CAPITOLO III.

IL MUTUO APPOGGIO FRA I SELVAGGI

La supposta guerra di ciascuno contro tutti. – Origine tribale delle società umane. – Apparizione tardiva della famiglia isolata. – Boschimani ed Ottentotti. – Australiani. – Papuasi. – Esquimesi. – Aleutini. – I caratteri della vita selvaggia sono difficili a comprendersi dagli Europei. – La concezione della giustizia presso i Daiachi. – Il diritto comune.

L'immensa parte rappresentata dal mutuo appoggio nell'evoluzione del mondo animale è stata brevemente analizzata nei precedenti capitoli. Occorre ora gettare uno sguardo sulla parte rappresentata dai medesimi agenti nella evoluzione dell'uman genere. Abbiamo visto come siano rare le specie animali o gli individui che vivono isolati, e come numerose siano quelle che vivono in società sia per la mutua difesa, sia per la caccia, o per accumulare delle provvigioni, o per allevare i loro rampolli, o semplicemente per godere della vita in comune. Abbiamo anche visto che sebbene avvengano guerre tra le diverse classi di animali e le diverse specie, o anche fra le diverse tribù della stessa specie, la concordia ed il mutuo appoggio sono la regola nell'interno della tribù e della specie; ed abbiamo visto che le specie che meglio sanno unirsi ed evitare la concorrenza ànno le maggiori probabilità di sopravvivenza e di ulteriore sviluppo progressivo. Esse prosperano; invece le specie non socievoli deperiscono.

Sarebbe dunque affatto contrario a quello che sappiamo della natura, se gli uomini facessero eccezione ad una regola così generale: che una creatura disarmata come fu l'uomo alla sua origine, avesse trovata la sicurezza ed il progresso non nel mutuo soccorso, come gli altri animali, ma nella sfrenata concorrenza per vantaggi personali, senza riguardo agli interessi della specie. Per uno spirito avvezzo all'idea dell'unità nella natura, una tale affermazione sembra assolutamente insostenibile. Tuttavia vi sono sempre stati degli scrittori che ànno giudicato con pessimismo il genere umano. Essi lo conoscono più o meno superficialmente nei limiti della loro esperienza; essi sanno della storia ciò che dicono gli annalisti. Sempre attenti alle guerre, alle crudeltà, all'oppressione, ne concludono che l'uman genere non è che un fluttuante aggregato di individui, sempre pronti a battersi l'un l'altro e trattenuti dal far questo unicamente per l'intervento di qualche autorità.

Questo fu l'atteggiamento che assunse l'Hobbes, e mentre alcuni dei suoi successori del secolo XVIII si sforzavano di provare che in nessuna epoca della sua esistenza, neppure nella sua più primitiva condizione, l'uomo à vissuto in uno stato di continua guerra, e che è stato socievole anche allo «stato di natura», e che fu l'ignoranza, piuttosto che le cattive tendenze sue naturali, a spingere il genere umano agli orrori delle prime epoche storiche, la scuola di Hobbes affermava, al contrario, che il preteso «stato di natura» non era altro che una guerra permanente tra individui accidentalmente riuniti a casaccio per il semplice capriccio della loro bestiale esistenza.

È vero che la scienza à fatto progressi dopo Hobbes e che abbiamo per ragionare su questo soggetto delle basi più sicure di quello che fossero le speculazioni dell'Hobbes e del Rousseau. Ma la filosofia dell'Hobbes à tuttavia ancora numerosi ammiratori; ed abbiamo avuto ultimamente tutta una scuola di scrittori i quali, applicando la terminologia di Darwin ben più che le sue idee fondamentali, ne ànno tratto argomenti in favore delle opinioni di Hobbes su l'uomo primitivo e sono anche riusciti a dare ad esse apparenza scientifica.

Huxlev, come si sa, si pose a capo di questa scuola ed in un articolo scritto nel 1888, presentò gli uomini primitivi come delle tigri o dei leoni, privi di qualsiasi concezione etica, spingenti la lotta per l'esistenza fino ai più crudeli eccessi, conducenti una vita di «libero combattimento continuo». Per citare le sue proprie parole, «al di fuori dei legami ristretti e temporanei della famiglia, la guerra di cui parla Hobbes di ognuno contro tutti era lo stato normale dell'esistenza».1

Si è fatto notare più d'una volta che l'errore principale di Hobbes e così pure dei filosofi del XVIII secolo, era di supporre che l'uman genere sia cominciato sotto la forma di piccole famiglie isolate, un po' simili alle famiglie «limitate e temporanee» dei grandi carnivori, mentre ora si sa in modo certo che non avvenne così.2 Ben inteso non abbiamo testimonianze dirette relative al modo di vivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno certi della epoca della loro prima apparizione; i geologi odierni inclinano a vederne la traccia nel pliocene od anche nel miocene, che sono dei sedimenti del periodo terziario. Ma abbiamo il metodo indiretto che ci permette di gettare qualche luce fino a questa remota antichità.

Una indagine minuziosa delle istituzioni sociali dei popoli primitivi è stata fatta in questi ultimi anni, ed essa à rivelato tra le istituzioni attuali delle tracce di istituzioni molto più antiche, sparite da lungo tempo, ma che tuttavia ànno lasciato indiscutibili vestigie della loro anteriore esistenza. Tutta una scienza consacrata alle origini delle umane istituzioni s'è così svolta con i lavori del Bachofen, Mac Lennan, Morgan, Edward Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lubbock e parecchi altri. Questa scienza à stabilito con certezza che l'umanità non à incominciato sotto forma di piccole famiglie isolate.

