essi a un tuo
pensiero, immaginando un fatto, un luogo, un'occasione, in cui tu
lo possa usare, e anche una persona nota a cui tu lo abbia a dire,
e anche l'accento e il gesto con cui lo diresti. Se non farai
questo, sfuggiranno di mente anche a te come agli altri, e ti
troverai, parlando la lingua, nella condizione di quei moltissimi
sfortunati ai quali, nelle discussioni e nell'opera, l'arguzia
vittoriosa, l'argomento convincente, lo spediente utile si
presentano sempre troppo tardi, quando il momento di servirsene
è passato.
[183]
LA LINGUA APPROSSIMATIVA.
perché non possediamo che uno scarso materiale
di lingua, noi parliamo una lingua che si potrebbe chiamare
approssimativa, con la quale non esprimiamo quasi mai esattamente,
ma soltanto press'a poco, il nostro pensiero; e perché
dell'improprietà del nostro linguaggio non abbiamo
coscienza, una gran parte dei modi, che ci sono abituali, ci
paiono i più propri a dire quello che pensiamo; e solo
quando vengono a nostra cognizione quelli che sarebbero propri
veramente, riconosciamo che quegli altri non dicevano per
l'appunto le cose che volevamo dire. Non soltanto; ma ricominciamo
assai spesso, imparando i nuovi modi, che non erano nella nostra
mente certe gradazioni d'idee, sfumature di sentimento e
particolarità di cose, che essi esprimono; e son essi che
ce ne dànno il concetto; ciò che disse benissimo un
grande scrittore, affermando che certe idee non ci vengono neppure
in mente perché non abbiamo le parole con le quali
potrebbero venire.
[184]
Ti cito una serie d'esempi che ti persuaderanno.
Confondere. - Noi non usiamo questa parola nel
significato che ha negli esempi seguenti: - Non si confonda con la
politica. - Non si confonda con quel figuro. - Non si confonda a
cercare codesto foglio. - Ebbene, nessuna delle espressioni che
noi usiamo in quei casi in vece di confondere dice per l'appunto
la stessa cosa, perché affannarsi, tormentarsi, montarsi il
capo dicon troppo, e darsi pensiero, perdere il tempo, occuparsi,
impicciarsi non dicono abbastanza.
Infognare. - Infognarsi in un affare, in una impresa.
Con che altra parola potresti dire così efficacemente che
si tratta d'un affare, oltre che rischioso, disonorevole?
Ribruscolare. - Sono andati a ribruscolare tutte le
scapataggini della sua gioventù. - Noi sogliamo dire
rintracciare, rivangare. Ma ribruscolare, che significa
propriamente raccogliere i minuti avanzi e bruscoli d'ogni cosa,
come esprime meglio la minuziosità, quasi la
malignità diligente e paziente con la quale i nemici d'una
persona cercano il pelo nell'ovo per iscreditarla!
Rifrustare. - È un fannullone vizioso che
rifrusta tutte le bettole. - Rifrustare, che, traslato, significa
ricercare in ogni parte, in ogni angolo più segreto,
esprime assai meglio del frequentare o bazzicare, che noi
useremmo, l'idea del vizio infistolito e insaziabile.
Riportare. - Quel ragazzo mi riporta tutto suo padre
nell'andare, nel gestire, nel parlare. - Riportare, in questo
significato, dice più di rassomigliare e di ricordare, come
noi diremmo; [185] significa: è tal quale, e presenta molto
più vivamente l'immagine.
Rimaner male, nella sua indeterminatezza, esprime
meglio d'ogni altro modo generalmente usato lo stato d'animo mal
definibile di chi per un detto o un atto altrui rimane scontento,
corbellato, disingannato, fra risentito e confuso.
Star su. - Credi ch'io stia sui cinquanta centesimi?
Piglia una lira e vattene. - Noi diremmo che io badi o ch'io
m'impunti; ma in badare non è espresso abbastanza il
concetto dell'interesse; impuntarsi è troppo forte; star su
esprime un'idea di mezzo tra il semplice concetto dell'interesse e
quello dell'avarizia che lesina.
Stillare. - L'ha stillata bella! - Nove su dieci noi
diremmo l'ha pensata o trovata. Ma stillare significa chiaramente
la ricerca sottile e l'accortezza della trovata, che pensare e
trovare non esprimono.
Stridere. - Bisogna striderci, per dire che di una
tal cosa non ci possiamo esimere, benchè ci dispiaccia. Noi
diremmo invece adattarsi, rassegnarsi o simili, che non dicono
così bene il rincrescimento o il dispetto con cui
c'induciamo a fare o a sopportare quella data cosa.
Storcere. - Non mi storcere le parole. - Non
c'è altro modo, di quelli che noi useremmo, che esprima con
un traslato così efficace l'interpretare malignamente le
parole altrui in significato diverso dal vero. Pigliare in cattivo
senso, per esempio, non dice, come la parola storcere, il
proposito dell'interpretazione cattiva, e anche sostituendo
voltare a pigliare si esprimerebbe con minore evidenza lo sforzo e
il mal animo.
Stare in tentenna. - Tu diresti tentennare [186]
senz'altro; ma tentennare dice una cosa che tentenni, barcolli o
stia male in piedi momentaneamente; stare in tentenna dice la
permanenza della cosa in quello stato. E così stare in
tremolo.
Pigliare a frullo. - Vedi se l'idea di fermare una
persona dove che sia e appena càpiti, o quella di cogliere
rapidamente parole, idee, senza che altri ci pensi e per nostro
giovamento, può essere espressa in altri modi con maggior
proprietà ed evidenza. - Venirti a cercare a casa è
tempo perso; bisogna pigliarti a frullo. - Piglia a frullo i
discorsi dei valentuomini, e poi se ne fa bello.
Prendere il vecchiuccio. - D'una persona, non
è lo stesso che dire: comincia a farsi vecchio,
perché significa pure l'idea: benchè non paia, o
cerchi di nasconderlo.
Fare agli occhi. - Si dice di due innamorati che
fanno agli occhi. Vedi se ti riesce di trovare qualsiasi altro
modo che dica come questo il guardarsi a vicenda dì
continuo e quasi conversare con gli sguardi, non potendolo fare
liberamente a parole.
Fare una smusata, una smusatura a uno. - Tu intendi
quello che significa, e senti che l'idea non è significata
così determinatamente dalle parole atto villano, o di
dispregio o di schifo o di fastidio, o mal garbo, né con
pari sfumatura comica da fare una brutta faccia o una smorfia.
Ti cito più alla lesta qualche altro esempio.
Non senti che la parola amarume nella frase: - C'è un po'
d'amarume fra di noi, - significa qualche cosa di meno di
amarezza, e non potrebbe essere sostituita per l'appunto da
nessun'altra parola? E nel modo: ho tutta la giornata impicciata
non è espressa un'idea che le [187] parole occupata,
impegnata non rendono esattamente, perché voglion dire
un'occupazione continua, non una serie d'occupazioni con
intervalli di tempo libero, ma troppo brevi, da poterli impiegare
a qualche cos'altro? E dicendo un affare rassegato (rassegare,
d'un liquido grasso che si rappiglia) non dài l'idea d'un
affare finito, ma più recente di quello che significherebbe
finito senz'altro, o passato o da non pensarci più? E come
s'esprimerebbe così propriamente l'idea d'un tempo in cui
si sia fatta una vita dura, faticosa, affannosa, come col modo:
sono stati giorni, anni sudati? E la parola strettita nel dire:
aver la gola strettita dal pianto, non ti pare che abbia forza
più particolarmente espressiva che la parola stretta, che
fa a tanti altri casi? E qual altra parola dice così bene
ad un tempo turbato di mente, distratto, sconcertato, svogliato,
impensierito, come stonato: oggi sono stonato, non capisco nulla?
E pensa un po' se t'occorre spesso di sentir dire: uomo di
ricapito, uomo impiccioso, un po' zolfino, scattoso, troppo
entrante, un mettibocca, uno sputazucchero, tutti modi che
s'intendono alla prima, e se le parole che s'usano di solito in
luogo di quelle hanno proprio la stessa sfumatura di significato,
o non dicono invece la cosa press'a poco, come altre innumerevoli
che noi spendiamo abusivamente perché non abbiamo tra mano
moneta migliore? Credo che bastino questi esempi a dimostrarti che
noi parliamo davvero una lingua approssimativa, e che il liberarti
da questo malanno dev'essere uno dei tuoi primi intenti, e questo
intento una delle tue prime norme nello studio della tua lingua.
[188]
LA LINGUA CHE ABBREVIA.
Ti do un altro consiglio, sul quale credo di dover
insistere in particolar modo: di notare e d'imprimerti bene nella
mente, leggendo gli scrittori e il dizionario, tutte le parole e
le locuzioni che esprimono un'idea più brevemente di come
tu sei usato ad esprimerla o a sentirla esprimere fra noi. Dirai:
- Che importa una parola o una sillaba di più o di meno
nell'espressione d'un'idea? - Poco - rispondo - nell'espressione
di ciascuna idea presa a parte; ma siccome sono moltissime le cose
che noi sogliamo dire con maggior numero di parole del necessario,
ne segue che il nostro discorso, in generale, riuscirebbe
notevolmente più breve, più sobrio e quindi
più efficace, se accorciassimo tutte le espressioni del
nostro pensiero che si possono accorciare. La brevità,
quando non nuoce alla chiarezza, è bellezza e forza. Nel
parlare come nello scrivere, c'è fra chi è breve e
chi è lungo, per rispetto all'uditore e al lettore, la
stessa differenza che fra chi paga in oro e chi paga in rame;
chè, dandoti la stessa [189] somma, l'uno ti lascia
leggiero e l'altro ti carica. E sai quello che dice il Leopardi:
che tanto è più viva l'attenzione e maggiore il
piacere di chi legge o ascolta quanto è più rapida
la successione delle cose, dei pensieri, delle immagini che lo
scrittore o il parlatore gli fa passare davanti.
*
Per esempio; noi usiamo esprimere col verbo diventare
o fare e con un aggettivo un gran numero d'idee che s'esprimono
benissimo con una sola parola, con un verbo intransitivo. Della
maggior parte dei verbi intransitivi, specialmente parlando, non
ci serviamo quasi mai, come se fossero ferri della lingua che non
sappiamo maneggiare. Diciamo quasi sempre: diventar rozzo, secco,
triste, selvatico, vano, grullo, asino, canaglia, tozzo, furbo,
zotico, bello, brutto, caparbio, grinzoso, minchione, sospettoso,
insolente, e mai, o quasi mai: arrozzire, assecchire, intristire,
inselvatichire, invanire, ingrullire o ringrullire, inasinire,
incanaglire, intozzire, infurbire, inzotichire, imbellire,
imbruttire, incaparbire, raggrinzire, rimminchionire,
insospettire, insolentire. Diciamo sempre: i capelli tagliati
diventano più fitti, non affittiscono o raffittiscono; si
fa notte, si fa buio, non annotta, rabbuia; questa tela comincia a
farsi rada, non: comincia a diradare; questo mobile non è
bene accostato al muro, non: accosta bene al muro. E vedi se senti
mai usare in forma intransitiva i verbi: - abbassare (la
temperatura abbassa), raffrescare (verso sera raffresca),
raddolcire (la stagione comincia a raddolcire), rabbruscare, [190]
del tempo (cominciò a rabbruscare verso notte), riscaldare
(appena riscalda, io vado in villa), rischiarare (aspetto che
rischiari per uscir di casa), scorciare (le giornate cominciano a
scorciare), alzare (la casa alza dalle fondamenta quindici metri),
accordare (questa parte non accorda bene con l'altra), infortire
(questo vino infortisce), abbozzolare (questa farina abbozzola),
stingere, perdere il colore (questi panni stingono)? E tu diresti
sempre che la carne diventa frolla non che infrollisce; che il
burro diventa rancido, non che rancidisce; che il sangue si
rappiglia, non che rappiglia; che un tale s'impunta, s'incaglia
nel parlare, non che impunta, che incaglia; e che una passione si
fa o diventa gagliarda, non che ingagliardisce, e che Tizio per
ogni piccola cosa mette il grugno, non che ingrugna; e non mai
infreddare, ma sempre: prendere un raffreddore. Non è forse
vero? Differenze minime; ma son queste e tant'altre piccole
abbreviature, ciascuna per sè trascurabile, che tutte
insieme abbreviano e isveltiscono notevolmente il discorso.
*
Ti cito un'altra serie di verbi, usati pochissimo da
noi, ciascuno dei quali ci farebbe risparmiare una o più
parole, e qualche volta una proposizione intera. - Con quella pipa
egli m'appuzza tutta la casa. Noi diremmo: mi riempie di puzzo. -
Dopo che è cavaliere non mi degna più. Non si
può esprimere altrimenti l'idea con una sola parola. -
Appena mi vide, si difilò verso di me. Noi diremmo: venne
difilato. - Quel ragazzo [191] dirazza dai suoi genitori. - Il
terreno comincia a erbire. - Ho appratito (ridotto a prato) tutto
il mio podere. - Il sole di maggio fiorisce tutta la campagna. -
Gli alberi cominciano a frondeggiare. - Il prato colmeggia verso
il mezzo. - Il terreno in quel punto pianeggia. - La strada in
quel punto forcheggia. - Quest'anno le biade graniscono bene. -
Quell'abito le rifà la persona, quelle tende nuove rifanno
il salotto. - Non è vero che tutti questi verbi non li
usiamo quasi mai nella forma e nel significato che hanno negli
esempi citati, e che quasi sempre ci occorrono parecchie parole
per dire quello che essi dicono? E si può dir lo stesso dei
seguenti: - entrare, senz'altro, per entrare a parlare (quando
qualcuno gli entrava sull'affare dell'eredità, era un
guaio) -, cabalare, per ordire inganni -, incappellare, per
prender cappello -, insignorirsi, per diventar signore -, dimoiare
(il liquefarsi della neve. Faceva un umidiccio come quando
dimoia), - imbaulare la roba -, discoleggiare, facicchiare (un far
leggero e poco concludente: non fa, ma facicchia) -,
frivoleggiare, ghiribizzare (che vai ghiribizzando?) -,
giovaneggiare, labbreggiare (recitar sotto voce) -, legneggiare
(far legna) -, lenteggiare (questa corda lenteggia, non è
abbastanza tesa) -, molleggiare (questo canape molleggia) -,
sfrottolare, sfuriare (ora che è sfuriato, possiamo uscir
noi, senza farsi pigiare) -, riavere (una pioggia a tempo
rià la campagna) -, riguardarsi (usarsi dei riguardi) -,
rimpollare (la roba in quella casa pare che ci rimpolli, che
cresca a misura che si consuma) -, rimanere, restare, senz'altro,
per rimaner maravigliato, stupito -, riparare [192] (il tal
bottegaio non ripara, ossia: ci ha continuamente gente) -,
scampagnare (andare o stare in campagna per ricreazione o
divertimento) -, schiassare (fare del chiasso per divertirsi) -,
scrupoleggiare -, sbraccettare una signora, per accompagnarla a
spasso, dandole il braccio -, scaponire un testardo, vincerlo in
ostinazione -, scasare (andar via da un luogo dove s'aveva casa),
scarognare, sfaccendare, scoronciare, spaternostrare -, scrudire
l'acqua troppo fredda -, soleggiare, esporre al sole (bisogna
soleggiare quest'uva) -, scuriosire, scaltrire, sneghittire,
spigrire uno -, spiovere, cessar di piovere (aspettiamo che
spiova) -, spoliticare, svecchiare: toglier via il vecchiume
(svecchiare una selva, svecchiare la lingua degli arcaismi) -,
sfondar poco, non sfondare: aver poca intelligenza (s'è
messo a studiar le matematiche, ma non isfonda; in quanto a
talento, non isfonda) -, tavoleggiare, trattenersi a tavola,
discorrendo e centellando -, tentennare un tavolino, per veder se
sta saldo. - Vedi un po': son certo d'aver detto la cosa cento
volte in vita mia, e d'averla sempre detta, non con quella sola
parola, ma con un'altra, meno propria, e appunto per questo,
accompagnata quasi sempre da una spiegazione.
*
poiché t'ho fatta una confessione, te ne fo
dell'altre. So bene che si dice: - una cosa non mi finisce - per:
non mi sodisfa, o non mi contenta pienamente; e non di meno,
parlando, esprimo sempre quel pensiero nella seconda maniera, con
nove sillabe invece di cinque. Dico: [193] - il tal podere ha un
circuito di sette chilometri - quando potrei dire con due sole
sillabe: - gira sette chilometri. Potrei dire: - un salone che
riquadra cento metri -, e dico: ha la superfice di cento metri
quadrati. Non oso dirti quali locuzioni stentate e ridicole usai
qualche volta per dire che una certa sostanza, nel ribollire,
rientra o ricresce, che un dato legno, o una stufa, rende poco o
molto, che il legno non bene stagionato rimbarca. Dissi per anni
con una locuzione di tredici sillabe quello che si può dire
in cinque: alfabetare, per esempio, le note sulla lingua. Ricordo
d'aver fatto un giorno un interminabile giro di parole per dire
d'aver trovato un tal pittore occupato a graticolare, o
reticolare, o retare la tela. Non espressi mai con una parola sola
l'idea che esprime benissimo il verbo avventare negli esempi: - un
colore che avventa, una ragazza che avventa a primo aspetto, ma
non è bella, uno stile che avventa alla prima lettura, ma
è vizioso. - E così: abbambinare una cosa che non si
può portare, agghiaiare una strada, allentarsi dopo aver
mangiato, arrivare una vivanda, assodare un uovo, avviare una
candela, spicciolare uno scudo, calettare o non calettar bene
(d'un uscio, per esempio, che sia bene o male aggiustato, in modo
da lasciare, o no, trapelare l'aria), son tutti modi che non mi
vengono mai alla bocca, e in luogo dei quali uso sempre parecchie
parole, che, per giunta, quasi sempre dicono meno chiaramente la
cosa. E per farti ancora una confessione, aggiungo che pochi
giorni fa, avendomi detto un toscano: - Gli è tutto un
figurarselo; quando sarai là non ti parrà niente -
io osservai tra [192] me che se avessi dovuto esprimere lì
per lì quell'idea, non avrei saputo dire altrimenti che: -
la tua immaginazione t'ingrandisce la cosa -; che non è
solamente più lungo, ma meno famigliare, e quasi
comicamente solenne nel parlare fra amici.
*
V'è un gran numero d'altri modi abbreviativi,
usatissimi in Toscana, che noi non usiamo, come: - anno, per
l'anno passato; sabato notte, per esempio, per nella notte di
sabato; a buio (stasera a buio sarò qui); di levata (fare
una cosa di levata, ossia, appena scesi da letto); fare
un'usciata, una finestrata, per isbattere l'uscio o la finestra in
faccia a uno. E vedi il significato della parola aria, che tien
luogo di più parole, negli esempi: - gli volevo parlare di
quell'affare; ma vidi che non era aria; - oggi non è aria;
lasciatemi stare -; e la brevità efficace dell'espressione:
- una casa a uscio e tetto - per dire una casa bassa, che ha
soltanto il pian terreno; e della parola riesci - è un
riesci - per dire una cosa che imprendiamo a fare senza deliberato
proposito e studio precedente, e che non sappiamo se
riuscirà bene o male. E nota negli esempi: - mettere delle
frutte sul cassettone per bellezza -, sapere una cosa di rimbalzo
-, non verrà certo, ma se per impossibile egli venisse....
- se ti riuscirebbe d'esprimere con eguale evidenza, non usando
più di due parole, l'idea che quei tre modi esprimono. E
ora una filza di vocaboli, ciascuno dei quali ne fa risparmiare
parecchi. Cimiciaio, una casa o un mobile pieno di cimici. -
Birbonaio, [195] un covo di birboni. - Ladronaia.
(Quell'Amministrazione è diventata una ladronaia). -
Serpaio, viperaio, un luogo pieno di serpi o di vipere. -
Scannatoio, una trattoria, un albergo, dove si pelano gli
avventori. E ti potrei anche citare, come vocaboli ai quali ne
sostituiamo quasi sempre più d'uno: - Frasconaia (per
traslato, ornamenti e addobbi eccessivi e senz'ordine: d'una sala
e anche d'una donna, che si metta troppa roba in capo). - Frascume
(ornamenti vani d'opere d'arte, e anche di stile). - Tritume
(soverchia quantità, varietà e minuziosità di
parti o membri in opera d'architettura, o anche di pittura). -
Rifrittume (lavoro composto di cose dette e ridette da molti, e
anche dall'autore stesso). - Grinzume, una quantità di
grinze considerate insieme, o d'un viso o d'un vestito. - Vietume,
roba vieta. E per finire con qualche cosa di fresco: fiorita di
neve, un modo graziosissimo, col quale possiamo far di meno di
dire: uno strato leggerissimo, o anche più lungamente:
tanta neve che ricopra appena il terreno.
*
V'è poi un ordine di vocaboli (più
ricco nella nostra, credo, che in ogni altra lingua) ai quali noi
sostituiamo quasi sempre una definizione, che rallenta il discorso
e rende con meno immediata evidenza l'idea. Ne feci già un
cenno nella Corsa nel vocabolario. Sono vocaboli che significano
l'indole e l'aspetto d'una persona, certi difetti e vizi e abiti
fisici e morali, e modi d'essere, di moversi, di fare, di vivere.
Te ne metto sotto gli occhi una serie, di cui la [196] maggior
parte non richiede spiegazione, e che son non di meno d'uso
rarissimo fra noi. Sono come tanti piccoli ritratti chiusi in una
parola.
Abbacone - Abbaione - Almanaccone - Annaspone -
Badalone - Baione - Baffone - Barbuglione - Belone - Biascicone -
Boccalone - Brodolone - Cabalone - Ciabattone - Ciaccione -
Ciampicone - Ciarpone - Cincischione - Ciondolone - Combriccolone
- Dimenticone - Dondolone - Ficcone - Fiottone - Fracassone -
Frittellone - Gamberone - Gingillone - Gonfione - Gracchione -
Impiccione - Lanternone - Lasagnone - Leccone - Lezzone - Machione
- Massiccione - Nappone - Ninnolone - Nonnone - Pataccone -
Pecorone - Pencolone - Piaccione - Picchione - Pigolone -
Praticone - Perticone - Raggirone - Sbracione - Sbraitone -
Sbrendolone - Scioperone - Sgomentone - Soppiattone - Spilungone -
Squarcione - Tatticone - Tenerone - Tentennone - Appiccichino -
Attacchino - Attizzino - Cicalino - Ficchino - Frucchino -
Frustino - Galoppino - Gambino - Girandolino - Lecchino -
Rabattino - Pepino - Stillino - Tritino - Ferraccio - Falcaccio -
Lamaccia - Annaspo - Scricciolo - Reciticcio.
Considera quanto di frequente, parlando o scrivendo,
occorre di definire o di descrivere o d'accennare di volo qualche
particolarità fisica o morale d'una persona, e comprenderai
come dal fatto di non conoscere i vocaboli citati, o di non averli
alla mano, o di non volerli usare per timore che altri non
gl'intenda, si sia costretti ogni momento a dir molte parole che
si [197] potrebbero risparmiare, con l'aggiunta d'esprimere
stentatamente e male la nostra idea, e quasi sempre con minor
effetto comico di quello che vorremmo ottenere.
Mi sono diffuso alquanto su quest'argomento
perché nell'arte del parlare e dello scrivere è
d'importanza primissima il precetto del poeta: - Sii breve ed
arguto. - So che a me tu potresti dire: - Da che pulpiti! - E
avresti ragione. Ma non badare al mio; bada al pulpito del Parini.
[198]
DELL'UTILITÀ DI STUDIAR LE DEFINIZIONI.
Per imparare a esprimersi con brevità credo
molto utile il fare uno studio attento, così negli
scrittori come nei dizionari, delle definizioni; nelle quali,
oltre che la proprietà e la finezza dei termini, si suol
trovare la maggior parsimonia possibile di parole, che è
condizione necessaria della loro semplicità ed evidenza.
Nel dizionario in special modo, consistendo le definizioni di
molte cose nell'indicazione di tutte le parti che le compongono,
tu non imparerai soltanto la brevità, ma un gran numero di
vocaboli; la cui ignoranza appunto costituisce la maggior
difficoltà che noi troviamo quasi sempre a definire e a
descrivere un oggetto qualsiasi.
Ecco, per esempio, alcune definizioni, ricavate da
dizionari diversi.
ARPA. - Strumento di molte corde di minugia, di
figura triangolare, senza fondo; di cui tre sono le parti
principali: il corpo, la colonna e l'arco: nel corpo, corredato
d'animella o sordina sta la risonanza dello strumento; nell'arco i
[199] pironi di ferro, e i semituoni cui sono raccomandate le
corde; la colonna è quel ritto che collega l'arco ed il
corpo.
BATTARELLA. - Quell'arresto, che essendo imperniato
ad un'estremità, punta con l'altra contro il dente d'una
ruota che tende a girare in una direzione, mentre, lasciandone
liberamente passare i denti, le permette di girare quando si muove
per il verso contrario.
INFINESTRATURA. - Foglio di carta tagliato in quadro,
con vano quadro in mezzo a uso d'un telaio di finestra, dentro a
cui s'appicca un foglio guasto nei margini.
GRADINA. - Ferro piano a foggia di scarpello,
alquanto più sottile del calcagnolo o dente di cane, e
serve per andar lavorando con gentilezza le statue, dopo aver
adoperato la subbia e il calcagnuolo.
LACCIAIA. - Lunga fune a cappio scorsoio che i
bútteri portan seco e che a un bisogno acciambellandola e
sfilandola verso una mandria accalappiano con essa la bestia che
loro piace.
RIBALTA. - Piano della scrivania sul quale si scrive
e che è mobile nei maschietti per poterlo alzare, abbassare
e chiudere, oppure quell'asse girevole sui pernietti che s'adatta
lungo la batteria dei lumi in un teatro.
STAME. - Parte fecondante della pianta contornata dal
calice o dalla corolla, o da entrambi, che è per lo
più della figura d'un filo, il quale è detto
filamento, e terminato da un globo, o borsetta, che dicesi
ántera, e che contiene la farina o polvere fecondante, la
quale è detta pòlline.
Bastano questi esempi, credo, a dimostrare quanto
possa esser utile leggere attentamente [200] le definizioni. E se
te ne vuoi meglio persuadere, prova a mandarne a mente parecchie,
e poi a definire di tuo qualche oggetto complesso, come per far
capire e vedere che cosa sia a chi non lo conosca, e vedrai come
per effetto di quel breve studio ti riuscirà più
facile dare alla definizione un giro di frase agile, collegare in
un nodo stretto i particolari e ottener con l'ordine la chiarezza.
perché vi sono operazioni della mente, anche nell'arte
della parola, alle quali ci addestriamo con facilità
mirabile, come a certi esercizi fisici, che ci riescono alla prima
difficilissimi per il solo fatto che non li abbiamo mai tentati.
[201]
IL DIZIONARIO DEI SINONIMI.
Dice Beniamino Franklin che chi insegna a un giovane
a farsi la barba da sè gli fa un maggior vantaggio che se
gli regalasse mille lire. Ebbene, s'io riuscissi a farti studiare
il Dizionario dei sinonimi del Tommaseo, stimerei d'averti
regalato un podere: nel regno della letteratura, intendiamoci. Chi
studia la lingua lo dovrebbe tener sempre sul tavolino, come un
prete il Breviario, per leggerne e rileggerne qualche pagina ogni
giorno, e consultarlo a ogni tratto; perché ad imparare a
scrivere e a parlare con proprietà e con esattezza, a dar
contorno fermo e netto all'espressione del proprio pensiero e a
rendere di questo tutte le flessioni e le sfumature, non
c'è lavoro più utile che l'esercitarsi a "discernere
le più piccole gradazioni di significato delle parole, a
adagiare l'una voce sull'altra, per vedere dove combacino, dove
no, dove sia maggiore il rilievo, dove più delicati i
contorni, e a trovar parole così sottili e così
calzanti che rendano con evidenza le differenze più tenui,
senza ingrossarle." Questo lavoro fece mirabilmente su [202]
migliaia di vocaboli Niccolò Tommaseo, nel suo Dizionario
pieno d'ingegno e di dottrina, d'arte e di vita, altrettanto
dilettevole quanto profondo, e riboccante d'ogni maniera
d'insegnamenti, non solamente filologici, ma morali, filosofici,
estetici: un libro d'oro, al quale è titolo troppo modesto
quello di dizionario.
Leggilo, mio giovane amico, e rileggilo a brevi
tratti, pensandovi su. Non ti sarà solo un vital nutrimento
allo spirito; ma una ginnastica intellettuale che ti farà
più forti, più acute, più agili tutte le
facoltà della mente. Tu ci troverai espresse mille idee e
facce d'idee, sentimenti e modificazioni di sentimenti, e aspetti
e proprietà e qualità intime di cose, che ora sono
confuse nella tua mente e nel tuo animo, e di cui cerchi invano
l'espressione, come inseguendola tentoni nella nebbia. E imparerai
a scrutare il significato d'ogni parola come si scruta un'anima; a
scoprire sotto ogni idea un'altra idea, ordini interi d'idee; a
chiarire, a distinguere, a separare una quantità di
concetti e di sentimenti, che sono ora nascosti nella tua mente
sotto un solo vocabolo, col quale tu li mescoli e li designi tutti
insieme come un mucchio di cose uniformi. E non soltanto quella
lettura "ti raddrizzerà l'espressione di molte idee, ma le
idee medesime." Imparerai non solo ad esprimere, ma a pensare
profondamente, sottilmente, nettamente. Quante parole t'accorgerai
d'aver usate finora e udito usare dai più in un significato
che non hanno, o che del loro significato vero non è che
un'ombra! Di quant'altre parole e frasi che ora ti vengono ogni
momento sulla bocca e sotto la penna, moleste come ripetizioni
obbligate, e di cui ti [203] riesce molesta la ripetizione anche
nei discorsi e negli scritti altrui, t'avvedrai che le ripeti e
che tutti le ripetono, non perché siano inevitabili, ma
perché tu e gli altri le usate ad esprimere gradazioni
diverse d'un'idea o d'un sentimento, ciascuna delle quali
dovrebb'essere espressa in un'altra forma, e la forma c'è,
e nessuno l'adopera! E come di questa benedetta lingua, che tu
dici ricca, varia, delicata, potente, più per consuetudine
che per coscienza, ti apparirà moltiplicata la ricchezza,
più maravigliosa la varietà, più squisita la
finezza, ingigantita la potenza!
Certo, ti sarà impossibile ritenere a mente
tutte quelle innumerevoli e fini distinzioni fra i significati dei
vocaboli; benchè la maggior parte di esse siano spiegate
con magistrale chiarezza e illustrate da esempi efficacissimi. Ma
il vantaggio massimo che ricaverai da questo studio, non
sarà nella tua memoria: lo riconoscerai nel sentimento
della lingua raffinato, nella facoltà del discernimento
acuita, nella consuetudine che avrai acquistata di cercare e
ponderare il significato d'ogni parola prima di buttarla sulla
carta, di raffrontare una locuzione con l'altra, di provarne
parecchie al tuo pensiero per vestirgli quella che più gli
conviene, di diffidare cautamente delle apparenze di sinonimia che
di continuo ci si presentano, e da cui ci lasciamo ogni momento
ingannare. Ti parrà dopo un mese di non aver cavato da
quella lettura che un profitto di poco conto, o anche nullo. Ma
se, dopo aver letto e pensato qualche centinaio di quelle pagine,
dove lo scrittore, esercitando le facoltà più
delicate della mente, affronta e vince a ogni periodo le
più terribili difficoltà del linguaggio, [204] che
son quelle dell'analisi, della distinzione, della definizione, ti
proverai a scrivere sopra un argomento comune, tu esperimenterai
nel raccontare, nel descrivere, nel ragionare, una facilità
nuova, un senso di scioltezza, di sicurezza, di padronanza delle
tue facoltà e delle tue mosse, simile a quello che prova a
camminare sur una via larga, piana e libera chi sia andato un
pezzo per un sentiero erto e stretto e pieno d'inciampi, con un
precipizio da lato. La tua mente si sarà addestrata a veder
le varie sembianze d'ogni idea con uno sguardo rapido e
avvolgente, a penetrarvi in fondo, a passare in rassegna alla
lesta i diversi modi di significarla, e a cogliere sull'atto il
migliore; e non soltanto nel maneggio della lingua risentirai il
vantaggio, e nella cresciuta attitudine ad analizzarla, e nel
più forte amore che avrai per essa; ma alla scuola
dell'autore che insieme con le parole analizza passioni, azioni,
usi, costumi, caratteri, ti sarai avvezzato a meditar sopra ogni
cosa, e studierai nella lingua l'anima umana, la vita, la natura,
e qualche volta dirai tu pure col maestro che ti par di sentire in
questo studio il verbo di Dio.
Libro preziosissimo; leggendo il quale ti sentirai
prima compreso d'ammirazione, e poi di reverenza e di gratitudine
per lo scrittore che fece della lingua della tua patria uno studio
così amoroso e profondo, e per trasmetterne ai giovani la
cognizione e l'amore, un lavoro così poderoso e variamente
utile e bello; e di pagina in pagina ingrandirà davanti ai
tuoi occhi e ti sarà eccitamento via via più forte e
più caro a perseverar nello studio, l'immagine del vecchio
venerabile,
d'occhi cieco e divin raggio di mente.
[205]
SCRUPOLINO.
I sinonimi erano una delle molte afflizioni della sua
vita.
Lo conobbi a Firenze. Era un impiegato della
Prefettura, nato e cresciuto
Là dove Italia boreal diventa,
già vicino alla trentina; ma così
smilzo, e sprovvisto d'ogni onor del mento, e d'indole così
timida, che pareva ancora un adolescente. Si dilettava di
letteratura, leggeva molto e non mancava d'ingegno; ma era affetto
d'una malattia incurabile: il terrore della lingua italiana. Aveva
della difficoltà dell'idioma gentile un concetto
così smisurato, gl'incuteva un così grande sgomento
il fantasma della Grammatica, che, parlando, impuntava a ogni
tratto, e balbettava come uno scolaretto agli esami, assalito da
mille dubbi, turbato da mille scrupoli; dai quali non riusciva a
liberarsi né sull'atto né poi, e se ne disperava.
Anche nel crocchio degli amici soliti, ma tanto più se
c'era qualche toscano colto, o chiunque altro, che avesse
reputazione di parlar bene, e [206] non gli fosse famigliare, gli
si vedeva in viso la preparazione mentale faticosa e piena
d'incertezze ch'egli faceva d'ogni periodo o frase che volesse
dire; e quando poi si risolveva a parlare, usava ogni specie di
cautele e di formole attenuanti, come: - sto per dire, direi
quasi, la parola non sarà di Crusca, mi si passi
l'espressione; - e qualche volta arrossiva a un tratto, e restava
in tronco. Con questo o con quell'amico, poi, a quattr'occhi,
sfogava il suo dispetto contro la lingua e contro sè
stesso, e gli confidava i dubbi e i timori che lo perseguitavano
di continuo come un nuvolo di vespe. Si doveva dire a un uomo lei
è buono o lei è buona? Vacci o vavvi? Credo che tu
sii o che tu sia? Lo trattò come se fosse uno sconosciuto o
come se fosse stato? Ha fatto la tal cosa di nascosto di o da o al
tale? Ho antipatia per o con o verso o contro una persona? Come
Dio benedetto s'ha da dire?
E non serviva dirgli i modi che i "buoni parlanti"
usavano, e consigliargli di fissarseli una volta per sempre nel
cervello, e d'attenersi a quelli immutabilmente; senza di che non
sarebbe guarito mai della sua malattia. Se in un libro di
scrittore autorevole gli accadeva di leggere un modo diverso da
quello generalmente usato (cosa troppo facile in Italia, pur
troppo), il dubbio gli rampollava da capo. - Questa maledetta
lingua italiana - diceva - è una disperazione. Preferirei
di studiare il cinese. - Ogni giorno gli saltava su un dubbio
nuovo, anzi un nuovo ordine di dubbi e di scrupoli: sul fra o tra,
sul lì o là, qui o qua, costì o costà;
sull'uso degli ausiliari essere o avere con certi verbi; [207]
sulla collocazione dei pronomi personali che non sapeva mai dove
mettere, e che spesso gli restavano in mano. A volte fermava un
amico per la strada, e gli domandava di punto in bianco: - Si
dice: lo dissi loro o loro lo dissi? - E quando un amico, del
quale avesse stima in materia di lingua, a uno dei suoi quesiti si
mostrava perplesso: - Ah! vedi - esclamava in tono di trionfo -
vedi se non ho ragione! È una lingua terribile, terribile,
terribile.
Per questo suo perpetuo "scrupoleggiare" gli s'era
affibbiato il soprannome di Scrupolino, di cui non s'aveva per
male; ma nemmeno ne rideva, perché la parola designava
un'infermità mentale, della quale egli aveva coscienza e
vergogna.
A furia di porre quesiti a sè stesso finiva
con dubitare anche della legittimità delle parole e delle
locuzioni più usuali, e in certi momenti di sconforto
esclamava: - Io non so più parlare! Io finirò col
non più parlare!
Qualche volta cercavamo di persuaderlo, sul serio. -
Vedi - gli si diceva - tu hai tanta difficoltà di parlare
perché non parli, componi. Non devi comporre. Ti devi
gettare a nuoto nel discorso, arditamente; lasciarti andare
all'ispirazione, alla dettatura dell'orecchio, non badando a
regole, dimenticando ogni studio. Volendo esaminare e scegliere le
parole, come fai, così con la fretta, per non far
aspettare, e col timore di seccare chi ascolta, ti confondi, e
scegli quasi sempre male, o non trovi, e resti lì,
impaniato. Prova un po' a parlare come vien viene. - Ma egli stava
un po' pensando, e poi rispondeva, scrollando il capo: - È
inutile, non [208] posso; le parole e le regole battagliano nel
mio capo come i Deputati nel Parlamento. - Ed era vero. A quando a
quando si provava a parlar libero; ma subito gli spettri
dell'Improprietà, dell'Impurità, dell'Idiotismo, il
fantasma formidabile della Lingua Italiana gli si rizzavano
dinanzi, ed egli era perduto.
A poco a poco il tarlo del dubbio gli era risalito,
come sempre avviene, dalla lingua alla radice del pensiero, per
modo che anche lo scrivere la più semplice lettera
diventava per lui un affare di Stato. Egli mi fece la confessione
d'uno di questi casi, al quale tutti gli altri rassomigliavano, e
che è un esempio dell'impotenza intellettuale a cui
può condurre l'esercizio della critica sopra sè
stessi, quando non è tenuta nella giusta misura. Si
trattava d'una breve lettera di condoglianza. - Stimatissimo
signore, gradisca le mie condoglianze. - No. Come si fa ad
associare l'idea del gradimento con quella d'una sventura? - Le
mando le mie condoglianze. - Come si manda un pacco! E poi
è troppo famigliare. - Le faccio.... - Ma non è
troppo materiale per l'espressione d'un sentimento? E si dice
faccio una condoglianza, o non confondo col modo fare un
complimento, che dei due è il solo corretto? - Riceva le
mie.... - Oh bella! Se glie le mando, bisogna ben che le riceva:
è ridicolo. - Abbia, dunque.... Ma quest'imperativo
è sgarbato. E via così per tutto il resto. Sette
righe gli costavano i sette dolori. E finiva sempre col
ritornello: - È terribile! - Un giorno mi venne incontro in
via Calzaioli agitando un giornale, e me lo mise sotto gli occhi,
dicendo: - Leggi qua. - Era [209] una Conversazione del
giovedì, nella quale Giuseppe Civinini, che per lui era il
principe dei giornalisti e dei critici, diceva che la lingua
italiana era una delle meno parlate e delle più difficili
lingue d'Europa. - Hai inteso? - quasi gridò - e lo dice
uno scrittore di quella forza! Non c'è da dar l'anima al
diavolo? Io vorrei esser nato in Lapponia!
Uno dei più molesti argomenti di dubbio e di
confusione era per lui l'uso del lei e dell'ella, fra cui si
trovava ogni momento come tra il martello e l'incudine. Gli
dicevano: - Di' come i fiorentini. - Ma questi scellerati -
rispondeva - dicono un po' l'uno e un po' l'altro. Che regola ci
si può cavare, che Dio li confonda! - E con gente ch'egli
praticasse, tanto e tanto si lasciava andare al lei; ma con
persone a cui parlasse la prima volta, e che gli mettessero un po'
di suggezione, non c'era verso: il lei gli veniva sulle labbra, ma
se lo rimangiava, e metteva fuori l'ella a proprio dispetto, e lo
sosteneva nel discorso a prezzo di qualunque sforzo e sacrificio
della naturalezza e dell'armonia, anche facendo rider gli amici,
pur di salvare la Grammatica sacra.
Appunto per la gran paura di non parlar bene, gli
toccò un giorno a inghiottire un boccone amaro, che gli
restò sullo stomaco un pezzo. Andando insieme a Prato, ci
trovammo nel vagone con un ragazzo e un giovinetto toscani,
fratelli, di viso intelligente e vivo tutt'e due; i quali
scherzavano argutamente a ogni proposito, e rammentavano spesso il
babbo, che li doveva aspettare all'arrivo. Allettato dalla loro
allegrezza, l'amico Scrupolino sentì desiderio [210]
d'attaccar conversazione, e a un certo punto domandò
cortesemente al maggiore: - E dove, se è lecito.... dove
vanno...?
Stava per dir loro; ma m'accorsi che non osò,
e ripetè: - Dove vanno.... elleno?
I due toscanelli fini si scambiarono un'occhiatina e
un sorriso, e il maggiore, prendendo baldanza dalla
timidità dell'interrogante, rispose con malizia: - Dove
andiamo noi, ci domanda?... A Bologna.
E il mio amico, un po' confuso: - E.... a Bologna, mi
par d'aver inteso, li aspetta il loro.... genitore?
Il giovinetto sbirciò un'altra volta il
fratello, e poi rispose con un leggerissimo sorriso burlesco: -
Sì, l'autore dei nostri giorni.
Scrupolino sentì la puntura, arrossì un
poco, e non aggiunse altro. Quando scendemmo dal treno,
scattò: - Hai sentito quell'impertinente? Avrebbe meritato
una lezione. È inutile. Io non dovrei più parlare
italiano. Mi darei degli schiaffi, come è vero Dio. Ebbene
(e tirò un pugno nell'aria) non parlerò più,
e ogni cosa è finita. Tu ridi!... Ma è terribile.
Ma fatti pochi passi pensandoci fermò, e mi
domandò a mezza voce, timidamente: - Ogni cosa.... è
neutro o femminino?
[211]
APOLOGIA DEL PEGGIORATIVO.
Eccomi qua, signorino. Sono il sor Accio,
peggiorativo di professione, vecchio come il primo topo; ma sempre
sano e pien di vita come un ragazzo. Non si sgomenti della mia
faccia burbera e della mia voce grossa, chè sono un buon
diavolaccio in fondo, nonostante la mia reputazione di persona
grossolana, e benchè di solito si pronunzi il mio nome
sporgendo il labbro di sotto in atto di disprezzo. Vero è
che io servo quasi sempre a esprimere sentimenti di disistima e
d'avversione, a sparlare del prossimo e a definir cose brutte e
sgradite; ma, insomma, sono utile, perché avversione e
disistima sono ben sovente sentimenti onesti, e dir male di certa
gente è dovere di coscienza, e sono mai tante le cose
brutte e sgradite che gli uomini sono costretti a rammentare! E
appunto perché ho coscienza d'esser utile, mi fo lecito di
offrirle i miei servizi, e di farle, modestamente, una lezioncina
di lingua.
perché, parlando e scrivendo, ella si serve
così raramente di me? Eppure io servo a dir molte cose, che
non si possono dir bene se non per mezzo mio. Di molte idee
accorcio [212] l'espressione; di certi sentimenti significo io
solo certe sfumature che altrimenti non si saprebbero rendere; a
molte parole do un particolare senso comico che per sè sole
esse non hanno; e a chi esprime un giusto sentimento di disprezzo
o di sdegno, il mio suono stesso dà un certo qual senso di
sodisfazione, che nessun'altra parola gli darebbe, poiché
è un suono largo e forte, che gli riempie la bocca e gli fa
stringere i denti, non è vero? il suono come d'una palmata
vigorosa, che pianti ben salda e ribadisca l'idea.
O perché non si serve qualche volta di me
quando vuol dire, per esempio: una trista idea, una mala giornata,
una mossa o un'entrata o un'uscita villana, una cattiva ragione,
un cattivo partito, una cattiva pratica, una brutta cera o un
brutto momento? perché, invece di usare due parole o una
perifrasi, non dice invece: - Questa è un'ideaccia - Oggi
è una giornataccia - Il tale m'ha fatto una mossaccia,
un'entrataccia, un'uscitaccia - Codesta che tu adduci è una
ragionaccia - Ha trovato marito; ma è un partitaccio - Quel
giovane si mette male; ha delle praticacce - Il tale oggi si deve
sentir male; ha una ceraccia - Se càpita ora quel poco di
buono, mi piglia in un momentaccio -? Non esprimerebbe la sua idea
con maggior brevità e con po' più forza? E se per
dire che un tale d'una cert'arte, ufficio o mestiere ha una certa
pratica, ma affatto materiale, senza alcun lume di scienza, o che
un impertinente l'ha messo al punto di fare uno sproposito, o che
un trivialone di sua conoscenza ha mangiato come un bufalo,
dormito come un ghiro e tenuto dei discorsi indecenti, ella
dicesse: - Non [213] ha che una certa praticaccia - m'ha messo a
un puntaccio - ha fatto una mangiataccia, una dormitaccia, dei
discorsacci, - non direbbe la cosa più alla svelta e con
più vigore d'espressione?