Lontano dall'essere una primitiva forma di organizzazione, la famiglia è un prodotto molto tardivo della evoluzione umana. Per quanto lontano possiamo risalire nella paleo-etnologia del genere umano, troviamo gli uomini viventi in società, in tribù simili a quelle dei mammiferi più elevati; ed è stata necessaria un'evoluzione estremamente lenta e lunga per condurre queste società all'organizzazione, la quale, a sua volta, dovette subire anch'essa un'altra lunghissima evoluzione avanti che i primi germi della famiglia, poligama o monogama, potessero apparire. Così delle società, delle bande, delle tribù – e non delle famiglie – furono le primitive forme dell'organizzazione dello uman genere presso i suoi antenati più remoti. A ciò è arrivata l'etnologia dietro laboriose ricerche. E in questo à semplicemente messo capo a quello che uno zoologo avrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori, eccetto qualche carnivoro e qualche specie di scimmie, la decadenza delle quali è indubitabile, orangutang e gorilla, vive in piccole famiglie erranti isolate nei boschi. Tutte le altre vivono in società. Darwin, d'altronde, à così ben capito che le scimmie viventi isolate non avrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, da esser indotto a considerare l'uomo come discendente da una specie relativamente debole, ma socievole, quale è quella dello scimpanzè, piuttosto che da una specie più forte, ma non socievole, quale il gorilla.3 La zoologia e la paleontologia sono così d'accordo nell'ammettere che il branco, non la famiglia, fu la prima forma della vita sociale. Le prime società umane furono semplicemente uno sviluppo ulteriore di quelle società che costituivano l'essenza stessa della vita degli animali più elevati.4

Se ora ci atteniamo all'evidenza positiva, vediamo che le prime tracce dell'uomo datanti dal periodo glaciale, o dal principio dell'epoca post-glaciale, provano chiaramente che in questi tempi l'uomo viveva in aggruppamenti. Gli utensili in pietra sono trovati molto di rado isolati, anche quando datano da quell'epoca così remota dell'età della pietra o di un'epoca che si crede ancor più lontana; al contrario, ovunque si scopre un utensile di silice si è certi di trovarne altri e il più delle volte in gran quantità. All'epoca nella quale gli uomini abitavano nelle caverne o sotto ricoveri di rocce in compagnia di mammiferi oggi scomparsi, riuscendo appena a fabbricare delle ascie di silice della foggia più grossolana, conoscevano già i vantaggi della vita in società. Nelle vallate degli affluenti della Dordogna la superfice delle rocce è in certi luoghi completamente coperta di caverne che furono abitate dagli uomini paleolitici.5 Qualche volta queste caverne, un tempo abitate, sono sovrapposte per piani, e ricordano certamente molto più le colonie dei nidi di rondine che le tane dei carnivori. Quanto agli strumenti in silice scoperti in queste caverne, per servirmi delle parole del Lubbock, si può dire senza esagerazione che sono «innumerevoli». La stessa cosa non è vera per le altre stazioni paleolitiche. Sembra, anche dopo le ricerche del Lartet, che presso gli abitanti paleolitici della regione d'Aurignac al sud della Francia, la tribù intera prendesse parte ai pasti in occasione del seppellimento dei morti. Così gli uomini vivevano in società ed avevano, anche in quest'epoca remota, dei principî di culto nella tribù.

Il fatto è ancor meglio provato nel secondo periodo più recente dell'età della pietra. Le tracce dell'uomo neolitico sono trovate in quantità innumerevoli, di modo che possiamo ricostruire sotto molti aspetti la sua maniera di vivere. Allorchè la grande calotta di ghiaccio dell'epoca glaciale (che doveva estendersi dalle regioni polari fino al centro della Francia, della Germania centrale e della Russia centrale e che, in America, ricopriva il Canadà ed una grande parte di ciò che oggi forma gli Stati Uniti) cominciò a sciogliersi, le superfici sbarazzate dal ghiaccio furono dapprima coperte di paludi e di pantani, e, più tardi, da una moltitudine di laghi.6 Dei laghi si formarono in tutte le depressioni delle vallate, prima che le loro acque avessero scavato quei canali permanenti che, in epoca posteriore, sono diventati i nostri fiumi. E dappertutto dove noi esploriamo, in Europa, in Asia o in America, le rive dei laghi, letteralmente innumerevoli di questo periodo, il cui vero nome dovrebbe essere «periodo lacustre», troviamo delle tracce dell'uomo neolitico. Sono talmente numerose, che possiamo non meravigliarci della densità relativa della popolazione a quell'epoca. Le «stazioni» dell'uomo neolitico si seguono da vicino le une alle altre sopra i terrapieni che segnano ora le rive degli antichi laghi. E in ciascuna di queste stazioni gli strumenti di pietra vi sono trovati in tale quantità che è certo che quei luoghi furono abitati per dei secoli da tribù abbastanza numerose. Dei veri laboratori di strumenti di silice, attestanti il gran numero di operai che vi si riunivano, sono stati scoperti dagli archeologi.

Le tracce d'un periodo più progredito, caratterizzato già dall'uso di qualche stoviglia, si trovano negli ammassi di conchiglie nella Danimarca. Come è noto, questi ammassi si mostrano sotto forma di mucchi di due o tre metri di spessore, da trenta a cinquanta metri o più di lunghezza e sono così comuni, lungo certe parti della costa, che per molto tempo vennero considerati come dei prodotti naturali. Tuttavia «non contengono nulla che non abbia in un modo o nell'altro servito all'uomo», e sono così pieni di prodotti dell'industria umana, che durante un soggiorno di due giorni a Milgaard, Lubbock dissotterrò non meno di 191 frammenti di utensili di pietra e quattro frammenti di stoviglie. Lo spessore e la estensione di questi ammassi di conchiglie provano che per successive generazioni le coste della Danimarca furono abitate da centinaia di piccole tribù viventi insieme pacificamente come vivono ai giorni nostri le tribù fuegine che pure accumulano mucchi di conchiglie.7

Quanto alle abitazioni lacustri della Svizzera, che rappresentano una tappa più evoluta della civiltà, presentano maggiori prove della vita e del lavoro sociale. Si sa che anche al tempo dell'età della pietra le rive dei laghi svizzeri erano sparse di villaggi; ciascuno di questi era formato di parecchie capanne costruite in una piattaforma, la quale era sostenuta da numerosi pilastri piantati nel fondo del lago. Non meno di trentaquattro villaggi, la maggior parte datanti dall'età della pietra, sono stati scoperti sulle rive del lago Lemano, trentadue nel lago di Costanza, quarantasei nel lago di Neuchatel, e ciascuno di questi villaggi attesta l'immensa somma di lavoro che fu compiuto in comune dalla tribù, non dalla famiglia. Già si è fatto osservare che la vita degli uomini delle abitazioni lacustri dovette essere esente da guerre. E molto probabilmente è così, a giudicare da ciò che conosciamo dei popoli primitivi, i quali vivono in villaggi simili costruiti su palafitte lungo le coste del mare.

Si vede, anche da questo rapido sunto, che le nostre cognizioni sull'uomo primitivo non sono così limitate e che, fino ad ora, sono piuttosto opposte che favorevoli alle speculazioni dell'Hobbes. Le nostre conoscenze possono essere completate, su molti punti, dalla diretta osservazione di quelle tribù primitive che sono attualmente allo stesso livello di civiltà degli abitanti dell'Europa nelle epoche preistoriche.