E non son mica grossolano come posso parere a primo
aspetto, chè nel graduare o colorire il significato delle
parole ho io pure le mie industrie e le mie finezze. Fare una
levataccia, per esempio, non significa soltanto: levarsi
più presto del solito; ma dice anche la violenza che si fa
alla propria pigrizia, e il rincrescimento del farla. Fare una
partaccia a uno non vuol dir solo fargli un rimprovero acerbo, o,
famigliarmente, una lavata di testa, ma anche usare,
facendogliela, aspre parole. Dicendo che uno ha un talentaccio, un
ingegnaccio, si dice che ha molto talento, molto ingegno, ma in
qualche lato manchevole, o poco ordinato, o non usato sempre
degnamente: non si direbbe del Manzoni o del Carducci. Poveraccio!
esprime una sfumatura di compassione o di pietà, che non si
può sentire od esprimere riguardo a persone che ispirano
reverenza: ella può dire poverino o poveretto, ma non
poveraccio, di suo padre. Nell'espressione: un uomo fatto
all'anticaccia, v'è una leggiera intenzione di canzonatura
che non è in fatto all'antica. E con librucciaccio ella
dice un libro non soltanto meschino nella forma (chè
libruccio significa meschino nella forma più che nella
sostanza) e non solo di poco pregio nella sostanza, ma anche in
questa rozzo e cattivo. E s'ella dice che un tale fa il comodaccio
suo, dice che fa il suo comodo con particolare indiscrezione e
noncuranza del comodo altrui e del dovere proprio. Vede quante
piccole cose, quante [214] minute diversità e graduazioni
di idee io servo a dire e determinare!
E poi, ho stampato tante parole di forte rilievo e di
color vivo e gaio, a cui nessun'altra equivale! Veda un po'
queste. Di un lavoro duro e misero, che dia appena da vivere: -
È un panaccio. - Mangiare un panaccio arrabbiato. - Non
t'immischiare con colui: è un arnesaccio, è
robaccia. - S'è preso un cosaccio d'avvocato, che gli
mangerà fin l'ultimo soldo. - Mi tocca a far certe
facciacce per cagion sua! - S'è presentato con un pajaccio
di scarpe rotte. - O figliaccio e po' d'un cane! - E veda come
servo anche a dare il fatto suo a un indegno, così di
sbieco, senza parere: - L'hanno fatto cavaliere l'altro
giornaccio, o uno di questi giornacci lo faranno. - Non è
una bellezza? E non finirei più! Ma le dico ancor questa:
che servo io solo, in Toscana, senz'essere appiccicato ad altra
parola, a definire una persona: - È un ragazzo accio, ma
accio bene; è un farabutto, ma di quegli acci; - o sono
adoperato tre volte per rincarare la dose: - È un
malandrinaccio.... accio, accio, accio. - E, in fine,
m'accecherà l'orgoglio; ma io penso che uno scrittore che
non sa giovarsi del fatto mio, o che mi trascura o mi disprezza,
non può essere che uno scrittore da un tanto il mazzo. E me
ne scappo, perché vedo avvicinarsi un tale, un giovincello
sdolcinato, con cui non me la dico, e non mi posso trovare
insieme. La lascio con lui, che cercherà di rivogarle la
sua mercanzia. Ma ritornerò. A rivederci a presto, e si
guardi da un'indigestione di zuccherini.
[215]
APOLOGIA DEL DIMINUTIVO.
Giovanettino, ti saluto. Io sono il diminutivo...
Comprendo il tuo sorriso; ma non mo ne risento,
perché sono un buon figliuolo. Da qualcuno tu avrai inteso
dir corna di me, e sei mal prevenuto a mio riguardo. T'avranno
detto che sono uno sdolcinato stucchevole, che stempero le parole
e snervo la lingua, empiendola di lezi femminei e di vezzi
bambineschi. Ma tu non devi dar retta a costoro: gente di grossa
pasta, che non mi capisce e non mi sente. Io son modesto di
natura, e non per vanagloria, lo puoi credere, ti affermo che chi
mi maltratta o per ignoranza o per rozzezza d'animo, chi non ha
famigliarità con le mie forme innumerevoli e le tiene in
conto di vane frasche, non può saper quanto è ricca,
quanto è flessibile, quant'è dolce la lingua della
sua patria. Cascano nella leziosaggine e ristuccano, non
c'è dubbio, tutti coloro che abusano di me, appiccicandomi
a cinque parole su dieci, che dicono a un modo bellino e carino un
fiore e un campanile, un bambino e una montagna, che non possono
[216] esprimere un'idea senza rimpicciolirla alla misura della
loro animetta, un sentimento senza indolcirlo fino alla nausea,
col giulebbe che hanno nelle vene invece del sangue. Ma, usato con
discernimento da chi ha intelletto e gusto fine, io compio nella
lingua un ufficio nobile e utile; io do alla parola gentilezza e
grazia e soavità di suono e sapore di scherzo garbato e
cento significati delicatissimi d'affetto, di pietà, di
simpatia, d'indulgenza; io attenuo e scuso colpe ed errori di
persone care, velo infermità e deformità d'infelici,
esprimo quanto vi è di più tenero nel cuore delle
madri e degli amanti, rendo tutte le più delicate
gradazioni della bellezza e delle virtù gentili e dei sensi
ch'esse ispirano; e addolcisco il rimprovero, e spunto l'offesa, e
accarezzo e compiango e conforto. E non vezzeggio alla cieca ogni
cosa, come afferma chi non m'intende o mi calunnia; ma dico anche
verità sgradite a chi in altra forma non le vorrebbe udire,
e faccio atto di giustizia temperando la lode eccessiva,
restringendo il concetto ingiustamente ingrandito di molte cose,
mettendo un'ombra di rampogna, quando occorre, anche
nell'espressione della pietà e dell'affetto. Non vezzeggio
soltanto; ma definisco, distinguo, dipingo, scolpisco ed illumino.
E non è la mia vanità, è la voce universale
che mi chiama una bellezza e un privilegio della lingua italiana.
Imita dunque la gentilezza di chi, volendo designare
un piccolo infelice, di cui non sa il nome, e sentendo che nel
modo il piccolo storpiato non suona la pietà, dice - lo
storpiatino -, come chiama loschina una ragazza losca, e [217]
dicendo d'un'altra che ha la bazza, fa intendere insieme ch'ella
ha qualche cosa di grazioso, che quasi fa piacere il difetto,
chiamandola: - Una bazzina. - Ecco la bazzina. - È una
bazzina, bionda, piena di vita. - E dicendo d'una giovinetta o
d'una bimba: boriosina, invece di: un po' boriosa, farai
comprender meglio che, pure avendo quel difetto, non ha animo
cattivo. E se chiamerai un'altra: beatina, dirai, come non
potresti meglio, ch'essa è devota alle pratiche del culto,
ma non pinzochera, e che il sentimento religioso in lei è
gentilezza. E quando vorrai dire che una donna ha un carattere
alquanto astioso, tu potrai chiamarla astiosina, senz'offenderla;
ciò che non ti riuscirebbe né premettendo un po'
all'aggettivo, né con altra parola attenuante.
Ma è l'affetto, è il sentimento della
delicatezza che suggerisce a chi parla le mie forme più
gentili; esse non si cercano, vengon via spontanee, come certe
inflessioni carezzevoli della voce. Senti le mamme del popolo, in
Toscana. Chiamano maggiorino il maggiore dei loro figliuoli
piccoli. Dicono vergognosina una bimba timida, e magari anche un
po' selvatica. Non chiameranno un loro bimbo: spersonito o
malsano, ma stentino, e per non dir gracile, diranno: - È
così minutino, ma sano, - e per non dire d'una ragazza che
è di complessione delicata, diranno: gentilina; e capacino,
per modestia, d'un ragazzino intelligente o bravo in qualunque
cosa. - Ammodino, ragazzi! - dicono spesso, invece di: ammodo, per
addolcire l'avvertimento. Tu potresti urtare il loro amor proprio
dicendo che un loro [218] figliuoletto ha già le sue
malizie; non l'urteresti dicendo che ha le sue malizine; che
esprime l'idea d'un accorgimento fine meglio che quella
dell'astuzia. E così, se vorranno dirti che un loro bimbo
è schifiltoso nel mangiare, te lo diranno con
un'espressione graziosissima: - È tanto boccuccia, che
è capace di rifiutarmi un piatto se ci trova un bruscolo. -
E dicono al pigretto che chiede una cosa: - Allunga il santo
manino, e pìgliatela da te. - E quante altre espressioni
graziose ti potrei citare, fatte col mio conio! Di una piccola
donna o ragazza seducente: - È una cosolina simpaticissima
- Ha un'ideina che piace - Una camera raccoltina: non è
significata nel diminutivo anche la piccolezza e quasi la
giocondità della camera? E se uno ti dice: - A tastar per
terra nel buio c'è il casetto di raccattare qualche cosa di
spiacevole - non senti in quel casetto un sapor comico che ti fa
sorridere? E se ti dice un altro che: - bisognerà aspettare
un paietto d'ore -, non senti in questo diminutivo l'intenzione
cortese d'abbreviare il tempo nel tuo concetto e di esortarti ad
aver pazienza? Ma chi può noverare la varietà degli
effetti ch'io posso ottenere? Anche l'attenuazione del
peggiorativo! Sentirai dire nella campagna toscana, in val d'Elsa:
- Animaccina! - che è come dar dell'animaccia a uno e
chiedergli scusa ad un tempo, riconoscendo d'aver detto troppo.
Donnaccina! Dieci vocaboli ammontati, nota un filologo illustre,
non saprebbero dire altrettanto. E di annatina che i contadini
toscani dicono qualche volta per "annataccia affamata" dice lo
stesso filologo che v'è in quel diminutivo una mirabile
[219] disposizione d'animo, la quale attenua il dolore e quasi
ingentilisce il bisogno; e si sottintende: un sentimento di
rassegnazione cristiana, per cui si vuol dire la cosa senza
lagnarsi, per timor di Dio, che l'ha mandata. Che potrei fare di
più, mondo birbetta?
Sarai dunque persuaso, carino mio, che non è
mia colpa se molti seccano il prossimo e mi fanno prendere in
uggia con gl'ini, con gli etti, e con gli ucci; che è
soltanto l'abuso e il mal uso che mi rendono indigesto; che il
vizio non è in me, ma in chi mi violenta e mi snatura. E
lascia ch'io batta ancora su questo chiodo, facendoti considerare,
per esempio, che se è proprio e grazioso il dire d'un
ragazzo: ravviatino, ravversatino, ricciutino, fa venire il latte
ai gomiti l'udirlo dire d'un uomo tanto fatto; che se è
gentile il dire che una bimba è tutta pensierini per la sua
mamma, è sdolcinato davvero il dir lo stesso d'un padre per
la sua figliuola; e che è ridicolo il dire d'un barbuto
impiegato postale, cortese col pubblico, che ha una manierina
amabilissima, e che stonerebbe un ufficiale con la sciabola in
pugno, che gridasse ai suoi soldati, chiamandoli alle file: - Fate
prestino!
Giovati dunque di me, giovinetto, e dirai molte cose
propriamente e con garbo e con arguzia; ma non mi chiamare in
ballo troppo spesso, e, sopra tutto, non m'usare che quando calzo
appunto al sentimento e all'idea. perché io sono nella
lingua come il sorriso sul volto umano. Che c'è di
più gradevole d'un sorriso gentile? Ma chi sorride a tutti,
ogni momento e a qualunque proposito, è uno smanceroso che
[220] viene a noia. E qui fo punto. Parto per un viaggio di
propaganda nell'Italia nordica; ma ritornerò ogni tantino
nel paese tuo, dove mi pare d'esser tenuto anche in minor conto
che altrove. Ricordati di me, e fa' spallucce ai tangheri che mi
vorrebbero bandire dalla lingua: fratelli nati di quei padroni di
casa villani, che in casa loro non vogliono né bambini
né fiori.
[221]
LA LINGUA FAMIGLIARE.
Ho ricevuto in questi giorni....
Non è vero; non ho ricevuto niente.
perché fare una delle solite finzioni letterarie, che non
ingannano nessuno? Ho scritto io a me medesimo, in nome d'una
signora immaginaria, la lettera seguente, e confesso che l'ho
scritta perché mi faceva comodo, come riconoscerai dalla
mia risposta, per la quale ti domando, in cambio della mia
sincerità, un po' d'attenzione.
Al Signor tal dei tali,
M'hanno detto ch'Ella sta scrivendo un libro sul modo
di studiar la lingua italiana. Mi permetta di rivolgerle una
preghiera. Ella ebbe un giorno la cortesia di farmi una lode, la
quale, spogliata del complimento dove era chiusa, voleva dire che
delle signore di sua conoscenza non ero io quella che parlasse
peggio. Ebbene, poiché io mostro buone disposizioni,
m'aiuti un poco. Veda il caso mio. Ho un'amica toscana, che
è come una mia sorella. Quando parlo italiano con l'altre
mie amiche subalpine, son [222] sodisfatta di me, dal più
al meno; ma da ogni conversazione con quella esco malcontenta del
fatto mio, e anche un po' umiliata. Mi dirà che la cosa
è naturalissima. Ma badi: non è ch'io m'accorga,
parlando con quella signora, di mancar di parole e di frasi per
esprimere il mio pensiero; chè, per esempio, quando tutt'e
due parliamo d'arte o di letteratura con altri, non avverto quasi
differenza fra me e lei, fuorchè nella pronunzia. La
differenza grande che ferisce il mio amor proprio è quella
ch'io riconosco quando discorriamo a quattr'occhi liberamente, di
cose comuni o intime, scherzando e facendoci confidenze a vicenda.
Io sento, allora, che non riesco a dare al mio discorso il colore
di famigliarità, la vivezza, e, non so come dire
altrimenti, la libera giocondità che è nel suo; e
non capisco bene perché non ci riesca. Forse me lo
saprà dir lei, e se mi facesse questo favore, gliene sarei
grata, e se della risposta che darà a me facesse un
capitolo per il suo libro, credo che renderebbe un servizio anche
ad altri. Mi perdoni....
È inutile far la chiusa a una lettera
apocrifa, che è un semplice pretesto per far la
RISPOSTA.
Stimatissima Signora Subalpina,
Quello che segue a lei con la sua amica, segue a me
coi miei amici toscani. La nostra inferiorità nel parlar
famigliare non sta che in minima parte nel giro diverso che si
dà all'espressione del pensiero e nella minor ricchezza di
vocaboli [223] che noi possediamo; perché in questo non
può esser grande la differenza fra un toscano e uno di noi,
che abbia studiato la lingua; nella conversazione ordinaria in
ispecie, la quale s'aggira quasi sempre sugli stessi argomenti,
non molti, né molto vari. Consiste principalmente la loro
superiorità in un gran numero di modi, non assolutamente
necessari, ma propri più che altro del linguaggio parlato,
comunissimi fra di loro, e da noi non conosciuti o non usati; che
son quelli appunto che dànno al discorso quel colore di
famigliarità, quella vivezza, quella libera
giocondità, alla quale ella accenna. Le citerò una
serie di questi modi, attenendomi nella scelta alla mia
esperienza, voglio dire a quelli ch'io sento spessissimo dai miei
amici toscani, e che non uso mai, o quasi mai, né parlando
con loro, né con altri, non perché non li sappia, ma
perché ho più alla mano altri modi, di significato
equivalente, ma meno famigliari e meno vivi, meno genuinamente
italiani.
Essi sogliono dire, per esempio, e io non dico: -
Niente niente ch'io parli, mi dà subito sulla voce. - Di
nulla nulla borbotta per un'ora. - Punto punto ch'egli tardasse,
non arrivava a tempo. - Mi promise di non dir nulla; ma sotto
sotto andò a dire.... - Alto alto mi toccò di
quell'affare. - A andar bene bene, ci guadagnerà cento
lire. - A andarmi male male, mi cacceranno di casa. - Tanto tanto
sarà costretto a dir di sì. - Tant'è fermarsi
qui che in un'altra parte. - Quella pietra non è molto
grande; ma per il suo tanto, è bella assai. - Una
rendituccia pur che sia, tanto quant'è nulla. - Non mi
piace più che tanto. - Sciocco quanto ce n'entra. - [224]
Non lo guardo quant'è lungo. - Tutt'a un tratto, per la
strada, me lo trovai quanto di qui a lì.... Vedo che
scrolla il capo. Capisco. Forse ella non si ricorda d'aver mai
inteso dalla sua amica nessuno di quei modi. Ma proseguiamo.
Può essere che le abbia inteso dire quest'altri, che
né lei né io non usiamo: - Scambio di far questo,
faccia quest'altro. - Quest'accorciatura del vestito non basta;
l'accorcerei dell'altro. - Gli dissi, perché non mi
stèsse a seccar altro.... - Al vedere, non par che sia
molto pentito. - A come si mette la cosa, non c'è molto da
sperare. - A sprofondare (questo la sua amica non lo dirà,
ma i miei toscani lo dicono), a farla grossa, a fare i conti
grassi, è grassa se si guadagna le spese del viaggio. -
Come si fa a vedere un pezzo di giovine a quel modo a chieder
l'elemosina? - Quando avete fatto bene, egli è il miglior
medico della giornata. - Oh, c'è che fare! (ci vuol ancora
molto tempo). - Voglio (riconosco, ammetto) che sia un lavoro
difficile; ma egli va troppo per le lunghe. - Fa delle grandi
promesse; ma voltati in là, non si ricorda di nulla. - Gran
poco giudizio che tu sei a confonderti col tal dei tali! - Quando
si dice! - È un gran dire ch'io non possa liberarmi da quel
seccatore. - So di molto io, m'importa di molto! - Non me ne
importa il gran nulla, il bellissimo nulla. - All'ultimo degli
ultimi, al tempo dei tempi, al peggio dei peggi, in caso dei casi.
- Non sarebbe mica delle peggio andare a fare una gita a Superga.
- Non è dell'erba d'oggi (d'una persona non più
giovane). - Non è più d'oggi né di ieri. -
Siamo a tocco e non tocco. - Sono stato tutto il giorno col pover'
a me.... - O cavaci un [225] numero, via! (Quando ci stizziamo di
non capir di che umore uno sia)....
Credo ch'ella cominci a trovarsi d'accordo con me. Ma
andiamo innanzi. Scommetterei che la sua amica dice qualche volta,
e che lei non dice, com'io non dico mai: - Un bambino che mai il
più bello. - Una ragazza bella che mai. - Si vogliono un
bene che mai. - I danari li ha bell'e bene, ma non li vuol
spendere. - Non ci si discorre (non si può parlare con
quella tal persona). - Qui che cosa ci dice? (Che cosa c'è
scritto in questo punto?) - Ce lo divezzerò io (lo
divezzerò io dal far questo o quell'altro). - Vuol fare una
bella nevata. - È capace che piova. - Quando il tempo
è fatto bene, ha tempo a piovere! - Levandomi da letto, la
prima cosa prendo il caffè. - S'è montato il capo di
diventare un gran che. - Non me lo posso levare di torno. -
È lui, luissimo. - L'hai veduto mai? Maissimo. - E
"perdoni" qui, e "mi scusi là" non fa altro che far
cerimonie dalla mattina alla sera. - E gonfia gonfia, non ci potei
più stare. - Neanche questo non lo dirà una signora;
ma lo cito come un modo tipico d'altri molti famigliarissimi, che
i toscani usano, e noi no; donde il nostro italiano meno
famigliare del loro.
Usano essi ancora nel parlar famigliare un gran
numero di modi che si potrebbero chiamar duplici o geminati; nei
quali l'espressione dell'idea è ripetuta con un vocabolo
sinonimo o affine o antitetico, sia per ribadire l'idea stessa,
sia per far un contrapposto che le dia maggiore evidenza, sia per
tondeggiare la locuzione, che suoni meglio all'orecchio, o, come
si direbbe elegantemente, per cura del numero. E questi modi [226]
servono moltissimo a dar colore di famigliarità al
discorso, quando non si confonda il famigliare col volgare;
chè parecchi di essi cadono nella volgarità, o ci
dànno accanto, e non li avrà certo uditi mai dalla
sua amica. - Cito alla rinfusa: - Essere d'accordo bene e meglio.
- Essere un paio e una coppia. - Essere d'un pelo e d'una buccia,
d'un pelo e d'una lana. - Fare una cosa spesso e volentieri. - Non
aver né garbo né grazia. - Non aver modo né
maniera. - Averne da dare e da serbare. - Non far né uno
né due. - Non aver né colpa né peccato. - Far
calze e scarpe d'una cosa. - Esser fiori e baccelli con uno. - Non
voler né tenere né scorticare. - Non dar né
in tinche né in ceci. - Costare il cuore e gli occhi. -
Mandar via uno segnato e benedetto. - Non saper né grado
né grazia. - Una ne fa e una ne ficca. - Di politica non ne
vuol sentire né cotto né bruciaticcio. - Non l'ho
più visto né cotto né crudo. - È lui
in petto e persona. - È una lingua che taglia e cuce, che
taglia e fende, che taglia e fora. - Dàgli e picchia,
dàgli e tocca, dàgli e martella. - In fine e in
fatti. - né così né cosà. - Non fa
né ficca. - Non cresce né crepa. (Mi perdoni,
signora). E mi par che basti per un saggio.
Tutti questi modi, e quelli citati più sopra
(di cui molti appartengono a tutti i dialetti, alcuni tali e
quali, altri in forma poco dissimile) corrispondono per l'appunto
nella lingua a certi gesti, atteggiamenti, sorrisi e inflessioni
di voce, che noi usiamo soltanto con persone domestiche, nei quali
consiste particolarmente quello che si chiama modo, contegno,
tratto famigliare. Certo, non sta in questo soltanto la
superiorità che [227] hanno su noi i toscani nella
conversazione ordinaria: sta in molt'altre cose che non è
qui il luogo d'accennare; ma nel caso suo, signora, mi par che
l'altre cose ci abbiano che fare assai meno di quella che mi sono
ingegnato di dimostrarle. Si tratta d'una parte della lingua che
noi non sappiamo, o possediamo male, non avendola imparata nelle
scuole, dove si bada più che altro alla lingua letteraria;
ma che è forse più necessaria, o più utile di
questa, perché sono le persone famigliari, gli amici intimi
quelli coi quali abbiamo più occasione e bisogno, nel corso
della vita, di parlare e anche di scrivere, e di trattare di
più varie cose, e più liberamente, e penetrando
più addentro alle cose stesse. E ora, signora mia....
Ma la signora ha fatto l'ufficio suo, e la possiamo
accomiatare con una reverenza.
[228]
LA LINGUA FACETA.
Questa tu devi studiare in particolar modo se sei di
natura tagliato al faceto, ossia inclinato a osservare e a
rappresentare ad altri il lato ridicolo delle cose, e a esprimere
molti dei tuoi pensieri, anche non lepidi in sè, in forma
scherzosa; poiché per noi, che non abbiamo imparato la
lingua dalla balia, non c'è cosa più difficile che
scherzare con garbo e ottener con la parola l'effetto del riso.
perché sia difficile lo spiega con grande
evidenza il Leopardi nei Pensieri che furono pubblicati dopo la
sua morte; nei quali troverai un tesoro d'osservazioni acutissime
sulla lingua italiana.
Egli dice che il ridicolo (per quanto si riferisce al
linguaggio, non alla sostanza) "nasce da quella tal composizione
di voci, da quell'equivoco, da quella tale allusione, da quel
giocolino di parole, da quella tal parola appunto, di maniera che
se sostituite una parola in cambio d'un'altra, il ridicolo
svanisce".
Ora, per questa ragione appunto noi otteniamo [229]
difficilmente il nostro intento nei discorsi faceti che facciamo
in italiano: perché ci manca la maggior parte di quelle
parole e locuzioni, dalle quali nasce il ridicolo, e quasi sempre
usiamo in luogo di quelle gli stessi modi che useremmo per dire
sul serio le cose che diciamo per far ridere.
*
È una verità che non occorre di
dimostrare. L'avrai osservata molte volte tu stesso nei discorsi
tuoi e in quelli degli altri. Tu devi sentire alla prima qual
maggior effetto comico si possa ottenere in certi casi dicendo
invece di "tremar dal freddo": - batter la diana o pigliar le
pispole; invece di "dar poco da mangiare a uno": tenergli alta la
madia; invece di "ridurgli il vitto": alzargli la mangiatoia;
invece di "non ha la testa a segno": gli va male l'oriolo; invece
di "picchiare, dar lo busse a uno": pettinarlo, rosolarlo,
tamburarlo, fargli una tamburata, dargli le croste o le paghe o le
briscole. - E senti che più facilmente farai ridere se
invece di "scappare, indebitarsi, dire l'opposto di quello che
s'è detto, far le occorrenze sue, tirar calci, andar tutto
d'un pezzo e impettito" dirai: - spronar le scarpe, inchiodarsi,
rivoltar la frittata, far gli offici di sotto, lavorar di pedate,
aver mangiato la minestra o lo stufato di fusi. - E non c'è
bisogno di farti notare che diversità d'effetto comico
corra fra le espressioni: un abito che "si comincia a scucire" e
che comincia a fischiare; fra "abito lungo e largo o logoro o
scarso o mal fatto" e palandrana, biracchio, paraguai,
saltamindosso; [230] fra "brodo allungato" e brodo di carrucola,
fra "cattiva minestra" e sbroscia o basoffia, fra "miseria" e
trucia, "paura" e battisoffia, "cattivo quadro" e cerotto;
"persona acciaccosa e di malumore" e deposito: - Andiamo a far
visita a quel deposito del signor Gaudenzio! - Molte di queste
parole e locuzioni sono ridicole per sè medesime, e bastano
da sè in molti casi a destar l'ilarità, dove non
gioverebbe a destarla un particolare o un'osservazione arguta
aggiunta alla frase o alla descrizione e all'aneddoto.
*
Per dimostrarti quant'è ricca in questo campo
la nostra lingua, ti cito ancora una serie di modi d'uso comune in
Toscana, che noi non usiamo se non raramente; di alcuni dei quali
è evidente il significato; e d'una parte degli altri
lascerò che cerchi il significato tu stesso, perché
ti resti meglio impresso nella memoria.
- Affogare nel cappello, nelle scarpe, nel soprabito
- Aver roba in corpo o in manica - Aver paglia in becco - Avere il
baco (con qualcuno; avercela, senza dimostrarlo, o volerlo
dimostrare) - Avere i bachi (essere inquieto o di malumore) - Aver
famiglia in capo - Aver la fregola (di fare una cosa) - Aver messo
il tetto - Alzare i mazzi - Andare, darsi ai cani - Andare in
dolcitudine - Attaccare il lucignolo - Bastonare la messa (dirla
in furia), una cosa qualunque (abborracciarla e venderla a vil
prezzo) - Batter la solfa - Battere il trentuno - Campare con uno
stecco unto - Dar le pere - Dare fune o spago - Dare una lunga a
uno [231] (intrattenerlo, senza spedirlo) - Dare un'untatina - Dar
nelle girelle o nelle girandole - Essere al lumicino, al
moccolino, al moccoletto - Essere uno spianto (una rovina:
quell'affare è stato un vero spianto per il tale) - Essere
in pernecche - Fare un bollo (vuol prender moglie quello
spiantato? Farebbe un bel bollo!) - Far polvere (sollevare
scompigli: non faccia tanta polvere: abbia un po' più di
prudenza) - Fare una buca (un cassiere nella cassa) - Fare un
passio (una cosa lunga di cosa che dovrebbe esser breve) - Far
baciabasso (per umiliazione, per adulazione, sottomettersi) -
Girare a uno la cuccuma, la còccola, il boccino - Grattar
gli orecchi - Levar le repliche - Mangiare a macca - Macinarsi il
patrimonio - Mettere in purgo (una notizia non sicura) - Non
mondar nespole (S'egli lavora, l'altro non monda nespole) - Pagar
con le gomita - Piantare un melo - Piantare un porro - Prendere al
bacchio (alla cieca, alla ventura) - Prender pelo - Prendere una
lùcia, una briaca, una bertuccia - Ridursi all'accattolica
- Spianare il gobbo, le costure - Scuotere la polvere - Sonarla a
uno - Sonare a mattana - Sbarbare (Non riuscire in una cosa:
s'è messo a tradurre Orazio; ma non ce la sbarba) -
Tagliare le calze - Venir le cascaggini (d'una cosa che ci annoia:
mi fa venir le cascaggini). E soltanto per esprimere facetamente
l'idea del mangiare con avidità, o molto, o soverchio:
diluviare, digrumare, dipanare, scuffiare, sgranocchiare, dimenare
le ganasce, ungere, sbattere, far ballare il dente, far ballare il
mento, ingubbiarsi, rimpippiarsi, rimbuzzarsi, spolverare, dar
ripiego a quant'è in [232] tavola, mangiare a scoppiacorpo,
macinare a due palmenti, mangiar con l'imbuto, divorare a quattro
ganasce. E fermiamoci qui, per non fare un'indigestione.
*
Certo che le parole non hanno per tutti la stessa
faccia. Molte che hanno effetto comico per alcuni, per altri non
l'hanno, e questo non è soltanto delle parole di tal
genere, ma, in generale, di tutte; e deriva dall'aver ciascuno un
suo particolare sentimento della lingua, che è la ragione
per cui della lingua stessa ciascuno tende ad appropriarsi certe
forme a preferenza d'altre, o ad usarle in un significato
più o men lievemente diverso da quello in che altri le
usano. Ma il senso comico delle parole, in special modo, è
un senso che si affina grandemente con l'osservazione, coi
raffronti, e via via che, avanzando con gli anni, si scoprono
negli uomini, e nelle cose, nuove e più intime sorgenti di
ridicolo; e quand'è affinato, dà nello studio della
lingua mille diletti. Sono ben lontano dal credermi in questo
più fine di Caio o di Tizio; e non di meno, m'accade di
ridere o sorridere di molte parole, ogni volta che le leggo o le
sento, come di certe forme e di certi atteggiamenti del viso
umano, versi buffi o mosse allegre o burattinesche. Per esempio: -
Briachite - Briachella (uno che piglia spesso piccole sbornie). -
Non è briaco: ha soltanto un po' d'accollo (l'inclinazione
del collo come sotto un peso) - Sbiobbo (d'uno rachitinoso e con
gran bazza) - Musceppia (bambina o ragazzetta saputella) -
Patìto (l'innamorato) - Pateracchio (per [233] conclusione
spiccia, specialmente di matrimonio: si videro, si piacquero e
fecero subito il pateracchio) - Un tient'a mente (uno scapaccione)
- Stanga, stangato (per bulletta, un uomo in bulletta) -
Pispilloria (discorso a carico di qualcuno, o lungo e noioso) -
Scarpata (pedata) - Ciucata (cavalcata con gli asini) - Cacheroso
(svenevole) - Bacherozzolo (per bambino) - Frittura (di molti
bambini) - Sguerguente (uno che fa atti strani o sgarbati) -
Squarquoio (di vecchio cascante) - Rubapianete (ladro di chiesa) -
Spulcialetti - Squarciavento - Spiantamondi - Strizzalimoni -
Picchiapetto - Frustamattoni - Sottaniere - Religionaio -
Miracolaio - Pretaio (uno che bazzica preti) - Mogliaio (che non
esce mai d'attorno a sua moglie) - Fantajo (dilettante d'ancelle,
direbbe la signora Piesospinto); e di verbi non cito che
pissipissare, indragonire, rinfichisecchire, insatanassare,
sfanfanare (struggersi d'amore), cicisbeare, matrimoniarsi,
rivogare.... Giusto, mi vengono in mente due versi di Neri
Tanfucio:
Povera truppa, quanti serviziali
T'ho visto rivoga' nel deretano!
*
Ho citato quasi tutti modi dell'uso vivo toscano. Ma
il linguaggio del ridicolo non può essere circoscritto
dall'uso, perché a chi scherza e vuol far ridere tutto
è lecito, pur che rimanga nei confini più vasti
della lingua. Nascendo anche il ridicolo da contrasti e dissonanze
tra la parola e l'idea, da parole usate in senso insolito,
inaspettate, strane o anche fuor d'ogni [234] proposito
ragionevole, e dalla stessa affettazione o pedanteria voluta del
vocabolo o della frase, ne segue che qualsiasi modo vieto o
tronfio o poetico o arcaico, il quale, usato sul serio, stonerebbe
intollerabilmente, e farebbe ridere alle spese di chi lo dice,
ottiene invece l'effetto che si propone chi scherza, ed è
quindi legittimo se a quest'effetto è adoperato
opportunamente e con garbo. È come di certi gesti e
impostature e alterazioni del viso e dell'accento, che riescono
leziosi, sconvenienti e anche odiosi quando in una persona sono
abituali e inconsapevoli o affettazioni di dignità e
d'eleganza; ma che all'opposto riescono piacevoli quando son fatti
con l'intenzione di far ridere, contraffacendo qualcuno, per
esempio. Gli esempi sono così frequenti negli scrittori,
che non mette conto di citarne; e sono frequentissimi anche nelle
conversazioni della gente colta. Noi tutti abbiamo conosciuto o
conosciamo certi belli umori che hanno la consuetudine di
rallegrar la gente dicendo cose comunissime o lepide con parole
gravi e lambiccate e in stile magniloquente. Io ebbi un amico,
professore di lettere, il quale faceva sbellicar dalle risa gli
amici raccontando aneddoti faceti, e parlando anche delle cose
più ovvie con parole e giri di frase del Decamerone,
ch'egli sapeva quasi a memoria. Seriamente diceva d'esser rimasto
in una trattoria attirato dalla piacevolezza del beveraggio;
descriveva un desinare suntuoso a cui era stato invitato, con
grandissimo e bello e riposato ordine servito, dove lui, vago di
vini solenni, aveva trovato il fatto suo bevendo del Caluso e del
Barolo in certi graziosi bicchieri, che d'ariento pareano; [235] e
chiamava un avvocato: armario di ragione civile, e una ragazza
afflitta da pene amorose: - sventurata in amadore; e diceva d'un
farabutto: - Testimonianze false con sommo diletto dice, chiesto e
non richiesto -, e a un amico incontrato per la strada: - Dammi un
fiammifero, se tu hai in te alcuna favilluzza di gentilezza; e: -
Grazie, cuore del corpo mio! - e adoperava il con ciò sia
cosa che con tanto garbo, e qualche volta così
all'impensata, e con un così forte contrasto col
significato e con l'intonazione del discorso, che strappava risate
da mandarsi a male.
Non trascurare dunque, leggendo gli scrittori e i
dizionari, neppure quella parte della lingua che è fuori
d'uso, perché certe voci e locuzioni muffite, che tu quasi
ributti dalla tua mente, ti possono servire in certi casi a dare
un vivo effetto comico a uno scherzo, il quale altrimenti
riuscirebbe sciapito, a far ridere con un gioco di parole
semplicissimo, con una sola parola, con un nonnulla. Nulla nella
lingua è disprezzabile, tutto può giovare. La lingua
giocosa è infinita come le sorgenti del riso.
[236]
PER VARIARE IL PROPRIO VOCABOLARIO.
Più di trent'anni fa, in un tempo che sfornavo
prosa a gran furia, un mio amico un fermò una mattina per
la strada, e con un viso grave, che a tutta prima mi fece temere
una cattiva notizia, mi disse: - Ho letto il tuo ultimo articolo.
Dimmi un po': quando intendi di finirla col tuo in un battibaleno?
La prima volta che scriverai invece: in un momento, in un attimo,
in un lampo, o anche semplicemente in un baleno, t'inviterò
a desinare.
Aveva ragione. C'era anche nel mio ultimo articolo
quel maledetto battibaleno, che avevo cacciato non so quante volte
in altri miei scritti, senz'avvedermi della ripetizione, e che
doveva esser venuto a noia, oltre che al mio amico, a molt'altri.
Tutti gli scrittori hanno certi modi dei quali fanno
un uso indiscreto, come gli attori drammatici di certe intonazioni
di voce. Non parlo di quelle parole (per lo più verbi e
aggettivi) ch'essi usano frequentemente per necessità,
perché sono la espressione di qualche cosa che è
[237] nell'indole del loro ingegno e del loro animo. Parlo di quei
modi che non esprimono alcun sentimento o maniera particolare di
veder le cose, e che son ripetuti quasi inconsciamente, senza
bisogno, per forza di consuetudine, in luogo d'altri modi, i quali
direbbero lo stesso per l'appunto. I più degli scrittori
non n'hanno soltanto uno o due, ma parecchi, e alcuni un buon
numero; e non solo gli scrittori, ma quasi tutti, parlando,
n'hanno più o meno. Sono parole che s'attaccano alla
lingua, come vizi di pronunzia, e ci restano attaccati per tutta
la vita. C'è, per esempio, chi dice e scrive fin che campa:
- Quindici giorni, tre anni, due ore or sono -, e mai, neanche una
volta per isbaglio: - quindici giorni, tre anni, due ore fa. -
C'è chi ha preso il vezzo di dire: - Avere il tarlo con uno
- per averci odio, ira, rancore, e questo tarlo gli vien fuori
infallibilmente tutte le volte che ha da esprimere quell'idea,
foss'anche dieci volte il giorno e migliaia l'anno. Altri
s'è avvezzato a dir tratto tratto, e lo dice in ogni caso,
invece di ogni tanto, ogni poco, di quando in quando, a quando a
quando; e spesso impropriamente, perché d'uno, per esempio,
che faccia una tal cosa ogni due o tre mesi, non è proprio
il dire che la fa tratto tratto, che significa intervalli di tempo
più brevi. perché quasi sempre accade questo: che
chi sposa, come suol dirsi, una data locuzione, finisce con
adoperarla ad esprimere non solo l'idea alla quale essa è
propria, ma tutte le idee affini a quella, e ch'essa non esprime
che a un incirca.
Ma non è questo il solo inconveniente del mal
vezzo. La ripetizione oziosa e abituale di [238] certe voci e
locuzioni toglie loro in molti casi gran parte dell'efficacia, e
tutta quanta, di solito, nei discorsi faceti, perché da chi
legge o ascolta esse sono presentite e aspettate come ritornelli;
oltrechè riescono sgradevoli, come affettazioni, anche le
più naturali e semplici, parendo che chi scrive o parla le
metta innanzi così ogni momento perché le tenga in
conto di fiori rari e di pietre preziose; e aggiungi che, dicendo
sempre certe cose con gli stessi vocaboli, è quasi
impossibile evitar rime, cacofonie, iati, asprezze, com'è
impossibile a chi parla o scrive in una lingua straniera, in cui
non conosca che un modo unico di significare ciascuna idea.
Ora, via via che andrai innanzi nell'uso della
lingua, a te pure s'incolleranno alle labbra certi modi di dire, e
ci resteranno, se non vincerai la pigrizia intellettuale, che
è in tutti la cagione prima di questa specie di
servitù parziale del pensiero alla parola; se, voglio dire,
ogni volta che avrai da esprimere quella data idea, non farai uno
sforzo per cacciar via l'espressione tirannica, e trovare qualche
altro modo egualmente proprio, o più proprio, di
esprimerla. E non basterà che tu faccia questo: tu dovrai
preservarti dal vizio cercando continuamente, nello studio che fai
della lingua, d'arricchire, di variare, di rinfrescare il tuo
vocabolario.
perché, per esempio, dovrai dire eternamente
d'ora in poi, quando puoi dire di qui avanti, di qui innanzi,
d'ora in avanti, d'ora avanti, di qui in là? Perpetuamente
un via vai invece di un va e vieni, un andirivieni, un andare e
venire? Sempre: non ne indovina una, invece di: non ne infila, non
ne azzecca, non ne becca, [239] non ne incarta una? E
improvvisamente o all'improvviso in luogo di: di punto in bianco,
di secco in secco, di stianto, a un tratto, tutt'a un tratto? E
alla bella prima o a tutta prima invece di: di primo tratto, di
primo lancio, di primo colpo, di primo acchito? E da solo a solo
in luogo di testa testa, a faccia a faccia, a quattr'occhi; e alla
rinfusa invece di alla mescolata o all'arruffata, e stare in
contegno o in contegni invece di stare in aria, star sulle sue,
stare in sussiego, stare sul grave, e sulle cerimonie in cambio
di: sulle convenienze e sui convenevoli? E così quel tal
signore del tarlo potrebbe in molti casi esprimere diversamente e
con maggior proprietà la sua idea, dicendo: averla amara,
avere il sangue guasto, avere il baco, esser nero con uno. E un
altro, che invece del tarlo ha la mosca, e la fa volare a ogni
proposito, potrebbe dire spesso e meglio, invece di saltar la
mosca al naso: montar la luna, montare in bestia, saltare in
collera, saltare il grillo, pigliare i cocci, prender cappello,
andar nei nuvoli, alzare i mazzi; o almen qualche volta, se della
mosca vuol serbar qualche cosa, sostituirvi la mostarda. E un
signore di mia conoscenza, che ha sempre la ramanzina in bocca,
potrebbe variar la nota con: fare o dare un rabbuffo, una
risciacquata, una lavata di testa, una ripassata, una sbarbazzata,
un'intemerata, una parrucca, un tu per tu, una polpetta, un
trippone. E un mio amico intimissimo, che per molt'anni
seccò il prossimo col bighellonare, avrebbe potuto molte
volte sostituire al prediletto gioiello: girandolare, gironzolare,
girondolare, girellare, girottolare, vagare, vagolare,
vagabondare, [240] vagabondeggiare, zonzare, andare a zonzo, in
ronda, in volta, in giro, gironi. E il signore medesimo, che
confessa le sue male abitudini per sua mortificazione, dovrebbe
lasciare un po' riposare il suo bisticciarsi, ricordandosi che si
può dir più a proposito in molti casi: pigliarsi a
picca, piccheggiarsi, gattigliarsi, pizzicarsi, stare a ribecco,
stare punta a punta, stare a tu per tu, essere agli occhi. E....
fermami, ti prego, o non la finisco.
Arricchisci dunque, ti ripeto, varia, rinfresca
continuamente il tuo linguaggio. Tu avrai osservato quanto sono
attraenti nel parlare il dialetto anche persone ignoranti che, non
per istudio che n'abbian fatto, ma per privilegio di natura
possedono e usano molte più parole e frasi che la maggior
parte del popolo; com'è vivo, colorito, scintillante,
spesso comico il loro discorso, e con che piacere li stanno tutti
a sentire, anche gente colta. Ma per acquistar questa dote non
basta acquistare e fissarsi nella mente parole e locuzioni;
bisogna esercitarsi a adoperarle, come faceva il Leopardi in quei
suoi Pensieri già citati, ch'egli metteva sulla carta
giorno per giorno, senza pensare che sarebbero stati mai
pubblicati. Manca a quando a quando in quelle pagine quella
sobrietà rigorosa che si ammira in tutte le altre sue
prose: egli ripete il suo pensiero in vari modi, l'uno dopo
l'altro, infilando sinonimi e frasi equivalenti, come passando in
rassegna tutte le maniere possibili d'esprimere quel pensiero; ed
è evidente che scriveva quei periodi per premunirsi dal
vizio della ripetizione di certe forme nelle scritture che
destinava alla stampa. Quest'esercizio paziente faceva egli pure
da giovane, ed era già un grande maestro.
[241]
IL PESCATORE DI PERLE.
Ecco un personaggio che variava davvero il suo
vocabolario; ma lo variava in maniera che non si faceva più
intendere. Il che (sia detto a sua scusa) non era sempre un gran
danno per chi l'ascoltava.
Questo pescatore di perle era un fabbricante di
pillole, panciuto e brizzolato, d'aspetto e di modi signorili; col
quale strinsi relazione in una trattoria, ch'egli frequentava da
anni, e dov'io desinavo ogni giorno con parecchi amici, dilettanti
di letteratura. Era uno di quei cultori solitari della lingua, per
i quali questo studio non è che un'occupazione piacevole
dei ritagli di tempo, senz'alcun fine letterario, e quel po'
d'ambizione che ci mettono non va oltre il cerchio degli amici,
con cui fanno sfoggio innocente della loro filologia. Ma uno
studioso della lingua propriamente non era: era un appuntatore di
parole scompagnate da ogni frase o pensiero, che nel suo concetto
avevano un valore per sè, anche non servendo a nulla:
raccoglieva parole come altri raccoglie insetti curiosi o
francobolli rari. [242] La sentenza del Tommaseo, che ogni modo
è tanto più accetto quanto più è
comune, e che il più comune, in fatto di lingua, come in
tante altre cose, è quasi sempre il più bello, era
proprio il rovescio del gusto e della norma che guidavan lui nel
suo lavoro di spigolatura; ciò che si può dire di
molti, anche al dì d'ancoi, come dice Dante. Egli non
s'innamorava che della parola peregrina, rimota dall'uso, e quanto
più dall'uso era rimota, tanto più gli pareva bella
e pregevole, e per il solo fatto che non fosse mai stata udita e
che riuscisse incomprensibile, egli pensava che dovesse dare un
gran piacere a chi l'udiva e fargli ammirare chi la sapeva.
Da anni andava facendo questa raccolta di perle
false; credo che le notasse in un registro; n'aveva alla mano un
gran numero, e gli pareva di possedere il tesoro di Montecristo.
Cosa singolare: il suo linguaggio era generalmente
scevro d'ogni affettazione, il suo frasario semplicissimo: solo di
tanto in tanto buttava là all'improvviso una di quelle
parole straordinarie e difficili, che facevano spalancare gli
occhi e la bocca alla compagnia. Si sottintende che, per poter
fare questa mostra di calìe linguistiche, doveva parlar
sempre italiano. E, in fatti, aveva smesso con tutti il vernacolo,
giustificandosi col dire che ogni buon cittadino avrebbe dovuto
far lo stesso, per amor di patria, perché la lingua
diventasse l'unico linguaggio degl'italiani. Ma se tutti
gl'italiani avessero parlato come lui, si sarebbe parlato nel
nostro paese la più matta e burlesca lingua del mondo.
Non le ricordo tutte, peccato! Ma le più belle
[243] mi son rimaste. Per esempio, non chiamava mai "mal di capo"
l'incomodo a cui andava soggetto; ma cefalalgia, e non "limonata
purgativa" volgarmente, il rimedio col quale la curava; ma
limonata catartica. Si faceva radere un giorno sì e un
giorno no, e questo chiamava sempre: farsi radere epicraticamente;
ma sul serio, intendiamoci; senza un barlume di sorriso che
mostrasse la coscienza di dire una parola strana. E a proposito di
barba, si faceva fare un solo radimento, e quando il rasoio non
tagliava, diceva al barbiere: - Questo rasoio non è
radevole. - E poi: non "ingarbugliare" gli affari e i conti, ma
garabullare; scarabillare la chitarra; frucandolare, per
frugacchiare; avvocatarsi, per prender la laurea d'avvocato;
avvocato parlantiere, per chiacchierone; dinanzare uno per la
strada, per passargli davanti, e mal camminabile una strada
disagevole. Diceva d'aver visto un ubbriaco che squinciava per la
piazza, ossia, che andava ora per un verso ora per un altro; e
ogni momento, discutendo: - Ma codesta non è una ragione,
è uno ziribiglio (arzigògolo) -; e rifiutando da
bere: - Grazie, ho bevuto abbastanza; non sono bibace.