È stato sufficentemente dimostrato da Eduardo Tylor e Lubbock che le tribù primitive che incontriamo attualmente non sono affatto degli esemplari degeneri di un uman genere che avrebbe conosciuto una più alta civiltà, come si è talvolta sostenuto. Tuttavia, agli argomenti che si sono già opposti alla teoria della degenerazione, si può aggiungere ciò che segue. Salvo qualche tribù che si annida sulle montagne meno accessibili, i «selvaggi» formano una specie di cinta che circonda le nazioni più o meno civilizzate, ed occupano le estremità dei nostri continenti delle quali la maggior parte presentano ancora o presentarono fino a poco tempo fa, i caratteri delle primitive epoche postglaciali. Tali sono gli Esquimesi ed i loro congeneri della Groenlandia, dell'America artica e del nord della Siberia, e nell'emisfero meridionale, gli Australiani, i Papuani, i Fuegini ed in parte i Boschimani; invece all'interno delle zone civilizzate di tali popoli primitivi non s'incontrano che nell'Himalaya, nelle montagne dell'Australia e nelle pianure del Brasile.

Occorre rammentare che l'età glaciale non ebbe fine tutto d'un colpo e nel medesimo tempo su tutta la superficie della terra. Essa dura ancora nella Groenlandia. Dunque in un'epoca nella quale i paesi del littorale dell'Oceano Indiano, del Mediterraneo o del golfo del Messico godevano già un clima più caldo e diventavano la sede di una civiltà più elevata, dei territori immensi in mezzo all'Europa, nella Siberia e nel nord d'America e nell'Australasia meridionale restavano nelle condizioni primitive dell'epoca post-glaciale, condizioni che li rendevano inaccessibili alle nazioni civili delle zone torride e sub-torride. Quei territori erano a tale epoca ciò che sono ora i terribili ourmans del nord-ovest della Siberia; e le loro popolazioni, inaccessibili e senza contatto con la civiltà, conservano i caratteri dell'uomo della primitiva epoca post-glaciale.

Più tardi quando il prosciugamento rese questi paesi più atti all'agricoltura, furono popolati da immigranti più civilizzati; e, mentre una parte dei primitivi abitanti veniva assimilita dai nuovi venuti, gli altri emigrarono più lontano e si stabilirono dove noi li troviamo oggi. I territori che abitano ora sono ancora (od erano recentemente) sottoglaciali quanto ai loro caratteri fisici; le loro arti ed i loro strumenti sono gli stessi di quelli dell'età neolitica; e, nonostante la differenza delle razze e le distanze che le separano, il loro modo di vita e le loro istituzioni sociali ànno una somiglianza notevole. Così dobbiamo considerarli come dei frammenti di popolazione delle primitive epoche post-glaciali che occupavano allora le zone oggi civilizzate.

La prima cosa che ci colpisce quando cominciamo a studiare i primitivi è la complessità della loro organizzazione nei legami del matrimonio. Presso la maggior parte di essi la famiglia, nel senso che attribuiamo a questa parola, si trova appena in germe. Ma non sono neppure delle vaghe aggregazioni di uomini e di donne che s'uniscono senz'ordine secondo il loro capriccio momentaneo. Tutti ànno un ordinamento determinato, che è stato descritto a grandi linee dal Morgan sotto il nome di organizzazione per «genti» o per clan.8

Senza entrare in particolari che ci condurrebbero troppo lontano – essendo il soggetto troppo vasto – ci basterà dire che è provato oggi che il genere umano à traversato, ai suoi inizî, una fase che può essere descritta come quella del «matrimonio comune»; vale a dire che nella tribù i mariti e le donne erano in comune senza molti riguardi alla consanguineità. Ma è anche certo che, da un periodo molto remoto, s'imposero alcune restrizioni a queste libere relazioni. Dapprima il matrimonio fu vietato tra i figli di una madre e le sorelle di questa madre, le sue nipoti e le sue zie. Più tardi fu anche vietato tra i figli e le figlie d'una stessa madre, e seguirono nuove restrizioni. L'idea di una gens o di un clan comprendente tutti i discendenti di uno stesso stipite (o piuttosto tutti quelli che s'erano riuniti in gruppo) si svolse, ed il matrimonio all'interno del clan fu interamente proibito. Il matrimonio restò ancora «comune», ma le donne o il marito dovevano essere presi in un altro clan. E quando una gens diventava troppo numerosa, e si suddivideva in parecchie gentes (ciascuna di esse divisa in classi, generalmente quattro), il matrimonio non era autorizzato che tra certe classi ben definite. Queste sono le condizioni che troviamo anche ora tra gli Australiani che parlano il Kamilaroi. Quanto alla famiglia i primi germi apparvero in seno alla organizzazione dei clans. Una donna catturata in guerra in qualche clan, e che prima avrebbe appartenuto alla gens intera, può essere tenuta, in un'epoca posteriore, dal rapitore, sodisfacendo certe condizioni verso la tribù. Ella poteva essere condotta da lui in una capanna separata, dopo aver versato un certo tributo al clan, e così si costituiva all'interno della gens la famiglia patriarcale separata, la cui apparizione segna una fase affatto nuova della civiltà.9

Ora, se consideriamo che questo regime complicato si svolse tra uomini che erano al più basso grado che si conosca dell'evoluzione, e che si mantenne in società che non subirono nessuna specie d'autorità fuorchè l'opinione pubblica, vediamo subito come gli istinti sociali dovevano essere profondamente radicati nella natura umana, anche allo stadio più basso. Un selvaggio che è capace di vivere sotto una tale organizzazione e di liberamente sottomettersi a delle regole che urtano costantemente i suoi personali desideri non è assolutamente una bestia priva di principî etici e ignara affatto di freno alle sue passioni. Ma questo fatto diventa più notevole se si considera l'estrema antichità della organizzazione del clan. Oggidì si sa che i Semiti primitivi, i Greci d'Omero, i Romani preistorici, i Germani di Tacito, i primi Celti ed i primi Slavoni ànno tutti avuto il loro periodo d'organizzazione per clan, analogo a quello degli Australiani, dei Pellirosse, degli Esquimesi e degli altri abitanti della «cinta dei selvaggi».10

Così bisogna ammettere, sia che l'evoluzione dei costumi matrimoniali segua lo stesso cammino tra tutte le razze umane, sia che i rudimenti dell'organizzazione del clan abbiano preso origine presso qualche antico comune dei Semiti, degli Ariani, dei Polinesi, ecc., prima della loro separazione in razze distinte, e che questi usi si conservarono fino ad ora tra le razze separate da lungo tempo dal ceppo comune.