Comico quanto le parole era il modo come le diceva,
con certa intonazione e aria di trascuranza, quasi di
sbadataggine, che si riconoscevano finte nell'atto stesso, dallo
sguardo furtivo ch'egli girava sugli uditori, per veder
l'impressione che quegli ori di lingua facevano.
E n'aveva di due qualità: le parole ultra
peregrine, per lo più inintelligibili, ch'egli pescava nei
libri, non letti da lui che con questo scopo, e non pregiati se
non in ragione della pesca rara [244] che ci poteva fare; e le
parole comuni, delle quali usava costantemente la variante antica.
Sempre diceva diputato per deputato, cileste per celeste,
maledicenza, malevoglienza, insapiente, inreprensibile, fabuloso.
Queste piccole violazioni dell'uso comune gli parevano una cosa
nobilissima. Ne ricordo dell'altre anche più graziose,
ch'egli prediligeva, come: ghiribizzamento, dimenticamento,
pretensionoso. - Non fumo che dopo desinare, - diceva -; mai nelle
ore mattutinali: mi darebbe degli archeggiamenti di stomaco. - E
dava una sbirciata circolare all'uditorio.
Giorno per giorno andava arricchendo il suo
vocabolario di qualche rarità. Noi riconoscevamo quelle di
recente acquisto dal giro forzato ch'egli dava al discorso per far
venire il punto opportuno di metterle fuori. Qualche volta
inventava anche espressamente dei fatti. Nessuno gli credeva, per
esempio, quando egli raccontava che gli era cascato uno specchio
dalla parete: era un'invenzione per poter dire che, prima
d'appenderlo, avrebbe dovuto dimergolare il chiodo, per
assicurarsi che fosse ben piantato. E come affaticava
l'immaginazione, si vedeva, per trovare il pretesto di chiamare
gentildonnaio (corteggiatore di signore dell'aristocrazia) un
avventore della sua farmacia, e per venir a dire che aveva
rincincignato e lacerato una lettera insolente, e che il portinaio
di casa sua, che s'era ubbriacato la domenica, aveva rinfonfillato
la sbornia il lunedì! Questa ci confessò poi che
l'aveva intesa da un operaio senese ch'era andato da lui a
comperare dell'ammoniaca; e fu un caso notevole perché,
neanche a domandarglielo, non diceva mai dove avesse raccattato
questo o quel [245] diamante della sua favella. Come il Conte di
Montecristo, delle sorgenti della sua ricchezza egli faceva un
mistero.
perché aveva molti più anni di noi, non
osavamo dargli la baia, se non con certa discrezione. Ma spesso
mettevamo in dubbio l'italianità dei suoi vocaboli. -
È proprio sicuro che questa sia una parola di buona lingua?
- Non glielo domandavamo per altro che per ispassarci della
gravità con cui rispondeva: - Sì, ha degli esempi
autorevoli. - E credo che, veramente, non ne dicesse una che non
potesse in qualche modo giustificare. Ma, come disse un linguista
insigne, gli scrittori italiani che fanno testo son tanti, tanto
diversi d'età, di patria, tanto disuguali di gusto e di
senno, che non c'è stranezza in materia di lingua, la quale
con la loro autorità non si possa difendere.
Un giorno provammo noi a parlare a modo suo per veder
se capiva la satira. Stavamo seduti fuori della trattoria. Il
tempo si metteva a brutto.
Cominciò uno a dire: - Il cielo s'annubila.
Un altro: - Lampaneggia.
- Senti che aria umidosa! Vuol venire un'acquazione.
- Già pioviniggia.
Non diede segno d'intender lo scherzo; ma se
l'intese, non se n'ebbe per male. Ci parve che facesse un atto di
riflessione per imprimersi nella mente quelle parole insolite.
Poi, guardando per aria: - Se piove - disse - non può
durare. Il vento è a tramontana. Rim-bel-tem-pirà.
Insomma, l'ebbe vinta lui, perché non avevamo
in pronto altri vocaboli per continuare la celia. Ma una sera fece
una brutta figura, che gli [246] avrebbe dovuto insegnare come non
fosse senza pericoli la pesca delle parole stupefacenti. S'era
avvicinata al nostro crocchio la padrona della trattoria, una
signora attempatotta, sempre tutta ripicchiata, che si dava grandi
arie di nobildonna, affettando una grande castigatezza nel parlare
con gli avventori; dai quali non tollerava la minima licenza di
linguaggio. Si discorreva prosaicamente di certi cibi di facile o
di difficile digestione. A un certo punto il pescatore di perle
disse con molta gravità: - Noi digeriamo un cibo tanto
più facilmente quanto più lo...
Un altro avrebbe detto semplicemente: quanto
più lo desideriamo, o ne abbiamo voglia. Egli volle dire
una parola "rimota dall'uso". E anche questa sarebbe passata come
tante altre, se egli non avesse intoppato in una difficoltà
di pronunzia. Ma intoppò dopo le prime due sillabe, e
pronunciò le tre ultime dopo una pausa, in modo che ne
formò un verbo a parte, non dicibile in presenza d'una
signora. Ci fu impossibile trattener la risata che ci venne su dai
precordi, e ne seguì un piccolo scandalo. La signora
credette ch'egli avesse voluto dire uno scherzo, che sarebbe stato
davvero sconvenientissimo; lo fulminò d'un'occhiata, e se
n'andò a passi tragici; e il povero "pescatore di perle"
che era un uomo gentile, in fondo, e pieno d'amor proprio,
restò annichilito.
La parola, pur troppo, era la prima persona plurale
dell'indicativo presente del verbo concupiscere, registrato dalla
Crusca, con parecchi esempi di scrittori sacri.
[247]
È ERRORE? NON È ERRORE?
Queste due domande da quasi mezzo secolo mi suonano
così spesso nella mente e all'orecchio che oramai mi paiono
di quelle Voci della natura o delle cose che parlano nei cori
fantastici dei poemi.
E tu pure, nel corso dei tuoi studi di lingua, e per
tutta la vita, rivolgerai migliaia di volte a te stesso quelle
domande, e migliaia di volte le rivolgerai ad altri, e altri le
rivolgeranno a te; e nella più parte dei casi rimarrete
incerti della risposta. - Ecco il gran malanno della lingua
italiana - dicon molti. E sarà davvero, per varie ragioni,
un malanno più grave nella nostra che nelle altre lingue;
ma non è proprio esclusivamente della nostra: è un
poco di tutte. Un illustre scrittore francese, per esempio, ha
detto argutamente che non c'è cosa più difficile del
trovare tre francesi colti, i quali siano d'accordo nel dire che
un loro concittadino parla e scrive correttamente il francese. E
pure si considera questa come una delle lingue viventi che hanno
maggior fissità e sono più uniformemente parlate
nella loro patria.
[248]
Discorriamo dunque del "gran malanno".
Ma bisogna ch'io mi rifaccia un po' di lontano.
Leggi, ti prego, la lettera seguente, che fu scritta
da un bravo signore a un suo nipote, per indurlo a presentarsi al
direttore d'una Banca, a chiedergli riparazione d'un torto che gli
avevan fatto nella sua estimazione. Nota che lo scrittore della
lettera è un uomo che fece i suoi bravi corsi classici, ed
è giustamente stimato una persona colta, a cui sta bene la
penna in mano.
Mi domanderai come c'entrino gli affari della Banca
nella quistione degli errori di lingua. C'entrano bene e meglio,
lo vedrai, se avrai la pazienza di leggere.
Caro nipote,
Mi stupisce quello che mi scrivi d'aver inteso dire
del signor B. Fu indubbiamente qualche male intenzionato che te lo
volle mettere in trista luce, e mi domando con qual fine possa
averlo fatto. Sono menzogne che rivoltano. Ignorante? Orgoglioso?
Mancante di tatto? Nulla di tutto ciò è vero. Te ne
posso star garante, poiché ho l'onore di conoscerlo da
tempo; a meno ch'egli sia mutato di bianco in nero da un mese a
questa parte. Non è soltanto, incontestabilmente, un uomo
di merito, abilissimo nel suo ufficio, appassionato degli studi
finanziari, e che gode della massima considerazione presso tutto
il personale della Banca; ma anche uomo d'animo elevato, di cuore
sensibile, e in fatto di cortesia, gentiluomo senza eccezione;
tanto che è amato, più che beneviso, da quanti
l'avvicinano. Mai non conobbi personaggio alto locato più
abbordabile; chiunque gli può parlare; anche gente del
basso popolo è ricevuta da lui alla prima. Che vada
soggetto ad accessi di malumore, che si lasci trasportar qualche
volta dalla passione, ne convengo; ma non è detto che alla
vivacità del temperamento [249] non possa andar congiunta
la delicatezza; e in ogni caso, basta a disarmarlo una buona
parola. Deciditi dunque; presèntati a lui senza imbarazzo;
raccontagli l'accaduto; mettilo al fatto d'ogni circostanza, senza
far nomi; osservagli che fosti tu il provocato, che ti si fece un
tiro inqualificabile, tentando d'intaccare il tuo onore, per
sbalzarti da una posizione che per te è quistione di pane,
e mettere al tuo posto peggio che una nullità, un
birbaccione spudorato, cointeressato coi tuoi peggiori nemici. Non
ti preoccupare dell'esito: vedrai che prenderà
interessamento al caso tuo e che non ti toccherà una
delusione. Io gli scrivo oggi stesso, d'altronde, per metterlo
prima al corrente della cosa, o per porre i punti sugl'i, caso che
già la sapesse. Ti prevengo, peraltro, che non devi pensare
di raggiungere il tuo scopo con adulazioni e maniere insinuanti,
le quali con lui non fanno effetto di sorta; chè non
è di quegli uomini che per vanità transigono con la
propria coscienza; e come non si lascia toccare dalle lusinghe,
non si lascia imporre dalle minacce. Ma siccome è
ragionevole e onesto, nulla di più facile che persuaderlo e
cattivarselo dicendogli alla spiccia la verità e aprendogli
con effusione il proprio cuore. Se credi che ti possa essere una
facilitazione, t'accludo una mia carta di visita per
presentartigli. Abbi la compiacenza d'accusarmi subito ricevuta di
questa lettera. Non ho bisogno di dirti che per quest'affare o per
altro, nella mia pochezza, sono sempre a tua disposizione. In
attesa d'una risposta, ti mando una stretta di mano, e tienmi per
la vita il tuo affezionatissimo zio
TAL DEI TALI.
È una lettera, riconoscerai, che a novantanove
su cento italiani colti parrebbe non scritta male. Ebbene: tra
francesismi, neologismi, solecismi, parole e locuzioni non
puramente italiane, o per ragioni diverse riprovate dai purissimi,
contiene la bellezza di 78 - dico settantotto - errori grossi e
piccoli. Su parecchi di questi i [250] purissimi non cadono
d'accordo: chi li bolla come errori, chi no. Ma il professore
Pataracchi starebbe fermo sul 78, o al più concederebbe che
alcuni veri errori non sono; ma mende, néi, parole brutte,
metafore strane, leziosaggini; insomma, modi da sfuggirsi.
Ed ecco presso a poco in qual forma concerebbe, alla
lesta, il povero zio.
- Mi stupisce. No, "Stupisco": Stupire è
intransitivo. - Indubbiamente, per "indubitatamente" non ha corso
legale. - Intenzionato. Brutta voce, da non usare. - Mettere in
trista luce. Una metaforaccia da buttarsi via. - Io mi domando.
Falso: "domandare" e "dire" non s'usano a modo di riflessivi. -
Menzogne che rivoltano. "Rivoltare" riferito a cose morali,
è improprio. - Mancante di tatto, nulla di tutto
ciò, ho l'onore di (invece di "mi onoro"), un mazzo di
francesismi. - Da tempo (senza dir da quanto) e star garante (per
star mallevadore), da bollare. - A meno che (per "eccetto che"),
barbaro. - Da un mese a questa parte. Che parte? Che c'entra la
parte? Un fregaccio. - Uomo di merito. Merito, usato in questa
forma indeterminata, sta male. - Incontestabilmente per
"incontrastabilmente", abilissimo per "valentissimo", massima per
"grandissima", personale per "gl'impiegati", da rimandarsi in
Gallia. - Appassionato degli studi, improprio. - Considerazione
per "stima", brutta metafora. - Animo elevato, francese, e
sensibile, nel senso che qui gli si dà, francesissimo.
Improprio in fatto di cortesia per "in materia di" o "rispetto a".
È brutto e strano modo senza eccezione per "assolutamente"
e lezioso beneviso per "ben veduto" e metaforaccia sgarbata e
materiale [251] alto locato. - Un brutto paio di francesismi
avvicinare una persona per "avvicinarsi a lei" e abbordabile per
"degnevole" o "accostevole". - Chiunque per "ciascuno che" quando
serve a un costrutto sospeso, riprovevole. - Riprovevole basso
popolo, che non s'usa che in senso spregiativo. - Francese accessi
di malumore per "moti, impeti", francese lasciarsi trasportare da
una passione per "lasciarsi sopraffare", francese ne convengo per
"lo riconosco". - Un frego su insieme al, invece di "insieme con"
che è errore; su delicatezza per "gentilezza", su disarmare
per "far cadere la collera". - Deciditi per "risolviti" via! -
Senza imbarazzo? alla spazzatura! Imbarazzo non vuol dire che
"gravezza di stomaco". - L'accaduto! Ma accaduto non è
sostantivo, è participio. - Mettere al fatto, per "far
sapere?", mai al mondo. - Brutto circostanza per "particolare".
Foggiato sul francese far nomi. Francese inqualificabile per
"indegno". Osservagli per "fagli osservare o notare", sproposito.
Intaccar l'onore, altro sproposito. Posizione per "impiego", di
vil conio francese, e così è quistione di pane e una
nullità per "si tratta di pane" e "uomo da nulla". E bollo
spudorato per "impudente"" e cointeressato, che è del gergo
mercantesco, e delusione per "disinganno", che non è parola
italiana, e interessamento, che è voce ostrogotica, e
preoccuparsi per "darsi pensiero" che è uno svarione, e
mettere al corrente, che è mal detto invece di "in
corrente" od "a giorno". Un altro mucchietto di scorie francesi:
d'altronde, mettere i punti sugl'i, ti prevengo per "ti avviso",
far effetto per "commovere, colpire". Sgarbatissimo raggiungere lo
scopo [252] per "ottenerlo": lo scopo non corre. - Improprio
insinuante per "lusinghevole". - Abbominevole transigere con la
coscienza per "patteggiare". - Ignobile mozzicone di frase imporre
per "soverchiare". E non fanno effetto di sorta! Che ci sta a fare
quel sorta? E siccome per "poiché" qual uomo onesto lo
può usare? E toccare per "commovere" con che faccia si
può scrivere? E fare una cosa con effusione? Effusione di
che? - È un altro francesismo nulla di più facile,
ed è contennendo alla spiccia per "alla lesta" e non di
buona lingua facilitazione per "agevolezza". - Ti accludo.
Oibò! "Ti includo" Carta di visita. Eh, via! "Biglietto di
visita". - Abbi la compiacenza. Che roba e? Si dice: "Cortesia,
gentilezza". - Ricevuta non si dice che per danaro: "ricevimento".
- E bellino il francesismo non ho bisogno di dirti per "non
occorre, non importa ch'io ti dica"! E quest'altro: sono a tua
disposizione per "ai tuoi comandi"! E pochezza per "insufficienza"
è voce non solo brutta, ma falsa. E in attesa è un
fiore del gergaccio burocratico. E non è un bel modo una
stretta di mano come si direbbe una "stretta d'occhi o di spalle".
Ed ecco il razzo finale: Tienmi per la vita! perché vuol
che lo tengano per la vita? Ha paura di cascare?
*
Hai visto che po' po' di roba. E i modi bollati nella
lettera di quel disgraziato zio non sono che una parte minuscola
del numero grandissimo che il professor Pataracchi e altri come
lui bollerebbero. Sfoglia i dizionari dei francesismi, i [253]
vocabolari dei modi errati, i lessici della corrotta
italianità, e altri simili: ci troverai riprovate, per
ragioni diverse, un'infinità (ma no, anche infinità
è un francesismo), dirò: innumerevoli parole e
locuzioni, che si senton dire continuamente da persone colte
d'ogni parte d'Italia, (non esclusa la Toscana), e che si trovano
a ogni tratto anche in libri di scrittori, i quali hanno
tutt'altro che reputazione di barbari. Tu m'interrompi per dirmi:
- Ebbene? Tante grazie. È una bella notizia per
incoraggiarmi a studiare l'italiano. C'è da darsi al
diavolo. Posso dire come Scrupolino, che val meglio studiare il
cinese. - Ma no; non per iscoraggiarti dico quello che dico; ma
per preservarti da ogni scoraggiamento che ti potesse cogliere
andando innanzi nello studio. Voglio dire che se darai retta a
tutto quello che dicono i vagliatori e distillatori e lavandai
della lingua, che non hanno altro da fare,
e' ti faranno il capo, ti faranno,
grosso come un cocomero di Prato;
che se, fin da principio, ti vorrai proporre di
parlare e di scrivere un italiano assolutamente immacolato, nel
modo che lo vorrebbero i Pataracchi, dovrai darti tal cura e durar
tanta fatica, che a questo solo si ridurranno i tuoi studi, che
starai fermo invece di procedere, e non farai che difenderti in
luogo di conquistare. né t'incoraggio a barbareggiare con
questo, che Dio mi liberi; poiché moltissimi dei modi d'uso
corrente, che i puristi condannano, sono di fatto erronei o
barbari o brutti, e devi imparare a conoscerli per non usarli, e
per conoscerli è bene che tu legga [254] i libri citati,
dove sono raccolti. Ma questo lavoro di ripulimento della lingua
tu devi farlo a poco a poco, tranquillamente, come un esercizio
igienico; non con la furia di mondarti d'ogni impurità
tutt'a un tratto, come molti fanno, che è un mettersi a
un'impresa disperata. E devi considerare che molti di quei modi
sono inevitabili, che che se ne dica, e che dalla lingua italiana
non s'estirperanno più, per quanto si faccia; e che
sull'erroneità di molti altri non concordano neppure i
linguisti più severi; e che questi stessi linguisti
severissimi, quando non scrivono o non parlano di lingua, si
lasciano scappare dalla bocca o dalla penna una buona parte delle
parole e delle locuzioni a cui nei loro codici dànno lo
sfratto.
Va' dunque franco. Non ti costerà gran fatica
lo scansare prima di tutto i francesismi, che si riconoscono alla
brutta faccia. Tu non hai bisogno di ricorrere ai dizionari per
sapere che sono francesismi sformati circostanziare, debuttare,
decampare, defezionare, dettagliare, dilazionare, formalizzare,
negligentare, rivoluzionare, terrorizzare, e altri errori simili,
che suonano nella lingua italiana come le stecche false nel canto.
E non ti lascerai scappare dalla penna né "declinare il
proprio nome", né "demolire una reputazione", né
"fare delle amabilità", né "colmare di attenzioni";
e non dirai che in una casa c'è tutto il confortabile, per
dire che c'è ogni comodità e ogni agio; né
che sei andato a Genova o a Milano in una data epoca; né
che un dato scrittore la importa per bellezza di stile sopra un
altro; né tanti altri modi dello stesso genere, nei quali
è evidente il [255] conio straniero falsificato, e che pure
si dànno giornalmente e si accettano come moneta di zecca
italiana. Bada per ora che non cadano nella tua lingua le grosse
immondizie, e spazza via quelle che ci sono. Poi, avvezzandoti a
far pulizia nella casa, diventerai a poco a poco in quel lavoro
sempre più accurato e meticoloso, fino a volerla tersa e
lucente come uno specchio. Ora devi provveder soprattutto ad
ammobiliarla, a mettervi tutto quello che è necessario e
utile, e a darle un aspetto generale decoroso, senza star dietro a
tutte le minuzie e cercar la perfezione in ogni nonnulla.
Che cos'è questo vocìo? Viene innanzi
una folla. Mi par di riconoscervi qualcuno. Senti che gridano essi
stessi chi sono, l'un dopo l'altro.
Abbonamento - Abitudine - Accattonaggio - Aggiotaggio
- Affarismo - Affarista - Ballottaggio - Canotto - Canottiere -
Carriera (per professione) - Colpo di stato - Comitato - Crisi
ministeriale - Decorazione (per insegna cavalieresca) -
Dimostrazione popolare - Esplosione - Esposizione - Evoluzione
storica - Favoritismo - Giornalismo - Genio (per uomo di genio) -
L'insieme (per "il tutto") - Influenza (per influsso) -
Interpellanza - Iniziativa - Manovra - Marcia - Mozione - Panico
(per timor panico) - Pensione (per retta o dozzina) - Personale
d'un'amministrazione - Pompa (da incendi) - Proclama - Proiettile
- Progetto - Protezionismo - Reazione - Solidarietà - Uomo
di spirito - Specialista - Spionaggio - Successo - Insuccesso -
Interesse, interessante, interessare - Naturalizzare -
Materializzare - Sorvegliare - Speculare - Subire - Sensibile
[256] - Suscettibile - Indispensabile - Normale - Anormale -
Obbligatorio - Refrattario - Seducente - I prodotti dell'industria
- Le produzioni teatrali - I torbidi di Vattelapesca - Abbasso i
tiranni!...
Ci vorrebbe altro a sentirli tutti. Ma ora gridano
tutti insieme. Sentiamoli.
"Noi siamo francesismi, barbarismi, sconce parole,
tutto quello che volete. Ma arrestate il nostro corso, se vi
riesce, signori Pataracchi e compagnia. Abbiamo preso l'aire e non
c'è più freno per tenerci, disse un dei pochi di
voi, che hanno vista lunga e senso di discrezione. Avete avuto un
bel gridare e scaraventarci addosso tòrsoli e sassi e
tenderci funi a traverso la strada: noi siamo andati oltre, e ci
siamo sparsi da per tutto; cacciati dalle porte, siamo rientrati
per le finestre; dalle bocche dei mal parlanti siamo passati a
quelle di chi parla meglio; abbiamo invaso i giornali, i trattati,
le leggi, le cattedre, il Parlamento, i vocabolari, le Accademie;
e ci siamo e ci resteremo.
Abbasso i Pataracchi!"
[257]
LE PAROLE NUOVE.
(Pareri d'un senatore, d'un filologo, d'una signora,
d'un ingegnere industriale e d'un bello spirito).
*
Per parole nuove intendo principalmente quelle che
noi prendiamo a prestito da lingue straniere per designare nuove
cose (come istituzioni, invenzioni, usanze), per le quali non
abbiamo nella nostra lingua parole proprie, perché son cose
che non ebbero origine, ma furono introdotte da paesi stranieri
nel nostro. Come di altre parole e locuzioni si domanda: -
È errore? Non è errore? - di queste si suol
domandare: - Si può o non si può dire? O che parola
italiana vi si potrebbe sostituire? - A questo riguardo, invece di
stenderti un lungo elenco di vocaboli, e di ripeterti (chè
altro non potrei fare) le discussioni che si fecero e si fanno
sulla convenienza d'accettarne alcuni e di rifiutarne altri, e sui
vocaboli italiani che potrebbero far le veci dei rifiutati, credo
più opportuno il riferirti certi [258] pareri che mi furon
dati intorno all'argomento da persone di dottrina e di buon senso,
alcuni molti anni fa, altri di recente; dai quali tu potrai
dedurre una norma generale da seguire, parlando e scrivendo.
UN SENATORE.
- Come ho da fare, signor Senatore? - domandai a un
dotto toscano, scrittore elegantissimo (ahimè! son
più di trent'anni, e il valentuomo è morto da un
pezzo). - Come si può conciliare la necessità d'usar
le parole nuove col dovere di non offendere la purità della
lingua?
Rivedo il buon sorriso arguto con cui mi rispose: -
La purità della lingua? Ma nessuna lingua è pura, e
non deve, né può essere. Non potrebbe esser pura che
la lingua d'un popolo, il quale non avesse commercio né di
cose né d'idee con alcun altro popolo, non solo, ma che,
non mutando in nulla mai né le idee né le cose
proprie, ossia, non pensando e non progredendo, non avesse mai
bisogno di variare e d'arricchire il proprio linguaggio; che
sarebbe perciò un linguaggio morto, e morto il popolo
stesso. Nessuna lingua è ricca abbastanza da poter
designare in termini che già possegga tutti gli oggetti e i
concetti nuovi che porta con sè il progresso universale di
ogni forma del lavoro umano: deve quindi ogni lingua accettare e
produrre continuamente nuovi termini. La maggior parte di questi,
a chi vorrebbe la lingua immobile, paiono voci impure, che la
deturpino e la snaturino. Ma le cause [259] dell'alterazione della
lingua essendo inevitabili e necessarie, è così
illogico e impossibile il respingere le nuove parole per amor
della purità linguistica, come sarebbe il respingere le
cose e le idee per conservare immutato il modo di vivere e di
pensare della propria nazione. Sono i barbarismi superflui e le
parole nostre storpiate o usate in senso improprio e i traslati e
i costrutti ripugnanti all'indole della lingua nazionale, quelli
che la offendono e la imbastardiscono: non le parole straniere di
cui non si può fare di meno. Si può dire che
macchiassero la purità della lingua i primi italiani che
nominavano coi termini ora in uso tutte le nuove armi inventate
dopo la scoperta della polvere? E quelli che chiamavano coi loro
nomi d'origine tutti i concetti e le istituzioni che ci vennero
dalla rivoluzione francese, e che fra noi hanno conservato quei
nomi, non più discussi ora, e quasi neppur più
riconosciuti come stranieri? E quelli che usavano per i primi le
parole telegrafo, piroscafo, dagherrotipo, fotografia, e cento
altre simili? Non si dia dunque pensiero per questo riguardo,
perché non offenderà la purità della lingua
usando le parole nuove, e necessarie, più che non ne
offenda l'armonia pronunziando o scrivendo i nomi di personaggi
storici o d'amici suoi francesi, inglesi o tedeschi, che le
occorra di rammentare nei suoi discorsi o nei suoi scritti.
UN FILOLOGO.
Questi esordì bruscamente: - Anche lei! Ma non
c'è che il nostro paese dove la letteratura abbia tanto
tempo da perdere. Che bisogno ha [260] di pareri in una quistione
di semplicissimo buon senso? Sulle parole straniere assolutamente
necessarie per designar nuove cose, non c'è da discutere:
bisogna usarle; e non è nemmeno il caso di dire: bisogna:
s'usano, le usan tutti, e la quistione è risolta. Il dubbio
può cadere su tutte quelle voci e locuzioni nuove che
servono ad esprimere nuovi aspetti di cose, nuove relazioni fra di
esse, modificazioni nuove d'idee e di sentimenti, nuovi ordini di
idee, principalmente in politica, in arte, in filosofia; e intendo
la filosofia che è materia delle conversazioni comuni. In
questo campo, come ha detto un maestro, ci sono in ogni lingua, in
qualunque momento considerata, parole e frasi straniere messe in
prova, delle quali alcune rimarranno, altre saranno sostituite da
altre, che l'uso formerà e farà prevalere alle
prime; parole nazionali di cui si va mutando il significato;
processi di differenziazione, per dirla coi matematici, che si
vanno compiendo, ma che non sono interamente compiuti. Ora,
rispetto all'uso di questo materiale mobile della lingua, ciascuna
nazione fa come una moltitudine in cammino; nella quale c'è
chi si spinge alla testa della colonna, chi rimane alla coda e chi
si tiene nel mezzo. Lei, come scrittore, non ha da andare
né tra i primi né tra gli ultimi; ma deve camminare
fra gli uni e gli altri. Il criterio della scelta lo ha da
ricavare dall'uso. Delle parole nuove usi quelle che s'usano
generalmente e che generalmente sono capite. Fra due parole che
s'usino, una straniera e una italiana, con non determinata
prevalenza di questa o di quella, ma tutt'e due egualmente intese
dai più, si tenga [261] all'italiana. E in tutti i casi in
cui la parola italiana, che alcuni vorrebbero sostituire
all'esotica, non è capìta dai più, non
c'è da tentennare: poiché si parla e si scrive per
farsi capire dai più, usi l'esotica, e non si dia altro
pensiero. Fuor di questa norma, che anche un ragazzo troverebbe da
sè, non si fanno che vanissime ciance.
UNA SIGNORA.
Era una signora toscana, coltissima, che avrebbe
potuto presedere un'Accademia, e non aveva ombra di pedanteria. -
Io non le posso dire - rispose - che quello che lei certamente
pensa. Si ricorda i versi del Giusti a proposito della parola
diligenza?
Il cambio delle voci
Fra gente e gente, come l'ombra al corpo,
Tien dietro al cambio delle cose umane;
né straniero vocabolo corrompe
L'intrinseca virtù d'una favella
Quando lo stile riman paesano.
Se lei parla e scrive in buon italiano, una lingua
tutta italiana di sostanza, d'impasto e di colore, nessuno
dirà che parla o che scrive male per il fatto che a quando
a quando usi una parola non italiana per dire una cosa che nella
nostra lingua non ha ancora la parola che la esprima. So bene che
ad alcune delle parole straniere già divulgate c'è
chi propone di sostituire altre parole nostre, e che, se queste
calzano, e se hanno da prevalere, ciò che è
desiderabile, bisogna pure che qualcuno le cominci a usare. Ma in
questo io m'attengo a una regola che mi è suggerita da un
sentimento più forte di quello [262] della lingua. Delle
parole italiane che si vorrebbero sostituire alle straniere ce
n'è che si posson dire senza che ne scapiti la naturalezza
del discorso, e quelle le dico. Ce n'è altre che non si
possono dire senza far maravigliare e sorridere chi ascolta e
senza passar per saccenti che si voglia in materia di lingua
dettar la legge, e queste non le dico e non le scrivo,
perché preferisco usare un barbarismo al far ridere e
all'esser tacciata di saputella. Così non voglio e non
posso dire teletta invece di toeletta, né posa invece di
consolle, né rinfresco invece di buffé, e con buona
pace del nostro buon B., dirò cupè, finchè
lui od altri non abbiano trovato in luogo di quella parola
qualcosa di più spiccio di scompartimento anteriore della
diligenza, che quando è detto per non dire la parola
barbara, è ridicolo. Questa è la mia regola riguardo
alle parole nuove: parlare e scrivere italiano quanto più
puramente si può, senza far ridere; perché nell'uso
delle parole ciascuno ha un suo sentimento proprio della
convenienza, al quale nessun'autorità linguistica
può comandare. Ma già dev'esser pure l'opinione sua,
com'è di quasi tutti, e lei non m'ha interrogata che
perché gliela confermassi; e se le avessi espresso
un'opinione contraria, non ne avrebbe tenuto nessun conto. Stia
dunque col Giusti. L'importante è che lo stile rimanga
paesano.
UN INGEGNERE INDUSTRIALE.
Sono ameni i puristi sine labe che non vogliono le
parole nuove. È perché non vivono nel nuovo mondo.
Se ci vivessero, se sapessero il [263] numero enorme di nuove
parole che hanno portato con sè e rese necessarie i
progressi delle industrie minerarie e metallurgiche, il telegrafo,
il telefono, l'elettricità, le macchine tessili, la stampa,
e cento altre cose; se toccassero con mano che non passa quasi
giorno senza che si scopra o s'inventi qualche nuovo strumento, o
procedimento, o particolare di congegno o di tecnica, che non
può aver altro nome fuor di quello che gli dà chi lo
inventa, si sdarebbero dall'impresa per disperati. Per ogni dieci
o cento parole che occorrono, e che son prese da una lingua
straniera o coniate alla meglio fra noi dalla gente che n'ha
bisogno, essi ne propongono una, che dicono italiana, o meno
barbara. Ma a che pro? Chi la mette in corso? E quale scrittore ha
mai fabbricato nuove parole, che sian diventate d'uso comune?
D'uno dei più fecondi e popolari scrittori francesi del
settecento, si dice che n'abbia coniate di suo e mandate in giro
due sole; delle quali una è morta. E, infatti, l'azione
d'uno scrittore, per quanto autorevole, non è che
pochissima cosa, per non dire nulla affatto, rispetto all'azione
collettiva del popolo, che di certe parole nuove ha bisogno
subito, e le piglia dove sono e come le trova, o se le fabbrica da
sè, nel modo che gli comoda e gli garba. Conosco una sola
nuova parola italiana che in quest'ultimi anni sia stata coniata
da un pubblicista, e abbia avuto una certa fortuna: ed è
tramvia, che entrò nei regolamenti e nelle leggi. Ma
moltissimi che scrivono tramvia, dicono parlando tranvai, e
tranvai o tram si dice dalla grande maggioranza in Toscana e
altrove; e anche di quelli che usano [264] la parola ufficiale,
chi la fa femminile e chi maschile, e chi pronunzia tramvia e chi
tranvia, poiché il suono amv non è della lingua
italiana; e non è ancor certo che a tramvia debba restar la
vittoria. Dunque? Io lascerei gridare i linguisti, e farei il
comodo mio, come tutti fanno, senza il loro permesso, e come
s'è sempre fatto da per tutto, da che mondo è mondo
e le lingue vanno da sè, come i fiumi.
UN BELLO SPIRITO.
Quello che mi fa dispetto, in quest'affare delle
parole nuove, di cui mi son molto occupato per pura
curiosità, è l'ipocrisia dei pedanti: è che
molti di loro condannano certe parole senza dire quali altre vi si
hanno da sostituire, e qualche volta riconoscendo che non ce
n'è altre; o ne propongono tre o quattro, che equivale a
non proporne alcuna, perché è un sostituire a una
questione un'altra quistione; e che, in ogni caso, combattendo una
parola in uso e proponendone un'altra, sono certi certissimi di
fare un buco nell'acqua; ciò che vuol dire che seccano la
gente sapendo di non ottenere altro effetto che quello di seccare.
Mi fa anche più dispetto il vedere che molte delle parole
nuove ch'essi non registrano o bollano di barbarismi nei dizionari
e nelle dissertazioni o dispute filologiche, o cancellano con
tanto di frego nei componimenti dei loro discepoli, le usano poi
essi stessi a tutto pasto, parlando, perché non possono
farne di meno, perché non si farebbero capire o si
farebbero canzonare usando quelle che ci vogliono sostituire. Per
esempio, io giocherei tutti [265] e due gli occhi che di tutti
quanti i proscrittori del barbarismo consommé o
consumé non ce n'è uno che abbia mai detto, non ci
sarà mai uno che dirà in nessun luogo, in nessun
caso, a nessun cameriere o cuoco o albergatore o serva d'Italia: -
Mi dia un consumato o un brodo ristretto. - E l'esempio val per
cento. O che razza di gioco a partita doppia è codesto? Se
quelle parole le dicono, perché non le scrivono? Se non
osano di scriverle, perché le dicono? Sono bene costretti a
scriverne e a lasciarne scrivere tante altre che ai loro padri
fecero orrore. Ma la lingua s'altera! Ma sono secoli che si va
alterando; ma tutto s'altera col tempo: i costumi, le idee, la
vita, il mondo: non s'ha da alterare la lingua? Ma la vanno
alterando essi medesimi, che usano molte parole non usate dalla
generazione antecedente, che ne usano da vecchi molte altre, che
non usavano da giovani. Dicevano essi da ragazzi le parole:
patinaggio, scatingring, fonografo, cinematografo, sport,
automobile, motocicletta? E bisogna ben che le dicano ora per
forza. Io vorrei che con la macchina maravigliosa del romanziere
Wells ci potessimo trasportare tutti quanti nel venticinquesimo
secolo, per veder che faccia farebbero a leggere il vocabolario
della Crusca del 2400! E allora, a che serve questo dire e non
scrivere, prescriver con la penna e accettar con la bocca, e
pensar d'arrestare una moltitudine che corre agguantando Tizio e
Caio per il colletto?
[266]
*
Ma tu mi dirai che non t'ho riferito che giudizi
anonimi. Ebbene, consultiamo insieme uno scrittore grande e
purissimo. Ecco quello che ti direbbe Giacomo Leopardi,
condensando in un breve discorso quanto è scritto
sparsamente nei sette volumi dei Pensieri postumi.
- Conservare la purità della lingua è
un sogno, un'immaginazione, un'ipotesi astratta, un'idea non mai
riducibile ad atto, se non solamente nel caso d'una nazione che,
sia riguardo alla letteratura e alla dottrina, sia riguardo alla
vita, non abbia ricevuto e non riceva nulla da nessuna nazione
straniera. Le cose vivendo sempre, e modificandosi sempre
continuamente e moltiplicandosi le conosciute, e non potendo una
lingua esser mai perfettamente fornita del necessario fin ch'ella
non esprime perfettamente e convenientemente tutte le cose e tutte
le possibili modificazioni delle cose di questo mondo, ne segue la
necessità ch'ella s'accresca sempre di nuovi modi; i quali
è ben naturale che a noi italiani vengano in gran parte di
fuori, perché la vita ci viene in gran parte d'altronde.
Molte di queste parole e modi nuovi sono comuni a tutte le lingue
colte d'Europa, e però sono europeismi, non barbarismi,
perché non è barbaro quello che è proprio di
tutto il mondo civile e proprio per ragione appunto della
civiltà, com'è l'uso di queste voci che deriva dalla
stessa civiltà e dalla stessa scienza d'Europa. E d'altra
parte l'esempio dei nostri classici (quasi tutti) che hanno
arricchito la [267] nostra lingua con derivar vocaboli e modi dal
latino, dal greco, dallo spagnuolo o donde che sia, e li hanno
resi italiani di fatto, ci ammonisce che la lingua italiana
è capacissima d'appropriarsi voci e maniere d'altre lingue.
E non solo può, ma lo deve fare, perché quanto
più la nostra lingua è diligente nel non voler
perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza
dev'essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al
pazzo avaro che per amor del danaro non mette a frutto il danaro,
ma si contenta di non perderlo e di guardarlo senza pericoli.
Voler respingere le parole nuove è voler mettere l'Italia
fuori del mondo.
Tutte sentenze d'oro, come dice il Giusti. Ma
poiché potresti esser tentato d'abusarne, seguendo
l'esempio dei molti barbari che dalle lingue straniere pigliano a
prestito una parola ogni dieci, ti presento come antidoto un mio
amico di gioventù; la cui immagine mi salta sempre davanti
quando nel parlare italiano sto per dire una parola o una frase
francese, non perché manchi alla mia lingua il modo
corrispondente, ma per iscansare la fatica di cercarlo.
Ho l'onore di presentarti il visconte La Nuance.
[268]
IL VISCONTE LA NUANCE.
La famiglia dei visconti La Nuance è antica e
numerosissima.
Il giovine italiano, al quale avevamo posto quel
soprannome, era nobile veramente (del che non si boriava punto);
ma povero come noi, figliuolo d'un esattore, e impiegato egli
stesso, non ricordo in che amministrazione dello Stato. Essendo
cresciuto in Savoia, dove suo padre era stato parecchi anni, aveva
imparato il francese prima e meglio dell'italiano, e quella era
rimasta la sua lingua preferita, e diventata il suo vanto, la sua
gloria, il vero titolo di nobiltà, del quale egli andava
superbo; affermando, naturalmente, ch'era la più bella
d'ogni lingua antica e moderna, superiore senza confronto e per
ogni rispetto alla nostra. Quindi le continue discussioni e
battaglie che seguivano fra lui e gli amici, e le infinite
canzonature che gli piovevano addosso; delle quali non si
risentiva mai, poiché a un'ostinazione invincibile in
quella sua idea, in quella soltanto, egli accoppiava una
bonarietà inalterabile, che gli faceva tollerare anche gli
scherzi più mordenti.
[269]
Ci stizziva in particolar modo il suo continuo
interpolare nel discorso italiano vocaboli e frasi francesi, come
se la nostra fosse una mezza lingua, che non bastasse ad esprimere
perfettamente nessun pensiero; e non men di questo la ostentazione
ch'egli faceva di quell'italiano infranciosato, quasi
compiacendosi di non avere della lingua propria che
un'infarinatura, quanto gli occorreva appunto per i suoi ristretti
bisogni di impiegato. E usava nella più parte dei casi il
modo francese anche sapendo il modo italiano, poiché in
ogni parola o frase di quella lingua egli sentiva o diceva di
sentire una sfumatura di significato (una nuance, diceva sempre)
che nella nostra lingua non si poteva rendere. Era quasi sempre
un'immaginazione sua; ma non c'era verso di sconficcargliela dal
capo. Citava un modo francese, e diceva in aria di sfida: -
Sentiamo, come direste in italiano? - Noi gli citavamo un modo
nostro che, per consenso di tutti, significava per l'appunto lo
stesso. Ed egli no, s'incapava a negare. - Ci s'avvicina -
rispondeva -; ma è un'altra nuance; no, ce n'est pas
ça tout à fait. - No, far riscontro non voleva dire
precisamente faire pendant, averne un ramo non significava tal
quale être toqué, dire di uno roba da chiodi o ira di
Dio non era propriamente lo stesso che pis que pendre. - Un'altra
nuance, un'altra nuance, qualche cosa di sopraffino, l'idea
d'un'idea, un nonnulla, ch'egli non sapeva dire, ma che sentiva. E
quando poi si faceva la prova inversa, aveva la faccia fresca di
tradurre disinvolto in dégagé, traccheggiarsi in se
dandiner e vattelapesca in que sais-je! Noi gli coprivamo la voce
con una [270] urlata, ed egli rispondeva urlando: - Traducete in
italiano il Marivaux, se vi riesce! Traducete il Labiche! - E tu
traduci il Berni, traduci il Giusti, traduci il Parini! - Fiato
sprecato.
Aveva anche il coraggio di sostenere che il francese
è più musicale dell'italiano. - Troppe vocali,
troppe vocali - diceva. - Si parla sempre con la bocca spalancata.
Per esempio, il famoso verso di Dante, nel racconto di
Francesca.... - e squarciando le a con una bocca da entrarci una
rapa, declamava: - Aaamor che aaa nullo aaamato aaamar perdonaaa!
Ma c'è da slogarsi le mascelle! - E noi gli citavamo
bellissimi versi francesi che avevano non meno a che il verso
dantesco; ma non serviva, perché l'a francese, per lui, era
un'altra a, di suono più discreto dell'italiana. Nei versi
francesi sentiva armonie misteriose che al nostro grosso orecchio
sfuggivano. - Per esempio, quel celebre verso del La Fontaine, che
Victor Hugo giudicò ammirabile:
Six forts chevaux tiraient un coche;
che maravigliosa, inimitabile armonia imitativa! - Di versi
italiani, maravigliosi per armonia imitativa, gliene citavamo a
decine. - Ma non così fini - ribatteva - non così
fini! - Andava fino a dire che era ben più dolce l'au
revoir che l'a rivederci, benchè nel saluto francese ci
siano come nel nostro due erre; le quali, per giunta, egli
arrotava in tal modo, che, a sentirlo, pareva d'esser salutati da
una sega arrugginita. - Au rrrevoirrr! Ma non sentite che
dolcezza? - E allora gli davamo del barbaro, dell'italiano
rinnegato, del traditore della [271] patria; al che egli
rispondeva invariabilmente: - Des bêtises! des
bêtises! - guardandoci con un sorriso compassionevole, come
gente di una razza primitiva, parlanti ancora una lingua
rudimentale.
Di scrittori italiani parlava il meno possibile, e ci
aveva le sue buone ragioni.
Quando gli chiedevamo un giudizio sopra un nostro
grande scrittore antico o moderno, egli riconosceva con parole
vaghe i meriti che noi ammiravamo in lui; ma soggiungeva sempre
che gli pareva lourd, sans souplesse, sans finesse. La finezza era
nel suo concetto la grande superiorità della lingua
francese sulla nostra, e affermava che soltanto in francese si
poteva parlare con una signora con delicatezza aristocratica,
senza mai stonare, senza urtar mai le convenienze e il buon gusto.
Gli domandavamo se credeva davvero che il marchese Gino Capponi e
il barone Ricasoli, allora viventi, non sapessero sostenere una
conversazione con una patrizia fiorentina senz'urtare il buon
gusto e le convenienze. Egli aveva l'audacia di risponderci che
non li aveva mai sentiti. Lo investivamo qualche volta fieramente.
- Come puoi giudicare della finezza della lingua italiana tu,
ostrogoto lacerator d'orecchi, che dici tutto il lungo del
cammino, una ragazza non si può più gentile, e
giuocare un ruolo, e venir di desinare? - perché erano di
questo conio i francesismi che egli schiantava. E allora ribatteva
trionfalmente; - Ah! Ah! Voi v'importate! È segno che non
avete delle buone ragioni, che vi sentite battuti, battuti a
piatta cucitura, ridotti a.... Come direste in italiano aux abois?
- O vile Gallo, agli estremi! [272] - rispondevamo noi. E lui, col
suo solito sorriso di commiserazione: - È un'altra nuance;
non c'è il senso comico; è un'altra nuance
tutt'affatto.
Non disperavamo di persuaderlo, non di meno. Alle
volte lo pigliavamo con le buone, ragionando; gli parlavamo della
grande ricchezza della lingua italiana, di cui una gran parte non
è nei dizionari; della sua mirabile facoltà di
adattarsi a tutti i toni, agli stili più diversi, e alla
traduzione d'ogni lingua, serbando il colore dell'originale, senza
snaturare l'indole propria; della grande quantità e
varietà di "tipi e di conii ch'ella possiede per poter
formare voci e modi d'uno stesso genere di significazione", delle
innumerevoli desinenze frequentative, diminutive e disprezzative
dei suoi verbi, e dell'elasticità e capacità e
mutabilità stupenda del suo periodo; e cercavamo di
dimostrargli che, nel più dei casi, quando una parola
francese non si può tradurre in una italiana dello stesso
valore, questo deriva dal fatto che la francese è usata in
vari significati, per ciascuno dei quali noi abbiamo una parola
propria; e via discorrendo. Ma era come dire al muro. Egli
rispondeva che noi facevamo della letteratura, ch'egli intendeva
parlare della lingua di conversazione, e ribatteva il suo chiodo,
che soltanto in francese si poteva conversare con grazia e con
spirito, e che al confronto del francese l'italiano era lourd,
poco pieghevole, privo di nuances, una lingua d'accademici e di
professori. E noi in coro, come sempre: - Bugiardo rinnegato! -
Gallaccio odioso! - Va' fuori d'Italia! - Che il diavolo
t'importi! - Smettila, o t'assommiamo [273] a calotte! - E lui,
col suo eterno sorriso: - È inutile. Non mi farete
demordere dalla mia opinione.
Ma quello che agli amici non era mai riuscito
d'ottenere parve che l'ottenesse il Governo, trasferendolo
improvvisamente da Torino, con suo grande rammarico, in non so
quale città del Veneto; poiché, forse per lasciarci
una buona memoria di sè, per tutto il tempo che rimase
ancora fra noi, non solo non mise più sul tappeto e non
accettò più nessuna discussione sulle due lingue, ma
anche parlò meno francescamente del solito, smettendo, se
non altro, d'ostentare certi francesismi per provocazione.
Credemmo d'aver operato noi il miracolo, e ce ne rallegrammo. Il
giorno della partenza lo accompagnammo tutti alla stazione. Era
malinconico. Quando ci abbracciò, prima di salire nel
vagone, si commosse. - Ricordatevi di me - ci disse -, scrivetemi.
E dimenticate i nostri battibecchi per la lingua. - Ci strinse
ancora la mano dallo sportello, dicendoci con le lacrime agli
occhi: - Addio! Addio! A rivederci! - E quel suo salutarci, contro
il suo solito, in italiano, ci parve il segno più certo del
ravvedimento, e noi pure salutammo con affetto l'amico,
ridiventato italiano. Oppresso dalla commozione, si ritirò
in fondo al vagone prima del fischio della partenza.
Ma appena il treno si mosse, si rilanciò al
finestrino, e con voce più commossa di prima, agitando il
fazzoletto, gridò con diciotto erre: - Au revoir! Au
revoir! Au revoir!
Era la frecciata del Parto.
- Trrraître! - gli rispose uno degli amici.
Ma forse egli non ci aveva tradito di proposito:
[274] soltanto, nell'impeto della commozione, gli era uscito
irresistibilmente dal cuore il saluto che all'orecchio suo sonava
più dolce.
E così, nonostante l'ultimo ravvedimento, egli
rimase per sempre nella nostra memoria il visconte La Nuance, tipo
perfetto e amenissimo dell'italiano con la cresta e coi bargigli.
[275]
PER LA DIFESA DELLA LINGUA.
Fin qui, giovinetto mio, mi sono ingegnato di darti
consigli e suggerimenti utili ad acquistare il possesso della
lingua. Ma, in materia di lingua, non basta acquistare, bisogna
difendersi. Tu dovrai badare di continuo a preservarti dal
contagio della lingua corrotta che si parla, si scrive e si
stampa, non soltanto nella tua, ma in ogni regione del paese; a
respingere da te le infinite voci e locuzioni barbare, errate,
strampalate, torte ad altro significato dal vero, che pullulano
nel comune linguaggio parlato e scritto, e che appunto per la
frequenza con cui sono generalmente ripetute, s'attaccano per modo
alla lingua e alla penna di tutti, da riuscir quasi impossibile,
anche a chi ci metta una cura attentissima, il preservarsene
affatto. Di questi modi da fuggire non ti faccio un elenco,
perché, anche a non citar che mezzi di quelli che conosco,
ne dovrei empire decine di pagine, e ti seccheresti a leggerli; ma
troverai i più comuni nel dialogo seguente; il quale
seguì davvero tempo fa, con poche differenze nell'ordine e
nella materia, fra quattro amici; e che, più o meno
variato, si ripete certamente spesso, in ogni parte d'Italia, fra
persone colte, che hanno a cuore la purità e il decoro
della lingua nazionale.
[276]
A CHI LE DICE PEGGIO.
DIALOGO
fra uno scrittore, un avvocato, un professore di
chimica, fisica e matematica, e un cronista di giornale, che
stanno desinando in una stanzetta di trattoria.
LO SCRITTORE (al Professore). - Dov'eravamo rimasti?
IL PROFESSORE. - Aspetta: lascia che m'orienti un
poco.
SCRITT. - Orièntati. E una.
PROF. - Ne sentirai dell'altre. Caro mio, noi non ci
abbiamo nessuna colpa nel fatto che la lingua diventi sempre
più scientifica, o per dir meglio, scienziata. Non siamo
noi che divulghiamo, portandolo in tutti i campi del pensiero, il
nostro linguaggio tecnico, del quale non possiamo far di meno.
È il gran pubblico, sono i giornali e la cattiva
letteratura che ce lo pigliano....
SCRITT. - Già: è effetto del
polarizzarsi di tutte le idee verso la scienza.
[277]
PROF. - Hai detto bene. Ma è un fatto, te lo
confesso, di cui il nostro amor proprio si compiace. Al vedere che
ogni interruzione o lacuna di qualunque cosa diventa una soluzione
di continuità, ogni scopo un obbiettivo, ogni caso un
fenomeno....
SCRITT. - E ogni mescolanza un'amalgama.
PROF. - A sentir parlare di forza centripeta e
centrifuga dell'istinto, del dinamismo dei partiti politici, di
movimenti rivoluzionari sincroni e sinfoni, e di coefficienti
della vittoria e d'esponenti della debolezza del Ministero, e di
Parlamenti saturi d'elettricità....
AVVOCATO. - E di atmosfera d'odio....
CRONISTA. - E di fenomeni di capillarità
psicologici.... Questa l'ho letta io.
PROF. - Forse in una tua cronaca. Ma io n'ho letta
una assai meglio. - Di queste consuetudini e sentimenti si forma
nella gioventù un precipitato di scetticismo. - Sei
battuto. Lasciami finire. A sentire quante quistioni particolari
sono una faccia del prisma d'una quistione generale; quanti ordini
d'idee sono stratificazioni o substrati d'altri ordini d'idee, e
quanti uomini e cose, quantità negative; ma più che
altro al vedere quanti concetti non si sanno più esprimere
senza ricorrere agli strumenti e agli apparecchi dei nostri
Gabinetti, come sarebbe il barometro del malcontento popolare....
SCRITT. - Il termometro dell'opinione pubblica.
CRON. - Il diapason della moralità nazionale.
AVV. - E il propulsore degli entusiasmi cittadini?
PROF. - Benissimo; e la valvola di sicurezza [278]
delle passioni.... Al sentir tutto questo, dico, io gonfio di
giubilo e d'alterezza....
SCRITT. - Fino all'ennesima potenza.
PROF. - Lo volevo dire; perché penso che,
andando innanzi per questa strada, verrà tempo che quanti
vorranno imparar l'italiano dovranno venire a scuola da noi, a
studiar fisica, chimica, matematica, mineralogia, geologia....; i
Vocabolari dell'uso saranno i nostri trattati.
SCRITT. - E allora tutto si dovrà studiare,
fuorchè la letteratura. E non solo le scienze esatte, ma
anche le scienze giuridiche. Per esempio: la circostanza
attenuante, la cerziorazione, la requisitoria, il verdetto, usciti
dalle aule dei tribunali, sono oramai entrati da per tutto. E
quante cose si comminano, oltre le pene stabilite dalla legge! E
si testimonia affetto, rispetto e riverenza. E non sono più
i soliti testimoni che depongono; sono anche i fatti. - Una data
circostanza depone in favore d'una tal persona.... - Io mi figuro
la Circostanza che giura sul Vangelo di dir tutta la
verità....
AVV. - E una Ragione che cammina a suon di tamburo,
col facile sulla spalla, te la figuri? È la solita Ragione
che milita in favore di qualcuno o di qualcosa. E poi che siamo
nel campo militare, a me piace infinitamente la base d'operazione.
Un innamorato, per esempio, che va a stare in una villa vicina a
quella della sua amata, e ne fa la sua base d'operazione! L'ho
letta in un romanzo. Mi piace anche mossa strategica riferito a un
atto qualunque di piccola furberia. E una parola che ha una data
portata, come un pezzo d'artiglieria....
SCRITT. - Io preferisco il linguaggio [279]
finanziario, che va prendendo sempre più voga. Ha certe
espressioni così nobili! Fare il bilancio, per esempio,
delle buone qualità e dei difetti di un amico; dire d'un
uomo politico, venuto in auge, o scapitato d'autorità, che
le sue azioni si sono alzate o ribassate, o, accennando ai suoi
meriti e ai suoi demeriti verso il paese, che ha al suo attivo
certe cose e al suo passivo certe altre.... Mi par di vederlo
diviso in due colonne, come il registro d'un negoziante.
AVV. - E dove lasciate i verbi, che sono i più
bei fiori? Suicidarsi, terrorizzare, ostacolare, impossibilitare,
prevenzionare, massacrare, acutizzare.... Si va acutizzando il
dissidio in seno alla Commissione del Bilancio, signori!
SCRITT. - O signori, e suggestionare?
AVV. - Bravo, hai detto il gran verbo, il verbo
factotum, che si presta a tutti i servizi. Ora si è
suggestionati da una donna, dalla fame, da un libro, da un luogo,
dalle circostanze, da tutto. Ho letto in un giornale che un certo
fanale di luce elettrica, davanti a un teatro, faceva una
réclame suggestionante.
PROF. - Suggestionante, impressionante, emozionante,
raccapricciante, son tutta roba del vostro magazzino, signori
giornalisti.
CRON. - Non mia.
SCRITT. - Tu ce n'hai dell'altra. Chi scrisse l'altro
giorno nel tuo giornale: - L'uomo di Stato che è stato
intervistato -? Sei stato tu, sei stato? Io son restato.
AVV. - Non facciamo quistioni personali. Per me, del
resto, nel linguaggio delle cronache trovo bellezze ammirabili.
Per esempio: il borsaiolo o l'accoltellatore che, dopo fatto il
colpo, [280] s'ecclissa, come un astro, mi pare un traslato
dantesco.
PROF. - È uno dei tanti verbi a cui si fa fare
un ufficio indegno della nobiltà della nascita, come
rivelare, trasfigurare....
SCRITT. - Già: si dice che un certo puzzo
rivela che il pesce è guasto, che una faccia tinta di
carbone è trasfigurata. E sono anche dei credenti nella
Rivelazione e nella Trasfigurazione che lo dicono! Questo non
è un errore di lingua, è un sacrilegio. E
così tutti creano, tutto si crea....
PROF. - Un altro verbo che fa cento mestieri, come
organizzare, funzionare, sistemare. Si organizza uno Stato, un
ballo, una dimostrazione, una colazione alla romana. E tutto
funziona o non funziona: un arcivescovo, una serratura,
un'amministrazione, una vite, una legge, un cavatappi, un governo,
la molla d'un gibus. E c'è chi parla di sistemarsi in un
nuovo quartiere....
AVV. - E perché no? (accennando con
un'occhiata il Cronista). S'è inteso dire poco fa: - Io ho
il sistema di prendere il tè col latte la mattina, come se
una colazione fosse una dottrina filosofica....
CRON. - Sta' zitto, tu, che dicesti un giorno in
tribunale che il tuo avversario deragliava.
AVV. - Deragliai. Ma deragli tu pure dalla buona
lingua quando scrivi che s'è verificato un incendio. Che
bisogno c'è di verificare che una casa è in fiamme?
E quando dici o dite che il Ministero ha conglobato in uno due
progetti di legge! Oh giusto! Scrive oggi il tuo direttore che "la
conversione del Ministero a sinistra s'accentua". Doveva anche
dirci su quale [281] atto o dichiarazione del Governo cade
l'accento, e se è acuto o grave. Ma già ora
s'accentua anche una tempesta in mare e la peste nelle Indie.
SCRITT. - Ma questa diventa una discussione a base di
personalità. Vi richiamo all'ordine.
PROF. - Anche l'a base è diventato moneta
corrente. Un discorso a base d'insinuazioni, una letteratura a
base di pornografia. Ho letto in un giornale: una rissa fra due
erbivendole a base di zoccolate.
SCRITT. - È un modo di moda fra gli eleganti,
come darsi il lusso di fare una cosa, posare a liberale o ad
altro, aver esito negativo, fare una cosa su vasta scala, essere
all'ordine del giorno. Gabriele d'Annunzio, per esempio, è
all'ordine del giorno...
CRON. - Come un progetto di legge....
SCRITT. - Associarsi al dolore....
CRON. - Come a un giornale....
SCRITT. - L'opinione pubblica che si commove, si
sdegna, inorridisce.
AVV. - Come un'attrice.
SCRITT. - Un ministro, uno scienziato che è un
valore.
PROF. - Come una cedola del debito pubblico.
SCRITT. - Il morale che s'abbatte e si rialza.
AVV. e CRON. (a una voce). - Come un misirizzi.
SCRITT. - L'avete detto contemporaneamente. Notate
anche quest'avverbio, che abbraccia la durata della vita d'un
uomo, e s'usa per dire che due persone si voltano indietro nello
stesso punto. Ma dimenticavo le due più ammirabili.
S'annunzia che s'è fatta non so dove una strage [282] di
poveri israeliti: la notizia merita conferma. Assassini! E una
regione che è teatro d'un'inondazione! Bella
rappresentazione!
CRON. - Qualche volta la notizia è meno
esatta.
PROF. - Già: un bel modo delicato di dire che
è una pastocchia. Così, per consolare i poveri
disperati, si chiamano cortesemente i meno abbienti.
AVV. - Ma queste son miserie! Volete ch'io vi
dica la più preziosa di tutte? La lessi l'altro giorno. Si
riferisce a un fatto doloroso. Ma si riesce a far ridere di tutto.
Un suicidio al sublimato corrosivo.
PROF. - Impossibile. È di tuo conio.
AVV. - Ti porterò il giornale.
PROF. - Nati di cani! Come si dice il risotto al
pomodoro!
SCRITT. - E se passassimo ai sostantivi? Riguardo a
questi, quello che c'è di più curioso per me
è l'uso che prevale di adoperarli a sproposito, e che
deriva da una tendenza generale, morbosa, a esagerare ogni cosa.
Nove volte su dieci, anche in discorsi e in proclami ufficiali, si
dice orgoglio, che è un vizio, per dire alterezza, che
è un sentimento nobile, e orgoglioso invece d'altero. Le
parole alterezza e altero pare che vadano cadendo in disuso.
Così non più dignità, ma fierezza. E si dice
l'incarico di scopare come l'incarico di rispondere al discorso
della Corona; aver la missione di far l'operazione del catasto in
una provincia, come la missione di convertire un popolo al
Cristianesimo; l'apostolato della cultura delle barbabietole; il
còmpito, che era un lavoro d'ago o di maglia, o un lavoro
assegnato agli scolaretti....
[283]
AVV. - Il còmpito d'unificare la Germania....
fu il lavoro di scuola del Bismark.
SCRITT. - Far l'apoteosi del formaggio di
Gorgonzola....
PROF. - È il parossismo dell'iperbole. Dove
lasci gl'ismi? Fra cinquant'anni ci saranno nella lingua tanti
ismi che si farà rima ogni dieci parole. Andiamo, io lancio
il primo: il nervosismo delle nuove generazioni.....
AVV. - Il rigorismo del Fisco...
CRON. - Il confusionismo dei partiti....
SCRITT. - Il parallelismo delle situazioni. Ma
parossismo è l'ismo prediletto. Si serve in tutte le salse.
C'è persino chi ama i maccheroni fino al parossismo. E
anche coi sostantivi in à non si scherza. Se ne fa un tale
scialacquo, che a sentir certi discorsi, par che l'oratore picchi
delle martellate in un muro....
AVV. - Garibaldi è una grande
individualità.
SCRITT. - Il Tolstoi una celebrità, una
sommità....
CRON. - Il dottor Carle una specialità.
PROF. - E ha molte notabilità
l'Università della nostra città.
AVV. - Che è posta in una bella
località.
PROF. - In una delle principali arterie di Torino,
poiché ora si chiamano arterie le strade grandi, e non so
perché non si chiamino vene le strade minori....
SCRITT. - Oh bravo! poiché hai portato la nota
anatomica, ricordiamo il linguaggio medico. Ce n'è una che
vale per cento: l'idiosincrasia. Le declamazioni d'una liberale e
civile idiosincrasia. C'è chi ne va matto. Ma anche il
portar la nota è una perla. Ora si porta la nota amena in
un [284] banchetto, la nota patriottica in un'assemblea, la nota
trista in una conversazione. Di uno che ammazzò il rivale
in un ballo disse ieri l'altro un giornale: che vi portò la
nota tragica. La grazia di quella nota! E a proposito: tragedia,
un'altra parola che ha fortuna. Non ci son più delitti
volgari: son tutte tragedie e drammi. (Al Cronista): Ma questa
è una vostra industria letteraria per far comprare il
giornale.
CRON. - Manco a dirlo.
SCRITT. - L'hai detta finalmente! Mi maravigliavo che
non ti fosse ancora scappata. O dove l'avete scovato codesto manco
a dirlo odiosissimo che inciampiamo a ogni passo?
CRON. - O come vuoi ch'io lo sappia? Chi è
imbevuto di letteratura classica, non può dire da che
classico abbia preso questo o quel modo. Da Dante, forse.
SCRITT. - Avete preso da Dante anche la piattaforma
elettorale?
PROF. - In questo hai torto. Piattaforma è una
parola che mi piace: larga, solida, maestosa. Come superfetazione,
che mi piace anche di più, per la sua gentilezza. Quando
sento dire che un tal progetto di legge non è che una
superfetazione d'un altro, presentato da un altro Ministero, vado
in solluchero. Mi par così poetica l'immagine di quei due
feti!
SCRITT. - Ciascuno ha i suoi gusti. Io ho il gusto
degli aggettivi nuovi, semplici e partecipati, dei quali faccio
uno studio particolare. Ce n'è di deliziosi, come ora si
dice. Per esempio: sensazionale; schiacciante, riferito a un
argomento; toccante: un oratore toccante: mi par di vederlo suonar
la chitarra. E scollacciato, d'un romanzo! [285] L'immagine di
quel sostantivo mascolino col seno troppo scoperto, m'affascina. E
così macabro è uno dei miei amori. Si scopre il
cadavere d'una povera bimba strozzata: - scoperta macabra. -
Com'è a proposito l'immagine d'una danza, che desta
quell'aggettivo! E calza bene anche l'aggettivo drammatico che
accoppia all'idea d'un assassinio quella d'un'opera
d'immaginazione dilettevole! E imponente detto ad un modo d'una
signora d'alta statura e d'un grande incendio! E l'innocenza
completa, come un tranvai! E la commedia movimentata! E il partito
politico compatto, come il legno del sorbo! Elettori, andate alle
urne compatti!
AVV. - Camminerebbero un po' impacciati.
SCRITT. - Dovresti dire marcerebbero. Marciano anche
gli avvenimenti. Più curiosa è la voga che hanno
preso cert'altri aggettivi in un nuovo significato, come
grandioso, che è dei più abusati. In questi giorni,
per esempio, in un manifesto d'un'associazione è chiamato
grandioso l'avvenimento dell'andata del re d'Italia a Parigi, e
hanno creduto di dire, non qualche cosa di meno, ma di più
che grande; perché grande, oramai, è un aggettivo
scaduto. Ora non basta più dire che un attore è
grande in una data parte: si dice che è immenso. Anche
famoso si dice a tutto pasto. Una buona salsa? Famosa. Un potente
schiaffo? Famoso. Una sbornia maiuscola? Famosa. Questo vino, per
esempio, è bonino; ma non così famoso come a voi
pare.
PROF. - E superbo? E magnifico? E splendido?
AVV. - Un magnifico paio di scarpe....
CRON. - Che calzano magnificamente.
SCRITT. - Anzi, divinamente! Ma splendido è
[286] l'aggettivo re del tempo che corre. Splendido un par di
calzoni, un viale, un artista, un programma politico, un risotto.
È diventato un aggettivo irresistibile. Sapete che il
Guerrini, per combatterne l'abuso, tenne una volta una conferenza
satirica a un uditorio d'amici? Tutti ne furono persuasi; ma
quando egli ebbe finito, e domandò un giudizio sul suo
discorso, risposero tutti a una voce: - Splendido! - Non
c'è forza che valga più a sradicarlo. Come fanatico.
Che c'entra la superstizione religiosa? Ora si è fanatici
di tutto quello che piace: d'una grande idea umanitaria come d'un
bel servizio da tavola, della Divina Commedia come delle triglie
alla livornese.
AVV. - Ben detto, ben definito, come dice
Azzeccagarbugli.
PROF. - Stupendamente bene!
CRON. - Hai il nostro plauso.
SCRITT. - Non mi basta. Voglio un'ovazione. Oggi si
fa a tutti e per ogni cosa. Ma non ho finito. Il discorso che ho
fatto sugli aggettivi non è esauriente. Quello che è
più strano nell'uso invadente, a mio parere, è
l'accompagnamento degli aggettivi coi sostantivi, nel quale non si
riconosce più alcuna legge né di convenienza
né di logica, mettendo fra gli uni e gli altri dei legami
forzati, repugnanti al buon gusto e al buon senso. Basterà
che vi citi un esempio per suggerirvene altri cento. Possiamo fare
una gara.
CRON. - Si dice record.
SCRITT. - Fu un lapsus, perdonami. Un pregiudizio
riguardo a una quistione d'ordinamento delle strade ferrate si
chiama pregiudizio ferroviario. Non lo vedete correre sulle
rotaie?
AVV. - Lo vedo. Animo. La gara è aperta. I
[287] disinganni dei proprietari nel raccolto dell'uva: -
delusioni vinicole.
PROF. - Ansietà agrarie.
CRON. - Ravvedimenti costituzionali.
AVV. - Un monumento operaio! Quello eretto dagli
operai cattolici a Leone XIII. Questa è delle meglio, mi
pare.
SCRITT. - Fermi là! Vinco la gara io. Vi
porterò il documento in prova. Il titolo d'un articolo sui
miliardai americani che vanno in automobile. Indovinate! Cedo il
premio a chi indovina.
CRON. - Tempo perso. Favella.
SCRITT. - Motorismo miliardario!
AVV. - Splendido.
PROF. - Grandioso.
CRON. - Famoso. L'ho scritto io!
SCRITT. - Allora il premio è tuo. Tu sei
immenso. La gara è chiusa.
AVV. - Se ne può aprire un'altra.
SCRITT. - Immediatamente. Quella delle locuzioni
frequentissime, delle quali dovrebbe bastar la ragione, il
semplice buon senso a far avvertire l'erroneità e il
ridicolo, perché contengono una contraddizione di termini
manifesta, o di idee, che non possono stare insieme. Il tipo di
queste locuzioni è la famosa sentenza del Prudhomme: - Il
carro dello Stato naviga sopra un vulcano. - Come si fa a dire che
una data Amministrazione o un Istituto è una baracca che
cammina male? Che il tal ministro ha esorbitato dalla linea retta?
Un'orbita rettilinea! E suscitare un'impressione, che è
come dire: sollevare una cosa in giù? Ed è scoppiato
un attrito? Avanti, signori!
AVV. - Vediamo. Abbracciare una carriera.
[288]
SCRITT. - È un bell'amplesso!
PROF. - Farsi una posizione.
AVV. - È un bel fare. Ve ne dico una della
nostra fabbrica. Gli elementi che vanno in esilio. "Da questo
scritto, considerato a mente serena, esulano gli elementi della
minaccia e dell'ingiuria."
SCRITT. - Buona; ma non di prim'ordine. È
meglio, e si sente ogni momento: - M'è accaduto un
aneddoto.
PROF. - Come chi dicesse: m'è accaduto un
racconto. Ma val di più questa: - Una voce amica che addita
la via del dovere. - Una voce con le dita. Trovami l'uguale.
AVV. - Non è possibile che si possa trovare,
lo riconosco.
SCRITT. - Bella anche questa, e comunissima; ma non
è premiabile. Ci avrei un esempio del verbo trattare, in
vece del semplice essere, arcifrequente. L'ho letto in una cronaca
di giornale (al cronista) non tua. A un tale par di vedere un uomo
travolto dalle acque d'un fiume; si butta giù per salvarlo;
ma riconoscendo che si trattava d'un cane....
CRON. - Ti darei quasi la palma.
PROF. - La palma è mia. Ve ne do una
freschissima. - Con quest'atto il Governo ha ribadito la corrente
della sfiducia pubblica....
AVV. e SCRITT. - La gara è chiusa!
SCRITT. - Sì! Ribadire una corrente è
senza dubbio la più maravigliosa di tutte.
CRON. - Un momento. Ammettetene ancor una al
concorso. Son sicuro di vincere. Attenti bene. Il teatro era
completamente vuoto!
GLI ALTRI TRE INSIEME, con una risata: - Tombola!
[289]
SCRITT. - Facciamo un brindisi al vincitore!
CRON. - Voi mi emozionate. Fate troppo onore a una
quantità trascurabile come son io. (Allo scrittore): Ma,
barbaro, non si dice: facciamo un brindisi; si dice brindiamo. E
poi...
GLI ALTRI TRE. - E poi?
CRON. - perché bere alla mia salute? È
superfluo. Io sto magnificamente. Beviamo invece alla salute della
lingua italiana, che, poveretta, per colpa un po' di tutti, sta
male assai.
GLI ALTRI TRE. - Evviva!
CRON. - Non si grida più evviva. Si grida: -
Hoch! - È più di moda, e poi.... non è
italiano.
TUTTI INSIEME, alzando i bicchieri: - Hoch! Hoch!
Hoch!
UN CAMERIERE (tra sè, passando nel corridoio:)
- Che siano artisti del Circo equestre?
[290]
CONTRO I LUOGHI COMUNI
(APPENDICE AL DIALOGO).
Caro amico,
Ieri sera, dopo il nostro desinare cruscaio, mi
parlasti d'un libro che stai ponzando intorno allo studio della
lingua. Non ne ricordo gran che, perdonami, perché avevo un
po' di Chianti nel capo; ma ti suggerisco una buona idea, che mi
venne in mente dopo averti dato la buona notte: a me le idee
migliori vengono quasi sempre in ritardo di qualche minuto;
ciò che è una gran disgrazia per un avvocato.
Dovresti scrivere un capitolo feroce, come direbbe
l'Alfieri, contro i luoghi comuni. Che vuoi? In materia di lingua
io sono un mezzo barbaro: parlo male, non scrivo meglio di come
parlo, e quanto a materiale linguistico appartengo alla classe dei
meno abbienti, come si diceva ieri sera. Ma odio i luoghi comuni.
Di questo stupirai. Ma non dovresti stupire. C'è dei poveri
diavoli che hanno per istinto gusti e tendenze di [291] gran
signori. Tu hai capito ch'io intendo parlare di quel gran numero
di vocaboli e traslati triti e di frasi fatte, che ricorrono
continuamente nei giornali, nelle conversazioni, nei discorsi
parlamentari, necrologici, inaugurali e convivali, e anche nelle
lettere private dei nostri concittadini. Ebbene, queste parole e
frasi mi son venute in ira a tal punto che ogni volta che me ne
cade una sotto gli occhi o m'arriva all'orecchio, mi dà il
senso come d'una botta nel gomito o d'un urtone nel petto.
È irragionevole; ma preferisco a un luogo comune uno
sproposito, e quasi quasi un'impertinenza. Dipende dai nervi, mio
caro.
Sì, tutte queste maniere viete che tutti
usano, anche nel linguaggio famigliare (per iscansare altre
maniere più semplici, le quali paion volgari perché
son semplici), come tributare elogi, rendere omaggio, prodigar
carezze, largire favori, esser largo di cure, dar lustro al paese
e a sè stesso, dare ospitalità a un articolo, render
sentite azioni di grazie (questa mi fa fremere), poggiare a
un'altezza (ci s'aggiunge spesso, per vezzo, non comune); e tutte
quell'altre perifrasi muffite, come l'elemento divoratore, per il
fuoco, e la malattia che non perdona, per la tisi, e il lenocinio
della forma, e le veneri dello stile, e l'aureola della pubblica
stima, e la carità del loco natìo, e le nubi che
offuscano ogni specie d'orizzonti metaforici, e i guiderdoni e gli
usberghi e i Palladii e i fior fiore della cittadinanza, son
diventati l'afflizione della mia vita. Ma come mai chi le
rimastica non ci sente il rancidume che ammorba la bocca e vince
lo stomaco? È una smania universale di fuggir la parola
ovvia come un malanno. Vedi se c'è uno [292] su cento dei
necrologisti quotidiani che si contenti di dire che un galantuomo
è morto! Ha esalato l'ultimo respiro, ha reso l'anima,
è uscito di vita, è mancato ai vivi, ha cessato di
vivere, ha chiuso gli occhi, si è estinto, si è
spento; ma non è morto. La stessa parola morte, così
solenne, e che al nostro cuore par che suoni sempre per la prima
volta, è giudicata ignobile: si dice dipartita, decesso, la
fine. Confessato e comunicato è troppo comune: si dice
munito dei conforti religiosi. Bella quella munizione di conforti!
E quando si metterà a riposo quella decrepita Parca col suo
putrefatto inesorabile? E quando si finirà di profondere la
larga eredità d'affetti? Ah, chi l'ha detta per il primo si
può ben vantare di non aver seminato nella sabbia! E
quell'insopportabile intelletto d'amore, di cui si fa toppe da
scarpe, tanto da scrivere che è fatto con intelletto
d'amore anche un quadro statistico dell'esportazione dei formaggi?
E quella inevitabile traccia onorata di sè, che si lascia
dietro ogni scalzacane? E quella misteriosa eloquenza di cui Tizio
soltanto possiede il segreto, come d'uno specifico farmaceutico? E
quella maledetta ostinazione a non voler mai dire che una riunione
fu allegra, cordiale, triste, per mettere invece lo scettro in
mano all'allegria, alla cordialità, alla tristezza, e farla
regnare? E quell'eterna banda musicale che rallegra tutti i
banchetti coi lieti concenti? E quel sempiterno brillare per la
loro assenza delle Autorità e degl'invitati che mancano? Il
contagio di queste affettazioni obbligatorie, e dei vezzi latini
in ispecie, è penetrato fin dove la luce del gas non
è giunta ancora. Vedi nelle corrispondenze [293] mandate ai
giornali fin dai più piccoli villaggi. I matrimoni, i
funerali, le rappresentazioni teatrali, le deliberazioni del
municipio (espressioni troppo comuni) sono annunziate come
nuptialia, funeralia, theatralia, municipalia: che spocchia! Dire:
nel consiglio comunale? Miserie! In seno al consiglio. Il
più vecchio dei Consiglieri, o di qualunque adunanza,
è sempre il Nestore: il paese è pieno di Nestori. E
quando si seppellisce un cristiano, gli si augura leggiera la
terra: una leggerezza diventata più pesante del monolito di
Pianezza. E a proposito di villaggi, non immagini la stizza che mi
fa quel popolo Ebreo esulante dall'Egitto, tirato sempre in ballo
nell'autunno per dire che i villeggianti se ne vanno: l'esodo dei
villeggianti! Non c'è che un'altra eleganza che mi dia ai
nervi a egual punto, ed è il senza por tempo in mezzo o in
men che non si dica, o con la rapidità del fulmine, che
intoppo a ogni passo. Ma che Dio vi benedica con una pertica, se
volete dire che un tale ha fatto una cosa in un lampo, imitatelo,
ditela alla più lesta possibile, per rendere la
rapidità dell'azione, con una sola parola, e non con una
filastrocca. Ma no, c'è un altro luogo comune che detesto
più di quanti n'ho citati, ed è la moglie di Cesare
che non dev'essere sospettata. Chi ci libererà una volta da
questa signora, Dei superiori! E siamo anche a questa, in fine:
che non si possa più dire nei giornali, né in
Parlamento, né dove diamine tu voglia, che c'è del
marcio in una banca, in un ministero, in una classe sociale, o
anche in una cesta di cavoli, senza tirarvi per i capelli Amleto e
la Danimarca? Io c'inverdisco, parola d'onore.
[294]
Flagella dunque gagliardamente i luoghi comuni. Per
me sono uno dei primi segni che servono a distinguere gli
scrittori veri dagli scrittori di dozzina. Io che, non per finezza
d'educazione letteraria, ma per istinto, ne sento il puzzo un
miglio lontano, non ne trovai uno solo nel Manzoni, nel Leopardi,
nel Carducci, in nessuno dei grandi maestri. Mostrali ai ragazzi
studiosi per quello che sono: germi d'infezione; perché,
non badandovi, essi s'avvezzano a usarli, e se ne fanno una
provvista, e questa, ingrossando a poco a poco, finisce con
soffocare in loro il sentimento della semplicità, e anche,
se l'hanno, la dote rara dell'originalità della forma.
Flagella senza misericordia. Ti parrò troppo inviperito. Ma
è perché, pure abbominando il luogo comune, di tanto
in tanto, alla sbarra, me ne lascio scappare qualcuno; non serve
ch'io stia in guardia; è come un influsso dell'aria, al
quale è forza ch'io soggiaccia. Ah, vedi che ci son
cascato! È forza ch'io soggiaccia! Disgraziato! Me ne
vergogno, mi schiaffeggio, e ti saluto.
IL TUO AVVOCATO.
[295]
"GLI ARDIRI".
Confessioni d'uno scrittore pusillanime a uno senza
paura.
Il dialogo segue in casa del primo, di nome Leone,
che sta seduto allo scrittoio, coperto di fogli. L'altro,
Rompicollo di pseudonimo, gli siede di faccia. Età dei due
personaggi: vicini al pendìo dove l'età precipita.
LEONE (che ha finito di leggere un manoscritto). -
Che te ne pare? Sii sincero.
ROMPICOLLO. - Sincerissimo. La narrazione è
ordinata, lucida, scritta bene come tutto quello che tu scrivi. Ma
c'è il difetto che è in tutti i tuoi scritti. Ci
manca una bella qualità, una sola.
L. - Tira il colpo.
R. - Mettiti in guardia. Si può riferire a te
il giudizio che diede un editore illustre sul modo di scrivere
d'un romanziere che tu conosci: - Scrive da maestro; ma.... non
c'è caso di vedergli una volta la cravatta per traverso.
L. - Spiègati meglio.
R. - Per spiegarmi meglio, bisogna che te la faccia
un po' lunga.
[296]
L. - Purchè tu la faccia di corsa.
R. - Mi rifaccio a ottant'anni addietro, quando
già un grande maestro osservava che negli scrittori del suo
tempo la lingua italiana s'andava geometrizzando, riducendo al
linguaggio magro e asciutto della ragione e delle scienze che si
chiamano esatte, con grave pericolo di cadere nella
timidità, povertà, impotenza, regolarità
eccessiva, ch'egli rimproverava alla lingua francese
dell'età sua. Egli voleva dire che s'andava perdendo l'uso
di quella libertà, di quei tanti idiotismi e
irregolarità felicissime, di quelle tante licenze, o
ardiri, per servirmi d'una sua parola, nei quali consistevano
principalmente "la facilità, la varietà, la
volubilità, la pieghevolezza, la forza insomma e la
bellezza, il genio e il gusto della lingua italiana." Gli ardiri,
capisci! Li definisce bene anche il Padre Cesari dove dice che i
nostri antichi scrittori non procedevano sempre a passi di stretto
costrutto grammaticale, che alcune cose, scrivendo, lasciavano da
mettercele i leggitori, che prendevano spesso un giro o legamento
che usciva dal comune, che s'allargavano fuori della via trita,
tenendo l'occhio più alla sentenza che alla costruzione
delle parole. C'erano insomma nella loro lingua (tanto lontana per
questo dal cader nell'arido e nel matematico) scorci, ellissi,
annodature e snodature, travolgimenti di costrutto, ogni specie
d'idiotismi efficaci e di belle licenze, che le davano una
naturalezza e un vigore ammirabile; c'era una franchezza, un far
da padroni, un coraggio....
L. - Che io non ho.
R. - Hai voluto la sincerità. La maggior parte
di quelle licenze o ardiri, consacrati dall'uso dei [297]
classici, d'errori che erano a rigor di grammatica, son diventati
bellezze. Vezzi e grazie, dice il Cesari. Ma sono anche concisione
e forza. Ebbene, tu non te ne servi mai. Ma non tu solo:
pochissimi se ne servono, e con parsimonia paurosa, anche fra gli
scrittori toscani. Scriviamo tutti col compasso e con le seste. E
scrivendo così, disconosciamo, offendiamo la natura della
nostra lingua. Tu m'intendi. Le lingue, ha detto un grande
scrittore francese, sono somiglianti ad antiche foreste, dove le
parole e le frasi vennero su come vollero o come poterono. Ce
n'è di bizzarre e anche di mostruose; ma formano
tutt'insieme, riunite nel discorso, armonie bellissime; ed
è da barbari e da insensati il potarle come i tigli dei
passeggi pubblici. La lingua, aggiunge lo stesso scrittore, esce
da un fondo popolare: è piena d'ignoranze, d'errori, di
capricci, e le sue più grandi bellezze sono ingenue....
perché mi fai quel risolino ironico?
L. (buttando il manoscritto con dispetto). -
perché t'affanni a sfondare una porta aperta, figliuol mio.
(Balzando in piedi). Ah, tu non sai che tasto ingrato mi tocchi!
Ma io sono più persuaso di te della verità di quanto
mi dici. Ma io sento e riconosco meglio di te quello che mi manca,
e questo appunto è il tormento della mia vita. Ma delle
belle licenze, dei solecismi efficaci, degli ardimenti felici, che
tu mi decanti, io ho fatto nei nostri scrittori uno studio amoroso
e paziente come nessuno l'ha fatto mai, e te lo posso far toccare
con mano...
R. - E allora... perché non ti si vede mai la
cravatta per traverso?
L. (lasciandosi ricader sulla seggiola e con [298]
accento sconsolato). - perché sono un vigliacco.
R. (ridendo). - Eh via, amico; non ti calunniare.
L. (con un movimento impetuoso apre un cassetto, e ne
tira fuori e sbatte sul tavolino un grosso scartafaccio). - Vedi
se ti dico la verità. Qui ci sono esempi cavati da
scrittori di tutti i secoli, dai trecentisti ai contemporanei, dal
Villani al Machiavelli, dal Machiavelli al Bartoli, dal Bartoli a
Gino Capponi... Guarda, sfoglia; questa è la prova della
mia vigliaccheria.
R. - Ma è una raccolta preziosa. Io non ho mai
pensato a farla. Te l'invidio. Tu me la devi far leggere.
L. - E vedi se l'ho fatta con amore. Ho diviso e
ordinato gli esempi: esempi dell'uso di certe preposizioni, di
certi pronomi, di certi avverbi, di certi costrutti. Ah, tu
credevi ch'io fossi compassato e geometrico per non sapere come si
violano bellamente le buone regole! Ma io sento la bellezza delle
licenze classiche quant'altri mai al mondo, e n'ho a mia
disposizione un magazzino. Solo ch'esse ci stanno come le monete
d'oro nella cassa forte d'un avaro fradicio. Io non le spendo per
vigliaccheria. Vedi qui, soltanto intorno all'uso del che, quante
n'ho ammucchiate...
R. - Leggi, te ne prego. Sono curiosissimo.
L. - Quel che, che è la mia tortura e la mia
vergogna! Ti voglio svelare tutta la mia dappocaggine. Vedi qui il
Villani: - Una cosa ebbero i rettori di quello (del popolo di
Firenze), CHE furono molto leali e diritti a comune. - Vuoi
credere ch'io non sarei da tanto d'usare il che in quella maniera,
che mi parrebbe temerario? [299] Che ne dici? E quest'altro
esempio del Sacchetti: - E pone questa sua pultiglia a mensa, CHE
non è porco in terra di Roma che n'avesse mangiato. - E
neanche quest'altro che io m'arrischierei ad usare. - Udite le mie
parole, e non le abbiate a schifo per la nostra etade, CHE siamo
giovani. - E anche questo che, che sta lì a maraviglia, mo
lo rimangerei. - E uscì di Parigi, e cavalcò tante
giornate ch'egli giunse a Narbona, CHE sono cento venti leghe. - E
io, cane, scriverei: - che è distante da Parigi cento venti
leghe. - E campò da quel morbo, CHE non ne campò uno
sul centinaio. - E vorrei che fosse qualche uccello nuovo, CHE non
se ne trovano molti per l'altre genti, come sono fanelli e
calderelle. - Come scriverei io, per non usar quei due che, non ho
la faccia di dirtelo. Questo del Machiavelli: - perché dai
Tarquini ai Gracchi, CHE furono più di trecent'anni. - Io
avrei scritto un orrore: - fra i quali e i primi corsero
più di trecent'anni -, o forse peggio. - Mi pasco di quel
cibo che solum è mio, e CHE io nacqui per lui. - Un
anacoluto bellissimo, non è vero? E io non lo scriverei
neppure sotto il bastone. E vado innanzi, senza citar gli autori:
- Diedegli un colpo in su l'elmo, CHE tutto il grifone d'ariento
andò per terra. - Io ci avrei premesso un tale o un
così forte, per salvar l'onore. - Un teatro CHE non ci
toccava d'entrarvi che cinque o sei volte in tutto il carnevale...
- Cosa CHE me ne dispiace anche adesso. - Per bisogno di danari
arrandellò quella villa, CHE avrebbe potuto pigliarci il
doppio. - Epopea e storia sono due termini CHE l'uno ammazza
l'altro. - Il magnanimo fa le grandi cose con l'agevolezza CHE il
comune degli uomini fa le cose [300] comuni... Io, vile, avrei
usato in quest'ultimo caso un vile con la quale, e commesso altre
piccole viltà compagne nei casi precedenti...
R. - O perché mai, se di quei modi senti
l'efficacia, e sai che sono legittimati dagli scrittori?
L. - Te lo dirò poi. Senti sull'uso
dell'avverbio dove, che è un'altra mia afflizione,
perché lo saprei usar bene, e vi sostituisco ogni specie di
locuzioni odiose. - Con questi m'ingaglioffo... - Hai già
ricosciuto messer Niccolò, non è vero? - Con questi
m'ingaglioffo per tutto il dì, giuocando a cricca, a
trictrac, DOVE nascono mille contese. - In questo caso è
DOVE si riconosce la virtù dell'edificatore. - In queste
cose bisogna esser cauto, ma DOVE ne va 'l capo, cautissimo. -
Vollero farli malgrado loro santi, DOVE non era poco che fossero
cristiani. - Accanto a DOVE ora è San Francesco di Paola. -
Si fecero molte ricerche a Meda, DI DOV'era la conversa. - Io
sarei capace di scrivere: - che era il paese nativo della
conversa. - Non uno dei dove citati avrei l'animo d'usare in
quella maniera. Che te ne pare? Andiamo innanzi. Ti secco?
R. - Ma no; sèguita, che mi ci godo.
L. - Sull'uso della preposizione da. Vedrai se io so
a quante belle locuzioni abbreviative e svelte si può far
servire. - Fin DA abatonzolo (da quando era abatonzolo) il fatto
suo era uno spasso. - Quello non è luogo DA andarvi di
notte. - La passione il fe' dare in falli DA non inciamparvi altro
che un cieco. - Gli dia un tema tale che i due vocaboli cadano DA
dover adoperare. - Le son cose queste DA farle e DA lodarle le
donne della santa nazione; ma noi... - Il [301] penultimo esempio
è del Tommaseo, l'ultimo del Carducci. Io farei il viso
rosso, vedi, se dovessi dirti il giro ignobile di parole che avrei
fatto per esprimere l'uno e l'altro pensiero!
R. - Ma perche, in nome di Dio?
L. - E riguardo all'uso del se, senti che ellissi
efficaci, che scorci d'espressione io rifiuto per codardìa.
- Brancolando con le mani, SE a cosa nessuna si potesse
appigliare. - Il desiderio che questi signori Medici mi
cominciassero adoperare, SE (quand'anche) dovessero cominciare a
farmi voltolare un sasso. - Erano saliti sui tetti, SE di
là potessero veder la cassa, il corteggio, qualche cosa. -
Sei persuaso che non mi mancherebbe l'arte, se non mi mancasse il
fegato?
R. - Ma dunque!
L. - Ma aspetta. Io ti voglio ben persuadere che so,
e che soltanto per poltroneria, non per ignoranza, scrivo come un
tanghero. Mi voglio schiaffeggiar con le mie mani quanto merito.
Passo all'uso dell'infinito. Ecco del Sacchetti: - Il lupo entrava
domesticamente nelle case, senza far male a persona, e senza
ESSERNE fatto a lui. - O nobile duca, dov'è la tua saviezza
A SEDERE dove tu non dèi per dignità di re? - Tu
devi essere un ladroncello A ENTRARE per le case altrui. - E se
alcuno dicesse (è Niccolò da capo) -: i modi erano
straordinari, e quasi efferati: VEDERE il popolo insieme gridare
contro il Senato, il Senato contro il popolo, CORRERE
tumultuosamente per le strade, PARTIRSI tutta la plebe da Roma
ecc., dico come ogni città... - Com'è detto bene! E
io non direi così per un biglietto da mille. - Venendo alla
seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiungendosi alla
seconda, [302] e VOLERE far presto e non POTERE, (bellissimo!) lo
costrinse a far sì, che la parte di sotto si fe' sentire. -
Ed ecco il saluto che meriterebbero da chi legge gli scrittori
poltroni del mio stampo.
R. - Ma le ragioni della poltroneria!
L. - E quelle proposizioni incidenti, interpolate fra
gli elementi d'un'altra, quasi indipendenti, e per così dir
sospese nel periodo, che imitano così bene il linguaggio
parlato, e dànno al discorso un andamento così
disinvolto e spigliato, un così bel colore di
naturalezza....
R. - Giusto; qui t'aspettavo: sono la mia
predilezione. Vediamo se n'hai qualcuna della mia raccolta.
L. - Ce n'ho un cassone. - Per mia fè, che CHI
MI DONASSE L'ORO DEL MONDO, non t'offenderei. - Come pienamente si
legge per Lucano poeta, CHI LE STORIE VORRÀ CERCARE. - Il
Chiodo è un chirurgo che, CHI LO PAGA BENE, tien segreti
gli ammalati. - E se tira vento, t'acceca, poiché non
può stare se non intinge ogni momento le cinque dita in una
gran tabacchiera, E SU SU, E QUEL CHE NON C'ENTRA SEMINA, movendo
i polpastrelli aggruppati.
R. - È detto con un garbo ammirabile. E tu non
useresti nemmeno codeste forme di sintassi, che tutti usano?