Comunque sia, queste due alternative implicano una tenacità ugualmente notevole dell'istituzione, poichè, dopo decine di migliaia d'anni d'esistenza, tutti gli assalti dell'individuo non poterono distruggerla. La persistenza dell'organizzazione del clan mostra quanto sia falso il rappresentare l'umanità primitiva come un'agglomerazione disordinata di individui ubbidienti soltanto alle loro passioni individuali e traenti vantaggio dalla loro forza ed abilità personali contro tutti gli altri rappresentanti della specie. L'individualismo sfrenato è prodotto moderno, non è una caratteristica dell'umanità primitiva.11

Prendiamo ora i nostri selvaggi contemporanei e cominciamo dai Boschimani, i quali sono ad un livello molto basso di sviluppo – così basso che non ànno abitazioni e dormono in buche scavate nella terra, qualche volta protetti da un piccolo riparo. Si sa che quando gli Europei si stabilirono nei loro territori e sterminarono gli animali selvaggi, i Boschimani si misero a rubare il bestiame dei coloni. Allora cominciò una guerra di sterminio troppo orribile per essere narrata qui. Cinquecento Boschimani furono massacrati nel 1774, tremila nel 1808 e 1809 dall'alleanza dei coloni, e così di seguito. Furono avvelenati come topi, uccisi da cacciatori imboscati dietro la carcassa di qualche animale, massacrati ovunque venivano incontrati.12 Ne consegue che le nostre cognizioni relative ai Boschimani tolte in gran parte da quegli stessi che li ànno sterminati, sono molto limitate. Tuttavia sappiamo che quando gli Europei arrivarono, i Boschimani vivevano in piccole tribù (o clans) e che questi clans formavano qualche volta delle confederazioni; e che avevano la abitudine di cacciare in comune e si dividevano il bottino senza litigare; che essi non abbandonavano mai i loro feriti e davano prova di grande affezione verso i compagni.

Lichtenstein racconta una storia molto commovente su di un Boschimano che stava per annegare in un fiume e fu salvato dai suoi compagni. Essi si spogliarono delle loro pellicce per coprirlo, e mentre essi restavano a tremar di freddo, lo asciugarono, gli sfregarono il corpo davanti al fuoco e spalmarono il suo corpo con un grasso caldo fino a che l'ebbero richiamato in vita. Quando i Boschimani trovarono in Johan van der Walt un uomo che li trattava bene, gli espressero la loro riconoscenza con una affezione delle più commoventi.13 Burchell e Moffat li presentano entrambi come degli esseri buoni, disinteressati, fedeli alle promesse e riconoscenti,14 qualità che non possono svolgersi se non sono sviluppate in una società strettamente unita. Quanto al loro amore per i figli, basta dire che quando un Europeo desidera di impadronirsi di una donna boschimana come schiava, le rapisce il figlio; è sicuro che la madre verrà a farsi schiava per condividere la sorte del suo figliuolo.15

Gli stessi costumi sociali caratterizzano gli Ottentotti, che sono appena più evoluti dei Boschimani. Lubbock li descrive come «i più sudici animali», e infatti essi sono sudici. Una pelliccia sospesa al collo e portata fino a che cade a pezzi compone tutto il loro vestiario; le loro capanne non sono che alcuni pali uniti e coperti da stuoie; nessun genere di mobili all'interno. Benchè essi possiedano dei buoi e dei montoni e sembri abbiano conosciuto l'uso del ferro prima della venuta degli Europei, occupano ancora uno dei gradi più bassi nella scala dell'uman genere. Tuttavia coloro che li ànno visti da vicino lodano altamente la loro socievolezza e la loro premura nell'aiutarsi reciprocamente. Se si dà qualche cosa ad un Ottentotto, egli la divide immediatamente con tutti quelli che sono presenti – questa abitudine, si sa, à colpito vivamente Darwin, presso i Fuegiani. Un Ottentotto non può mangiare solo, e se anche è affamato, chiama presso di sè quelli che passano per dividere il suo nutrimento; ed allorchè Kolben espresse il suo stupore a questo soggetto, ricevette questa risposta: «È l'usanza ottentotta». Ma non è solamente un'usanza ottentotta; è un'abitudine quasi universale tra i «selvaggi». Kolben che conosceva bene gli Ottentotti, e non à affatto passato sotto silenzio i loro difetti, non poteva lodare abbastanza la loro moralità tribale.

«La loro parola è sacra – scriveva egli. – Essi non conoscono nulla della corruzione e degli artifici ingannatori dell'Europa. Vivono in una grande quiete e non sono che raramente in guerra coi vicini. Essi sono tutta bontà e buon volere gli uni verso gli altri... I regali e le cortesie reciproche sono certamente uno dei loro godimenti. La rettitudine degli Ottentotti, la loro esattezza e la loro celerità nell'esercizio della giustizia, come la loro castità, sono cose nelle quali superano tutte, o quasi tutte, le nazioni del mondo».16

Tachart, Barrow. e Moodie17 confermano pienamente la testimonianza del Kolben. Voglio soltanto far rilevare che quando Kolben scriveva che sono «certamente il popolo più cordiale, più liberale, più benevolo che vi sia mai stato sulla terra» (I, 332) scriveva una frase continuamente ripetuta poi nelle descrizioni dei selvaggi. Quando gli Europei incontrano una razza primitiva, cominciano generalmente per fare una caricatura dei suoi costumi; ma quando un uomo intelligente à vissuto lungo tempo fra questi primitivi, li descrive generalmente come «la migliore» o «la più dolce» razza della terra. Gli stessi termini sono stati applicati agli Ostiachi, ai Samoiedi, agli Esquimesi, ai Daiachi, agli Aleutini, ai Papuasi, ecc., dalle migliori autorità. Rammento pure di averlo letto a proposito dei Tongusi, dei Tchaucktichis, degli Sioux e di parecchi altri. La frequenza di questi grandi elogi ci dice assai.