L. - No, ch'io sia dannato! Nemmen queste. E tutti
quegli altri modi semplici e ingenui, tolti dal linguaggio
famigliare, di legare un pensiero ad un altro, e d'accozzar l'uno
all'altro senza legame, che sono una bellezza! Per esempio: - Il
quale manifesta agli uomini certe cose che non sanno, ED EGLI LE
SA. - Questi piani, che sono in mezzo di queste montagne, sono
spazzati e [303] puliti come la palma della mano, E TUTTO QUESTO
FA IL VENTO. - Venendo San Francesco a Santa Maria degli Angeli
con frate Leone a tempo di verno, E IL FREDDO GRANDISSIMO
FORTEMENTE IL CRUCCIAVA.... E il grande verso di Dante:
Vedi che non rincresce a me, E ARDO.
Sostituiamo all'e un che, come avrei fatto io,
vigliacco, e facciamo un verso mediocre e floscio d'un verso che
fa fremere: non è vero? Ah, tu credevi ch'io scrivessi come
scrivo per ignoranza! Per esempio, ci ho un tesoro di modi
ellittici preziosi, che tengo a muffire. - Ora perché si
sappia come morì, UDII DIRE a mio padre che gli venne
voglia d'andare alla stufa.... - Com'è garbata l'omissione
del dirò che, ch'io mi sarei ben guardato dall'omettere! -
E avendo dato a questo suo figliuolo certe carte, E CHE ANDASSE
INNANZI CON ESSE, e aspettasselo da lato della badìa di
Firenze.... - Disse: i nemici esser oltre numero molti: quaranta
che essi erano, non far corpo da sostener contro a tanti, E I
PAESANI DA NON FIDARSENE IN TALE ESTREMO. - Per dir questo io
avrei fabbricato un periodaccio doppio. - Confortate la donna E
ELLA VOI. - Io c'avrei rificcato un conforti. Io rispetto
bassamente tutte le concordanze, io bacio la terra purchè
sia sempre in perfetta corrispondenza il soggetto col verbo, e
rovini il mondo! Vedi, per me è una bellezza la frase: - In
questo, I SIGNORI CHI ANDAVA IN QUA E IN LÀ, E CHI
'NSÙ E CHI 'NGIÙ, e il restante, chi si nascose in
un luogo, chi in un altro; - e quest'altra: - dubbiosi, mutoli,
attratti, ciechi ed OGNI ALTRA INFERMITÀ VENNERO dal re -;
ma (scrollando il [304] capo, con un sorriso ironico) mi farei
levar la pelle prima di metter sulla carta quelle bellezze. So
bene che "una parte della Grammatica è costituita dalla
somma degl'idiotismi d'una lingua, diventati un fatto", so che "la
scienza della lingua consiste nel sapere e l'arte dello scrivere
nell'adoperare quelle variazioni idiomatiche" che sono
innumerevoli, e tutte opportunamente usabili, anche quelle di cui
non c'è esempio negli scrittori; so tutto questo.... e
scrivo come scrivo!
R: - Ma me lo dici una volta di che, di chi, per che
ragione hai paura!
L. (scoppiando). - Ho paura dell'ignoranza del
maggior numero, ho paura della pedanteria degli asini, ho paura di
Giuseppe Prudhomme! Ecco di che ho paura.
R. - Di Giuseppe Prudhomme? Ah, capisco finalmente!
L. - Sì. Tu conosci il Prudhomme, quel
personaggio maraviglioso in cui Enrico Monnier ha rappresentato la
scioccheria, l'ignoranza saccente, la meschinità e la
pecoraggine intellettuale, inconsapevole e presuntuosa di una
grande famiglia d'esseri, non soltanto della sua Francia, ma
d'ogni paese del mondo. Ebbene, io, nello scrivere, ho paura del
Prudhomme italiano, e della signora Prudhomme, e dei suoi
figliuoli e delle sue figliuole, e di tutti i suoi congiunti ed
amici, e di tutti coloro che poco o molto rassomigliano a lui.
Quando sto per mettere sul foglio uno di quei tanti modi che
abbiamo visti, e degli altri moltissimi, che ho notati, mi si leva
davanti tutta quella gente, li vedo col mio libro o col mio
articolo fra le mani, e li sento esclamare: - Oh che ciuco! Ma che
italiano è [305] questo? Ma costui non sa la grammatica! -
perché tutte quelle licenze e arditezze che per te e per me
sono bellezza e forza della lingua, per il Prudhomme e per i suoi
simili sono offese alla grammatica, alla logica, al senso comune;
poiché Prudhomme, liberale in politica, è in
letteratura un tiranno superbo e stupido, che sputa
sull'idiotismo, e calpesta ogni libertà di parola. È
il suo fantasma che mi fa geometrizzare la lingua: io faccio
l'asino per paura degli asini. Sono di coloro, di cui dice il
Carducci che, per scrivere, si mettono i guanti, per parer
gentiluomini ai borghesucci. Se non che egli parla di chi ha le
mani grosse e nocchiute, piene di porri, di verruche e di
schianze, che i guanti non bastano a mascherare. Ed io no: io
avrei una mano ben fatta, leggera, una mano da signore; e sono i
guanti che me la sformano: i grossi guanti grammaticali, tutti
sgonfi e grinze e frinzelli. E dire che m'inguanto per il
Prudhomme! Che abbominio!
R. - Eh via, tu esageri. Il Prudhomme è una
testa piccola; ma non un cretino addirittura. Mi pare che tu lo
calunni per iscusarti.
L. - E tu lo difendi per farmi coraggio, capisco. Ma
fors'anche non lo conosci quanto me. Io non lo conosco soltanto
per i giudizi suoi che mondo ripete; ma anche per esperimento
diretto che feci di lui in varie occasioni. Ecco qua un foglio col
quale lo misi alla prova. Son tutti periodi, frasi di scrittori
magistrali, che sottoposi al suo giudizio, dandoglieli per roba di
sconosciuti; di quei costrutti, frequentissimi negli scrittori
classici, dei quali noi ammiriamo la naturalezza e l'efficacia. -
E tutte quelle cose delle quali non è ragione naturale
perché così debba [306] essere o intervenire, non si
debbono osservare né credere. - Ma che pasticcio è
questo? - domandò il Prudhomrne. - Costui non deve aver
fatto le elementari! - Questo Castruccio, guerreggiando, e dando
assai che fare ai Francesi, fra le altre nobili cose che fece fu
questa. - Oh che bella sintassi! - esclamò il Prudhomme.-
Rilegga un po', tanto per ridere. - perché il Prudhomme, lo
devi sapere, va in estasi davanti alle inversioni latine
più forzate e contorte, che gli paiono eleganze
aristocratiche; ma a quelle naturali e necessarie alla lingua
viva, che sono, come dice un filologo, una parte di stile
diventato lingua, arriccia il naso come a volgarità di
scrittori incolti. E senti quest'altre, che sono anche più
amene. - Io so che la cagione che tanta moltitudine è qui,
è solo per udire quello che più volte v'ho detto. -
A questa il Prudhomme fece una risata. - Non c'è materia da
farne proverbio, i quali generalmente si fondano sulla ragione e
sull'esperienza. - Proverbio, i quali - disse -; e chi è
questo pazzo? - Era scritto che egli portato su dai tumulti di
Livorno, un tumulto di Livornesi dovesse farlo precipitare. -
Commento: - Che egli.... lo dovesse.... Una grammatica da serve. -
I dodici capitani del Cairo è come se tu dicessi i dodici
capitani di guerra. - I dodici capitani è.... E chi
è quest'asino? - È Daniello Bartoli, - risposi.
R. - Codesta è incredibile.
L. - Ma vera. Te ne cito ancor una, che sarà
l'ultima. Lessi a un Prudhomme questa frase del Carducci: -
Leggendo sì fatte cose, chi conosce discretamente la
letteratura nazionale, la prima cosa che pensi è.... - Ma
questa - mi disse - [307] è una costruzione da scolaretto
di terza elementare. - Capisci: secondo lui, il periodo doveva
esser rovesciato!
R. (ridendo). - Andiamo, te lo confesso ora: avevi
ragione: non ho difeso il Prudhomme che per farti coraggio.
L. - A un vigliaccone par mio? Ma è fatica
sprecata, caro amico. E lascia ch'io finisca la mia confessione
perché voglio che tu mi disprezzi nella misura che mi
spetta. Tu non puoi immaginare fino a che segno io arrivi. Nel
racconto che t'ho letto, nel primo dialogo, avevo scritto: - Ma
bada, me, tu m'hai a risparmiare. - Vedi qua: ho cancellato il me.
- Avevo scritto: - Era un luogo destinato ad ammazzarvisi le
bestie. - Ho sostituito: - Dov'era destinato che s'ammazzassero le
bestie. - Un orrore. Qui, dov'era scritto: - Quel ragazzaccio non
gli si può dir nulla che si rivolta come un aspide -, ho
corretto: - A quel ragazzaccio non si può dir nulla.... -
Sì, ridi pure. Dove avevo detto: - Mi diede che
m'accompagnasse per la città il suo segretario - ... come
abbia corretto non oso dirtelo. E nota che per ciascuno di quei
modi ho i miei bravi esempi classici. Ah, faccio stomaco a me
stesso! A questa miseria son ridotto!
R. - Amico, sei gravemente malato, lo riconosco. Ma i
malati della tua malattia, consòlati, sono molti più
che non credi fra gli scrittori. La conclusione è questa:
che hai bisogno d'una cura rigorosa.
L. - Eh, tu puoi celiare, tu che sei intrepido.
Leggendo le cose tue, non sai come t'invidio!
R. - E dunque segui la mia via, che è assai
[308] più comodo che continuar per la tua. Io ero come te,
un tempo. E guarii senza cura. Fu una parola di Gino Capponi il
mio toccasana. Ci sono certi motti di scrittori che operano di
questi miracoli. Egli dice in una lettera: - Io, quando piglio la
penna in mano, ho sempre la voglia di farmi bastonare. - Fu un
lampo per me. Dopo d'allora, ogni volta che pigliai la penna,
saltò addosso a me pure quella voglia, ma doppia: di
buscarne e di darne ad un tempo. L'immagine del Prudhomme
italiano, critico di lingua, che a te fa tanto spavento, a me
mette il diavolo in corpo. Io ci ho un gusto matto a provocarlo
con la penna, a irritarlo, a farlo strillare, e mentre me lo
immagino fuor della grazia di Dio, rido di lui, e batto più
forte. Dar delle urtonate al buon gusto del Prudhomme,
schiaffeggiare la sua pedanteria, sfondare a pugni e a calci la
sua grammatica tarlata, è per me una sodisfazione
indicibile. Pròvatici, e vedrai che piacere ci troverai tu
pure. Eccoti la cura della tua malattia: la lotta.
Rimbòccati le maniche, e picchia.
L. (guardandolo). - Ti ammiro. Io, invece,
rassomiglio a quel pittore che passava delle giornate davanti al
suo quadro, esclamando: - Ah, se osassi! Se osassi! - Ma a che
serve? Come dice don Abbondio, il coraggio uno non se lo
può dare. E sì che per darmelo ho tentato ogni
mezzo; perfino.... (dopo un momento d'esitazione) quello di bere
del cognac prima di mettermi a scrivere.
R. - E allora osavi?
L. - Sì, ma (vergognandosi) la mattina
dopo.... cancellavo.
[309]
R. - Ma oggi tu devi farla finita. Tu devi giurar
qui, in mia presenza, stendendo la mano sul tuo scartafaccio,
guerra implacabile al Prudhomme!
L. (scrollando il capo). - Sarebbe un giuramento di
marinaro. (A un tratto, tendendo il pugno). Ah, come l'odio!
R. - Chi odia teme. Fin che lo temerai, non lo
affronterai. Fa' il giuramento.
L. - Ebbene, andiamo: giuro.
R. - Guerra a morte?
L. (con viso truce, ma con accento fiacco). - A
morte.
R. (tra sè, guardandolo di sott'occhio). - Non
si batterà. Non c'è altro. Requiescat in pace.
[310]
L'ALTO LÀ DELLA GRAMMATICA.
Alto là, signorino.
Le ho da parlare.
Non mi guardi bieco. Non le ho gridato che per celia
l'alto là soldatesco. Non sono più la dura tiranna
che molti credono; non considero più come offese mortali
ogni rifiuto di cieco ossequio, ogni minima licenza o confidenza
che si prenda la gente con me. Essendomi persuasa che, come tutte
le cose di questo mondo, son destinata anch'io a mutare col tempo,
mi vengo piegando man mano a transigere coi diritti dell'uso, con
la ragione dell'armonia, con molte piccole convenienze dell'arte
che una volta disconoscevo. Ma non vorrei che per queste ragioni
ella si credesse lecito di buttarmi tra i ferravecchi, che sarebbe
anche un gran male per lei, com'è per tutti quelli che
gliene dànno l'esempio; e però voglio che
c'intendiamo bene, che ella sappia da me quanto posso concedere, e
quanto credo d'avere ancora il diritto di vietare. Dirà lei
che questo è il linguaggio d'una tiranna?
E veda, a provarle quanto sono arrendevole dovrebbe
bastare quel lei; col quale entro in [311] materia. Io volevo una
volta che nel caso retto s'usasse sempre egli, e ora lascio dire
lui e lei in tutti i casi in cui il significato della frase
s'appoggia sul pronome, che deve perciò far rilievo.
Quindi: - È lui che l'ha detto. - Lo saprà lui, io
non lo so. - S'impanca a filosofo, lui! - sta bene. Ma che bisogno
c'è di dire: - Me lo dice lui stesso? - Andai senza che lui
lo sapesse? - Mi valsi delle ragioni che lui addusse? - Questo non
è più uso giustificato; ma profusione
dell'idiotismo, inutile e ristucchevole. E così eglino ed
elleno son pronomi diventati arcaici, ridicoli nel parlar
famigliare e un po' pedanteschi anche nella prosa letteraria; ma
non vi si può sostituire essi ed esse, che sono pur sempre
dell'uso comune, invece di quello sfacciato loro, che molti
vogliono in ogni caso, forse non per altro che per vilipendermi? E
perché bandire questi, quegli e altri al nominativo
singolare, per sostituirvi questo, quello e un altro, sempre,
anche quando non sono richiesti dal carattere famigliare del
discorso? E perché usare a tutto pasto lei invece di ella,
quando ella è ancora vivo e comunissimo nell'uso dei
Toscani, i quali dicono l'uno o l'altro secondo che vuole
l'orecchio o il diverso grado di famigliarità che hanno con
la persona a cui si rivolgono? E consento che si dica e scriva gli
in luogo di loro e a loro, quando il loro dà impaccio, come
nell'esempio: - Vuoi dare del vino ai ragazzi? Non voglio
dargliene -, perché: - non voglio darne loro o loro darne -
sarebbe troppo duro all'orecchio; ma non che si dia lo sfratto a
loro come a una parola intollerabile per sè, e che si
scriva, ad esempio: - Fermò i suoi compagni [312] e gli
disse -, dove il gli è una sgrammaticatura gratuita,
più sgradevole a due doppi del loro. E non mi si dica che,
ragionevolmente, dovrei essere inflessibile, e aver per massima: -
O sempre o mai -, perché, ammettendo questo, io mi dovrei
disfare e rifare per metà: non dovrei permettere di dir
come me e come te; né glielo dissi riferito a femmina;
né consentire che s'usi il verbo nel plurale con un nome
collettivo singolare, come nell'esempio: - La gente vanno -;
né tollerare che si riferisca un verbo in singolare ad un
soggetto plurale, preceduto o no da un di partitivo, come nelle
frasi: - Non c'è cristi. - C'è dei birboni. - Malati
non ce n'era. - Può nascer di gran cose -; licenze che io
consento, come altre moltissime, perché per una parte io
sono costituita da leggi generali della ragione immutabili, e per
un'altra parte non sono che il codice degl'idiotismi della lingua;
onde ne vengo accettando sempre di nuovi, benchè adagio
adagio. Per continuare: chiudo gli occhi sul lo proaggettivo (per
esempio: "non fosti generoso, ma lo saresti stato") quando
sonerebbe troppo ingrato il tale, che i miei devotissimi usano, o
sarebbe uggiosa la ripetizione dell'aggettivo, o il non dir quello
né ripeter questo lascerebbe nella frase un vuoto anche
più sgradevole. Lascio passare, quando cadono opportuni,
tutti quei costrutti viziosi, come: - A me non me ne vien nulla; a
chi sa mostrare i denti gli si porta rispetto, ecc., - che sono
frequentissimi, e per ragion di suono quasi inevitabili nel
linguaggio parlato. Permetto il volgare cosa per che cosa, e il
costrutto toscano noi si fa, noi si dice, e il gli e il la
soggetti pleonastici ogni [313] volta che servano a riprodurre
fedelmente un discorso famigliare o di gente del popolo. Gabello,
infine, tutti gli anacoluti più arditi in tutti i casi in
cui per mezzo loro si scansa di dar alla frase una rigida forma
grammaticale che nuocerebbe alla chiarezza, alla naturalezza,
all'efficacia, e quando, come disse un maestro, s'usa l'anacoluto
per non mettere altrimenti in contraddizione un pensiero ingenuo,
immediato o semiserio con una maniera d'esprimerlo riflessa,
compassata o seria. Ma (e qui siamo al nodo) se do il dito, non
voglio che mi si pigli la mano, e poi il braccio, e poi tutta la
persona. Voglio che non s'usino se non gl'idiotismi necessari o
utili; che tra due locuzioni di eguale naturalezza ed evidenza,
una sgrammaticata e una corretta, si scelga sempre quella
corretta; che non si consideri, come molti fanno, ogni idiotismo
come una gemma per la sola ragione che è un idiotismo; che
non si creda ogni licenza ugualmente lecita così nella
riproduzione d'un dialogo famigliare come in un discorso
letterario, così nel far parlare un uomo del contado come
quando parla lo scrittore in persona propria; che all'antica
tirannia della Grammatica, non si sostituisca il dispotismo della
Sgrammaticatura, e all'ostentazione dell'eleganza la
sfacciataggine della volgarità; che non si calpesti ogni
legge del galateo linguistico, cascando nel linguaggio mercatino
per non cascare nel linguaggio accademico; che, infine,
perché s'è buttata via la parrucca e la cipria, non
si creda un dovere il mettersi anche in maniche di camicia e
l'andare attorno con la faccia sporca.
Ho detto, signorino.
[314]
QUELLO CHE SI PUÒ IMPARARE DAI TOSCANI.
Se t'accadrà, fin che sei giovane, di fare, un
soggiorno breve o lungo in Toscana, sarà per te una buona
fortuna, perché, volendo, imparerai là in un mese
dalla voce della gente più che in un anno altrove dallo
studio dei libri. Se questa fortuna non avrai, t'occorrerà
senza dubbio, nella tua o in altre città d'Italia, di
conoscere e di frequentare toscani. Ebbene, ti raccomando fin
d'ora d'ascoltarli sempre con gli orecchi bene aperti, e di
studiare attentamente il loro linguaggio, in special modo se
saranno fiorentini. Non soltanto molto materiale di lingua potrai
imparare da loro, essendo gran parte dell'uso fiorentino presente,
come tutti sanno, l'uso fiorentino antico, che diventò
lingua letteraria comune a tutta Italia; ma, quello che più
importa, la proprietà, la spontaneità, la prontezza
dell'espressione, che son quello che manca a noi principalmente.
perché corre fra noi e loro questa gran differenza, come
osservò giustamente un linguista illustre: che a noi,
parlando, per dire una data cosa, vengono quasi [315] sempre sulla
bocca due modi: il dialettale e uno o più modi italiani,
fra i quali dobbiamo scegliere; e a loro viene un modo solo,
quello che dice per l'appunto quella data cosa, quello che
è il più proprio, e che tutti i loro concittadini
usano in quello stesso caso; donde la facilità, la
sicurezza, la precisione del loro parlare, dove il nostro è
quasi sempre opera di stento e d'artifizio. Possono qualche volta
anche i toscani stentare e riuscire artifiziosi, quando hanno da
esprimere un pensiero nuovo o insolito o complesso, perché
in tal caso cercano essi pure, se non la parola, la frase, e il
modo di collegare le frasi; ma nel dire le infinite cose comuni,
che sono argomento quotidiano di discorso, tutti sono sempre
pronti, spontanei e semplici; non tentennano perché non
hanno dubbî; non sbagliano perché non possono
sbagliare. Fa' bene attenzione. Vedrai quanti modi piani e agili
hanno d'esprimere pensieri che noi esprimiamo di solito in forma
ricercata e pesante; in quanti casi fanno un salto con la frase
dove noi facciamo più passi; in quant'altri scansano con
una mossa snella e garbata l'intoppo che noi urtiamo, o arrivano
con la parola un tratto di là dal punto dove noi crediamo
che la sua potenza si arresti. E anche nel parlare di quelli che
non hanno cultura nessuna, osserverai certi modi di legar le
proposizioni, certe forme armoniche di sintassi, certe
abbreviature di frase efficacissime, che negli scrittori ti
parrebbero effetti di arte meditati, e sono pregi naturali del
loro linguaggio. E sentirai da loro a ogni tratto una parola
inaspettata, che è come un tocco di pennello dato all'idea,
che tu non sapresti dare con [316] altra parola; espressioni
ingegnose, graziose e comiche, eleganze e arguzie felici, che non
sono proprie di chi parla, ma di tutta la sua gente, e tanto
più efficaci per questo, che gli vengon via come da
sè, e l'una incalza l'altra, e nessuna ti fa pensare che
sarebbe più calzante un'altra al pensiero. E bada bene a
loro anche quando parli tu, ed essi t'ascoltano: uno schiarimento
che ti chiederanno, un'ombra leggiera di stupore o di dubbio, che
passerà sul loro viso, o un sorriso leggerissimo, o una
ripetizione emendata, che faranno quasi senza volerlo,
dell'espressione d'un tuo pensiero, t'avvertiranno che t'è
sfuggita una parola impropria, e perciò non chiara, invece
della propria, un'espressione letteraria in luogo della
famigliare, una frase affettata in cambio di quella semplice,
ch'essi avrebbero usata in quel caso. Che sono mai i pochi
idiotismi che ai toscani si rinfacciano per rincalzar la stramba
affermazione che essi parlino un dialetto come gli altri, di
fronte alla ricchezza, alla finezza, alla grazia, alla mirabile
armonia pittrice del loro linguaggio? E che stupido orgoglio
è quello che non vuol riconoscere in loro una
superiorità, della quale ci avvantaggiamo tutti,
poiché tutti attingiamo alla loro lingua quando non ci
basta la fonte degli scrittori e dei dizionari, e che
cocciutaggine il non voler riconoscere che si parli meglio
l'italiano in quella regione, che fu la culla della lingua, ed
è la sola in cui la lingua si parli da tutti? Ma tu non
sarai di questi, certamente. Se andrai in Toscana, tu
t'immergerai, nuoterai con piacere infinito in quell'onda di
lingua viva e pura, alla cui armonia ti parrà che consuoni
[317] quella che spira nelle linee dei monumenti di arte
maravigliosi, che ti sorgeranno d'intorno; e ti parranno dolci
anche quegl'idiotismi di pronunzia, che prima deridevi, quando
penserai che sonarono pure sulle labbra degli scrittori e degli
artisti immortali che il mondo venera; e con l'amore della lingua
e con l'ammirazione dell'arte nascerà nel tuo cuore un
sentimento di gratitudine affettuosa e profonda per quel popolo,
primo custode del tesoro della nostra parola, dotato d'ogni
facoltà più gentile e del più squisito senso
della bellezza; di quel popolo al quale dobbiamo tanta parte della
nostra gloria, che, a immaginarlo assente dalla storia italiana,
non ci appare più la immagine della patria che con la
corona smezzata sulla fronte.
[318]
IL DOTTOR RAGANELLA.
Era stato un pezzo in Toscana il dottor Raganella; ma
dai toscani non aveva imparato nulla, perché non li aveva
mai lasciati parlare.
La parola, soleva egli dire, è il più
bel dono di Dio. Noi dicevamo che il dono a lui era toccato un po'
troppo abbondante. Ma per fortuna non era che dottore in legge,
non esercitava l'avvocatura, non rintronava la testa che agli
amici.
Si vantava d'avere una grande facilità di
parola. Ed era vero: aveva una facilità spaventevole. E
sarebbe riuscito eloquente se fosse stato persuaso della
verità detta dal Bonghi: che gli uomini dotati di parola
facile si debbono assoggettare più degli altri a una
disciplina rigorosa per non cadere nella prolissità, con la
quale non c'è eloquenza né stile.
Non erano discorsi i suoi: erano cascate, frane,
diluvi di parole. Non intaccava, non si posava mai, e parlava
sempre più in fretta via via che il suo discorso
s'allungava. Disse un poeta francese ad un giovane: Se tu
riuscirai a parlare dieci ore di seguito senza sputare, sarai
[319] padrone della Francia -: egli avrebbe dovuto esser padrone
dell'Italia. Dopo averlo inteso discorrere per un quarto d'ora,
restava a tutti una romba nell'orecchio come quando ci passa
accanto a grande velocità un treno di strada ferrata. Egli
aveva l'illusione, comune a tutti i parlatori troppo facili, che
la rapidità vertiginosa del discorso impedisca la noia in
chi ascolta; quando segue invece l'opposto, perché in
quella furia essi non hanno tempo né modo di dar rilievo e
colore a nessun concetto o parte di concetto, e riescono
però necessariamente uniformi. E accadeva pure a lui, come
a tutti gli altri suoi simili, che avendo coscienza di quella
mancanza di rilievo e di colore, cercava di supplirvi ripetendo
più volte l'espressione d'ogni pensiero, a modo di quel
giornalista verboso d'uno scherzo comico del Ferrari, che
incomincia un discorso col verso
So, conosco, m'è noto e non ignoro,
e va innanzi così fino alla fine. E pure la soverchia
facilità di parola lo portava a non far grazia, raccontando
un fatto qualsiasi, di nessuno anche minimo e più futile
particolare, di modo che se aveva da dire, per esempio, ch'era
stato a visitare un amico, diceva per quali strade era passato e
che cosa gli era frullato pel capo camminando, e poi: - "Salgo le
scale, suono il campanello, m'aprono, domando: - È in casa?
- È in casa, - vado avanti, entro nel salotto...." e via su
quest'andare. E come di ragione, non lasciandogli tempo di
riflettere la troppa foga, parlava scorretto, come tutte le
raganelle umane. Il suo eloquio era un torrente impetuoso che
[320] travolgeva improprietà, sgrammaticature, riempitivi,
cacofonie, contraddizioni e vesciche. Non di meno, la prima volta
che l'udivano, alcuni l'ammiravano. - Che ammirabile facondia! -
dicevano. Ma facondia non era la parola che facesse al caso. Si
poteva dire di lui quello che uno scrittore disse d'un suo
critico, il quale scriveva come il dottor Raganella parlava: - La
buona educazione mi vieta di definire con la parola propria le
fughe del suo stile.
Ciò non ostante egli ci divertiva, qualche
volta; in special modo quando faceva uno sfogo di collera contro
qualche suo nemico, quando si metteva a gridare, per esempio: -
Gridi pure, strepiti, strilli, minacci, tempesti; non mi
lascerò smovere: sono deciso, risoluto questa volta,
irremovibile, inflessibile nel proposito di far quel passo, e vi
accerto, v'affermo, vi giuro sul mio onore.... - Fèrmati! -
gli dicevamo -, e bevi un sorso.... - o gli cantavamo l'aria del
Matrimonio Segreto:
Prenda fiato, prenda fiato,
Seguitare poi potrà.
E come parlava nel calore della passione, così
nello scherzo. Gli venivano spesso dei motti arguti; ma ne
sciupava sempre l'effetto ripetendoli, parafrasandoli,
commentandoli, fin che ce li faceva tornare a gola, come bocconi
indigesti. E quale nel parlare era nello scrivere. Tirava via con
la rapidità che usano gli attori quando fingono di scrivere
sulla scena: letteroni d'otto pagine, in cui le proposizioni si
succedevano senza legame grammaticale, e le ripetizioni cadevano
l'una sull'altra come le fette di salame [321] accanto al
coltello, e ad ogni pagina la lettera ricominciava.
Ma del più bel dono di Dio non abusava
soltanto per esprimere il pensiero proprio; anche per parlare per
conto nostro, come fanno tutti i parlatori irrefrenabili, che non
vogliono star a sentire i discorsi degli altri. Egli rompeva in
bocca all'amico il ragionamento o il racconto, e lo finiva per
lui: - Ho capito: tu gli hai risposto così e così,
lui ha replicato in codesto modo, tu hai perso la pazienza, e
l'hai piantato, non è vero? E hai fatto bene, e io feci lo
stesso in un caso simile che m'occorse appunto.... - E non serviva
dirgli: - Fa' il comodo tuo; quando avrai finito tu,
ricomincerò io -; sorrideva e tirava innanzi, e non ci
lasciava ricominciare.
Quando andava al teatro o faceva una gita fuor di
città, o quando sapevamo che gli era seguìta qualche
avventura, lo aspettavamo con vero sgomento nella saletta
appartata del caffè dove ci veniva a trovare ogni sera;
perché non c'era cristi, egli ci voleva riferire le sue
impressioni, e filava dei discorsi di mezz'ora così rapidi
e fitti, che a noi non riusciva neppure di farci entrare di
straforo un'osservazione. E s'aveva un bel tentare di scoraggiarlo
non badandogli: egli pensava che la nostra disattenzione fosse
simulata per un tantino d'invidia che ci pungesse del dono di Dio,
e questo pensiero lo stimolava anche più. Oppure, vedendoci
disattenti noi, rivolgeva il discorso agli altri pochi avventori
che venivano nella stessa sala, anche se sconosciuti, e
s'infervorava a cicalare anche più del solito, scambiando
con ammirazione lo [322] stupore che quelli mostravano in viso, un
poco somigliante all'intontimento che dà il rumore monotono
d'una ruota di mulino.
Una sera, fra l'altre, prese di mira un grosso medico
barbuto che stava sorbendo il caffè dalla parte opposta
della saletta, e di discorso in discorso gli venne a parlare d'un
suo incomodo, del quale gli raccontò la storia minuta con
una fiumana di parole; e finì con domandargli: - Che
rimedio mi consiglia lei?
Quegli lo guardò fisso, e poi, fra il silenzio
di tutti, con un viso grave e un vocione di basso, gli rispose
spiccicando le sillabe: - Lei ha bisogno d'un astringente.
Tutti risero in coro, e fu quella la prima volta che
il dottor Raganella mostrò un'ombra di vergogna d'aver
troppo parlato.
Il matrimonio ci liberò dalla tirannia della
sua loquela. Ma ci separammo da buoni amici, quando partì
per il viaggio di nozze. Nel fargli i nostri augùri,
peraltro, compiangemmo tutti in cuor nostro la sua povera moglie:
come avrebbe potuto resistere per tutta la vita al flagello di
quella facondia? Pochi giorni dopo, uno di noi ricevette dalla
Svizzera una sua lunga lettera, nella quale egli diceva, fra
l'altro, che la sua sposa era stata così commossa dallo
spettacolo della cascata del Reno a Sciaffusa, che l'aveva fatto
rimaner là un'ora con lei ad ammirarlo. Lo stesso pensiero
balenò a tutti: l'aveva fatto rimaner là
perché il fragore della cascata copriva la sua voce, e in
quel tempo essa s'era un po' riposata.... Lo stesso amico
ricevette poi un'altra lettera, con la quale egli annunziava il
suo ritorno, e che la sera dopo sarebbe venuto a trovarci al
caffè. [323] Tremammo all'idea della descrizione del
viaggio ch'egli ci avrebbe inflitta: chi ci poteva reggere?
Sarebbe stata una grandinata di parole dalle otto a mezzanotte. La
sera fatale, un amico, che l'aveva visto avvicinarsi per la
strada, ce lo preannunziò, affacciandosi all'uscio: - Si
salvi chi può! - Tutti se la diedero a gambe. Trovando la
saletta vuota, egli sospettò la fuga, se n'ebbe per male, e
non ritornò più. Ne fummo dolenti; ma non c'era
rimedio. Pochi mesi dopo, per ragione d'interessi domestici,
andò a stare a Bologna, e per anni non se n'ebbe più
notizia. Poi si seppe che sua moglie gli aveva fatto causa per
separazione legale. Il vero perché non ci fu detto. Ma per
noi non ci fu dubbio. Egli doveva aver reso alla povera donna la
vita intollerabile. La causa della separazione era certissimamente
il più bel dono di Dio.
[324]
A TRAVERSO I SECOLI.
I Trecentisti.
A questo punto bisogna che ci fermiamo un poco a
discorrere dei principali scrittori che s'hanno da leggere per
imparare la lingua.
Prima di tutti....
Qui vedo sorridere i miei lettori, che in questo
momento suppongo siano tre, un giovinetto, una signorina e un
cittadino originale, a cui è saltato il ticchio, fra i
trenta e i quarant'anni, di mettersi a studiare la lingua del suo
paese: li vedo sorridere con certa malizia, e mi par di sentirli
dire tutti e tre insieme: - Già, ci aspettavamo il
consiglio prammatico -, e poi in cadenza di canto: - i
Tre-cen-ti-sti!
Eh, Dio buono, non è una novità, lo so
bene. E so anche, giovinetto mio, quello che tu e gli altri due
lettori mi vorreste rispondere: che a leggere quei nostri antichi
scrittori vi provaste, ma che vi riuscirono ostici, non tanto per
la materia quanto per la forma; voglio dir per la lingua e per lo
stile troppo diversi da quelli delle scritture moderne; per cagion
di che vi [325] sentiste, leggendoli, come spaesati, sconcertati
nelle consuetudini del vostro pensiero e del vostro gusto, e quasi
in compagnia di gente con cui non fosse possibile, per la
differenza dell'indole, pigliar famigliarità; e fra la
quale e voi s'interponesse un velo di nebbia, che v'impedisse di
vederli bene in viso, e quindi di mettervi in comunicazione
immediata con l'animo loro.
Ma io vorrei principalmente persuader te, giovinetto,
che, vincendo quel primo senso ostico, e persistendo nella lettura
di quegli scrittori, finiresti col prendervi amore, con tuo
vantaggio grandissimo, per quelle medesime ragioni per le quali ti
pare ora che quella lettura non t'abbia mai ad attirare.
Pròvatici un'altra volta, te ne prego, e persisti, tenendo
sempre presente che quelle parole e frasi, nelle quali consiste la
maggior differenza fra quegli scrittori e i moderni, erano allora
in Toscana, e in specie a Firenze, d'uso comune, e quindi
naturalissime a coloro che scrivevano; i quali, eccetto
pochissimi, non facevano distinzione fra lingua parlata e lingua
scritta; di che deriva appunto la ricchezza, la schiettezza,
l'efficacia delle loro scritture. Dopo che avrai preso con essi
qualche famigliarità, non sentirai più la
novità di quei modi, che ora ti paiono affettazioni e
stranezze; parranno anche a te naturali come parevano agli
scrittori a cui venivano spontanei; e allora, non più
arrestato da quegl'intoppi, ti lascerai andare all'onda di quella
prosa viva, fresca, giovanile, sentirai, come dice il nostro primo
poeta vivente, quello che c'è di più vivido e
più frizzante, più zampillante e più mosso
nell'elocuzione di quei prosatori che in quella dei moderni che tu
[326] preferisci; nei quali l'arte è più raffinata,
ma tanto meno ricca e meno schietta la vena. Ti parrà di
sentirli parlare di viva voce in quei loro periodi, simili appunto
al linguaggio parlato, d'una orditura così semplice e
debole, con poca o nessuna legatura rettorica di pensieri, e
affollati di determinazioni accessorie; i quali alle volte piglian
la fuga, alle volte s'arrestano a un tratto, e fanno mille brusche
svoltate, come seguendo tutti i balzi del pensiero nascente e
riproducendo il disordine del discorso vivo; ammirerai, come dice
il Capponi, quella naturalezza delle armonie, in cui non sono mai
cercate combinazioni di suoni, e "hanno più rilievo quelle
parole che avevano avuto prima nella voce più vivo
l'accento"; ti delizierai in quella loro proprietà di
vocaboli, non studiata, perché essi eran propri per
necessità, in quelle loro locuzioni "della nitidezza che si
vede nelle monete novellamente coniate", in quella fresca
verginità d'una lingua, che cominciava appena a diventar
letteraria, e in cui si sente come la fragranza della sbocciatura.
E sempre più, continuando a leggere, t'innamorerai di
quello che così giustamente si chiama candore di tali
scrittori, di quell'aria amabile d'ingenuità che dà
alla loro prosa la frequenza della congiunzione semplice, come
l'usano i bambini e la gente del popolo, e la profusione dei
superlativi, in cui si manifesta la fanciullesca vivacità
dell'ammirazione, e quel martellamento, che fanno così
spesso, sopra un'idea semplicissima, come per farla entrare in
capo a un lettore ignorante; ciò che pure è proprio
della gente ingenua. Vedrai che singolari effetti d'arte escono
dalla schietta ispirazione [327] non corretta dall'arte, dal
calore del sentimento libero, dalle negligenze, dalle rozzezze
medesime, dagli stessi difetti non mascherati d'alcun artifizio,
ma lasciati scoperti come nudità innocenti. Come si respira
in quelle pagine! Ecco gente che parla davvero alla buona e alla
libera, che ci dice quello che ha da dire senza l'interprete
letterario! Ci par quasi un miracolo. E quanta naturalezza nel
modo di raccontare, quanta vivezza in quei dialoghi a botte e
risposte, e quanta evidenza in quello stesso disordine affannoso
con cui ci rappresentano le scene animate, e che graziosa
semplicità negli esordi e nelle considerazioni sugli uomini
e sugli avvenimenti! Ti diletterai pure a osservare quante cose si
potevano dir bene allora senza una quantità di parole e di
frasi che a noi, per dir quelle cose stesse, paiono ora di
necessità assoluta; ti maraviglierai di trovare interi
periodi che si potrebbero riscrivere al presente, dopo sei secoli,
senza mutarvi un vocabolo; ti divertirai a notare qua e là
i francesismi curiosissimi, le parole che mutarono significato, e
quelle cadute in disuso, che ora farebbero sorridere, le
diversità singolarissime, fra quel tempo e il nostro, del
senso e del linguaggio comico, del frasario cerimonioso, delle
forme del ragionamento, dell'espressione della gioia e dell'amore.
E arrivato a un certo punto, vivrai con l'immaginazione in quel
tempo, ti parrà d'aggirarti fra quella gente e di respirare
l'aria che essi respiravano. Avendo cominciato a leggere per
imparar la lingua, sarai preso a poco a poco dalla sostanza,
attratto dalla curiosità di quel modo di sentire e di
pensare, dalla descrizione delle costumanze, degli usi [328]
pubblici, della vita domestica, dell'arte della guerra e dei
viaggi, da tutte le manifestazioni dello spirito di quel popolo
"giovane, forte, adoprante, pieno d'immaginazione, più
inventore che ora non sia", e compreso d'una fede religiosa
semplice e ardente. E ammirerai di più quegli scrittori se
proverai qualche volta a staccarti all'improvviso da loro per
leggere uno qualsiasi dei prosatori del tuo tempo. Come ti
parranno compassati, troppo ligi alla fredda ragione, pieni
d'artifici e di civetterie e ricercati nell'orditura e
nell'armonia dello stile anche quelli che per questi rispetti
peccano meno! E più avvertirai il vantaggio di quelle
letture quando, avendone ancor piena la mente, ti metterai a
scrivere, chè ti sentirai tanto più sciolto,
più libero, meglio inclinato a esprimere i tuoi pensieri
semplicemente, fresco e leggiero dello spirito come si sente del
corpo chi esce dall'acque d'un fiume. E ti do un consiglio: di
leggere prima i più semplici, dai quali quando passerai a
Dante, rimarrai maravigliato, come d'un prodigio, del passo
gigantesco che fa con lui la prosa italiana, senza perdere la sua
freschezza giovanile, pure prendendo a norma la sintassi latina;
maravigliato profondamente della elaborazione sapiente che egli vi
porta insieme coi "soavi numeri" e i "sottili legamenti" della
poesia, dell'arte magistrale con cui egli disegna l'idea, plasma
l'immagine, illumina tutti i particolari dei fatti in
quell'architettura mirabilmente varia dei periodi, in quella prosa
"ora solenne ora gentile, profonda e limpida" che è il
primo vero e grande esempio di prosa artistica nella nostra
letteratura. E studia con amore anche l'altro grande [329]
maestro. Vinci la noia che ti daranno da prima i lunghi periodi,
nei quali, per accarezzare l'orecchio, sovrabbonda di parole, e
per raggruppare intorno a un concetto principale troppi concetti
accessori, addossa incisi ad incisi, e per imitare la prosa latina
intreccia e traspone forzatamente frasi e vocaboli. Vinci quella
prima noia, e dello sforzo sarai compensato ad usura. Dov'egli
esprime un sentimento vivo o tratta un argomento che s'accorda con
le sue facoltà naturali, i suoi difetti spariscono o
s'attenuano; dove ai suoi personaggi fa parlare il linguaggio
della passione, ha tratti d'eloquenza calda, logica e impetuosa
che t'avvolge e ti trascina; nella pittura della realtà
comica, nella descrizione delle scene e dei personaggi lepidi, nel
dialogo, nella satira, egli si serve con ardimento e con arte
impareggiabile di tutti i più efficaci costrutti del parlar
fiorentino, dell'idiotismo, del proverbio, di tutto quanto
v'è di più vivo nella lingua viva, come se in lui
fossero raccolti e saltassero fuori l'un dopo l'altro dieci
scrittori. Ti parrà uniforme da principio: poi vi troverai
mille forme, mille armonie, mille colori. E non possiamo imitarlo,
non forzare il nostro pensiero moderno alle sue forme, a cui non
si piegherebbe che snaturandosi, né dipingere e scolpire
con l'arte sua, né ripeter la sua musica; ma egli resta pur
sempre un architetto sovrano, un pittore insigne, uno scultore
stupendo, un artefice di suoni maraviglioso, uno scrittore unico,
che fece nella prosa italiana il lavoro d'una generazione, che
ogni volta che ci riprende, ci domina, e al quale è bene
ritornare ogni tanto, perché se n'esce sempre con un raggio
nella mente e dell'oro nelle mani.
[330]
Dal Boccaccio a Leonardo.
Vuoi ora qualche consiglio, non da maestro, ma da
vecchio amico, per proseguire dopo il Trecento? Fatto che avrai il
gusto al Boccaccio, non ti svoglierà dalla lettura
l'imitazione che troverai di lui in una serie di scrittori del
secolo seguente; i quali, sotto l'influsso del culto risorgente
dell'antichità, seguirono l'esempio del grande novelliere,
dislogando le ossa, come dice il Leopardi, e le giunture della
nostra lingua, per imporle violentemente le forme latine. Leggerai
Leon Battista Alberti che della gravezza della sintassi
boccaccesca ti compenserà con molte pagine di stile
elegante e agile, sparse di parole vive e frasi schiette del suo
volgare nativo. Leggerai con piacere la lettera di Lorenzo il
Magnifico a Federico d'Aragona, che si può dire la prima
esposizione critica della nostra più antica letteratura
poetica, oltre che un esempio di bella prosa, foggiata alla
latina, d'una eloquenza nobile e calda. Per formarti un concetto
della prosa classicheggiante di quel secolo, qual è nel
più alto grado del suo svolgimento, leggerai, con un po' di
pazienza, l'Arcadia del Sannazzaro. Altri scrittori leggerai, che
con più o meno garbo innestarono la latinità nel
volgare, temperando la gravità dello stile forzato con
quella parte della lingua viva, che irresistibilmente veniva loro
dalla bocca alla penna. E farai una cosa: alternerai con la
lettura di questi, che prolungata ti stancherebbe, quella degli
scrittori semplici e spontanei, che anche nel Quattrocento
fiorirono. Leggi le lettere di Alessandra Macinghi, [331] dove,
col candore dei Trecentisti, troverai la ricchezza e la
vivacità del parlar fiorentino del tempo suo, e come in uno
specchio limpidissimo riflessa la vita d'una famiglia di quel
secolo, e in questa un'anima schietta, buona, amorosa, di cui ti
resterà l'immagine impressa nel cuore. Leggi le prediche di
Fra Bernardino da Siena, tutte fiorite di bei modi dell'antico
parlar senese, tutte apologhi, novellette, arguzie, quadretti
pieni di freschezza e di vita. Leggi, come esempio di
spontaneità e di forza, belle nonostante le ruvidezze dello
stile, efficacissime nelle forme piane e spezzate del parlare
popolaresco, le prediche del Savonarola, piene di lampi e di
tuoni, qualche volta grandi e terribili. Leggi sopra tutto il
Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, per vedere a che
grado d'efficacia possa pervenire nello scrivere un homo senza
lettere quando tratta una materia in cui è maestro, a qual
segno di gagliardia, di densità, di concisione, di
limpidezza possa arrivar nella prosa, pur senza lettere, chi ha
osservazioni profonde e grandi pensieri da esprimere, che quadri
stupendi di colorito e d'evidenza riesca a dipinger con la penna
chi ha delle cose la visione fisica netta, luminosa, immensa
ch'egli aveva.
Da Leonardo al Machiavelli.
La stessa norma, d'alternar le letture di scrittori
d'indole opposta o diversa, ti consiglio di seguire per gli
scrittori del secolo decimosesto, il più ricco di grandi
maestri, il più vario nelle opere, il più ammirabile
per ricchezza di lingua e perfezione di forma, di tutta la
letteratura [332] italiana. Nel Bembo, primo legislatore della
lingua volgare, che giovò più di tutti in Italia
alla formazione d'un idioma letterario comune, e in molti dei suoi
imitatori, che tutta l'arte dello scrivere ridussero nella scelta
e nella collocazione delle parole, ti spiaceranno la mancanza di
spontaneità, l'asservimento del pensiero alla frase,
l'imitazione pedissequa del Boccaccio, e più che altro quel
pavoneggiarsi perpetuo, come se a ogni periodo dicessero ai
lettori: - Vedete come scrivo bene! - Ma leggili con attenzione,
non fosse che per la lingua purissima, chè ne ricaverai un
grande vantaggio. Quanti felici costrutti e garbati giri di
sintassi vi troverai, che fine arte nel concatenare i periodi e
nel rendere ogni sfumatura del pensiero, che ricchezza di modi e
che belle e flessuose forme di eleganza e di cortesia signorile! E
non soltanto lo stile dignitoso e semplice ti attirerà nel
Cortegiano del Castiglione; ma la rara potenza dell'osservar dal
vero e sul vivo, e la forte pittura di caratteri storici, e la
rappresentazione evidente della vita delle Corti italiane del
Cinquecento, e la magistrale arte dialogica. E nel Galateo del
Della Casa, oltre la grazia, la fiorentinità schietta, il
sapore trecentistico, la ricchezza delle espressioni proprie e
calzanti, ammirerai le osservazioni argute e finissime sull'animo
umano, sui costumi e sulla vita; e nel Gelli la forma semplice,
tersa, spontanea, ricca del più bel volgare fiorentino e in
molti tratti quasi moderna, con la quale egli rende intelligibile
e gradevole a ogni lettore anche la materia ardua della filosofia;
e nel Firenzuola l'amenità, la leggiadria, la lingua
candidissima, snella, vivace, tutta grazie e [333] bei modi del
parlar famigliare. Che salti maravigliosi farai da un prosatore
all'altro! E come sentirai meglio l'originalità e i pregi
di ciascuno raffrontandolo col precedente! Dopo la prosa rapida,
nervosa, scolpita del traduttore stringatissimo del più
stringato degli storici, dal quale imparerai a serrare nel
più breve cerchio possibile di parole l'espressione del tuo
pensiero, ti parrà più mirabilmente fluida e
musicale l'eloquenza dei dialoghi e delle lettere del Tasso. Dopo
esserti dilettato nell'arte squisita delle Lettere del Caro, di
stile disinvolto e brillante, ma correttissimo, e piene di gaio
lepore, leggerai con doppio piacere il più eloquente e
più incantevole sgrammaticatore di tutte letterature, quel
libro unico, riboccante di vita, di forza, di baldanza, d'ingegno,
viva immagine d'un uomo e d'un secolo straordinario, quella specie
d'Orlando Furioso in prosa, quell'indiavolato e sfolgorante
capolavoro, che è la Vita di Benvenuto Cellini. Quando
t'avranno un po' stancato le descrizioni e le orazioni sfoggiate
della storia del Giambullari "artista finissimo della parola e
della sintassi" ma impettito e freddo nella sua "dignità
impeccabile", leggerai e rileggerai con sempre più calda
ammirazione l'Apologia di Lorenzino dei Medici, una folata
d'eloquenza italianissima, lucidissima, ardente di passione, bella
e spaventevole come un torrente in piena, che travolge ogni cosa.
E senti: studia il Guicciardini. Non ti sgomentare di quello stile
involuto e austero, talvolta un po' rude, sovente oscuro, che
dà sulle prime al lettore un senso d'oppressione, e gli
confonde la mente. Continua a leggere. Tu riconoscerai a poco a
poco che quel [334] modo di scrivere non è tanto sforzo e
artifizio quanto effetto naturale della maniera di sentire e di
pensare propria dell'autore, del procedimento con cui si svolgono
e s'intrecciano le idee nel suo intelletto profondo e complesso,
"uno dei più chiaroveggenti che siano stati al mondo." E
dai periodi lunghi e farragginosi, di cui si stenta a cogliere il
senso, distinguerai quelli lunghi del pari, ma architettati con
maestria mirabile, periodi da gran signore della lingua e dello
stile, in cui dagli accessori emerge l'idea principale, dominante,
come una torre sopra un villaggio. E da questi imparerai a legare
con ordine e con armonia in un periodo solo, intorno a un solo
concetto, una famiglia di concetti minori; e dai magistrali
ritratti dei personaggi e dalle considerazioni acute e profonde
sugli avvenimenti, a studiare l'animo umano e i casi della vita; e
di quella lettura ti rimarrà nella mente un suono grave e
solenne, che risentirai come un'eco ispiratrice ogni volta che,
scrivendo, cercherai una forma degna a un ordine di alti pensieri.
Ma sopra tutti ammirerai e studierai il Machiavelli,
che "segna il punto d'arrivo della sincera prosa antica e il punto
di partenza della moderna", prosatore che dal latinismo e dall'uso
volgare trae insieme una forza che nessun altro raggiunse, il
più schietto, il più sicuro, il più
sintetico, il più logico scrittore del tempo suo, il
più sdegnoso disprezzatore della rettorica, il più
strettamente legato alla realtà delle cose, il più
potentemente drammatico, il più superbamente eloquente;
grande nell'arte che va innanzi al suo secolo, grande [335]
nell'ardimento e nella carità di patria che gli fiammeggia
nell'anima, grande nel pensiero folgorante, che illumina il
presente e legge nell'avvenire.
Da Galileo all'Alfieri.
Un altro grande maestro. Di dove arriva il
Machiavelli, il più moderno dei prosatori antichi, muove
Galileo, che infondendo nella prosa il soffio di quella nuova
filosofia, la quale "fa più ricche, più chiare e
più dritte le teste", le dà sulla via della
libertà e della verità l'impulso poderoso, per cui
ella procede fino al tempo nostro. La sodezza e la concisione che
viene dalla densità del pensiero e dalla profondità
della dottrina, la lucidità pura che deriva dalla chiarezza
perfetta e dallo stretto e sottile concatenamento delle idee,
l'eleganza, la dignità, la sprezzatura signorile che
è effetto del pieno possesso e del sentimento profondo
della lingua letteraria e della famigliare, tutto questo è
in quella nobile prosa che scorre come un largo fiume pacato e
limpido, e in cui si sente la forza d'un intelletto sovrano e
d'un'anima grande. Rimani un pezzo alla scuola di Galileo, e
ritornavi ogni tanto per imparare, non soltanto a scrivere, ma a
meditare e a ragionare; senza di che si mena la penna, ma non si
scrive. Poi leggerai i suoi discepoli e continuatori, e ti
piacerà nel Redi la grazia prettamente paesana, nel
Magalotti la scioltezza tutta moderna, nel Boccalini la
vivacità e la gagliardìa. In altra forma ti
persuaderà eloquentemente dell'obbligo di ben parlare la
propria lingua il Dati, nella cui prosa ritroverai il miglior
Cinquecento; e nel Sarpi ammirerai la [336] sobrietà
vigorosa e lucida, retta da una coscienza fortissima e da un alto
intento civile. Ti parrà di ritornare indietro col Bartoli,
adoratore della forma, studioso di vezzi e di grazie, servitore,
non dominatore della lingua; ma di lingua vi troverai una miniera
enorme, e v'imparerai l'arte difficile di "condurre come in
ordinanza stretta i pensieri e trarre dalla destrissima
collocazione delle parole chiarezza lucidissima e nobile e grato
temperamento di suoni". E artificio rettorico troverai pure nelle
prediche del Segneri, concitate talvolta per proposito più
che per passione; ma anche spontaneità nell'esuberanza, e
puro eloquio e varietà d'armonie nella stretta
argomentazione e negl'impeti non rari d'eloquenza vera; e calda,
viva, irruente eloquenza nelle Filippiche del Tassoni, frementi
d'ira contro la dominazione straniera e tutte palpitanti di
generose speranze italiane. C'è bisogno di raccomandarti
Gaspare Gozzi, maestro di eleganza e di grazia, pieno di buon
gusto e di buon senso, e osservatore arguto e finissimo, che in
pieno Settecento oppone all'invadente gusto straniero la sua bella
prosa castigata, ancora atteggiata della dignità antica?
Occorre accennarti la prosa agile, spigliata, scintillante, con la
quale Giuseppe Baretti allarga i confini della critica e tratta a
ferro e a fuoco le frivolezze e le pastorellerie dell'Arcadia? Ma
a lui non t'arresterai per studiare gli effetti prodotti nella
prosa italiana dal nuovo mescolarsi della cultura nazionale con la
cultura europea contemporanea. Leggerai del Cesarotti,
benchè francesizzante, le pagine dove si prefigge di
liberar la lingua dal dispotismo dell'autorità e dai
capricci della moda [337] e dell'uso per sommetterla al governo
legittimo della ragione e del gusto; e non trascurerai il
Bettinelli, se vorrai un esempio singolare di prosa battagliera,
ribelle alle tradizioni pedantesche, inforestierata, ma viva;
né l'Algarotti, che nello stile foggiato alla francese ha
l'arte di render piane con facilità e vivezza quasi di
conversazione le verità più difficili della scienza;
né Alessandro Verri, non puro di lingua né di stile,
ma uno dei primi nostri scrittori riusciti efficacissimi nella
mozione degli affetti. E arriverai così a Vittorio Alfieri,
che con la sua Vita eresse il primo monumento di prosa veramente
moderna: e s'intende di quella prosa personale, non calcata su
alcun esemplare da tutti imitabile, la quale prende forma e colore
dall'indole dell'autore, ed è opera d'arte, ma d'un'arte
sua propria, uscita dall'intimo dell'animo suo, e che non si
può confondere con quella di nessun altro, come
l'espressione del viso e il suono della voce.
Dal Foscolo al Carducci.
E ora una schiera di maestri, mirabilmente vari, nei
quali, come nell'Alfieri, parla il nuovo spirito destato dalla
rivoluzione e la coscienza nazionale risuscitata dalla dominazione
francese; e primo fra questi Ugo Foscolo con quell'Epistolario
impareggiabile, in cui egli trasfuse e svelò tutta l'anima
sua con un calore, con una sincerità, con una franchezza e
vigoria di stile che ti soggiogheranno. Ma non trascurerai
però la prosa fluida, chiarissima, sonoramente faconda del
suo rivale poetico, Vincenzo Monti, battagliante col diavolo in
corpo contro la Crusca [338] e i propri critici. né ti
spiacerà il ritorno all'imitazione dell'antico in quegli
scrittori che tentarono per tal via di salvare le nostre lettere
dalla corruzione straniera; chè anzi essi ti gioveranno per
questo. Declamazione, ridondanza d'ornamenti, affettazione
anticheggiante; ma anche vigor maschio di stile, pagine scultorie
e magniloquenti troverai nel Botta. Ammirerai il gusto squisito e
"la strettissima fabbrica dei periodi" nel Giordani, benchè
per il soverchio studio appunto di legare strettamente le idee e
di serbar la lingua purissima, egli abbia qualche cosa di
rattenuto, come dice il Capponi, e "non scorra nella sua prosa
libera e franca l'onda della parola". E benchè la parola
idoleggi, e sia schiavo del suo principio di restringere la lingua
al Trecento, ti gioverà il Padre Cesari, prosator
gioielliere, tutto eleganze classiche, che fu al tempo suo contro
il forestierume linguistico un "antidoto potente" non inutile
affatto ai giorni nostri. E lascerai dire chi vuole: leggerai il
Colletta, non impeccabile nella lingua e non sempre chiarissimo,
ma fiero e gagliardo in quella sua prosa da uomo di guerra, che
porta lo stampo profondo dell'animo suo. E non leggerai soltanto,
studierai con amore i due prosatori ammirabili che sono nel
Leopardi: quello libero, vivo, tutto moderno dei Pensieri inediti,
dove s'abbandona all'ispirazione subitanea, quasi parlando
più che scrivendo, e quello meno agile, meno colorito, ma
di disegno più puro e più fermo, delle Operette
morali: prosa originalissima, mista di modernità e di
classicismo, magistralmente ordita, d'una "serenità
marmorea", d'un'armonia sommessa e delicatissima, e d'una [339]
chiarezza "a traverso la quale si vedono i pensieri come per
un'acqua limpida le rene e i sassolini del fondo". Quello che il
Leopardi non fece, di rinfrescare la lingua alla sorgente dell'uso
vivo, troverai nel Tommaseo, che alla propria prosa "diede moto e
vita e copia ritraendo giudiziosamente dall'uso fiorentino", poeta
e scienziato della parola, qualche volta troppo forzatamente
conciso, ma ricco, robusto, proprio, e pittore e scultore e
cesellatore, che dice mirabilmente e in modo tutto suo ogni cosa
più difficile a dire. C'è bisogno di rammentarti
Giuseppe Giusti? Non è a imitarsi la soverchia ripetizione
dei modi prediletti, né l'abuso delle forme vernacole,
né l'affettazione della sprezzatura, in cui cade troppo
spesso nell'Epistolario; ma quanta ricchezza di modi famigliari e
popolari, che pieghevolezza, che amabile baldanza, che briosa
disinvoltura di stile! Non t'avrei neppure da rammentare il
Guerrazzi, non scevro di vecchia rettorica, né d'enfasi
romantica, e spesso forzato nello stile; ma ricchissimo di lingua
pura, di frasi scultorie e d'immagini ardite, potente
nell'espressione dell'ira e del sarcasmo e negl'impeti d'eloquenza
patriottica, scrittore originale e grande nelle sue pagine
migliori, venate d'oro e scintillanti di gemme, irte di rilievi di
bronzo e di punte d'acciaio. Leggi dopo questa, per amor del
contrasto, la prosa nobilmente famigliare di Gino Capponi, bella
d'una proporzione, d'una discrezione, d'una compostezza patrizia,
nella quale, come dice il Carducci, l'anima del lettore si riposa
e si contenta come l'occhio dello spettatore nelle linee degli
edifizi fiorentini. E non soltanto per dovere di cittadino, ma per
interesse di studioso, [340] leggerai la prosa del Mazzini,
"lievemente colorita di classicismo", misurata, ma viva,
armoniosa, ma senza ridondanza, ora profeticamente solenne, ora
squillante come una musica guerriera, e sempre chiara come
cristallo. E per prender coraggio da un esempio insigne del come
anche un italiano nato ai piedi delle Alpi possa con lo studio
riuscire uno scrittore facondo, nobile e ricco, leggi Vincenzo
Gioberti: un maestro, benchè vesta troppo ampiamente il
pensiero e "faccia sciupìo di metafore e di splendori". Col
quale terminerei, non essendo necessario l'accennare i viventi, se
d'uno di questi non si potesse in nessun modo tacere,
perché è incominciato per lui il giudizio della
posterità. Voglio dire Giosue Carducci, prosatore
potentissimo, che dice tutto quello che vuole e come vuole,
solennemente e famigliarmente, con un'arte che sgomenta chi studia
l'arte; nel quale la conoscenza profonda della lingua letteraria e
il possesso perfetto dell'uso vivo, non abusati mai ad alcun
proposito, si fondono e si contemperano in un linguaggio di forza
straordinaria e d'armonia svariatissima, egualmente bello e
potente nella descrizione e nella polemica, nel discorso
dottrinale e nel volo lirico, nell'orazione politica e nella
fantasia scherzosa, sempre segnato d'un'impronta in cui lo
riconosci e lo ammiri.
- Ma, e Alessandro Manzoni? - domanderai a questo
punto.
L'ho lasciato ultimo per finire con lui, e volevo
finir con lui perché è lo scrittore che devo
raccomandarti con maggior insistenza di studiare, parendomi la
prosa dei Promessi Sposi la più vicina a quello che
è per tutti oramai [341] il tipo ideale della prosa
moderna: moderna e perfettamente italiana. È semplice, in
fatti, conforme al linguaggio parlato, e pare spontanea; ma non
cade mai nella volgarità, e neppure nell'affettazione della
naturalezza. È chiara, limpida come l'aria, ma non per
effetto d'una semplicità elementare: ha la chiarezza che
deriva dalla precisione e dall'ordine dei pensieri, e dall'arte
finissima di ridurre ogni idea, per quanto profonda e complessa, a
un'espressione semplice, che la fa parere un portato del senso
comune. È sempre stretta al pensiero, ma senza impacciarlo
mai; logica, ma senza mostrar lo sforzo delle connessioni e dei
legamenti; omogenea, ma pieghevole a tutti gli atteggiamenti del
pensiero e alla natura propria d'ogni oggetto o argomento;
originale, ma non ribelle alla tradizione, e scevra a un tempo
d'ogni imitazione o reminiscenza di stili altrui. È ricca
di lingua, e dove il soggetto lo vuole, elegante, ma senza che la
forma si faccia mai sentire per sè stessa, senza che alcuna
parola o frase distolga mai l'attenzione dal pensiero; ed è
variamente colorita, ma senza vistosità, e con una fusione
perfetta di tinte; ed è mirabilmente armoniosa, ma senza
ricerca evidente del numero, d'un'armonia riposta e delicatissima,
che par non venga dalle parole, ma dal pensiero, e nasce infatti
dall'equilibrio perfetto delle idee, e suona nella mente quasi
senza che l'orecchio la senta. Leggila e studiala con attenzione e
con amore. Studiala confrontando le due Edizioni del Romanzo,
quella del primo testo, del 1825, e quella corretta, del 1840, e
ne intenderai meglio la ragione, l'arte e la bellezza al vedere
come del primo testo l'autore [342] ha appianato le
scabrosità, addolcito le durezze, sostituito al latinismo o
al modo vernacolo la locuzione italiana, all'arcaismo la parola
viva, alla pedanteria grammaticale l'anacoluto efficace; per che
via, con che norma lucida e costante egli ha rifatto in parte e
avvicinato l'opera sua alla forma ideale che gli splendeva nella
mente. Studiala, e t'affinerai il criterio e il gusto, e prenderai
in avversione per sempre il manierato e il falso, il troppo e il
vano, la trivialità e la stranezza, l'orpello e la ciancia.
Studiala, e imparerai a fare e a correggere, a condensare e a
semplificare, a esser chiaro e sincero, dignitoso e discreto,
logico e giusto. Studia il Manzoni e amalo per tutta la vita.
Ma non lo adorare; ti sia maestro, non idolo.
Conclusione.
Voglio dire: non te lo prefiggere modello unico di
prosatore, per avere il pretesto, comodo alla pigrizia, di non
leggerne altri, come molti fanno; ai quali il maestro unico
raffina il gusto, ma lo circoscrive; poiché il Manzoni
mostrò ciò che può la lingua nostra, ma non
in tutti i campi, né in ogni forma della letteratura, non
avendo trattato ogni argomento, né tutto detto in tutti i
modi possibili neppure nel campo suo. E non lo imitare, per la
ragione principalissima, ch'egli non ha imitato nessuno. Ma la
semplicità - domanderai - la naturalezza, tutte le
qualità mirabili che riconosciamo nella sua prosa,
perché non s'hanno da imitare? - E io ti rispondo che
quelle qualità non te le darà l'imitazione, con la
quale troppo facilmente la semplicità degenera [343] in
sciatteria, la grazia in sguaiataggine e in superficialità
la chiarezza. Quelle qualità devono essere in te, come
furono nel Manzoni, il frutto maturo d'infiniti studi e letture, e
disse stupendamente il più sensato dei manzoniani: che
è illusione il credere di potergliele rubare, leggendo lui
soltanto, senza rifare in qualche modo il cammino ch'egli fece.
Leggi dunque, e studia tutti gli scrittori. Leggi e confronta fra
di loro quelli che si rassomigliano e quelli che più si
dissomigliano, arrestandoti in special modo a considerare gli
effetti simili ottenuti con mezzi diversi. In ciascuno troverai
certi ordini di pensieri e di sentimenti ch'essi esprimono con
maggior efficacia d'ogni altro; troverai nei più
artificiosi espressioni e forme semplici; nei meno eleganti forme
elegantissime; nei meno ricchi di lingua locuzioni e costrutti
preziosi, da altri non usati, frasi e parole, dalle quali essi
soli traggono certi effetti vivi, per il punto e il modo con cui
le adoperano, come se quelle forme acquistassero dalla loro penna,
incastonate nei loro periodi, un valore particolare. Cerca in
tutti, quando sei arrestato da una frase o da una parola che suona
falso, o da un'oscurità, o da una slegatura che ti
dà il senso d'un vuoto, o da un giro di parole che ti
dà un principio di noia, cerca in qual maniera si potrebbe
correggere l'errore, chiarire l'oscurità, annodare i
pensieri sconnessi, recidere la frase oziosa. Arrèstati in
special modo ogni volta che trovi espressi con facilità e
proprietà certi sentimenti e pensieri, dei quali a te suol
riuscire difficile l'espressione, o perché corrispondono a
lati deboli delle tue facoltà, o perché sono remoti
dalla tua indole, o perché si [344] riferiscono a cose
sulle quali non hai mai fermato a lungo l'attenzione. E ritorna
sulle pagine belle: non ti contentare di quella prima commozione
viva e piacevole ch'esse ti destano, nella quale, come dice il
Leopardi, la mente tumultua e si confonde; ma esamina, com'egli
faceva, e rivolgi in mente quelle bellezze fin che esse vi piglino
un posto, dove rimangano. Locuzioni, armonie, inflessioni di
stile, particolarità sintattiche degli scrittori più
diversi si mescoleranno nella tua memoria, si combineranno coi
tuoi pensieri, e ti verranno fuori in certi momenti, senza che tu
ne riconosca l'origine, come dall'intimo del tuo spirito, come
nate nel tuo capo, e tutte tue; chè saranno tue veramente.
Ti verranno, nello scrivere, reminiscenze inconsapevoli di tutte
le scuole, di tutti i generi e di tutti i secoli della
letteratura, soccorsi inaspettati, echi lontani e vicini e soffi
animatori e baleni; scriverai con la cooperazione misteriosa di
tutti i grandi scrittori; e ti parrà nondimeno di non
ricever nulla da nessuno, perché quello che n'avrai tolto
sarà diventato tua eredità legittima, ti sarà
penetrato "nei più profondi strati del pensabile",
sarà diventato sostanza del tuo cervello e del tuo sangue,
il tuo ingegno, la tua italianità, la parola spontanea e
necessaria del tuo sentimento e del tuo pensiero.
[345]
UN PARLATORE IDEALE.
È uno dei più cari ricordi della mia
gioventù questo toscano illustre, al quale, per riuscire un
grande scrittore, non mancò né l'ingegno, né
la dottrina, né il sentimento, né l'arte; ma
solamente la voglia di scrivere. Già dissi di lui in altri
libri; ma l'impressione ch'egli mi lasciò di sè
nell'animo e nella mente è così profonda, e ancor
così viva, che, riparlandone, non ho coscienza di ripetere
cose già dette; e se ripeto le cose, mi vien sempre fatto
di dirle in modo diverso, poiché mi pare di non averle mai
dette prima con bastante efficacia.
È il più ammirabile maestro di lingua
parlata ch'io abbia inteso mai, quello che mi mostrò meglio
d'ogni altro più eletto parlatore ciò che può
la lingua italiana nel campo della conversazione agile e varia,
irto di tante difficoltà per la maggior parte degl'italiani
anche colti.
Si sentiva ch'era toscano; ma non negl'idiotismi di
pronunzia che ai toscani si rimproverano, chè non n'aveva
nessuno, non aspirando neppur leggermente la c: si sentiva nella
pronunzia [346] perfetta che, fuor di Toscana, nessun italiano o
pochissimi possedono, anche di coloro che hanno reputazione
meritata di parlar perfettamente. Ma la pronunzia era il pregio
minore del suo parlare. Il pregio massimo era d'esprimere ogni
pensiero, anche più difficile, intorno a qualunque
argomento, o più ovvio o più astruso, con una
facilità e con un garbo impareggiabile, senza uscir mai dal
tono della conversazione famigliare; di dire ogni cosa con
proprietà, con finezza e con eleganza, senza che apparisse
mai nel suo discorso neppure un'ombra di ricercatezza e
d'ostentazione letteraria. Parlava con facilità, ma non in
furia, e se qualche volta s'arrestava un momento a cercare una
parola o una frase, nessuno dei suoi ascoltatori s'impazientiva;
non solo, ma l'aspettazione era piacevole, perché sapevan
tutti che l'espressione aspettata veniva poi quasi sempre
più felice, più calzante al pensiero di quella che
alla mente loro s'affacciava. E v'erano nel suo linguaggio
gradazioni finissime secondo ch'egli parlava con persone con le
quali non avesse dimestichezza, o con amici stretti, o in un
crocchio dove non fossero signore, o con signore. Non c'era caso
che con queste gli sfuggisse mai uno di quei tanti modi volgari,
comunemente usati, dello stampo di tirar su le calze o romper le
tasche o mandare a far friggere, che molti credono leciti in ogni
compagnia perché li hanno letti nei libri: egli non aveva
neppur da fare un atto di riflessione per iscansarli: il suo senso
squisito della dignità e della grazia li escludeva. E
così, quando gli occorreva di spiegare ad uno qualche cosa
che questi non comprendesse alla prima, o quando faceva una [347]
citazione, o ribatteva un'opinione altrui, erano ammirabili le
sfumature, le industrie gentili della frase e dell'accento,
ch'egli usava, non lasciandole quasi avvertire, perché non
ci fosse nel suo linguaggio nessun'apparenza d'insegnamento,
né colore di saccenteria, né asprezza di
contraddizione. Ne seguiva mai ch'egli mostrasse, come fanno molti
bei parlatori, di star a sentire sè stesso, o di cercar
negli occhi degli uditori l'ammirazione della propria eloquenza:
non si vedeva mai sul suo viso, non si sentiva mai nel suo accento
altra espressione da quella del pensiero o del sentimento ch'egli
esponeva. Alla semplicità signorile e amabile del
linguaggio corrispondeva perfettamente il suo modo di gestire:
vivo, ma sobrio, e sempre spontaneo, e pieno d'efficacia, sia che
facesse l'atto di disegnar nell'aria un'immagine, o d'incidere col
cesello una frase, o di modellare una forma nella creta, o di
scacciare con la mano un velo di nebbia che ondeggiasse fra il suo
pensiero e la sua parola. Maravigliosa era poi la varietà
del suo vocabolario, ricchissimo, secondo gli argomenti della
conversazione, di locuzioni letterarie e di modi popolari, senza
che nessun modo insolito usato da lui paresse mai strano o nuovo
affatto a chi l'udiva per la prima volta, tanto egli l'usava a
proposito, e in maniera che da tutto il discorso n'era chiarito il
senso e l'opportunità dimostrata. Persino quei vocaboli
stranieri, che s'usano di necessità per designar nuove
cose, ma che suonano sgradevolmente all'orecchio non ancora
assuefatto a sentirli, riuscivano meno esotici, pigliavan quasi
suono e apparenza italiani in quel suo linguaggio di sostanza e di
forma tutta [348] italiana, come se questo comunicasse loro un
poco del suo colorito e della sua armonia. Con che agilità
di parola raccontava, con che evidenza di disegno e
securità di tocco descriveva, con che vivezza faceva
scattare e scintillare l'arguzia, e con che stretta concatenazione
d'argomenti e lucida semplicità di dizione ragionava,
smorzando il tono, allentando la stretta della dialettica,
raffinando la cortesia dell'espressione man mano che sentiva
vacillare l'avversario, non più ostinato a resistere che
per salvare l'orgoglio! Si diceva ogni momento, ascoltandolo: -
Senti, come si può dire semplicemente la tal cosa che io
dico sempre con una frase solenne! - Oppure: - Guarda, e io
sostenni sempre che la tal frase francese non si poteva tradurre
in buon italiano! - A sentirlo, desideravo sempre che fosse
lì qualche dotto straniero, di quelli che intendono
l'italiano e lo gustano, perché ammirasse in quel parlare
un saggio della ricchezza e della potenza della nostra lingua, e
mi rallegravo in fondo all'anima, e sentivo alterezza d'esser nato
nel paese dove una tal lingua si parla. E osservavo che quasi
tutti, discorrendo con lui, parlavano meglio del solito, e non per
uno sforzo che facessero, per emulazione; ma naturalmente, come
per un'eco armoniosa ch'egli destasse in loro; ciò che pure
osservai nelle famiglie, dove parlan tutti più o men bene,
se c'è uno che parla benissimo. La sua conversazione era un
diletto, un pascolo intellettuale, una scuola di lingua e di
gentilezza. E per effetto dei vari pregi ch'egli riuniva,
dell'espressione propria e colorita, della pronunzia bella,
dell'accento e del gesto [349] efficacissimo, tanta parte dei suoi
discorsi m'è rimasta impressa nella memoria, che ad ogni
tratto, parlando e scrivendo, nell'atto stesso che certe
espressioni m'escono dalla bocca o dalla penna, mi ricordo
d'averle imparate da lui; e molte volte, dopo che ho scritto una
frase o una parola che mi pare affettata, o volgare, o disadatta,
domando a me stesso s'egli l'avrebbe usata, e se, immaginando
d'udirla dire da lui, mi par che stoni col suo discorso, la
cancello; e quasi sempre, nel rileggere con intento critico
qualche cosa mia che non mi contenti, per forzarmi ad esser severo
con me medesimo in ciò che riguarda il buon gusto, mi
figuro che ci sia lì lui, ad ascoltare. E così nei
buoni effetti del suo insegnamento mi risorge dinanzi sovente
l'immagine del maestro insigne e caro, che da venticinque anni non
vedo più, e a cui m'è dolce esprimere ancora una
volta la reverenza antica e la gratitudine fatta più viva
dal tempo.
[350 bianca]
[351]
PARTE TERZA.
[352 bianca]
[353]
SE CI POSSIAMO FARE UNO STILE.
Un onesto negoziante, un po' burbero in famiglia, ma
buon diavolaccio, il quale credeva che per legge di natura un
padre fosse in grado d'insegnare alla sua prole ogni cosa, un
giorno, in mia presenza, disse severamente al suo figliuoletto,
rendendogli la pagina del componimento italiano: - Ma quando ti
farai uno stile? - Poi, rivolgendosi a me: - Lo persuada lei, che
è tempo che si faccia uno stile.
Gli promisi di contentarlo in un momento più
opportuno; ma la prima volta che mi trovai a quattr'occhi col
ragazzo, lo confesso senza rimorso, tradii il genitore con un
discorsetto ribelle alla sua volontà; il quale diceva
presso a poco quello che ora ripeto a te, mio giovine lettore
ideale.
Farsi uno stile! Mi par come dire: farsi un
temperamento, farsi una fisonomia, farsi una voce. Lo stile non ce
lo facciamo: ci vien fatto; o come disse un grande scrittore, si
trova senza cercarlo: chi lo cerca, non può che trovare uno
stile artefatto; chi se lo vuol fare non riuscirà [354] che
a farsi una maniera, non uno stile. Qualunque scrittore, che abbia
uno stile veramente proprio e sano, che non sia imitazione o
artifizio (sinonimi, letterariamente, di malsania), se gli domandi
in che modo se lo sia fatto, ti dirà che non lo sa, o che
non lo sa dire; che in fondo è la stessa cosa. Non ti dar
dunque questa briga, non soltanto inutile, ma perniciosa. Se si
tien per giusta la definizione: lo stile è l'uomo, tu devi
prima diventare un uomo. Se s'accetta l'altra definizione: - lo
stile è quella vita che il tuo concetto prende in te, e che
tu comunichi, nell'esprimerlo, agli altri -, o più breve: -
è la vita nella parola -, come si può cercare la
vita?
Sei persuaso?
T'addurrò un'altra ragione. È un fatto
universalmente riconosciuto che ogni individuo, in un certo senso,
parla un linguaggio diverso da quello d'ogni altro uomo,
cioè, che non solo usa sempre o quasi quelle tali parole
per esprimere quelle tali cose, e ha certi modi e frasi
famigliari, consuete a lui più che agli altri; ma che certe
parole e frasi suole usare in un significato leggermente diverso
da quello che dànno loro la maggior parte. E non soltanto
ciascun uomo ha un linguaggio individuale per quello che riguarda
i semplici vocaboli e le semplici frasi; ma ha pure un suo modo
particolare d'ordinare le idee, il quale deriva dal maggiore o
minor grado d'importanza che a ciascuna idea egli attribuisce
rispetto all'altre, e un modo suo proprio di legarle fra loro, il
quale dipende dalle relazioni particolari che fra loro egli vede,
e anche un andamento del discorso, per così dir musicale,
suo proprio, il quale è effetto del suo [355] modo
individuale di sentire il suono del linguaggio ch'egli parla. Ora
in questo vocabolario individuale, e nel modo d'ordinare e di
collegare l'idee, e nel ritmo del discorso che ciascuno ha di suo,
consiste appunto lo stile; e tu comprendi che tutte queste cose
non si cercano, ma vengono da sè, col tempo, che ne porta
molt'altre. Vedi dunque che non ti devi affannare a farti uno
stile.
Ognun sa sè, dice il proverbio, e il Giusti,
riferendolo allo scrivere, l'ha ben commentato così: ognuno
ha mezzi tutti suoi, tutti voluti dal suo modo di essere, e dei
quali il più delle volte non saprebbe dar conto neppure a
sè medesimo. Ma questi mezzi non si svolgono, e non vien
fatto d'usarli che con gli anni, quando è formata
l'organatura della mente e formato l'animo. In ciò che nel
linguaggio di ciascuno c'è di differente da quello degli
altri "entra tutta l'individualità del carattere, del
sapere, dell'educazione". Lo stile ti verrà dai recessi
più profondi dell'animo, da quello che faranno di te le
passioni, i casi della vita, le cose che amerai e ammirerai, la
tua professione, i tuoi studi prediletti; ti verrà dal
predominio che avrà in te o il sentimento o la ragione, o
dall'equilibrio stabile dell'uno con l'altra; dai contrasti che
troverai, dalle lotte che dovrai combattere, dai favori e dalle
percosse che avrai dalla fortuna nell'aprirti una strada nel
mondo, dall'aspetto in cui ti si presenterà la natura, dal
modo come giudicherai gli uomini, dalla fede che avrai in qualche
cosa di bello e di grande, o dai sentimenti che non ti lasceranno
sorgere o ti spegneranno nel cuore quella fede. Come la luce [356]
del sole dà il colore alle cose, sarà il lume
dell'anima tua che darà il colore al tuo stile, sarà
il palpito del tuo cuore che gli darà il movimento, e gli
darà il calore l'onda del tuo sangue, e l'eco che
avrà nel tuo spirito l'armonia del giorno sarà la
sua armonia.
Cerca dunque per ora, nello scrivere, la naturalezza,
la chiarezza, l'ordine, la proprietà; ma quel che
indefinibile che è l'individualità dello stile, che
è lo stile senz'altro, aspetta che ti venga. Se te lo
volessi fare, cadresti sicuramente nell'imitazione e nella
stranezza. Non cercare lo stile: pensa, studia, opera, ama, vivi,
e l'avrai.
[357]
LO STILETTATORE.
Vien qui a proposito un nuovo personaggio piacevole.
Non bazzicò che breve tempo il nostro piccolo
cenacolo letterario di capi armonici, quando Firenze era capitale;
ma vi lasciò di sè una memoria vivissima,
che, come vedi, ancor non m'abbandona;
(o dolce Francesca, perdonami!) In che modo si fosse imbrancato
con noi non ricordo bene: mi pare al caffè, dove
attaccò conversazione di punto in bianco, da un tavolino
all'altro, una sera che discutevamo di letteratura, vociando tutti
a un tempo, com'era nostro costume. Era Emiliano, agente di varie
Case di commercio, benchè ancora molto giovane, e
dilettante di lettere a ore avanzate. Aveva scelto per passatempo
la letteratura, non so perché, invece del biliardo o del
tiro al piccione: forse perché meno costosa; ma a poco a
poco ci aveva preso passione; e l'idea madre della sua passione
era, com'egli diceva corrugando la fronte, di farsi uno stile.
Questa [358] frase, nella quale si riduceva, credo, quanto egli
conservava degli studi ginnasiali non finiti, gli s'era ficcata
nel capo come una vite; farsi uno stile era diventato per lui il
pensiero precipuo della vita, dopo quello di guadagnarsi il pane.
Ma qualunque altra cosa avesse disegnato di farsi, anche un
palazzo di marmo di Carrara, credo che gli sarebbe riuscita
più facilmente di quella, da tanto ch'era falso e strambo
il modo ch'egli teneva per conseguirla.
Al pari di molt'altri, egli considerava lo scrivere
come un'industria a parte, che non avesse che fare col pensiero, o
quasi; come un'arte meccanica in cui si riuscisse maestri con
l'esercizio, indipendentemente dal fatto di avere o no qualche
cosa da dire; e credeva quindi che uno si potesse fare uno stile,
come un sarto fa un abito, per esporlo nella vetrina della sua
bottega. E neanche studiava a modo suo (chè sarebbe stato
inutile) di farsi uno stile suo proprio. Egli andava cercando
nella gran sartoria della letteratura italiana un abito bell'e
fatto; pigliava ora questo ora quello, se lo insaccava, e veniva a
farcelo vedere, pavoneggiandosi. Un certo talentaccio d'imitazione
l'aveva. Letto per una settimana un autore, ne cavava un certo
numero di frasi e di costrutti, gl'imbastiva insieme alla diavola
sopra un argomento qualsiasi, e correva al caffè a leggerci
la paginetta come un saggio dello stile che s'era fatto. Gli
saltavamo agli occhi, dandogli del contraffattore, del falso
pavone, dell'arlecchino finto Principe. E allora egli ricorreva a
un altro autore, e tornava dopo un po' con un'altra paginetta,
tessuta con la filaccia spicciata dai panni di quello. Una volta
rifaceva [359] il Giusti, un'altra il Boccaccio, una settimana
guerrazzeggiava, la settimana appresso impiccava i fantocci del
suo pensiero al laccio del Davanzati. E non si scoraggiava mai per
le nostre canzonature. - Eppure -, esclamava, picchiando il pugno
sul tavolino - io mi farò uno stile!
Parve una volta persuaso, finalmente, della
falsità della via che batteva: che uno stile non si sarebbe
fatto mai scimiottando ora l'uno ora l'altro scrittore. Avete
ragione - ci disse - non bisogna imitare pecorescamente nessuno. -
E ci manifestò la sua nuova idea, un'idea luminosa, una
trovata da uomo di genio, espressa con una formula farmaceutica: -
Bisogna mescolare e agitare. - E mescolò e agitò
davvero. La sera che ci portò il suo nuovo saggio, si fece
un baccano di casa del diavolo. Era la brutta copia d'un lungo
articolo di giornale, in cui aveva fatto il più bizzarro
intruglio di stili che si possa immaginare; dove quasi ad ogni
periodo saltava dall'imitazione d'uno scrittore a quella d'un
altro, facendo anche salti di secoli, con una temerità di
matto furioso; un cibreo stilistico, nel quale si sentivano i
più disparati sapori della cucina letteraria nazionale,
dalle semplici minestre patriarcali dei trecentisti ai lambiccati
manicaretti dolciastri dei cianciatorelli fiorentineggianti e
francesizzanti della scuola manzoniana degenerata. Il chiasso che
facemmo lo sconcertò al primo momento; riconobbe sbagliata
la ricetta; ma si rifece animo ben presto, e ripetè
fieramente che in ogni modo, o per una via o per un'altra, a furia
di cercare e d'ostinarsi, si sarebbe fatto uno stile. E [360]
appunto per questo suo continuo farci balenare agli occhi, quasi
in atto di minaccia, il suo stile futuro, gli mettemmo il
soprannome di stilettatore.
Il ridere che si fece alle sue spalle, povero
stilettatore! Quando l'incontravamo per la strada, dopo qualche
giorno che non s'era visto, gli domandavamo lì su due
piedi: - Te lo sei fatto?
- Non ancora proprio -, rispondeva; - ma sono sulla
buona strada.
- Ma è tempo che tu ti spicci!
- Si fa presto a dire -, ribatteva sul serio. - Ma
non ci si fa mica uno stile in ventiquattr'ore! - lasciando capire
con quelle parole, che forse in fin di settimana avrebbe avuto il
fatto suo.
Non gli davamo requie. Aveva ragione di dirci che gli
stilettatori eravamo noi. Quando al caffè si chinava a
cercare un soldo che gli era cascato, gli domandavamo: - Che cosa
cerchi? Uno stile? - Quando mescolava nel bicchiere vari liquori
per farsi una certa bibita di sua invenzione, dicevamo: - Ecco
Pippo (era il suo nome di battesimo) che si fa uno stile! - E gli
davamo ogni specie di ricette scritte per farselo. - Recipe: tanti
grammi di questo, tanti di quest'altro: pestare, sbattere, far
cuocere a bagnomaria -, e la parte del corpo dove aveva da
applicare l'impiastro. Ma egli non badava alle nostre burle, e
seguitava a braccar lo stile. - Uno stile - ci disse gravemente
una sera (e doveva essere una frase imparata di fresco) - che sia
nello stesso tempo moderno e ritragga dai grandi esemplari.
Curiosa, fra l'altro, era l'impressione che gli [361]
facevano tutte le locuzioni e le definizioni insolite ch'egli
leggesse, concernenti la tecnica (era una sua parola prediletta)
dello stile. Non le capiva bene, e non poteva; ma le raccoglieva
con cura amorosa, e le veniva ripetendo con cert'aria di
solennità e di mistero, come formule d'arte magica.
L'elaborazione formale del periodo, il tipo periodico, il nodo
sintattico, i legami gerundivi e ipotetici, gli spunti melodici
dello stile lo facevano pensare, non so ben che cosa, nulla forse,
ma profondamente. Ricordo che gli fece un gran senso una frase
bella davvero che aveva letta in un libro, dove era detto di certe
curve del periodo prosastico di Dante, non mai girate per intero,
rompentisi come a formare un sesto acuto. Ah! s'egli avesse potuto
fare dei periodi col sesto acuto! Anche uno solo! Credo che
avrebbe dato per questo tutti i suoi guadagni commerciali d'un
mese.
Ma per tutto il tempo che rimase a Firenze, lo stile
non lo trovò.
Per i suoi affari di commercio dovè andare a
stabilirsi a Milano. Ma per lungo tempo noi continuammo a parlare
spesso di lui. Non occorreva di nominarlo. Quando, in un ristagno
della conversazione, saltava su uno a dire: - Se lo sarà
già fatto? - tutti capivano ch'egli domandava se lo
stilettatore si fosse fatto finalmente uno stile.
Lo incontrai molti anni dopo a Milano, mentre
attraversava la Galleria con aria affaccendata.
Mi salutò con viva cordialità: aveva
dimenticato o perdonato le canzonature fiorentine. Dopo lo scambio
solito di rallegramenti e di notizie, pensando che la fisima dello
stile gli fosse uscita [362] di capo da un pezzo, gli domandai,
per celia, se se l'era fatto.
Ma da questo genere di monomanìe letterarie
non si guarisce. Mi rispose seriamente: - Eh, no, non ancora. Che
cosa vuoi? Ho avuto tanto da lavorare in tutti questi anni! Ma ci
penso sempre. Ho un tipo stilistico nella mente. Oh, ci
riuscirò, ci dovessi impiegare tutta la vita. Ora son
persuaso che a trovar lo stile ideale basta appena la vita d'un
uomo.
- Ma che ne farai del tuo stile ideale nei tuoi
ultimi anni? - gli domandai; - poiché può ben darsi
che tu non lo trovi che agli ultimi, e anche proprio all'estremo
passo. A che serve lo stile in punto di morte?
Mi diede una risposta sublime: - Io ho un ideale
puro, senz'ambizioni. Sarei contento anche di portar la mia
trovata con me al camposanto. Ma lascerò qualche pagina,
vedrai. Basterà una pagina!
E queste furono le ultime parole che intesi dalla sua
bocca, e che spesso mi risuonano in mente. Ma di lui non rido
più. Ogni volta che ci penso, ora, mi prende un sentimento
d'ammirazione, misto di tenerezza pietosa, raffigurandomi quel
povero sognatore che ancora abbracciato alla sua illusione
letteraria, sul letto di morte, dice con un ultimo sorriso alla
sua famiglia sconsolata: - Fatevi coraggio! Io muoio contento. Ho
uno stile.
[363]
A CHE SERVONO I PRECETTI.
Dunque, regole, precetti, niente? Adagio Biagio. Ma
questo non dovrebb'essere affar mio, che essendo tuo consigliere
soltanto, non maestro, non sono in debito di dirti ogni cosa. E
poi i precetti tu li hai nei tuoi libri di scuola. Questi ti
dicono quanto t'occorre: che, nello scrivere con vien badare che
tra i pensieri ci sia unità e continuità; che
bisogna collocare vicine le frasi che hanno fra di loro relazione
più stretta, e di cui l'una chiama l'altra quasi
naturalmente; che le proposizioni secondarie (precedenti,
conseguenti o concomitanti che siano) debbono essere misurate e
collocate in modo da non nuocere mai all'evidenza della
proposizione principale, che regge tutto il periodo, o che
è principale, se non altro, per il suo valor logico. Ti
dicono pure che non si ha da abusare di nessuno dei vari modi di
legare fra di loro i concetti, per coordinazione, per
subordinazione, per conclusione, ma usarli alternatamente, quanto
è possibile senza forzar la sintassi; che certi concetti o
certe parti del concetto, perché [364] richiamino sopra di
sè l'attenzione, debbono essere staccati, invece che fusi
con gli altri, e fatti risaltare, come gli aggetti in
architettura; che in certi casi bisogna affollare nel periodo le
proposizioni, in altri diradarle, per la stessa ragione che si fa
del tempo nella musica; e in alcuni punti fare una breve pausa,
per lasciar liberi un momento al lettore la mente e il respiro, e
in altri una pausa più lunga, perché il lettore
riposi, come si fa danzando e camminando; e che è
necessario variare il tipo del periodo, come il tono nella
parlata, per iscansare la monotonia nella quale i pensieri si
confondono e si velano come dentro una nebbia.
Tutti questi precetti tu conosci, e Dio mi guardi dal
dirti che sono inutili. Ti dico, anzi, che ne devi tenere
grandissimo conto, perché alcuni di essi, che sono leggi
fondamentali del pensiero, se li avrai sempre vivi nella mente,
saranno come voci che, a quando a quando, mentre scrivi, ti
faranno star attento a non uscir della retta via, o t'avvertiranno
che ne sei uscito e t'indurranno a rientrarvi, cancellando le orme
dei passi fuorviati. E aggiungo che il conoscere bene i termini e
le definizioni della precettistica ti sarà utilissimo a
formare nettamente nel tuo pensiero le osservazioni che farai
sugli scrittori, a determinare con esattezza a te medesimo i
difetti e gli errori che troverai in loro, altrettanto utili a
studiare quanto i pregi e le bellezze, a fare, insomma, delle
opere letterarie quella lettura analitica e critica, che è
la sola veramente proficua.