Gli indigeni dell'Australia non sono ad un più alto grado di sviluppo dei loro fratelli dell'Africa del sud. Le loro capanne ànno lo stesso carattere. Molto spesso un leggero riparo, una specie di paravento fatto con alcuni rami, è la sola difesa contro i venti freddi. Per il vitto, essi divorano dei cadaveri spaventosamente putrefatti e ricorrono al cannibalismo in caso di carestia. Quando furono conosciuti per la prima volta dagli Europei, non avevano che utensili di pietra o d'osso molto rudimentali. Qualche tribù non possedeva neppure delle piroghe e non conosceva il commercio per scambio. Tuttavia quando i loro usi e costumi furono accuratamente studiati, si trovò che vivevano sotto quella organizzazione complessa del clan della quale ò parlato più sopra.18

Il territorio che essi abitano è generalmente diviso tra le differenti gentes o clans; ma i territori per la pesca e per la caccia di ogni clan sono posseduti in comune, ed il prodotto della caccia e della pesca appartengono a tutto il clan, come pure gli strumenti della caccia e della pesca.19 I pasti sono presi in comune. Come molti altri selvaggi, osservano certe regole relative alle stagioni nelle quali certe gomme e certe piante possono essere raccolte.20 Quanto alla loro moralità non possiamo fare di meglio che riassumere le seguenti risposte, date alle interrogazioni della Società Antropologica di Parigi, dal Lumholtz, missionario che soggiornò nel nord del Queensland.21

«Il sentimento d'amicizia esistente fra essi è ad un alto grado. Essi sovvengono ai bisogni dei deboli; i malati sono premurosamente curati e non sono mai abbandonati nè uccisi. Queste popolazioni sono cannibali, ma non mangiano che raramente dei componenti della loro propria tribù (quelli che sono immolati per principio religioso, suppongo); mangiano soltanto gli stranieri. I genitori amano i loro figli, giocano con essi e li carezzano. L'infanticidio è generalmente approvato. I vecchi sono trattati molto bene e non vengono mai mandati a morte. Nessuna religione, non idoli, solamente il timore della morte. Il matrimonio è poligamo, le liti che sorgono nell'interno della tribù sono troncate da duelli con spade e scudi di legno. Non schiavi e nessuna istruzione; niente stoviglie, nessun vestimento, eccetto qualche volta un grembiule portato dalle donne. Il clan si compone di duecento individui, divisi in quattro classi di uomini e quattro di donne; il matrimonio non è permesso che tra certe classi e mai nell'interno della gens».

Quanto ai Papuasi, prossimi parenti di questi ultimi, abbiamo la testimonianza di G. L. Bink, che soggiornò nella Nuova-Guinea, principalmente nella baia di Geelwink, dal 1871 al 1883. Ecco il riassunto delle sue risposte allo stesso questionario:22

«Essi sono socievoli e gai; ridono molto. Piuttosto pusillanimi che coraggiosi. L'amicizia è relativamente forte tra gli individui appartenenti a diverse tribù ed è ancora più forte all'interno della tribù. Un amico paga spesso il debito del suo amico, stabilendo che questi lo restituirà senz'interessi ai figli del prestatore. Ànno cura dei malati e dei vecchi; i vecchi non sono mai abbandonati, e in nessun caso sono uccisi – a meno che non si tratti di uno schiavo malato da molto tempo. I prigionieri di guerra sono qualche volta mangiati. I fanciulli sono molto vezzeggiati ed amati. I prigionieri di guerra vecchi e deboli sono uccisi, gli altri sono venduti come schiavi. Non ànno nè religione, nè idoli, nè nessuna autorità; il più attempato della famiglia è il giudice. In caso di adulterio una ammenda deve essere pagata ed una parte di questa ammenda ritorna a la négoria (la comunità). Il suolo è posseduto in comune, ma il raccolto appartiene a quelli che lo fanno rendere. Possiedono stoviglie e conoscono il commercio per cambio – l'uso è che il mercante dà loro le merci, con le quali tornano alle loro dimore e riportano i prodotti indigeni che egli desidera; se questi prodotti non possono essere dati, le merci europee sono da loro rese.23 Essi sono «cacciatori di teste» e praticano la vendetta del sangue. Qualche volta, dice il Finsch, la faccenda è portata davanti al Raja di Namototte, che la risolve, imponendo un'ammenda».

Quando sono trattati bene, i Papuasi sono assai buoni. Miklukho-Maclay sbarcò sulla costa orientale della Nuova Guinea con un solo compagno; vi restò due anni tra le tribù, descritte come cannibali, e le lasciò con rimpianto; più tardi vi tornò per restare ancora un anno tra esse, e mai ebbe a lagnarsi per cattive maniere da parte loro. È vero che aveva per regola di non dire mai, sotto nessun pretesto, qualche cosa che non fosse affatto vera, nè di far mai una promessa che non potesse mantenere. Questa povera gente, che non sa nemmeno come fare del fuoco e lo conservano gelosamente nelle loro capanne per non lasciarlo estinguere, vive in un comunismo primitivo senza darsi dei capi. Nell'interno dei loro villaggi non accadono liti delle quali meriti parlare. Lavorano in comune appena quanto basta per il cibo di ogni giorno; e la sera s'abbigliano più elegantemente che possono e ballano. Come tutti i selvaggi amano molto la danza. Ogni villaggio à la sua barla o balai – «la lunga casa» o «la grande casa» – per gli uomini non ammogliati, per la riunione sociale e per la discussione degli affari comuni, il che è comune anche alla maggior parte degli abitanti delle isole dell'Oceano Pacifico, agli Esquimesi, ai Pellirosse, ecc. Gruppi interi di villaggi sono in relazioni amichevoli e si fanno visita reciprocamente in massa.

Disgraziatamente i conflitti non sono rari, non a causa della superpopolazione del paese, o di «un'aspra concorrenza», o di altre simili invenzioni di un secolo mercantile, ma principalmente a causa delle superstizioni. Appena uno di essi cade malato, i suoi amici e parenti si riuniscono e si mettono a discutere su chi potrebbe essere la causa della malattia. Tutti i nemici possibili sono passati in rivista, ciascuno confessa le sue piccole liti, ed infine la vera causa è scoperta. Un nemico di un villaggio vicino à chiamato il male sul malato, ed un attacco contro questo villaggio è deciso. È la ragione delle liti abbastanza frequenti anche tra i villaggi della costa, senza parlare dei cannibali della montagna che sono considerati come stregoni e veri nemici, quantunque, allorchè si conoscono più da vicino, ci si accorga che sono esattamente della stessa specie dei loro vicini della costa.24