E non di meno ti dico che da tutta la precettistica
del mondo non imparerai a scriver bene; [365] te lo dico
perché tu non ti sgomenti, come avviene a molti giovani,
della difficoltà, della quasi impossibilità d'aver
tutti presenti, scrivendo, e d'osservare tanti precetti rigidi e
astratti, che pare debbano essere un inciampo più che un
aiuto, e come una rete tesa intorno al pensiero, che gli tolga
ogni libertà di movimento. No, non ti sgomentare dei
precetti. Quando ti metterai a scrivere con un concetto chiaro nel
capo, e mosso da un sentimento vivo, quando ti troverai,
procedendo nel lavoro, in quello stato di mente e d'animo, nel
quale chi scrive "è compreso, agitato, spronato da dieci
operazioni della mente distinte e conflate ad un tempo, che vanno
come in figura di cono a metter capo a un prodotto comune",
l'osservanza della più parte di quei precetti ti
riuscirà spontanea per modo, che quasi non avrai coscienza
d'osservarli. Sarà la tua ispirazione che, dando l'impulso
alle parole e alle frasi, le manderà ad occupare il posto
che loro convien meglio nel periodo; sarà la
mobilità del tuo pensiero che scanserà naturalmente
la monotonia, facendoti rompere le uguaglianze, variar le misure
dei periodi, mandare innanzi il discorso a onde ora lunghe e
placide, ora rotte e precipitose; sarà la stessa
respirazione mutevole del tuo pensiero che ti farà trovare
le giuste pause, e rallentare il passo dopo le corse, per
riprender lena, e riprender la corsa più rapida dopo esser
andato un tratto a rilento; sarà il tuo sentimento eccitato
il maestro muto, pronto e sicuro che ti farà dar risalto a
certi concetti, sollevandoli come sur un piedestallo, e collocarne
alcuni disparte, come in uno spazio vuoto, ed esporre altri quasi
a una svoltata [366] brusca del periodo, dove facciano
un'apparizione inaspettata. Tu metterai in atto molte arti sottili
che non saprai di possedere, obbedirai a molti precetti ai quali
non avrai mai pensato, sarai nello scrivere, come dice il Tommaseo
che ogni uomo è nel parlare, guidato da certe norme
sapientissime di natura che sono l'umana ragione medesima.
Prevedo ora una tua domanda. Riguardo ai due stili,
non è vero? C'è in ogni letteratura due forme di
stile, che, come dice benissimo un grande scrittore, scaturiscono
tutt'e due dall'intima natura del cervello umano. C'è
quello più spontaneo, che del pensiero rende tutte le
flessioni, segue tutti i serpeggiamenti, accompagna in tutti i
minimi moti il processo, non lasciando nulla sottintendere a chi
legge; al quale mette innanzi come un quadro, dove il pensiero
stesso è rappresentato in tutti i suoi particolari, e
questi nell'ordine e nel disordine con cui si sono affacciati alla
mente. E c'è lo stile che, con un lavoro sintetico, segna
del pensiero soltanto i rialti e le cime, in modo che la mente di
chi legge faccia un salto dall'uno all'altro pensiero importante,
sorvolando e sottintendendo tutti i pensieri secondari che fanno
catena fra quelli, ossia compiendo da sè il quadro di cui
lo scrittore non ha dato che i tratti principali.
Ebbene, tu domandi a quale dei due stili ti debba
attenere.
E chi te lo può dire, amico mio? Noi andiamo
perpetuamente dall'uno all'altro. L'uno e l'altro si trovano a
vicenda, se non in ciascuna opera, nell'opera complessiva di quasi
tutti gli [367] scrittori, non tanto perché essi passino da
questo a quello deliberatamente, sentendo che ciascuno di essi,
alla lunga, affatica, quanto perché al primo o al secondo
sono naturalmente condotti dalla varia natura degli argomenti, dal
diverso modo di concepire che induce in loro il diverso genere
degli studi, e dalle condizioni dello spirito mutate
dall'età e dai casi della vita. È più
naturale nell'età giovanile la prima forma, cioè, il
lasciar andar la parola, la frase, la sintassi libere e agili come
è il pensiero della gioventù, viva e impaziente;
s'inclina più all'altra nell'età matura, quando,
pensando più denso e più cauto, si è di
conseguenza più sobri nel parlare e nello scrivere, e come
in tutte l'altre cose anche nell'espressione del proprio pensiero
si cura soltanto quello che più importa e si va dritti allo
scopo per la via più breve. Tu, se diventerai uno
scrittore, prenderai più spesso l'uno che l'altro stile
secondo che vorrà la tua indole; o fors'anche tutt'e due
cozzeranno sempre in te senza che l'uno o l'altro prevalga: chi lo
sa? Questi son misteri, come dice Giambattista Giorgini, che
l'anima celebra con sè stessa.
Non te ne dar pensiero per ora. Quello che più
preme, per riuscire nell'uno o nell'altro modo a scriver bene,
è che tu possegga da padrone la lingua; senza di che
nessuna forma di stile prenderai, perché chi è
povero di lingua, ed è quindi costretto a far servire a
tutti gli usi quel poco che n'ha, non va dove la natura e
l'ispirazione lo spingono, ma dove le scarse parole e frasi del
suo dizionario lo tirano; le quali, invece di obbedirgli, gli
comandano, come fa in generale chi serve, quando gli s'addossano
[369] anche dei servizi che non deve fare, ed egli sa che non
abbiamo nessuno da sostituirgli.
E ora tiriamo innanzi..... Ma no; aspetta un momento.
Mi devo prima difendere da un tale, eccolo qua, che mi corre
addosso come uno spiritato...
[369]
COME S'HA DA INTENDERE LA MASSIMA CHE SI DEVE SCRIVERE COME SI
PARLA.
L'anonimo, ansando: - Sono arrivato in tempo, grazie
al cielo! Lei stava per consigliare a questo povero ragazzo di
scrivere come si parla!
- Ha indovinato.
- O come si fa ad avere i capelli bianchi e
così poco giudizio?
- Glielo dirò poi, quando lei avrà
sfogato la sua generosa indignazione. Faccia liberamente.
- Faccio sicuro. Voglio salvare un'anima. Lei,
dunque, consiglia a chi scrive di proporsi come ideale un
linguaggio imperfetto. No? Ma è necessariamente imperfetto
il linguaggio parlato, poiché chi parla, chiunque sia, non
ha tempo di vagliare i vocaboli, né di sceglier le frasi,
né d'ordinare le idee, né d'architettare con garbo i
periodi; perché i migliori parlatori non esprimono i
più dei loro pensieri che a mezzo, o ne dànno
l'espressione compiuta a furia di ritocchi e d'aggiunte, e
allungano e ripetono, e parlano a sbalzi e a strappi, e
suppliscono alle deficienze dell'espressione parlata con
l'accento, col gesto e con lo sguardo. Che cosa mi può
rispondere?
[370]
- Le rispondo prima di tutto che lei ha sciorinato un
periodo che è un argomento in mio favore, perché
è un periodo parlato che sta benissimo; invece del quale ne
farebbe probabilmente un altro men naturale e meno efficace se
scrivesse quello che m'ha detto seguendo la sua teoria: che non
bisogna scrivere come si parla. In secondo luogo, le rispondo che
lei sfonda una porta spalancata.
- Come sarebbe a dire?
- Sarebbe a dir questo. Che per iscrivere come si
parla io intendo: scrivere come uno che parlasse perfettamente.
- Oh bella! Lei si dà la zappa sui piedi,
dunque, e riconosce la mia ragione, perché chi parlasse
perfettamente parlerebbe come si scrive... da chi sa scrivere
com'io m'intendo.
- No, ed ecco il punto: non parlerebbe perfettamente,
perché riuscirebbe, e parrebbe anche a lei strano e
affettato, chi, parlando, adoperasse tutti i vocaboli, le frasi e
i costrutti che per solito s'adoperano scrivendo; la maggior parte
dei quali non sono adoperati parlando neppure da coloro che ne
abusano nelle scritture, e ciò perché sentono
anch'essi che quei modi parrebbero nella conversazione ricercati e
pedanteschi. Ora io dico che quei modi, per la stessa ragione che
non s'usano parlando, si deve scansar d'usarli scrivendo,
perché essi non mutano natura né suono nel passar
dalla bocca alla penna; e se ai più fanno un altro senso
sulla carta da quello che fanno nella conversazione, questo non
deriva che da una consuetudine viziosa della mente, la quale non
vede più nella scrittura la rappresentazione della parola
viva, com'è in realtà, ma [371] qualche cosa di
convenzionale, quasi d'impersonale, e quindi indipendente dalle
leggi del linguaggio comune. E questo è tanto vero, che a
quelli stessi che sono del parer suo, cioè che parlano in
un modo e scrivono in un altro, par più naturale,
più viva, più efficace, benchè sempre non lo
dicano, la prosa conforme al linguaggio parlato che quella non
conforme; e non può essere altrimenti. Credo giusta
perciò questa regola: quando s'è scritto un periodo,
domandare a noi stessi se, dovendo dire quella stessa cosa che
abbiamo scritta, la diremmo nello stesso modo, con la certezza di
non parer leziosi, o pedanti, o forzati; e se ci pare di no, levar
via dal periodo i vocaboli e le frasi che non diremmo, e
sostituirvi quelli che diremmo. Sono assolutamente certo che in
tutti i casi, così facendo, il periodo riuscirebbe
più semplice, più chiaro e più bello.
- Ha finito?
- Per ora.
- Dei del cielo, perdonategli! O non riconosce lei
che c'è una quantità di modi e di forme, che non
s'usano parlando perché non son naturali, ma che si possono
e debbono usare scrivendo perché abbreviano l'espressione
del pensiero, legano i pensieri fra loro meglio delle forme usuali
della conversazione, e tengon su la sintassi, e dànno forza
al discorso; e che è irragionevole, nell'interesse medesimo
dell'efficacia dello stile, il sacrificare tutti quei vantaggi
alla naturalezza?
- Lo riconosco, e per questo a questa povera anima
che lei vuol salvare, avrei detto, se me n'avesse lasciato il
tempo, che quelle forme e quei modi, a cui lei accenna, bisogna
evitarli [372] quanto è possibile, non in modo assoluto.
Gli avrei detto prima che per scrivere come si parla non si ha da
intendere che si debba scrivere con lo stessissimo linguaggio una
pagina di romanzo e una commemorazione dantesca, una lettera a un
amico e un capitolo di storia. Ma questa distinzione non
contraddice punto al mio principio, poiché lo stesso
linguaggio parlato non ha sempre lo stesso carattere e le stesse
forme, con chiunque, dovunque e in qualsiasi occasione e di qual
si voglia cosa si parli. Intesi un giorno un amico improvvisare un
discorso sopra un feretro, al camposanto, in presenza d'un
migliaio di persone: egli usò frasi e parole che non
avrebbe usate dicendo quelle stesse cose a me solo: eppure non
stonavano perché erano esse pure del linguaggio parlato; ma
del linguaggio che si parla quando s'ha l'animo commosso, in un
momento solenne, davanti a un grande uditorio. E le vorrei
mostrare le migliori pagine degli scrittori italiani di tutti i
tempi, dal Machiavelli al Carducci, e farle toccar con mano che le
più eloquenti e più belle tra le migliori, anche
sopra argomenti altissimi, quelle che ci vanno più dritte
al cuore e alla mente, e che ci rimangono più scolpite
nella memoria, e che rileggiamo sempre con maggior piacere, sono
per l'appunto le pagine, nelle quali abbiamo più viva
l'illusione di sentir parlare l'autore come immaginiamo che parli
o che parlasse con tutti, nelle quali troviamo meno parole, frasi
e costrutti lontani dall'uso del linguaggio parlato.
- Ah, no! Ah, no! Ah, no! E se anche potessi
riconoscere vero codesto per quanto riguarda le parole e le frasi,
non lo potrei mai ammettere [373] rispetto alla struttura del
periodo; il quale, nel linguaggio parlato, non è mai e non
può essere, come spesso nella prosa scritta dev'essere,
largamente svolto, sapientemente costrutto, nobilmente
architettato.
- Nego, nego, nego. Lei può aver ragione in
riguardo al periodo della conversazione ordinaria, su argomenti
comuni, famigliare e tranquilla; ma ha torto, se riferisce quello
che dice anche al linguaggio della passione. La passione,
parlando, ha due maniere di periodo. Parla a brevi incisi,
senz'ordine e senza legature, negl'impeti violenti e passeggeri,
che offuscano la mente e fanno balbettare il pensiero come la
lingua. Ma quando l'uomo infiammato dalla passione, e tanto
più se è un uomo colto, le fa un racconto o una
descrizione o un ragionamento, nel quale, per produrle
un'impressione immediata e viva, ha bisogno di presentarle
tutt'insieme, o nel minor tempo possibile una quantità
d'idee, d'argomenti, di fatti, d'immagini, che nella sua mente
s'affollano e s'incalzano, osservi come svolge anch'egli
largamente il periodo, che periodi lunghi le tesse, pieni d'incisi
e pur rapidi, complessi e chiari ad un tempo, e ben lumeggiati in
ogni loro parte, e ampi e armonici e leggeri; che paiono stati
preparati e imparati a mente, e sono non di meno pieni di
spontaneità e di naturalezza, e non hanno né parole,
né frasi, né costrutti che non siano comunissimi nel
linguaggio parlato! Per questo io dico che anche dove occorre di
svolgere ampiamente il periodo, scrivendo, si può serbare
la naturalezza del linguaggio di chi parla, e che non soltanto nei
termini e nelle frasi, ma anche nella sintassi e nell'andamento
della [374] prosa scritta, pur mirando sempre a una perfezione che
nel parlare non si può raggiungere, ci dobbiamo scostare il
meno possibile dal linguaggio che usiamo nella conversazione.
Così io intendo lo "scrivere come si parla".
- Non creda d'avermi persuaso. In ogni modo, nel dar
quella norma ai giovani c'è un pericolo: di farli cadere
nella trascuratezza e nella volgarità.
- Ma c'è un pericolo anche nel combatterla, ed
è di farli cadere nell'affettazione e nella pedanteria.
- Lasciamola lì.
- Badi che è lei che la lascia.
- Allora la ripiglio.
- Ripigliamola.
(Continua).
[375]
PENSARCI PRIMA.
Ecco il più utile dei precetti: - Pensare
prima di mettersi a scrivere. - Un grande scrittore ha detto: -
Meditare vivamente e tranquillamente sull'argomento.
Alla tua età, quando s'ha da scrivere, si suol
commettere l'errore d'incominciar subito e in qualunque modo, con
la risoluzione di chi spicca la corsa incontro a un pericolo per
non lasciar tempo alla paura di saltargli addosso; s'entra d'un
salto nell'argomento anche senza un'idea preconcetta, pensando che
l'ispirazione ci raggiungerà per la via, che le idee
sorgeranno sul nostro cammino, l'una dall'altra, come le bolle in
un'acqua agitata.
È un calcolo sbagliato della pigrizia, che
rifugge dal lavoro preparatorio della composizione. Quanto meno
avrai pensato prima, tanto più faticherai dopo, e con minor
frutto. Quanto più ti sarai voltato e rivoltato per la
mente il soggetto avanti di scrivere, con tanto maggior
rapidità scriverai; e questa rapidità non
sarà precipitazione, ma impeto spontaneo, che andrà
tutto [375] a vantaggio della vivacità dell'espressione e
della fluidità dello stile.
Noi pensiamo a frammenti e a ritocchi. Poche idee ci
nascono nella mente chiare e vestite di un'espressione che possa
esser messa tal quale sulla carta. Al primo sorgere, l'idea ci si
presenta quasi sempre come "un'ombra, presso che informe; poi si
disegna, ma a linee ancora mal determinate, e qua e là
spezzate e manchevoli; poi piglia una forma compiuta e netta. Tu
getti per lo più l'idea sulla carta quando è ancora
nella prima o nella seconda fase. Aspetta la terza. Ci sono idee
che si svolgono con un lungo giro misterioso nei labirinti del
cervello: tu devi lasciar che compiano il giro: se le prendi a
mezzo cammino non prendi che un embrione d'idea. E non pensare che
certe espressioni felici, che tu trovi negli scrittori, siano
sempre, come ti paiono, effetto d'un'ispirazione subitanea: tali
possono esser parse allo scrittore medesimo nell'atto che le
scriveva; ma sono in realtà quasi sempre "l'ultimo effetto
istantaneo d'un lavoro precedente del suo pensiero". Nota ancora
che ciò che osservano tutti gl'insegnanti in certi giovani,
che non riescono mai ad appropriarsi certi costrutti sintattici,
non deriva se non dal fatto che essi formano sempre stortamente
nel loro capo certi gruppi di concetti, ai quali quei costrutti
corrispondono; e li formano sempre stortamente perché non
fanno mai quel lavoro a mente tranquilla, prima di scrivere, e
nella furia dello scrivere accettano sempre lì per
lì la forma solita in cui quei dati concetti si presentano
alla loro mente. E devi pensar prima anche per questo: che, in
quel pensare avanti di [377] scrivere, l'attenzione è
più facilmente raccolta, essendo la stessa operazione
meccanica della scrittura una distrazione; e il lavoro del
pensiero è più libero e più vivo, e meno
proclive a oltrepassare i confini d'una brevità sobria ed
efficace che quando va di conserva con la penna; poiché la
penna è chiacchierona, tende ad allungare, a infronzolare,
a ripetere; ed anche in quel lavoro mentale preparatorio libero e
agile abbracciando e misurando più facilmente tutte le
parti del tuo pensiero, previeni il pericolo di lasciarti poi
tirare, scrivendo, più là del giusto e del
conveniente da ciascuna parte del pensiero medesimo. E
principalmente per bene ordinar le tue idee devi pensar prima,
perché, se aspetti a ordinarle mentre scrivi, questo lavoro
ti distrarrà da quello di cercar l'espressione; e se per
cercar l'espressione trascurerai l'ordine delle idee, non ti
verrà più fatto di legarle naturalmente e
logicamente; ma le legherai con nodi grammaticali artificiosi e
forzati, che faranno peggior effetto delle sconnessioni.
Oltrechè nel troppo frequente sostare con la penna per
riparare all'insufficiente preparazione, perderai anche
l'originalità del pensiero e della forma, perché
darai tempo alle reminiscenze letterarie di sopraggiungere, ossia,
ai pensieri e alle frasi d'altri di mescolarsi coi tuoi, e ti si
raffredderà l'ispirazione, senza la quale non c'è
spontaneità, e accetterai molte volte, per impazienza
dell'indugio e per abbreviare lo stento, senza critica,
violentando la tua coscienza, la prima idea che ti s'affaccia alla
mente.
C'è ancora un'altra ragione, e questa te la
dico con le parole d'un autore drammatico [378] valentissimo, che
certo t'ha più volte rallegrato e commosso. Dopo avermi
spiegato com'egli abbia per uso di non mettersi mai a scrivere
prima d'avere in mente il lavoro quasi compiuto, disse: - Resisto
quanto più posso alla tentazione di prender la penna,
perché qualunque cosa io metta sulla carta, prima d'aver
pensato tutto il mio dramma, mi diventa un impaccio. Quando quella
tal cosa è scritta, non mi so più risolvere a
mutarla né a cancellarla, o non lo faccio che con grande
sforzo, per un senso di pigrizia e quasi d'avarizia intellettuale,
perché mi rincresce di buttar via quella fatica già
fatta, anche non essendone contento. Una pagina, invece, o una
frase, la quale non sia scritta ancora che nel mio pensiero, la
correggo o la cancello senza esitazione e senza rammarico.
M'è sempre riuscito meglio tutto quello che ho più
tardato a far passare dalla mente nella scrittura. -
Avvèzzati dunque a ordinare e ad esprimer le
tue idee, a prendere appunti, a cancellare, a correggere, a rifare
le cose tue mentalmente. Tu rimarrai maravigliato nel riconoscere
quanto si fortifichi, anche con un breve esercizio, la
facoltà, che da principio è debolissima in tutti, di
fare "minute mentali". Da una volta all'altra che ti proverai, ti
riuscirà di farle, con minor fatica, sempre più
lunghe, più particolareggiate, più chiare,
più vicine alla forma definitiva. Quando avrai in mente ben
chiaro e ordinato quello che vuoi scrivere, il tuo pensiero franco
e sicuro di sè farà correre la penna diritta e
svelta senza lasciarle tempo né modo di fuorviare, di
serpeggiare, di perdersi in minuzie e in fregi inutili e falsi.
Credi che nessuno scrittore scrisse [379] mai una pagina veramente
bella, rigorosamente logica, in ogni parte perfetta, la quale non
fosse già composta per intero nel suo capo prima ch'egli
intingesse la penna nel calamaio. E tieni a mente sopra tutto che
l'ordine delle idee è, dopo il valore delle idee stesse, il
primo pregio d'ogni scrittura, perché è insieme
chiarezza, brevità, armonia, bellezza, forza, e che
all'ordine prima che ad ogni altra cosa deve intendere il lavoro
di preparazione, perché dall'ordine principalmente deriva
la facilità dell'espressione e la spontaneità dello
stile, perché fra lo scrivere con le idee già
ordinate nella mente e l'ordinarle scrivendo corre la stessa
differenza che tra il camminare per una strada fatta e il farsi la
strada a passo a passo sur un terreno ingombro di pietroni e di
sterpi.
Questo è il lavorìo preparatorio che
devi fare ogni volta che hai da scrivere. Ma, quando non ti manchi
il tempo, è bene che tu ne faccia anche un altro, che
sarebbe come la preparazione generale di quella preparazione
particolare. E questo consiglio te lo do in nome d'un sommo
scrittore. Il quale dice che quando s'ha da comporre giova
moltissimo il leggere abitualmente in quel tempo autori di materia
analoga a quella che dobbiamo trattare; non già per
proporceli come modelli di ciò che dobbiamo fare, non per
imitarli; ma per l'assuefazione materiale che, leggendoli, la
mente acquista a quel dato lavoro e stile, per l'esercizio ch'essa
fa di questi in quelle letture. Osservazione giustissima,
poiché tutti esperimentiamo, e avverrà a te pure,
che dopo aver letto, per esempio, un ragionatore, si prova una
singolare tendenza e facilità a ragionare, e così
dopo [380] aver letto racconti, a raccontare, e descrizioni, a
descrivere; si fa la mano a quel dato genere, per dirla con un
traslato che può parere ignobile, ma che non è,
perché ci sono molte più rassomiglianze che il
nostro orgoglio non voglia riconoscere, fra il lavoro
intellettuale e il lavoro meccanico.
E ora che abbiamo visto come ci dobbiamo preparare a
scrivere, vediamo un poco lo scrittore alla prova; in che intoppi
s'imbatta, da che cattive tentazioni sia assalito, quali pericoli
corra, che battaglia debba combattere con sè stesso, e con
quali forze e con quali arti possa vincere. Può essere che
la rappresentazione ti giovi e ti diverta ad un tempo.
[381]
CON LA PENNA IN MANO
SCENA IDEALE.
Personaggi: Un giovinetto che scrive. - Il genio
amico. - Il Buon gusto. - Il Buon senso. - Idee, frasi, parole. -
Un'idea velata. - L'Ambizione.
UNA FRASE. - Eccomi.
LO SCRITTORE (guardandola). - Le rassomigli; ma non
sei per l'appunto quella che cerco.
LA FRASE. - Ma son bella.
LO SCRITTORE. - Lo vedo, e mi tenti. Ma non puoi
vestir la mia idea, le faresti addosso delle pieghe, e parresti un
abito preso a nolo.
LA FRASE. - Ma poiché non n'hai altre alla
mano! Chi sa quanto avresti a cercare, e forse senza trovare!
Pigliami. I lettori, colpiti dal mio color vivo, non baderanno
alle pieghe.
IL BUON GUSTO. - Non le dar retta: le vedrebbero,
come si vedono le rughe anche in un bel viso. Rifiutala.
LA FRASE. - Farai vedere se non altro che mi
possiedi, sarò un segno di più della tua ricchezza.
[382]
IL BUON GUSTO. - E del tuo cattivo gusto e della tua
improprietà e della vanità per giunta. Mandala via e
cerca ancora.
LO SCRITTORE - dopo aver un po' pensato, fa un atto
d'impazienza e si rimette a pensare.
IL GENIO AMICO. - Non la trovi?
LO SCRITTORE - non risponde.
IL GENIO AMICO. - Se non la trovi, non insistere.
Forse è già nella tua mente, ma nascosta, e
uscirà di sorpresa. Forse è già passata, e
non l'hai colta a volo, ma ritornerà. Prosegui.
LO SCRITTORE (rimettendosi a scrivere). - "Le
contrarietà e le lotte, le fatiche e gli stenti, le
amarezze e le angosce, i disinganni...."
IL GENIO. - La durerai un pezzo?
IL BUON GUSTO. - Codesto si chiama sfilar la corona
del rosario.
IL BUON SENSO. - Tu dài il tuo pensiero a
sgoccioli....
IL BUON GUSTO. - Sei pagato a un tanto la parola?
IL GENIO AMICO. - Dacci un bel frego, figliuolo.
LO SCRITTORE - cancella, arrossendo e sorridendo
leggermente, e continua a scrivere.
IL GENIO (leggendo di sopra alle spalle dello
scrittore). - Codesto è buono. (Un minuto dopo). E ora
perché t'impunti?
LO SCRITTORE. - È arrivato a un punto dove il
pensiero gli manca; egli vede un vuoto davanti a sè, come
un fosso profondo, di là dal quale gli appare nettamente il
sentiero per cui potrà continuare il cammino. Ma come
riempire quel vuoto per passare di là?
UNA FOLLA DI PAROLE CHE ACCORRONO DA TUTTE LE PARTI.
- Siamo qui noi, al tuo servizio. Comanda.
[383]
LO SCRITTORE. - Ma voi non dite nulla.
LE PAROLE. - Ma possiamo colmare il fosso.
LO SCRITTORE - le guarda, titubando.
IL GENIO (alle parole). - Sgombrate, fannullone
impostore! (Allo scrittore). Non ti servire di questa mala
genìa. Lascia il vuoto piuttosto, e fàtti coraggio a
spiccare il salto. Al lettore riuscirà meno ingrato lo
scomodarsi a saltare con te che il passare sopra il mucchio di
ciarpame, col quale lo vorresti ingannare, facendoglielo parer
terra salda.
LO SCRITTORE - spicca il salto e si rimette in
cammino.
UNA IDEA - ravvolta in un velo, gli si presenta in
atto grazioso. Egli le sorride e le fa cenno di venire innanzi.
IL BUON SENSO. - Bada. Non ti lasciar ingannare. Non
la riconosci? (Strappa il velo all'Idea). La riconosci ora?
È la seconda volta che ti si presenta. Le hai già
fatto troppo onore la prima. Mettila alla porta. (L'Idea
svanisce). Guàrdati da queste seccatrici vanitose e
sfacciate che ritornano anche dieci volte in abiti diversi per
farsi ritrarre in tutti gli atteggiamenti e con tutti i giochi di
luce. Sono la perdizione degli scrittori che cascano nelle loro
reti. Scrutale bene in viso prima di riceverle.
LO SCRITTORE - dopo aver scritto un altro poco,
dà un'esclamazione di contentezza, che significa
chiaramente: - Ecco un pensiero! - e fa correre più lesta
la penna.
IL GENIO (si china a leggere, sorride, e dopo un
breve silenzio). - È un pensiero originale, ed espresso
bene; ma.... non è tuo!
LO SCRITTORE - si riscote, rimane pensieroso [384]
qualche momento, come cercando, poi fa un atto di rammarico e
abbassa il capo.
IL GENIO. - Oh! l'hai ritrovato il proprietario
legittimo. È vero? Sono illusioni frequenti. L'ha detto un
valentuomo, che pensava sempre col suo capo: un pensiero ci par
nostro e nuovo, alle volte, nel punto in cui è ancora
confuso nella nostra mente, perché, così essendo,
non rassomiglia a nulla; ma quando si determina nell'espressione e
assume la sua vera faccia, riconosciamo che è d'un altro.
Codesto tu l'avresti forse riconosciuto da te, rileggendo. Non
rubare: è il settimo comandamento. Un freguccio. Bravo.
È da giovine onesto.
LO SCRITTORE (si rimette a scrivere. Dopo un poco,
lascia cader la penna). - È inutile! È un pensiero
che non mi riesce d'esprimere. Ci rinunzio.
IL BUON SENSO. - Eh, via! Io ne intuisco la ragione,
poiché ti leggo in mente il pensiero. Tu hai in capo una
bella frase preconcetta, nella quale vuoi far entrare quel
pensiero, e non ti riesce, perché non son fatti l'uno per
l'altro, e t'ostini, perché vuoi mettere in mostra la
frase. Rinunzia alla forma elegante e impropria che ti sta a
cuore, supponi di aver da dire quello che pensi a un amico, in una
conversazione famigliarissima, senz'altra cura che di farti
capire; e vedrai che ti riuscirà di dirlo. Espresso che ti
sarai in quel modo, se l'espressione non ti finirà, ti
sarà facile ridurla, con qualche mutamento, a maggior
perfezione. Fanne la prova, e ne sarai persuaso.
LO SCRITTORE - dopo avere un po' pensato, rimane
immobile, con gli occhi fissi sul foglio, in [385] atto di fare
uno sforzo intenso; ma gli occhi sono senza vita.
IL GENIO. - Ecco il momento in cui l'occhio della
mente si vela. Smetti, amico. Non faresti più uno sforzo
utile. Alzati e muovi.
. . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. .
LO SCRITTORE - si rimette al lavoro e scrive di lena,
senza interrompersi, per un buon tratto. Poi alza il viso, come
cercando qualcosa con gli occhi, impaziente.
IL GENIO. - Che cosa cerchi? Un legame fra l'idea che
hai espressa nel periodo finito e quella che vuoi esprimere nel
periodo che segue? Ma se un legame naturale non c'è,
perché ce lo vuoi mettere?
IL BUON GUSTO. - Per eleganza? Ma come potrà
essere elegante un legame non naturale?
IL BUON SENSO. - Non è meglio uno stacco
inelegante che una bella attaccatura forzata?
IL BUON GUSTO. - Che sarebbe un anello di latta
dorata?
IL BUON SENSO. - E che in ogni modo congiungerebbe le
parole, ma non le idee?
IL GENIO (dopo un poco). - Ah, ti ci colgo ora! Ti
colgo in flagranti a raccattare un pensiero superfluo per metterci
addosso una bella frase!
IL BUON SENSO (dopo un altro poco). - E a cercar dei
cavilli per giustificare a te stesso codesta espressione che la
coscienza ti rimprovera!
IL BUON GUSTO (due minuti dopo). - E a metter la
barba finta a un pensiero già espresso, per farlo parere un
personaggio nuovo!
LO SCRITT. (lavora altri dieci minuti; poi guarda
alla finestra, sospirando). - Oh che bel sole di [386] primavera e
che bell'aria limpida! Come cantano allegramente gli uccelli! Che
fragranza deliziosa mandano le acacie fiorite dei viali! Come
sarebbe piacevole a quest'ora correre fra il verde e l'azzurro,
col pensiero libero, bevendo a grandi sorsi la vita! E che dura
cosa è questa fatica, quest'affanno della mente
prigioniera, segregata dal mondo vivente, questo torturarsi il
capo con la penna come con la punta d'uno stile!
L'AMBIZIONE (sbucando d'un salto di dietro a una
libreria). - Ah! è una dura cosa, è un affanno,
è una prigionia, è una tortura! Ah, credeva il
signorino che fosse una cosa facile l'arte, l'arte a cui diceva di
voler consacrare la vita! Ma non ci si riesce senza incredibili
fatiche, dice il poeta della Ginestra. Ma bisogna sudare e gelare,
dice Orazio. Ma convien farsi per molt'anni macro, dice Dante. Ma
tutti gli scrittori che tu ammiri sudarono, vegliarono, si
torturarono, ci rimisero la salute e ci si logorarono l'anima. E
il signorino ambizioso, che vuol arrivare alla gloria, crede che
sia come prendere la via dell'orto!
LO SCRITT. china la fronte e si rimette all'opera.
IL GENIO (passata un'ora, dopo aver letto l'ultima
pagina). - Sta bene. Eccoti col vento in poppa. Non dare
all'immaginazione il tempo di raffreddare. Non cercar la frase,
chè non ti sfugga il pensiero. Segna di volo le idee che ti
incalzano. Non ti soffermare a scegliere fra le varie parole che
ti s'offrono: notale in margine, come faceva il Leopardi:
sceglierai più tardi la più calzante. Non insistere
su nessun concetto secondario. Non lasciar deviare in rigagnoli,
[387] tieni raccolta la corrente del tuo pensiero; scaccia le idee
intruse che romperebbero l'onda; e va' spedito, ma non ti lasciar
travolgere. Fa' un ultimo sforzo, e pianterai la bandiera sulla
riva.
LO SCRITT. - tira un grande respiro, e posa la penna,
col viso rasserenato e sorridente.
IL GENIO (dopo aver letto). - Tutto codesto è
ben pensato e ben detto. Hai vinto le cattive tentazioni. Non hai
tradito il tuo pensiero. La tua coscienza dev'esser contenta. Che
sentimento di serenità e di leggerezza, non è vero?
E come ti è dolce ora la libertà dello spirito! E
come benedici la tua fatica!
[388]
LA SFILATA DEI BRUTTI PERIODI.
Vien'ora, che assisteremo insieme a uno spettacolo
singolare, il quale ti potrà dar argomento a osservazioni
utili.
Come le madri spartane facevano vedere ai figliuoli
gl'Iloti ubbriachi perché prendessero in aborrimento il
vizio dell'ubbriachezza, io ti farò sfilare dinanzi i
periodi deformi e viziosi, affinchè lo spettacolo
ripugnante e compassionevole ti fortifichi nel proposito di non
mostrar mai nulla di simile nella prosa che uscirà dalla
tua penna.
La moltitudine miserevole sfilerà in tre
processioni successive, che rappresenteranno ciascuna una
deformità o infermità particolare, comunissima nel
mondo letterario, dalla quale tu dovrai fare ogni sforzo per
preservarti, in special modo nel primo periodo dei tuoi studi.
Ecco la prima colonna che viene avanti, come
può.
È lo sciame dei periodi nani, appartenenti
tutti alla gran famiglia dello Stile singhiozzato, che è
numerosissima, e sparsa in tutti i campi [389] della letteratura.
Sono molto in voga a cagione del gran comodo che fanno a chi vuol
scrivere facilmente, senza darsi la noia d'affrontar le
difficoltà della sintassi, di collegare, cioè, e
d'intrecciare le idee, di concatenare e di saldare l'una all'altra
le frasi, che è un perditempo di pedanti e una fatica di
certosini. Vedi che son quasi tutti periodi d'una sola, o di due
proposizioni al più, semplici come la miseria. Grazie a
loro il discorso va avanti a piccoli salti, come gli uccelli, o a
brevissimi passi misurati come le galline a cui si mettono i
laccetti alle gambe, perché non scappino. Chi li usa, dice
che servono a imitare il linguaggio parlato; ma quella non
è imitazione, è caricatura, perché anche nel
parlare è rarissimo che s'esprima il pensiero così a
pezzi e bocconi, che si proceda in quel modo a scatti e a
sussulti, come se la mente battesse la terzana. Vedi se non
è buffo che un uomo scimiotti l'andatura d'un bambino.
Prova a seguitar per un po' codesti periodi, e ti sentirai le
gambe rotte. Non son periodi, ma rottami, briciole di periodi;
pensieri in pillole e in polvere; trucioli e segatura di prosa. E
ne passa, e ne passa, di tutti i gradi di statura al disotto della
media, di tutte le gradazioni di magrezza fra il corpo spolpato e
lo scheletro nudo, e usciti d'ogni dove: da romanzi d'appendice,
da discorsi politici solenni, da commemorazioni mortuarie
lacrimose, da parlate asmatiche di drammi, da lettere d'amore
deliranti a freddo e simulatamente disperate. Dicono: - È
brevità efficace. - Ma non è vero; si provino d'un
lungo periodo perfetto d'uno scrittore conciso a far tre periodi,
e vedranno se non [390] l'allungano, dovendo ripigliare il cammino
due volte, e ripetere verbi e soggetti. - È stile scolpito!
- Ma non sono scultura i denti d'una ruota di legno, come non
è musica il rumore che n'esce. - È vivacità
di stile! - Ma chi è più vivace dell'epilettico? -
È un risparmio di noia al lettore! - Ma che c'è di
più uggioso del tic tac d'un orologio? Oh, di che riso
amaro e sprezzante riderebbe il Machiavelli al veder la prosa
italiana ridotta a questo balbettìo di scamiciati
aggranchiti dal freddo! Ma non occorre ch'io ti dica altro. Tu non
ti mescolerai con questa ragazzaglia di periodi; tu preferisci fin
d'ora la compagnia degli adulti; chi ha buona gamba non fa tre
passi sur un mattone. Lasciali andare all'Asilo.
Guarda ora quest'altri che s'avvicinano. Non ti par
di veder venire innanzi lentamente, l'un dietro l'altro, di quei
piccoli treni di strada ferrata, che si dànno per balocco
ai ragazzi? Sono i periodi degli scrittori geometrici. È un
altro modo di scansar la fatica e le difficoltà delle
orditure sintattiche sapienti e belle, pur avendo l'aria di far
dei periodi di grande disegno. Sono periodi fatti d'una lunga
serie di membri, d'un'egual misura a un di presso, e legati fra
loro quasi tutti con lo stesso legame di coordinazione, per modo
che alla fin di ciascuno il lettore può riposarsi, quasi
come a un punto fermo; ciò che dà allo scrittore il
pretesto di stendere dei periodi sterminati, e di poter dire che
non leva al lettore il respiro. Vero è che lo ammazza in un
altro modo, e non più piacevole. Questi periodi non
c'è ragione mai che finiscano, se non quando lo scrittore
non ha più [391] nulla da dire: li finisce quando vuole,
per bontà sua; e potrebbe, con quell'andare, fare anche un
libro d'un periodo solo. Sono pensieri cristallizzati, come disse
a maraviglia un critico, in espressioni geometricamente uguali.
Non sono propriamente periodi, ossia, non tessuti di proposizioni,
ma filze; non costruzioni, ma pietre e mattoni ammontati a filo di
piombo, senza cemento né incastro; non c'è in questo
periodare né rilievi, né intrecci, né scorci,
né inversioni efficaci, né varietà di suoni e
di modulazioni; non v'è che una sfilata monotona di
pensieri, tutti vestiti a un modo, che vanno avanti con lo stesso
passo, mettendo l'uno il piede sull'orma dell'altro, come una
processione di frati. Vedi che soltanto a parlarne, si prende il
contagio: di questi periodi n'ho scritto uno. Alla fin di ciascuno
tu ti senti cascare il capo e le palpebre e ti devi dare un
pizzicotto per incominciare il secondo. Dev'esser qualche cosa di
simile il viaggiare sul dorso d'un ippopotamo. In tutto il tempo
che ho impiegato a discorrere n'è passato uno solo. E se
n'avvicina un altro della stessa mole. Schiaccia un sonnellino,
che ti sveglierò al terzo. Buon riposo.
Ecco la terza sfilata. Questa è la più
sbalorditoia, quella che comprende tutte le deformità,
malattie e vizi più miserevoli e strani: i periodi zoppi, i
gobbi, gl'idropici, gli accidentati, i periodi tutti testa o tutti
pancia, quelli senz'occhi che vanno a tentoni, quelli senza gambe
che si trascinano per terra, e quelli che dalle reni hanno tornato
il volto, come gl'indovini dell'inferno dantesco, e i malati
d'atassìa che non hanno coordinazione fra i movimenti delle
membra, e [392] gli ubbriachi che camminano a zig zag,
barcollando, e a ogni tratto soffermandosi o inciampando, e
finiscono a cadere sulle ginocchia o sulle mele. Sono tutte le
mostruosità sintattiche che possono uscir dalle menti che
non conoscono né seste, né compasso, e in cui "la
ragion naturale e reciproca della parte d'un concetto è
continuamente turbata dalle varie associazioni della fantasia che
s'intromette nel processo del loro pensiero"; dalle menti di tutti
coloro che, come diceva il Montaigne, data la mossa coi remi alla
barca del periodo, costeggiando, si soffermano qua e là e
imbarcano alla cieca tutte le idee che loro fanno cenno di voler
salire, per modo che la barca sopraccarica va innanzi a
sbilancioni e bevendo acqua, fin che si capovolge o s'affonda, e
tutti annegano. Alcuni, come vedi, non hanno forma nessuna: non
son periodi, ma una certa quantità di parole chiuse fra due
punti fermi. Altri rassomigliano alle Sirene, che hanno un bel
viso e finiscono in coda di pesce. Qualcuno è vestito bene;
ma le ossa sformate e i bubboni gli fanno dei gonfi sotto i panni,
o i panni gli s'aggrinzano dove mancano le carni o le costole, o
il pelame intonso e arruffato, somigliante a una vegetazione
selvatica, nasconde la fisonomia. Ce n'è parecchi che non
sono che aggrovigliamenti di congiuntivi, figliati l'uno
dall'altro, o sequele di parentesi, che si fanno buio a vicenda, e
mettono il pensiero principale all'oscuro; e molt'altri che
mostrano d'essere stati fatti con gran cura, ma con la cura e con
l'arti d'un chirurgo, che per tenerli su li ha ricerchiati come
botti d'apparecchi ortopedici visibilissimi, e mezzi coperti di
bende, d'imbottiture e di [393] cerotti. Se questi periodi tu
esaminassi a uno a uno, riconosceresti che la più parte dei
loro vizi e difetti non richiedono ad essere scansati né
ingegno singolare né arte sopraffina o esperienza consumata
di scrittore; ma che sono quasi tutti errori di logica elementare,
dai quali basta il buon senso e un po' di riflessione a
preservarci. Guardali bene, e vedi quanta bruttezza e quanta
miseria! E pensa quant'è grande il numero di questi
mostricini messi al mondo di continuo da innumerevoli persone
anche non incolte, o per sbadataggine o per furia o per
trascuranza d'ogni decoro letterario, e immagina gl'infiniti
piccoli danni che ne derivano nel commercio universale del
pensiero: quante oscurità, quante confusioni, quanti
malintesi, e quindi intoppi e lentezze e sciupìo di lavoro
e di tempo! Senza parlar del ridicolo, altra fonte infinita di
piccoli guai.
Dunque, hai veduto gl'Iloti. Guàrdati. Non
periodi singhiozzati, non periodi mastodontici, non periodi
sciancati, né gibbosi, né malati, né
selvaggi, né matti.
Volta il foglio, e troverai il periodo perfetto. Ma
no: bisogna che tu conosca prima Carlo Imbroglia.
[394]
CARLO IMBROGLIA.
Imbrogliava il discorso, intendiamoci subito: non il
prossimo; chè anzi nel commercio che esercitava, e anche
fuor del commercio, era uno specchio di galantuomo; e se non ci
fossero al mondo che imbroglioni del suo genere, sarebbe un
tutt'altro viverci. Non mancava, per commerciante, di cultura
letteraria, ed era pieno di buon senso; ma aveva il difetto
accennato da Dante dove dice che l'uomo, nel quale rampolla
pensiero sopra pensiero, arriva tardi al segno, a cui intende; e
il perché si capisce: perché il pensiero di lui
s'intralcia a ogni passo in sè medesimo. Ha definito
mirabilmente questo vizio mentale comunissimo un critico moderno,
dicendo che in non so quale scrittore la nozione si corrompeva e
si disgregava prima d'esser vissuta, presentando quel fenomeno
che, secondo certi fisiologi, segue in ogni organismo che si
discioglie: il quale di sede ch'egli era d'un solo principio
vivente, diventa il semenzaio di parecchi, che con nuovi moti e
combinazioni si riorganizzano nella sua materia imputridita.
[395]
Che diavolo d'arruffio si facesse nella mente del
nostro buon amico quando filava un ragionamento o raccontava un
fatto anche semplicissimo, non saprei ben dire. Incominciava con
un'idea, e subito quest'idea si fendeva in due; poi ciascuna idea
si biforcava alla sua volta, o si triforcava e si sfaccettava; e
volendo seguire tutte le deviazioni e accennare tutte le
trasformazioni e le sfaccettature del proprio pensiero, egli
diceva e ridiceva, correggeva e aggiungeva, e accumulava incisi e
incastrava parentesi, fin che si smarriva nei raggiri delle sue
frasi, come in un labirinto, e doveva rifarsi da capo.
Il difetto grammaticale più frequente in cui
si manifestava questo suo modo farragginoso di pensare era l'abuso
del congiuntivo. Egli parlava come un certo personaggio d'una
commedia francese che un amico suo definisce: un subjonctif
à jet continu. Mi ricordo parola per parola un periodo
ch'egli disse a proposito di certe pratiche fatte da noi per
riconciliarlo con un amico: - "Nel caso ch'egli volesse ch'io
andassi prima da lui, affinchè non si credesse da chi non
conoscesse i fatti ch'egli si fosse umiliato..." - Il famoso verso
di Dante
Io credo ch'ei credesse ch'io credessi
poteva essere la divisa del suo stile. Alle persone
di servizio, perché facessero a puntino questa o quella
cosa, non volendo omettere nessun particolare e dir tutto ben
chiaramente, dava gli ordini con certi periodi così
complessi e aggrovigliati, che finivano col non capirci una
maledetta. Tale e quale era nello scrivere. Ai suoi corrispondenti
commerciali scriveva delle lettere sulle [396] quali dovevano
meditare un pezzo, col capo fra le mani, come sopra dei
palinsesti, per tirarne fuori l'idea principale. Nella
conversazione con gli amici, poi, era una vera calamità.
Povero Carlo Imbroglia! Quando principiava un racconto, o diceva:
- Ecco il ragionamento ch'io farei -, oppure: - Mi
spiegherò meglio - tutti allibbivano. Era uno spasso nella
trattoria sentirgli dire al cameriere, per esempio: - Io vorrei
che tu dicessi al cuoco che mi cocesse la bistecca in modo (ma
già credo ch'egli lo sappia, ma è bene che tu glielo
ricordi, caso che l'avesse dimenticato, il che non è
improbabile) in modo che facesse meno sangue che fosse possibile;
ma che un poco ne faccia, intendiamoci bene, e non mancar di
dirglielo, che non gli accadesse di mandarmela secca, che mi
restasse nel gozzo, come qualcuno vuole ch'egli la faccia, ch'io
non so che gusto ci trovino. - E quasi tutti i suoi periodi erano
di quest'architettura.
Ma questi erano i suoi periodi chiari. Alle volte,
quando lo vedevamo impigliato in una rete da cui non gli riusciva
di strigarsi, cercavamo d'aiutarlo: chi gli suggeriva
l'espressione d'un pensiero incidentale, chi gli porgeva una
parentesi bell'e fatta, chi gli apriva con un'abbreviatura una via
d'uscita. Ma egli respingeva tutti i soccorsi e s'ostinava a finir
da sè il suo periodo, volendo a ogni costo dir la cosa a
modo suo. Qualche volta era costretto a fermarsi, per ravviare le
fila arruffate del discorso, e stava alcuni momenti in silenzio,
accennandoci con la mano di pazientare un poco, e socchiudendo i
piccoli occhi cerpellini, spesso malati; i quali lacrimavano,
dicevamo noi, per effetto dello sforzo [397] ch'egli faceva nella
troppo minuta e intricata orditura della sua sintassi. Un giorno
si scherzava nel crocchio sopra un argomento poco faceto: sul
genere di morte che ciascuno di noi avrebbe preferito. Quando fu
la sua volta, uno lo prevenne, dicendogli: - Quanto a lei, mi
perdoni, la sua fine è scritta: lei resterà
soffocato fra le spire d'uno dei suoi periodi. - Rise con gli
altri egli pure, dicendo che era consapevole del proprio difetto;
ma soggiunse che aveva ferma certezza di riuscire a forza di
volontà ad emendarsene, a parlare finalmente come voleva e
come, secondo lui, si doveva parlare. E infatti incominciava
sempre a parlare col fermo proponimento di resistere alla forza
dell'abito vizioso, d'andar diritto con la parola allo scopo,
rigettando tutte le tentazioni del pensiero serpeggiante; ma era
invano: ci ricascava sempre. Un momento dopo d'aver fermato per la
millesima volta quel proponimento, era capace di scrivere, a
proposito d'un amico, del quale s'era discusso se si dovesse
sì o no invitarlo a un banchetto, una maraviglia di
letterina come questa: - "Penso che converrebbe che gli mandassimo
l'invito (poiché avete stabilito che gli si mandi,
benchè io fossi d'opinione che sarebbe stato meglio che non
si facesse) prima ch'egli avesse notizia del pranzo da altri (il
che non credo che sia impossibile, chè anzi è assai
probabile che l'abbia), affinchè non potesse sospettare che
noi avessimo deciso d'invitarlo all'ultimo momento con la speranza
ch'egli non facesse in tempo a venire; cosa di cui, se la
credesse, credo che anche voi, che sapete quanto egli sia
permaloso, ammettiate che sarebbe [398] naturale ch'egli si
risentisse; ciò che dispiacerebbe a tutti, benchè
avessimo coscienza che fosse infondato il sospetto." - Che sudata,
povero Imbroglia! Eppure, come si capisce, anche da quel viluppo
di parole, ch'egli non avrebbe scritto malaccio se fosse riuscito
a levar le gambe dal congiuntivo e a camminar con la penna per la
via più corta!
Ogni volta che penso a lui, mi rigodo una scenetta
comica, che è il più piacevole dei ricordi ch'egli
m'abbia lasciati. S'era convenuto fra una mezza dozzina d'amici di
desinare con lui alla trattoria. Eravamo già tutti intorno
alla tavola, era passata l'ora da un pezzo, ed egli non compariva.
Comparve finalmente in vece sua, con un biglietto in mano, una sua
vecchia serva, buona donna semplice, che stava con lui da
molt'anni, e gli era affezionata come una parente. Uno di noi
lesse a voce alta: - "Cari amici! È impossibile che
immaginiate quanto io sia dolente che un malore, che m'affligge da
due giorni, m'impedisca d'intervenire a codesto desinare
amichevole, al quale è superfluo che io vi dica quanto
sarei stato felice...." -, e terminava dicendo che era malato di
congiuntivite.
Che volete? S'ha un bel dire che è inumano il
ridere del male altrui. Ma chi si sarebbe frenato? Malato di
congiuntivite! Era un caso comico di forza maggiore.
Ma il meglio venne dopo, quando la buona donna ci
domandò se non avevamo nulla da mandar a dire al suo
padrone.
- Sì, - rispose uno, - ditegli che abbiamo
detto che ce ne rincresce assai, ma che della malattia che lo
tormenta non crediamo possibile [399] ch'egli guarisca.
Riferitegli queste precise parole. Ci capirà.
- La donna ci guardò stupefatta; poi disse: -
Eh no, signori. Non credano. Non è grave. È un
incomodo a cui va soggetto.
E allora si scoppiò addirittura.
[400]
IL PERIODO PERFETTO.
Il modo di periodare d'uno scrittore maestro
nell'arte è paragonabile per certi rispetti al modo
d'andare d'un uomo ben formato, sano, svelto e elegante; il quale
cammina per la strada a passi né lunghi né corti,
ritto, ma non impettito, sciolto, ma dignitoso, e guarda e saluta
di qua e di là senza soffermarsi e senza scomporsi, supera
gl'impedimenti con agilità, scansa le persone con garbo,
svolta alle cantonate con un giro cauto, sale senz'affannarsi,
discende senza lasciarsi andare, e s'arresta a un tratto, quando
arriva alla meta, con un ultimo passo risoluto, rimanendo ritto ed
immobile.
Hai mai analizzato il diletto vivo che ti dà,
oltre all'utile dell'idea che v'è espressa, uno di quei
periodi magistrali, d'ampia stesura e di proporzioni giuste, nei
quali v'è una corrispondenza perfetta fra il pensiero e la
forma, e i concetti sono collegati e contrapposti in maniera da
illuminarsi a vicenda, e tutte le locuzioni son proprie, e tutte
le giunture facili, e nessuna parola superflua, per modo che non
ti riesce [401] d'immaginare come quella data idea avrebbe potuto
essere svolta altrimenti, neppure nei particolari secondari e
minimi della sua espressione? Il periodo è lungo e ti par
rapido, perché non c'è nessuna oscurità che
ti desti un dubbio, nessuna ridondanza che ti distragga, nessun
intoppo né vuoto che t'arresti. I concetti e i membri vi
son distribuiti così bene, senz'affollamento, quantunque
siano molto fitti, che ti par che l'aria vi si mova e v'entri
dentro la luce da ogni parte. Il periodo è così ben
modulato che vi senti una correlazione armonica fra la prima e
l'ultima frase, e fra queste e le intermedie, e nelle intermedie
fra di loro; ma è un'armonia non studiata e discreta, e
come naturalmente prodotta dall'accordo dei pensieri. Tutti i
concetti accessori che vi son contenuti ti si stampano nella
memoria nello stesso ordine in cui lo scrittore li ha posti, come
se quello fosse il loro ordine necessario e immutabile. Sono poche
righe, e quando sei arrivato in fondo ti par d'aver fatto un lungo
cammino, perché hai veduto molte cose in un piccolo spazio,
e non sei soltanto sodisfatto della lettura, ma anche di te
medesimo, perché dietro alle idee espresse n'hai vedute di
sfuggita, grazie all'arte dell'autore, molt'altre, e scambi
quell'arte con acume d'intuizione tuo proprio. E dopo la prima
lettura ti senti forzato a rileggere, compiacendoti di cercare le
cause di quell'effetto piacevole e utile, d'esaminare in ogni sua
parte il congegno, e quasi di disfarlo e rifarlo, per conoscere
l'operazione mentale complessa e sottile, con la quale fu
fabbricato. Ti sembra un'opera d'arte che stia da sè, ed
è in fatti una serie di parole che formano per sè
sole un tutto, che contengono un principio [402] e un fine;
è un piccolo capolavoro d'ordine e di numero, in cui sono
congiunte la semplicità e l'eleganza, l'ampiezza e la
brevità, la delicatezza e la forza; dove lo scrittore ha
esercitato tutte le sue facoltà e messo tutte le sue doti
migliori: il buon senso, il buon gusto, la ragione,
l'immaginazione, la profondità e l'agilità del
pensiero, l'acutezza e la vastità della vista mentale, alla
quale non sfugge minuzia alcuna, e che abbraccia ad un tempo cento
cose vicine e remote. Poi, rivolgendo quel piccolo capolavoro nel
pensiero, godi un piacere simile a quello con cui si guarda e si
rivolta per le mani un corpo rotondo, solido, liscio e lucente, e
fai dei paragoni, per i quali t'appare anche più ammirabile
la sua perfezione. Ripensi altri periodi d'altri scrittori, che
ammirasti, ampi anche quelli, e bene architettati, e musicali; ma
che differenza! C'è in quelli più suono che
pensiero, e in qualche punto il suono è strepito; ci sono
proposizioni che fanno eco l'una all'altra, frasi che si voltano
indietro a guardare lo strascico della propria veste, concetti
secondari che portano in capo un pennacchio troppo alto per la
loro statura; e a certi svolti tu ci perdi d'occhio l'idea
principale, e non sempre la ritrovi, o la ritrovi per riperderla
ancora quando sei arrivato alla fine. Ma questo è per ogni
verso perfetto. Non è nulla o è poca cosa rispetto
al libro che lo contiene; si potrebbe anche togliere, e rimarrebbe
all'opera tutto il suo valore; eppure non c'è da secoli fra
le migliaia di lettori uno solo che non si sia arrestato a quel
breve giro di parole, che non l'abbia ammirato, riletto dieci
volte, citato in cento occasioni, ricordato per molti anni o per
tutta la [403] vita; e in questa gemma si fisserà lo
sguardo di generazioni e generazioni di lettori, fin che non
sarà morta e sepolta la letteratura dov'essa risplende.
Ora senti: non è soltanto un consiglio,
è una calda raccomandazione questa ch'io ti faccio, con la
ferma certezza che, se la seguirai, n'avrai un vantaggio grande.
Quando, leggendo uno scrittore, t'imbatti in uno di quei periodi,
trascrivilo. E non temere d'aver da fare una tal fatica troppo
sovente, perché son periodi rari anche negli scrittori
grandi. L'avere alla mano una corona di queste piccole maraviglie,
e lo sfilarla ogni tanto, ti gioverà di più, per
imparare a periodar bravamente, che leggere decine di volumi.
Potrei presentartene io parecchi, che ho raccolti da scrittori di
vari secoli; ma è meglio che li cerchi e che faccia la
scelta tu stesso. Quando li avrai trascritti, e li rileggerai, e
ci penserai su, ci scoprirai molte più bellezze di quelle
che t'avranno fermata l'attenzione alla prima, e ne ricaverai
tanti ammaestramenti da formartene in capo un piccolo trattato
dell'arte del periodo, che sarà tutto tuo. Ci troverai fra
i vari concetti connessioni intime, non significate con parole,
come legami di fila finissime, non visibili che allo sguardo fisso
e prolungato della mente; "volute di sintassi accennate appena che
faranno fare come un mezzo giro al tuo pensiero verso un oggetto
nuovo, per rimetterlo quasi subito al punto da cui l'avranno
ritolto"; brevi spiragli, per cui t'appariranno di fuga tratti
d'orizzonti lontani; e salite e discese e scorciatoie e
profondità e curve ed angoli della locuzione, che ti
desteranno nella mente altrettanti [404] moti diversi,
leggerissimi, con ciascuno dei quali ti parrà di fare, e
farai in effetto un passo avanti nell'arte difficile dello
scrivere. E vedrai come ogni volta che ti metterai a scrivere dopo
aver ristudiato quei modelli, troverai maggior facilità a
far capire nel circuito d'un periodo solo molti concetti, a
inanellarli senza sforzo, ad accennarne alcuni senza esprimerli, a
involgerne altri dentro un altro, e a trascorrere da questo a
quello con un colpo d'ala, e a districare gli stami di molti
pensieri confusi per distenderli e incrociarli in un disegno netto
e leggero.
Dammi retta: fàtti da te questa piccola
raccolta di periodi perfetti, e imparala a mente, se puoi. E, chi
sa! Se proseguirai in questi studi nell'età virile, forse
ti verrà in mente di ampliare la raccolta fatta nella
giovinezza, e di dare ai giovani italiani un'Antologia singolare e
utilissima; della quale, ch'io sappia, non c'è ancora
esempio.
[405]
IL SOGNO D'UNO SCRITTORE FALSO.
Scena: una camera buia. Lo scrittore dorme e sogna,
agitato. Al principiare del sogno egli vede accanto al letto,
dalla parte del capezzale, un cassone enorme, pieno di cose
preziose, che gli son care quanto la vita; e udendo un rumoretto
all'uscio, e parendogli che un ladro tenti di forzar la serratura
per venirgli a rubare quel tesoro, stende e preme la mano tremante
sul coperchio del cassone, respirando con affanno.
Una figura di donna, bianca e leggera
come vapore in nuvoletta accolto
sotto forme fugaci all'orizzonte,
appare nel mezzo della camera, e gli rivolge la parola con voce
limpida e pacata.
LA SEMPLICITÀ. - Vengo non desiderata, lo so.
Ma fino a quando rifuggirai da me come da una nemica mortale? Fino
a quando persisterai a metter sul viso dei tuoi periodi cipria e
belletto e ad appiccicarvi néi e finti riccioli e orecchini
di perle false? Fino a quando, per ottenere codesta bellezza
artificiosa e stucchevole, farai gli sforzi che dovresti fare
invece per nasconder l'arte, per conseguire "quell'apparenza di
[406] trascuratezza, di sprezzatura, quell'abbandono, quella quasi
noncuranza" che, come dice un grande maestro, è una delle
mie specie più amabili, e in cui si manifesta veramente
l'ingegno; dovecchè il raccattare e l'accozzare lustre e
chincaglie è cosa da tutti? Disse un critico ardito che per
secoli, fatte poche eccezioni, fu una fitta di damerini dello
stile e della lingua tutta la letteratura italiana. Fino a quando
farai il damerino tu pure, vecchio vanerello smanceroso?
Il sognatore dà uno scossone.
UN ESPLORATORE AFRICANO. - O senta, signore!
Ritornato appena dall'Africa, ho letto per caso un libro suo. Vidi
laggiù certi piccoli re selvaggi che sul loro semplice
abito primitivo di stoffa bianca mettevano quanto potevan
raccogliere di vistoso e di luccicante, come fanno le gazze, dagli
europei di passaggio; e quando mi venivan dinanzi così
addobbati, con aria maestosa e contenta, mi dovevo morder la
lingua per non scoppiare dal ridere. E vidi anche dei selvaggi che
avevano incise sulla pelle figure di fiori, d'alberi, d'armi e
d'animali, e credevano d'esser belli, conciati a quel modo; e a me
parevano orribili e buffi. La sua prosa, mi perdoni, mi ricorda
l'abito di quei re, e il suo stile mi par tatuato, signore.
Il sognatore geme.
UN GENTILUOMO. - Io, signore, conobbi un tale, un
bottegaio arricchito, che quando gli capitava in casa qualcuno, lo
faceva girar per tutte le stanze, dove aveva messo in mostra un
poco prima tutta l'argenteria da tavola, i gioielli di sua moglie
e ogni oggetto di valore comprato o ricevuto in dono da lui nel
corso di trent'anni; [407] e credeva con quello sfoggio di farsi
veder gran signore; e tutti lo giudicavano invece uno spocchione
senza gentilezza e senza gusto.
Il sognatore si volta di scatto sur un fianco,
cercando una posizione più comoda.
UN CRITICO (con un sorriso acre e una voce di sega).
- Signore! È tempo oramai ch'io le spiattelli la
verità nuda e cruda. O chi crede d'ingannare con codesto
abbarbaglio di frasi, con codesta ostentazione di gale e di
lustrini? Crede che non si capisca ch'Ella ricorre a codesti mezzi
perché non ha un possesso sicuro della lingua, per
nascondere l'indeterminatezza che da quel possesso malsicuro
deriva all'espressione del suo pensiero? Che non si capisca
ch'Ella tira a scriver bello e avventato perché non le
riesce di scriver proprio ed esatto? E s'illude che con quelle
cianfrusaglie brillanti si possa mascherar mai il pensiero nullo o
mediocre? Eh, via! Anche il lettore meno colto ha una percezione
finissima per iscoprire un concetto trito o volgare sotto il
cencio di porpora dozzinale, come scopre la menzogna nel falso
sorriso. Smetta codesta roba, che sciupa anche i pensieri
migliori, perché svia la mente dalla diritta e rapida
intuizione del buono e del vero. O che è l'immagine, quando
non serve a dar risalto all'idea, altro che polvere negli occhi? O
quando capirà che la bellezza non è che nella parola
o nella frase necessaria, e che questa non può essere che
la più propria, e che la più propria è sempre
la più semplice e la più comune? Oh, rinunzi una
volta per sempre a tutta codesta rigatteria letteraria, che si
compra e si vende a peso a tutte le cantonate.
[408]
Lo scrittore respira sempre più affannoso,
contraendo il viso e le mani.
LA PASSIONE. - Il tuo linguaggio non è il mio.
Tu non parli mai con la mia voce e con le mie parole. Tu mi
tradisci sempre. Io non pèttino, non arricciolo, non
infioro le frasi e i periodi: io sono semplice e franca. Tu non
commovi nessuno perché sei l'opposto di quello ch'io sono.
Chi ti può credere sincero? Crederesti tu alla
sincerità d'un uomo che mentre ti confida, per
impietosirti, un grande dolore, facesse il bocchin di miele e gli
occhi languidi come una donnina leziosa, e atti vezzosi del capo
come una tortora in amore?
LA RAGIONE. - E piglieresti sul serio un altro che
mentre s'affanna a persuaderti d'una grande verità o a
indurti a un'azione generosa, scoprisse ogni tanto i polsini per
mostrarti i bottoni d'oro o lanciasse un'occhiata allo specchio
per veder l'effetto del suo gesto?
UN VECCHIO. - Senti. Io ho molto vissuto e conosco il
mondo. Se tu lo conoscessi quant'io lo conosco, se tu sapessi a
quanta gente ha recato e reca danno di continuo codesto mal vezzo,
in cui tu t'ostini, d'inorpellare l'espressione d'ogni sentimento
e d'ogni pensiero, tu faresti ogni maggiore sforzo per
liberartene, come d'una malattia pericolosa di morte. Quanti
uomini retti e modesti son giudicati irreparabilmente non sinceri,
vanitosi, presuntuosi, e si vedon rifiutati favori e vantaggi ed
aiuti non per altro che perché li chiedono con codeste
forme affettate e leziose a persone che aborriscono l'affettazione
e la leziosaggine quanto la malvagità e l'impostura! Quante
lettere e scritture d'ogni forma, che [409] chiedono cose giuste e
dovute, sono lacerate e buttate fra le cartacce non per altro che
perché sono scritte nel modo che tu scrivi! Quanti
scrittori di alto ingegno e di animo buono sono diventati
universalmente uggiosi e odiosi, e stati in ogni modo avversati e
defraudati dell'onore che per altri rispetti meritavano, per non
essere riusciti mai a spogliarsi di codest'abito sciagurato
d'infronzolare, d'ingioiellare, di fiorettare il proprio
linguaggio! Che aberrazione! O com'è ancora possibile?
UNO SCRITTORE. - Ho pietà di te, confratello,
e non te n'offendere, chè è pietà fraterna,
poiché l'ebbi un tempo di me pure; e fu quando tutte le
gale e le lustre della parola, di cui avevo fatto abuso cieco per
vent'anni, m'apparvero nel loro vero aspetto, e mi fecero il senso
che risentirebbe un uomo, il quale, addormentatosi nell'orgia d'un
martedì grasso, si risvegliasse il mercoledì delle
ceneri, in mezzo alla sua famiglia, sbriacato, ma ancor mascherato
da re delle marionette. Quando riconobbi quanti bei pensieri avevo
sciupati, quanti sentimenti gentili traditi, per quanto tempo
avevo offeso la dignità dell'ufficio di scrittore scrivendo
prosa di chincagliere e gettando negli occhi al pubblico crusca
dorata, sentii tale vergogna e nausea di me stesso, da esser
tentato di dar della fronte nel muro. T'auguro di guarire; ma la
convalescenza ti sarà triste, povero amico.
UN AMICO D'INFANZIA (col viso afflitto, e un accento
di rimprovero triste). - Ah, no, in quel modo non m'avresti dovuto
scrivere in quella occasione dolorosa. Sapevi che avevo l'anima
straziata da una grande sventura: mi dovevi [410] scrivere come ti
dettava il cuore. Tu non puoi immaginare che pena fu per me il
trovare nella tua lettera certe espressioni, quei tuoi soliti
ornamenti e vezzi di lingua e di stile, che mi fecero dubitare
della sincerità del tuo dolore, che mi parvero anzi segni
manifesti d'indifferenza e di durezza d'animo. No; se tu avessi
avuto pietà del tuo vecchio amico, se tu avessi pianto
davvero sulla sventura terribile che lo colpiva, tu non avresti
usato quelle parole per dirglielo, non avresti lisciato lo stile a
quel modo, perdonami, per consolare il suo cuore. Mi facesti una
gran pena, amico, una gran pena!
Il sognatore, che s'era andato agitando sempre
più durante le varie apparizioni, vinto all'ultima da un
impeto di vergogna, di dolore e di sdegno, si precipita dal letto
(in sogno) e si mette a tirar pedate furiose contro il cassone; il
quale si rovescia e si scoperchia, spandendo sul pavimento una
strana variopinta luccicante mescolanza di vasetti, di piume, di
ritagli di talco e di trina, di bubboli, di nastrini, di stelline,
di prismetti di vetro, di scampoli di panno rosso e di frange
argentate e dorate, ravvolto il tutto in un nuvolo di polvere
d'oro e di riso. Furiosamente, a scarpate, egli caccia a mucchio
ogni cosa verso la finestra e abbranca a piene mani e butta tutto
fuori del davanzale, e poi scaraventa fuori anche il cassone. Il
tonfo che fa questo battendo sul selciato della strada, lo
risveglia. Si mette a sedere sul letto, si frega gli occhi e
guarda intorno.
Non è ancora bene sveglio: gli cadono dagli
occhi due lacrime.
Ahimè! Sono lacrime di rimpianto per il
cassone!
[411]
UNA PAGINA DI MUSICA.
È tendenza naturale in noi il dare un ritmo al
linguaggio scritto, come lo diamo al linguaggio parlato,
perché il nostro orecchio cerca naturalmente l'armonia, e
anche delle parole scritte sentiamo il suono nella mente.
Gl'imitatori dànno alla prosa l'onda armonica, che hanno
nella memoria, dello stile del loro scrittore prediletto; quelli
che non imitano, le dànno un ritmo loro proprio, che
è come la musica intima del loro pensiero; e anche gli
scrittori che paiono più noncuranti dell'armonia, si sente
qua e là che non resistono alla tentazione di dare al
periodo un suono largo e gradevole, o, se non altro, di terminarlo
con una clausola sonora. La nostra lingua così ricca e
varia di suoni, nella quale facciamo anche in prosa,
senz'avvedercene, una quantità di versi d'ogni metro, ci
tenta continuamente a cantare. E qui sta il pericolo: di far
cantare la prosa per forza, aggiungendo parole superflue al
periodo per dargli quella data sonorità, sforzando il
pensiero stesso per ridurlo a quella data forma che all'orecchio
piace, [412] facendo servire l'idea al numero, in somma, invece di
far obbedire il numero all'idea. E quando s'è su questa
china, facilmente si precipita al peggio: si va dalle armonie
delicate e sommesse a una musica sempre più risonante, fino
ad accompagnare la sfilata delle frasi a colpi di piatti turchi, e
a chiudere con colpi di gran cassa e squilli di tromba.
Come si può sfuggire a questo pericolo?
Il mio umile parere (come si suol dire quando si
crede il parere proprio migliore degli altri) è questo: che
ci dovremmo proporre non di cercare l'armonia, ma soltanto
d'evitar le asprezze e le stonature. E paiono le due cose una
sola; ma sono negli effetti assai diverse, perché, cercando
l'armonia, si finisce col cercare una data armonia, la quale non
si può ottener sempre senza artifici; ciò che non
accade a chi si studia solamente di non ferir l'orecchio. Per
questo non c'è bisogno di forzare il pensiero,
d'aggiungere, di riempire, d'arrotondare, perché ciò
che fa suonare sgradevolmente il periodo non sono quasi mai altro
che uno o pochi vocaboli messi fuor di posto, e qualche volta uno
o due o pochi monosillabi; e basta per ripararvi il collocare gli
uni e gli altri in quelli che il Leopardi, facendo esercizio di
lingua, chiamò "cantucci, spigoli, spazietti, passaggetti,
rivolte, giratine, tortuosità, angustie, stretture del
discorso e del periodo" nelle quali quei vocaboli e monosillabi
possono entrare senza violenza e stare senza stridere. Non
è certo questa l'unica norma che dobbiamo seguire
perché la prosa non riesca disarmonica; ma è la
principale, e a te può bastare per ora. Un ritmo, un
andamento musicale tuo proprio [413] ti verrà con lo stile,
del quale sarà un elemento inseparabile; e quanto
più il tuo stile sarà spontaneo, logico, fedelmente
consentaneo al movimento del tuo pensiero, tanto meno t'accorgerai
d'avere quel ritmo; per modo che, rileggendo dopo qualche tempo le
cose tue, ti parrà di sentirvi una musica sconosciuta, o di
cui tu abbia appena una vaga reminiscenza. Bada ora sopra tutto a
non mandar avanti la tua prosa a suon di tamburi e di pifferi, a
non far del periodo una cabaletta, sempre chiusa con quelle certe
battute, che il lettore presènte e solfeggia prima che tu
vi giunga; perché è questa una consuetudine che
inceppa la ragione e l'ispirazione, circoscrive la libertà
del pensiero, vizia l'espressione, gonfia lo stile, e avvilisce la
dignità dello scrittore riducendolo un sonatore
d'organetto.
UNA VOCE NELL'ARIA: - Benissimo!
O che c'è un grammofono qui? Chi è che
parla?
La stessa voce, in tono leggermente ironico: - "Ma
devi anche dire all'alunno che ci sono i sonatori del periodo, i
tenori dello stile dissimulati, certi astuti che abbassano la
voce, invece d'alzarla, che non vanno mai negli acuti, che
modulano il discorso come per cantare senza farsi scorgere; ma che
in realtà cantano anch'essi. Il canto non si sente periodo
per periodo; ma quando voi avete letto dieci loro pagine senz'aver
mai colto proprio sull'atto il cantante, sentite non di meno che
non hanno parlato col tono di chi parla naturalmente, non cercando
né ritmo né risonanza. È una specie di musica
morbida e liscia, dov'essi fondono i propri pensieri e smorzano le
tinte dello stile; ma che, appunto per questo, finisce col
ristuccare essa [414] pure, come il mormorìo d'un
rigagnolo, facendoci desiderare qualche asprezza, qualche schianto
qua e là, in cui salti su il pensiero o l'immagine, e
magari anche qualche stonatura selvaggia, che ne rompa la dolce
monotonia, dalla quale ci sentiamo conciliare il sonno come dal
rullìo d'una barchetta o dal cullamento d'una sedia a
dondolo. E per ottener questo bell'effetto forzano spesso anche
costoro il proprio pensiero, appiccicando delle brave code ai
periodi, dicendo cose che non dovrebbero o come non vorrebbero,
esercitando come gli altri la non nobile industria dei pleonasmi,
delle zeppe, delle imbottiture e delle vescichette, con certa
discrezione, quasi di sotterfugio, e con aria innocente; ma che
non inganna chi ha fine l'occhio e l'orecchio. Questo essi non
imitano certamente dal loro maestro Alessandro Manzoni, che non
n'ha ombra. E anche dall'esempio di questi signori convien mettere
in guardia gli alunni. Rifuggano dagli uni e dagli altri: dai
suonatori di gran cassa e da quelli che fanno il verso degli
uccelli."
Pare che abbia finito.
Mi domandi se ha detto giusto?
Eh sì, non c'è a ridire, pur troppo.
Mi domandi ancora s'io so a chi abbia fatto
allusione?
Lo so, sicuro; ma a dirtelo.... mi vergognerei un
poco.
[415]
CORREGGI E LÀSCIATI CORREGGERE.
Abbiamo veduto da principio quello che s'ha da fare
prima di scrivere; dobbiamo vedere ora quello che è da
farsi dopo aver scritto.
Tu hai già capito: rivedere, correggere.
Lascia passare un po' di tempo, chè si quieti
l'eccitamento intellettuale, e tu possa giudicare a mente serena e
ad animo riposato l'opera tua, e questa apparisca come a una certa
distanza all'occhio indagatore della tua mente. Poi rileggi,
mettendoti con l'immaginazione, per quanto t'è possibile,
nell'animo d'un lettore non solo non indulgente, ma malevolo, il
quale cerchi nel tuo lavoro i difetti col desiderio di trovarne, o
svogliato o male attento, che non regga ad alcuna ripetizione e
lungaggine, e smetta di leggere al primo senso di noia che lo
prenda.
Leggi, e apri nella mente dieci occhi per veder dieci
cose ad un punto: le improprietà, le superfluità, le
lacune, le disarmonie, i luoghi oscuri, i costrutti contorti, i
legami forzati, le slegature, gli errori d'ordine e le offese al
buon gusto. Vedi se in qualche luogo non hai espresso con due
[416] o tre periodi brevi un pensiero o una serie di pensieri che
si potevano raccogliere in uno, non però così lungo
da non potersi abbracciare, come dice un maestro, con un'occhiata;
se, alleggerendo tutti e due o tutti e tre quei periodi, non li
puoi fondere insieme, affinchè il lettore legga d'un fiato
solo quello che dovrebbe leggere con tre riprese di respiro. Vedi
se dove hai creduto di esprimere una gradazione di pensiero non
hai fatto altro invece che una gradazione di frase; se non hai
ripetuto nessun pensiero sotto altra forma, o presentato l'una
dopo l'altra delle immagini che dovevi presentare tutte a un
tratto di fronte, o interposto una distanza fra due concetti che
dovevano stare vicini o connessi. Dove puoi mandare innanzi d'un
salto il pensiero, che ha fatto un passo a destra e uno a
sinistra, correggi; dove la svoltata del pensiero è troppo
larga, ristringila; dove puoi accorciare una frase, serrare
più forte un nodo sintattico, sostituire una parola breve a
una parola lunga, accorcia, serra, sostituisci. Cerca bene se hai
avuto qualche momento di distrazione o di stanchezza, dove hai
commesso un peccato di vanità letteraria, dove hai lasciato
sul tuo pensiero un velo di nebbia.
Se farai questo lavoro con attenzione viva, ne
ricaverai altrettanto diletto quanto dal lavoro facile e caldo
dell'ispirazione. Proverai che piacere squisito è lo
sfrondare il superfluo quando se ne vede balzar fuori più
chiara e lucida l'idea; che maraviglia gradevole è il veder
tutto un periodo mutar aspetto e suono per la trasposizione d'una
frase o d'una parola ch'era fuor di posto. In questo lavoro
comprenderai tutta [417] la delicatezza dell'arte dello scrivere,
vedendo come un ritocco leggerissimo metta alle volte la forza
dov'era la fiacchezza, come la cancellatura o l'aggiunta d'un solo
vocabolo assodi un pensiero che era campato in aria, o ne saldi
due l'uno all'altro, che non parevano collegabili; come un nuovo
aggettivo, non prima trovato, getti quasi un raggio di sole sopra
un'idea che stava nell'ombra. Sentirai come questo lavoro del
correggere, quando è fatto bene, non sia lavoro di pedante,
quale molti lo dicono; ma di critico e d'artista ad un tempo;
lavoro fine e profondo, che eccita anch'esso la mente e l'animo
come una seconda creazione, e che si può far con amore, e
che quando è fatto in tal modo, lascia nella coscienza una
sodisfazione e una quiete, che sono il più dolce premio
della fatica.
Ma correggere non è sempre migliorare, bada
bene. Bisogna, correggendo, tener sempre presente che nello
scrivere di primo getto la mente eccitata e come dilatata e
sveltita dall'eccitazione faceva rapidamente il giro d'un largo
spazio, vedeva in una volta molte cose e molte relazioni fra le
cose, e abbracciava con occhio pronto e mobilissimo ragioni,
proporzioni e convenienze. Correggendo a mente fredda, noi
tendiamo a esaminare invece idea per idea, frase per frase, parola
per parola; e quindi facilmente prendiamo abbaglio sul valore di
ciascuna idea, frase o parola, che non vediamo più in
relazione con l'altre; e facilmente per questo correggiamo male; e
spesso togliamo forza a un concetto del quale non abbiamo
più vivo il sentimento, credendo [418] di perfezionarne
l'espressione, e ci lasciamo andare ad arrotondar dei periodi
perché non ci suonano più nella mente insieme con
l'armonia generale dello scritto, per dar loro una sonorità
più piena, con danno di quell'armonia generale. Convien
dunque guardarsi, correggendo, dal corregger troppo, e per
guardarsene bisogna rimettersi a quando a quando, con uno sforzo
dell'immaginazione, nello stato di mente e d'animo in cui ci
trovavamo nel far la prima stesura del lavoro, e riscontrare
così la nostra correzione col criterio che in quei momenti
ci guidava: criterio meno guardingo e men minuzioso, ma più
largo, più agile, più istintivamente sicuro di
quello della critica lenta e tranquilla.
Ma quello che sopra tutto occorre nella correzione
è la sincerità.
- La sincerità con sè stessi? -
domanderai. O come si può non esser sinceri?
Si può in questo modo. Quando nel nostro
scritto troviamo un errore o un difetto, a cui sia difficile
riparare, diamo ascolto alla voce della pigrizia che ci dice: -
Lascia com'è; forse t'inganni; quello che pare a te un
errore di proprietà o di gusto, o altro che sia, non
parrà forse tale a chi legge, o questi vi passerà su
senz'avvertirlo. - Persiste la nostra coscienza ad avvertirci che
quello è un errore o un difetto; ma, illudendo noi stessi
di proposito, noi diamo retta alla pigrizia, e tralasciamo di
correggere. Ed è una illusione insensata, perché il
lettore, anche incolto, non avvertirà certe bellezze che
noi crediamo ch'egli noti, ma vede per contro molti difetti
leggerissimi, che a noi pare gli [419] debbano sfuggire. E
infatti, chi si provi a leggere scritti propri a persone senza
cultura, ma sincere, riman meravigliato spesso dell'acutezza delle
osservazioni critiche che quegli uditori gli fanno; e la ragione
del fatto è che la gente incolta, non avendo il criterio
viziato o velato da concetti letterari convenzionali o
dall'assuefazione della mente a certi artifizi e vizi comuni dello
scrivere, riceve dagli scritti un'impressione immediata e
schietta, e non badando, o non dando pregio a certe forme della
lingua e dello stile, raccoglie meglio l'attenzione su cert'altre,
e le vede con occhio più chiaro. Sarà una leggiera
oscurità, sarà una parola fuor di luogo, sarà
una frase dubbia, che può esser presa in doppio senso; ma
qualche menda noterà, qualche osservazione utile
farà sempre anche l'uomo ignorante, se dice schiettamente
quello che pensa d'uno scritto che gli si legga.
Per questo ti consiglio di sottoporre qualche volta
quello che scrivi anche alla critica delle persone, delle quali
è generalmente disprezzato il giudizio in materia
letteraria. Le loro osservazioni, lo so, feriscono più di
quelle d'ogni altro l'amor proprio, o per dir meglio, l'orgoglio
dello scrittore. Ma in ogni campo intellettuale una delle
condizioni essenzialissime per imparare è quella di vincere
l'orgoglio. Non s'impara veramente se non si ha la ferma
persuasione, in qualunque età, e a qualsiasi altezza si sia
pervenuti nell'arte o nella scienza, d'avere ancora e sempre da
imparare moltissimo. E a che serve tener alto l'orgoglio di fronte
agli altri, se siamo di continuo costretti a mortificarlo dentro
noi [420] stessi? Procedendo negli studi e nell'arte dello
scrivere, tu dovrai ogni giorno, ogni momento, fare atto
d'umiltà davanti all'immensità del campo che ti
s'allargherà man mano dintorno, alle sempre nuove
difficoltà che ti sorgeranno dinanzi dopo che n'avrai
superate altre molte che ti saranno parse le ultime; atti infiniti
di rassegnazione dovrai fare, dolorosamente, disperando di poter
raggiungere l'ideale della tua mente. L'arte è grande e
divina per questo. S'ama per tutta la vita perché non
appaga mai pienamente, e sono quasi sovrumane le gioie ch'ella
dà perché sono frutto e ci compensano d'infiniti
sforzi e amarezze. E tu, se sei chiamato all'arte, va' incontro
alla lotta nobilissima con l'anima serena e piena di fede. Ti
sorrida o no la vittoria, sarai contento d'aver combattuto. Se non
salirà in alto il tuo nome, salirà il tuo spirito, e
per questo solo benefizio che dall'arte avrai ricevuto, anche
nella tristezza d'una nobile ambizione delusa, tu l'amerai ancora
come un'amica dolcissima, la benedirai sempre come una
consolatrice celeste.
[421]
AL MIO LETTORE IDEALE.
E ora addio, giovinetto, mio lettore ideale, ch'io mi
vidi sempre dinanzi durante il mio lavoro, nell'aspetto d'un
figliuolo più che d'un alunno. T'avesse dato il mio libro
anche solo una minima parte del piacere con cui lo scrissi! E non
fu un piacere che nascesse dall'illusione di mettere in atto
degnamente un concetto che mi pareva buono, chè non fui
contento un giorno di quanto facevo: nasceva dai mille ricordi che
mi si ravvivavano, dalle mille immaginazioni che mi si destavano
lungo il cammino; perché non c'è studio che risvegli
e rimescoli la memoria, quando si fa con amore, che affolli tanto
la mente d'immagini quanto lo studio della lingua; e tu ne farai
esperienza, spero. Fu come un viaggio di vari anni per il mio
paese e a traverso la sua letteratura, dove quasi ad ogni parola
mi s'alzava davanti la reminiscenza d'una lettura, la visione d'un
fatto, il fantasma d'uno scrittore.
Pensa un po': dai primi monaci del Duecento,
divulgatori di leggende miracolose, fino agli [422] scrittori
ancor viventi, quante diverse apparizioni, che sfilata
maravigliosa di notari, di mercanti, di cardinali, di principi,
d'ambasciatori, d'artefici, di capitani vestiti di ferro e di
professori con la toga accademica o col cappello a cilindro! E
tutti quanti si disegnavano sul mare ondeggiante delle trenta
generazioni che fucinarono la lingua per tutti. In mezzo a quei
personaggi saltavano su bambini di Firenze, dai quali avevo inteso
la prima volta certe parole, assistendo ai loro giochi sul Viale
dei Colli, e contadini con cui m'ero accompagnato per lunghi
tratti nei miei viaggi a piedi per la campagna toscana; e fra i
loro discorsi mi ritornavano in mente correzioni fatte ai miei
lavori di scuola da antichi maestri, discussioni linguistiche
avute con amici di trent'anni addietro, e casi e scene della vita,
il cui ricordo m'era rimasto legato in capo con quel tal vocabolo
o quella tal frase, senza una ragione ch'io percepissi. La lingua
mi faceva rivivere il passato, come fa la musica, che riporta
tutta l'anima nostra a grandi distanze di tempo e di spazio. E mi
sentivo ringiovanire nel rimetter le mani, dopo molti anni, nei
miei vecchi scartafacci d'appunti, ingialliti e polverosi, scritti
in caratteri che non mi parevan più miei, e nel ricorrere
certi vecchi libri sottolineati e annotati nei margini, che mi
ricordavano letture notturne e care speranze della bella
età ch'è ora la tua. Ringiovanendo nel pensiero, mi
sentivo più vicino a te, e mi pareva che lavorassimo
insieme.
Non tutti i miei pensieri erano lieti, peraltro.
Riscontrando il significato proprio di certi modi, [423]
m'accadeva qualche volta di riconoscere che li avevo usati sempre
a sproposito; d'altri mi vergognavo di non averli imparati che
poco prima di citarli a te con l'aria di saperli da un pezzo; e
così di certi precetti e consigli ch'io ti davo, mentre la
coscienza mi rinfacciava d'averli quasi sempre trasgrediti. Spesso
anche mi sorgeva dinanzi il professor Pataracchi, gridando: - Ah,
barbaro! E hai la faccia d'impancarti a far la lezione?
Concerò io la tua carta stampata per il dì delle
feste! - Oppure pensavo a questo o a quello scrittore morto o
vivente, e dicevo: - Chi sa come avrebbe fatto o farebbe meglio di
me questo libro! -, e mi tormentava la coscienza di mancare della
facoltà e della dottrina che in quelli riconoscevo. E a
volte mi prendeva un senso di sgomento, ed ero tentato di buttar
la penna.
Ma in questi casi eri sempre tu, mio lettore ideale,
indulgente come s'è all'età tua, che mi facevi animo
a proseguire; era la tua immagine che mi veniva a dir la mattina:
- Al lavoro! Qualche cosa n'uscirà, e anche quel poco mi
potrà giovare.
E poi mi dava cuore un sentimento sempre più
forte, ravvivato a quando a quando da un ricordo lontano, come una
fiamma da un soffio di vento. Mi ricordavo d'un povero ragazzo
italiano, che un giorno udii cantare una canzone malinconica in
una strada d'una città d'oltralpe, e certi stranieri
villani, da un terrazzino, lo beffeggiavano, ripetendo sformate le
sue dolci parole, e rifacendogli il verso sguaiatamente. E a quel
ricordo risentivo per la mia lingua, [424] scrivendo, quello che
avevo sentito quel giorno all'udirla vilipendere con versacci di
scherno: un amore ardente e altero, pieno di venerazione e di
tenerezza, che mi faceva formar più saldo il proposito di
servirla e d'onorarla nel miglior modo ch'io potessi, con tutta
l'anima e per tutta la vita. E dicevo in cuor mio: - Se riuscissi
a trasfondere questo sentimento nel mio lettore ideale! - E questa
speranza mi dava un fremito di gioia e un nuovo impulso al lavoro.
E ora ti dirò ancora una bella cosa, come dice
un trecentista. Credo che nella mente d'ogni scrittore, quando
scrive un libro, si formi a poco a poco e finisca con l'essergli
quasi sempre presente un'immagine, la quale gli rappresenta in
forma simbolica il suo pensiero assiduo. Ed ecco quale fu per me
quest'immagine, confusa da principio, poi da un giorno all'altro
più netta. Io vedevo un palazzo smisurato, che sorgeva fra
rovine colossali di monumenti romani, e nascondeva la
sommità fra le nuvole. Presentava sovrapposte di piano in
piano le architetture di vari secoli: dove semplici e severe,
tutte grandi bozze di granito greggio, o marmi nudi nitidissimi;
dove sopraccariche di sculture, coperte d'affreschi, messe a oro e
a musaici di gemme, risplendenti come un seminìo di stelle.
A tutte le altezze, sopra le cornici e nei fregi ricorrevano in
lunghe file le effigie di mille scrittori coronati, che balenavano
dagli occhi, come volti viventi; a somiglianza dei quali anche i
fiori delle pitture, i fogliami dei capitelli, le figure delle
colonne storiate, le cariatidi simboleggianti ogni forma della
letteratura, tutto si moveva e viveva. E [425] dalle logge aeree,
dagli ampi intercolonnii, da tutte le aperture dell'edifizio
enorme e gentile, maestoso come una montagna e leggero come una
cosa di sogno, uscivano canti di poeti, grida d'oratori, armonie
gravi e soavissime di voci innumerevoli, che parevano venire da
una lontananza sterminata. Ma non era la bellezza multiforme e
magnifica la maggior maraviglia: era che tutte le linee e gli
aspetti diversi dell'edifizio offrivano insieme, non l'effigie
propria, ma l'espressione vaga e prodigiosa d'un volto, sul quale
era diffusa la luce d'un sorriso ineffabile, misto d'alterezza
regale e di dolcezza materna, e che a quando a quando le voci
infinite si confondevano in una, immensa come la voce d'un mare
che parlasse, ripetendo quanto di più grande e di
più dolce ha detto al mondo l'Italia nello spazio di
settecent'anni....
Era l'edifizio della lingua italiana. E man mano che
andavo innanzi, ingrandiva nella mente eccitata dal lavoro, e mi
pareva sempre più bello e splendido, e che spandesse
armonie più soavi e più solenni, e mi penetrava
più profondamente nell'animo quel sorriso misterioso, come
d'un volto sovrumano, che brillava nella maestà del suo
aspetto.
Ma sempre, quando mi trattenevo ad ammirarlo, pensavo
che a visitarne i tesori nascosti e le bellezze intime più
maravigliose non t'avrei potuto guidare io stesso; e questo
pensiero era un rammarico.
Ma che importa? Tu le visiterai con la scorta
d'altri, o anche solo, più tardi. Ebbene, se il mio povero
libro non t'ha annoiato, e se t'ha giovato [426] un poco, io ti
chiedo questa ricompensa alla mia fatica: che quando t'aggirerai
fra le meraviglie del palazzo incantato, ti ricordi qualche volta
di me, che ti lascio sulla soglia, con tristezza, benedicendo i
buoni propositi che porti nel cuore e le belle speranze che ti
splendono in fronte.
FINE.
[427]
Per esser breve il più possibile ho fatto
parecchie citazioni senza accennare i nomi e le opere degli
scrittori, restringendomi a chiudere le frasi fra due virgole
doppie; il che può bastare per gli scrittori morti, essendo
quasi tutti notissimi i giudizi loro che ho citati; ma non basta
per gli scrittori viventi. Accenno dunque, per debito di
gratitudine e per utilità dei giovani lettori: - La lingua
dei Promessi Sposi, di Francesco d'Ovidio, che tutti gli studiosi
della lingua dovrebbero leggere. - L'arte del periodo nelle opere
volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, ottimo studio
critico di Giuseppe Lisio. - Storia della letteratura italiana, di
Vittorio Rossi. - La formazione della prosa moderna, prolusione di
Dino Mantovani. - La filosofia delle parole, di Federico Garlanda.
- Abruzzesismi, Calabresismi, Sardismi, di Fedele Romani. -
Grammatica italiana dell'uso moderno, di Raffaello Fornaciari. -
L'Italia dialettale, di G. I. Ascoli. - Manuale della Letteratura
italiana, di Alessandro d'Ancona e Orazio Bacci. Quelli ch'io
posso aver dimenticati, mi perdonino. E mi perdonino anche i miei
carissimi amici Guido Mazzoni e Cesario Testa l'indiscrezione che
commetto esprimendo loro pubblicamente la mia gratitudine per
l'aiuto validissimo che mi diedero nella revisione del libro.
[428 bianca]
[429]
Errata corrige
p. 47 inseguire = inseguire (in corsivo)
p. 87 oustriaco = austriaco
p. 307 un'aspide = un aspide