Si potrebbero scrivere pagine interessanti sull'armonia che regna nei villaggi polinesiaci delle isole del Pacifico, ma essi appartengono ad una fase più avanzata della civiltà. Così prendiamo ora i nostri esempi all'estremo nord. Però occorre ancora nominare, prima di lasciare l'emisfero meridionale, che anche i Fuegiani, la riputazione dei quali è così cattiva, appaiono sotto una luce molto migliore da quando cominciano ad essere conosciuti meglio. Alcuni missionari francesi che sono rimasti tra loro «non ànno conosciuto nessun atto di malevolenza, del quale possano lagnarsi». Nei loro clans, composti di centoventi a centocinquanta persone, i Fuegiani praticano lo stesso comunismo primitivo dei Papuasi; essi dividono tutto in comune, e trattano molto bene i loro vecchi: la pace regna tra le tribù.25

Gli Esquimesi ed i loro congeneri più affini, i Tlinkets, i Koloches e gli Aleutini sono gli esemplari più simili di ciò che l'uomo può essere stato durante il periodo glaciale. I loro utensili differiscono di poco da quelli dell'uomo paleolitico, ed alcune tribù non conoscono neppure la pesca: essi infilano semplicemente il pesce con una specie di arpione.26 Conoscono l'uso del ferro, ma lo ricevono dagli Europei o lo trovano su bastimenti naufragati. La loro organizzazione sociale è molto primitiva, quantunque siano già usciti dalla fase del «matrimonio comune» anche con le restrizioni del clan. Essi vivono in famiglie, ma i legami della famiglia sono spesso spezzati; i mariti e le mogli sono spesso scambiati.27 Le famiglie rimangono tuttavia riunite in clan: e come potrebbe essere altrimenti? Come potrebbero sostenere la dura lotta per la vita a meno di unire strettamente tutte le forze? Così fanno; ed i legami delle tribù sono più stretti là dove la lotta per la vita è più dura, per esempio, nel nord-est della Groenlandia. «La lunga casa» è la loro dimora abituale e parecchie famiglie vi alloggiano, separate le une dalle altre da piccoli tramezzi di pelliccia in pezzi con un comune passaggio sul davanti. Qualche volta la casa à la forma di una croce, in questo caso un fuoco comune è mantenuto nel centro. La spedizione tedesca che passò un inverno vicino ad una di queste «lunghe case» à potuto accertare che «nessuna lite à turbato la pace, nessuna disputa ci fu per l'uso di questo stretto «passaggio» durante l'intero inverno. I rimproveri, od anche le parole scortesi, sono considerati come una offesa se non vengono pronunciati secondo la forma legale tradizionale, la canzone scherzosa, cantata dalle donne, il «nith-song».28

Una stretta coabitazione ed una stretta dipendenza mutua bastano per mantenere secoli e secoli questo profondo rispetto degli interessi della comunità che caratterizza la vita degli Esquimesi. Anche nella loro maggiore comunità, «l'opinione pubblica forma il vero tribunale. e la ordinaria punizione è un biasimo al colpevole presente la comunità».29

La vita degli Esquimesi è basata sul comunismo. Ciò che si prende alla pesca od alla caccia appartiene al clan. Ma in parecchie tribù, particolarmente nell'ovest, sotto l'influenza dei Danesi, la proprietà privata penetra nelle istituzioni. Tuttavia esse ànno un mezzo particolare per ovviare agli inconvenienti che nascono dall'accumularsi di ricchezze personali, il che distruggerebbe ben presto l'unità della tribù. Quando un uomo è divenuto ricco, convoca tutta la gente del suo clan ad una grande festa, e dopo che tutti ànno mangiato bene, distribuisce loro tutta la sua fortuna. Sotto il fiume Yukon, Dall à veduto una famiglia aleutina distribuire in questa maniera 10 fucili, 10 vestiti completi di pelliccia, 200 collane di perle di vetro, delle numerose coperte, 10 pellicce di lupo, 200 di castoro e 500 di zibellino. Dopo ciò i donatori si tolsero i loro abiti festivi, e donarono anche quelli, e mettendo delle vecchie pellicce in pezzi, rivolsero alcune parole al loro clan, dicendo che, benchè fossero ora più poveri di qualunque di loro, avevano guadagnato la loro amicizia.30 Queste distribuzioni di ricchezze sembrano essere un'abitudine ordinaria presso gli Esquimesi ed ànno luogo in certe stagioni, dopo un'esposizione di tutto ciò che si sono procurati durante l'anno.31 A mio avviso, queste distribuzioni rivelano una antichissima istituzione, contemporanea della prima apparizione della ricchezza personale; essa deve essere stata un mezzo per ristabilire l'uguaglianza tra i membri del clan, quando essa era rotta dall'arricchirsi di qualcuno. Le nuove ripartizioni di terre e l'annullamento periodico di tutti i debiti che ànno avuto luogo nelle epoche storiche in tante differenti razze (Semiti, Ariani, ecc.) devono essere state un avanzo di questo antico uso. E la consuetudine di bruciare col morto o di distruggere sulla sua tomba tutto ciò che gli aveva personalmente appartenuto – consuetudine che troviamo presso tutte le razze primitive – deve aver avuto la stessa origine. Infatti mentre tutto ciò che à personalmente appartenuto al morto è bruciato o distrutto su la sua tomba, nulla è distrutto di ciò che gli à appartenuto in comune con la tribù, per esempio i battelli, o gli strumenti comuni per la pesca. La distruzione non tocca che la proprietà personale. In una epoca posteriore quest'abitudine diventa una cerimonia religiosa: le si dà un'interpretazione mistica, ed è imposta dalla religione, quando l'opinione pubblica sola si mostra incapace di imporla a tutti. Ed infine la si sostituisce, sia bruciando soltanto dei modelli dei beni del morto (come si fa in Cina), sia semplicemente portando i suoi beni fino alla sua tomba e riportandoli a casa finita la cerimonia – usanza che è ancora in vigore presso gli Europei per le spade, le croci ed altri segni di distinzione.32

L'altezza della moralità mantenuta in seno ai clans esquimesi è stata spesso citata. Però le seguenti note sui costumi degli Aleutini, prossimi parenti degli Esquimesi, daranno meglio un'idea della morale dei selvaggi nel suo insieme. Esse sono state scritte dopo un soggiorno di dieci anni presso gli Aleutini, da un uomo dei più pregevoli, il missionario russo Veniaminoff. Le riassumo conservando, quanto è possibile, le sue proprie parole:

«La resistenza – egli dice – è il loro carattere principale. Essa è semplicemente prodigiosa. Non solo si bagnano ogni mattina nel mare gelato e stanno nudi sulla riva, respirando il vento gelido, ma il loro indurimento, anche quando ànno da fare un duro lavoro con un nutrimento insufficente, sorpassa tutto ciò che si può immaginare. Durante una carestia prolungata, l'Aleutino pensa ai suoi figli: dà loro tutto quello che à, e lui digiuna. Essi non sono inclini al furto; ciò fu rilevato anche dai primi emigranti russi. Non che essi non rubino mai; ogni Aleutino confesserà d'aver rubato qualche cosa, ma si tratta di una inezia, una vera bagattella. Commovente è l'affezione dei genitori verso i figli, benchè non si mostri mai a parole, o con carezze. Si ottiene difficilmente una promessa da un Aleutino; ma una volta che à promesso, egli terrà la parola qualunque cosa possa accadere. (Un Aleutino aveva fatto dono di un pesce salato a Veniaminoff; il pesce fu, nella precipitazione della partenza, dimenticato sulla riva. Egli lo portò a casa. Non ebbe occasione di inviarlo al missionario che nel seguente mese di gennaio; ed in novembre e dicembre vi fu una grande carestia di alimenti nell'accampamento. Ma nessun Aleutino affamato toccò il pesce, ed in gennaio fu inviato alla sua destinazione). Il loro codice di moralità è insieme serio e severo. È considerato come vergognoso il temere una morte inevitabile; il domandare grazia ad un nemico; il morire senza aver mai ucciso un nemico; l'essere convinto di furto; il fare naufragare un battello nel porto; l'essere spaventato di andare sul mare quando è grosso; essere il primo a cadere malato per mancanza di cibo in una spedizione, o durante un lungo viaggio; il mostrare cupidigia quando il bottino viene diviso – e in tal caso ciascuno dà la propria porzione a quello che si è mostrato avido, per svergognarlo; far noto un segreto di pubblico interesse alla propria moglie; quando si è in due in una spedizione di caccia, il non offrire al compagno la migliore selvaggina; il vantarsi delle proprie azioni, sopra tutto se sono inventate; il fare rimprovero a chicchessia con tono sprezzante. Ugualmente vergognoso è il mendicare; il vezzeggiare la moglie alla presenza di altre persone e il danzare con lei; il concludere un mercato da sè; la vendita deve sempre essere fatta per mediazione d'una terza persona, che fissa il prezzo. Per una donna è vergognoso il non saper cucire, danzare, nè fare ogni specie di lavori femminili; il carezzare suo marito, od i suoi figli, o anche parlare al marito alla presenza di uno straniero».33

Così è la morale aleutina, della quale si potrebbe dare una idea più completa, narrando pure i loro racconti e le loro leggende. Voglio ancora aggiungere che, allorchè Veniaminoff scriveva (nel 1840), non era stato commesso che un solo omicidio dall'ultimo secolo in una popolazione di 60.000 abitanti, e che fra 1800 Aleutini non una sola violazione di diritto comune era avvenuta da più di quarant'anni. Questo non parrà strano se rileviamo che i rimproveri, il disprezzo, l'uso di parole volgari sono assolutamente sconosciuti nella vita aleutina. I fanciulli stessi non si battono mai e non si dicono mai delle parole ingiuriose. Tutto ciò che possono dire è: «Tua madre non sa cucire», o «tuo padre è guercio».34

Molti dei caratteri della vita selvaggia restano, tuttavia, un enigma per gli Europei. Il grande sviluppo della solidarietà nella tribù ed i buoni sentimenti verso i loro simili che animano i primitivi potrebbero essere provati da un grandissimo numero di testimonianze degne di fede. Tuttavia, non è meno certo che questi stessi selvaggi praticano l'infanticidio; che in certi casi abbandonano i loro vecchi, e che ubbidiscono ciecamente alle regole della vendetta del sangue. Occorre dunque esplicare la coincidenza di fatti che, per uno spirito europeo, sembrano a prima vista così contradditori. Ho già detto che il padre Aleutino si priverà durante giorni e settimane per dare tutti i viveri che possiede a suo figlio, e che la madre Boschimana si fa schiava per seguire suo figlio; e si potrebbero riempire intere pagine descrivendo le relazioni veramente tenere che corrono fra il selvaggio e i suoi figli. Continuamente i viaggiatori ànno occasione di citare degli esempi. Qui leggete la descrizione dell'amore profondo di una madre; là, vedete un padre abbandonarsi ad una folle corsa traverso la foresta, portando sulle spalle suo figlio morso da un serpente; od anche è un missionario che racconta la disperazione dei genitori per la morte dello stesso fanciullo che, neonato, egli aveva salvato, qualche anno prima, dalla immolazione; oppure voi apprendete che la «madre selvaggia» allatta generalmente i suoi bambini fino all'età di quattr'anni, e che alla morte di un bambino particolarmente amato, la madre, o sua zia, si uccidono per prenderne cura nell'altro mondo.35

Fatti simili s'incontrano in abbondanza; in modo che se vediamo questi stessi parenti affezionati praticare l'infanticidio, siamo obbligati a riconoscere che quest'uso (quelle che ne sono state le trasformazioni ulteriori) à dovuto avere origine sotto la pressione della necessità come un obbligo verso la tribù e come un espediente per allevare i figli già cresciuti. Fatto sta che i selvaggi non si moltiplicano «senza restrizione» come afferma qualche scrittore inglese. Al contrario, prendono ogni specie di misure per diminuire le nascite. Tutta una serie di restrizioni, che gli Europei troveranno certamente stravaganti, sono imposte a tale effetto, e vi si ubbidisce strettamente perchè, in onta a tutto, i primitivi non possono allevare tutti i loro bambini. Però si è notato che appena riescono ad accrescere i loro mezzi di sussistenza in modo regolare, incominciano ad abbandonare la usanza dell'infanticidio. Insomma, i genitori ubbidiscono di malavoglia a quest'obbligo, ed appena lo possono ricorrono ad ogni specie di compromessi per salvare la vita dei neonati. Tanto che, come à dimostrato il mio amico Elia Reclus,36 inventarono i giorni di nascita felici ed infelici e risparmiano i fanciulli nati nei giorni felici; tentano di differire la sentenza per qualche ora e dicono allora che se il piccino à vissuto un giorno, deve vivere tutta la sua vita naturale.37 Essi odono delle grida di piccini provenienti dalla foresta e dicono che sono presagio di sventura per la tribù se sono stati uditi; e perchè non ànno l'uso di dare a balia nè ànno asili per bambini lattanti per liberarsi dei loro nati, ciascuno di essi indietreggia davanti alla cruda necessità di compiere la crudele sentenza: preferiscono esporre il bambino nel bosco piuttosto che togliergli la vita con la violenza. L'ignoranza, non la crudeltà, mantiene l'infanticidio; ed invece di moralizzare i selvaggi con dei sermoni, i missionari farebbero meglio a seguire l'esempio di Veniaminoff, che, ogni anno, fino ad un'età molto avanzata, traversava, in un cattivo battello, il mare di Okhotsk, dove viaggiava, portato da cani, tra i suoi Tckuktchis, provvedendo loro del pane e degli strumenti da pesca. Arrivò così – lo so da lui stesso – a far sparire completamente l'infanticidio.

Le stesse osservazioni s'applicano all'usanza che osservatori superficiali descrivono come parricidio. Abbiamo veduto già che il costume di abbandonare i vecchi non è così diffuso come pretendono alcuni scrittori. Si è enormemente esagerato questo uso, ma si trova questa usanza presso tutti i selvaggi; essa à la stessa origine dell'abbandono dei bambini. Quando un «vecchio» sente che è un fardello per la sua tribù; quando ogni mattina la sua parte di nutrimento è tanta di meno per la bocca dei bambini che non sono tanto stoici quanto i loro genitori e gridano quando ànno fame; quando occorre che ogni giorno egli sia portato lungo le rive pietrose od a traverso la foresta vergine sulle spalle di gente più giovane (mancano le vetture per i malati, e gl'indigenti per spingerle nei paesi selvaggi), incomincia a ripetersi ciò che i vecchi contadini russi dicono ancor oggi: Tchouyôï vek zaiedàïou, pora no pokôï! (Vivo la vita degli altri; è tempo di ritirarmi). Ed egli si ritira. Fa come il soldato, in questi casi. Quando la salvezza del proprio battaglione dipende da una avanzata, ed egli non può più andar avanti, e sa che morrà se resta indietro, il soldato prega il suo migliore amico di rendergli un ultimo servigio prima di lasciare l'accampamento. E l'amico con mano tremante scarica il suo fucile sul corpo del morente. È ciò che fanno i selvaggi. Il vecchio chiede egli stesso di morire; insiste su quest'ultimo dovere verso la comunità, ed ottiene il consenso della tribù; egli scava la sua tomba; invita i suoi parenti all'ultimo pasto d'addio. Tanto è vero che il selvaggio considera la morte come una parte dei suoi doveri verso la comunità che (come racconta Moffat) non solo ricusa di essere salvato, ma una donna che doveva essere immolata sulla tomba del marito e che fu salvata da missionari e condotta in un'isola, fuggì di notte, traversò a nuoto un largo braccio di mare per raggiungere la tribù, e morire sulla tomba di lui.38 Ciò è divenuto per essi un affare di religione. Ma i selvaggi, in generale, provano tanta ripugnanza a togliere la vita, eccetto in combattimento, che nessuno di essi vuole assumersi di spargere sangue umano. Essi ricorrono allora a tutte le specie di strattagemmi, che sono stati falsamente interpretati. Nella maggior parte dei casi abbandonano il vecchio nei boschi, dopo avergli dato più della sua porzione del comune nutrimento. Delle spedizioni artiche ànno fatto lo stesso, quando non potevano più portare i loro compagni malati. «Vivete qualche giorno di più! Forse arriverà qualche inatteso soccorso».

Allorchè i nostri dotti dell'occidente si trovano in presenza di tali fatti, non possono capirli. Sembrano loro inconciliabili con un alto sviluppo della moralità nella tribù, e preferiscono gettare il dubbio sulla esattezza di osservazioni degne di fede, invece di spiegare l'esistenza parallela di due serie di fatti: un'alta moralità nella tribù, e, nello stesso tempo, l'abbandono dei genitori e l'infanticidio. Ma se questi stessi Europei dovessero dire ad un selvaggio che delle genti, estremamente amabili, amanti teneramente i loro figli, e così impressionabili che piangono quando vedono una disgrazia simulata sulla scena, vivono in Europa a qualche passo da tuguri dove i fanciulli muoiono letteralmente di fame, a sua volta il selvaggio non li comprenderebbe.

Ricordo di aver tentato invano di far comprendere ai miei amici Tongusi la nostra civiltà individualista; essi non vi arrivavano, e ricorrevano alle più fantastiche supposizioni. Il fatto è che un selvaggio, allevato alle idee di solidarietà della tribù – per il bene come per il male – è incapace di comprendere un Europeo «morale», che non conosca nulla di questa solidarietà, proprio come la maggioranza degli Europei sono incapaci di conoscere il selvaggio. Ma se uno dei nostri sapienti avesse vissuto qualche tempo con una tribù mezzo affamata che spesso non possiede neppure il nutrimento per un solo uomo per gli otto giorni successivi, egli avrebbe probabilmente compreso i moventi dei selvaggi. Così pure se il selvaggio avesse soggiornato tra noi e avesse ricevuta la nostra educazione, forse comprenderebbe la nostra indifferenza europea verso i nostri vicini, e le nostre commissioni parlamentari per impedire lo sterminio dei fanciulli messi a balia. «Le case di pietra fanno i cuori di pietra», dicono i contadini russi. Occorrerebbe dapprima far vivere il selvaggio in una casa di pietra.

Le stesse osservazioni s'adattano ai cannibali. Se teniamo conto dei fatti che sono stati messi in luce durante una recente discussione su questo argomento alla Società Antroplogica di Parigi, come delle accessorie osservazioni sparse nelle opere che trattano dei «selvaggi», siamo costretti a riconoscere che questa usanza deve la sua origine alla stretta delle necessità. Più tardi fu accresciuta dalla superstizione e dalla religione, fino alle proporzioni spaventose che raggiunge nelle isole Fidji e nel Messico. È accertato che fino a questo giorno i selvaggi si vedono costretti a divorare dei cadaveri in stato di putrefazione molto avanzata39 ed in caso di assoluta carestia si sono dovuti dissotterrare cadaveri umani per sfamarsi, anche in tempo d'epidemia. Questi sono fatti verificati. Ma se ci riportiamo alle condizioni che l'uomo dovette affrontare durante il periodo glaciale, in un clima freddo e umido, non avendo che pochissimo cibo vegetale a sua disposizione, se teniamo conto della terribile rovina che lo scorbuto fa ancora tra i primitivi insufficentemente nutriti, e se rammentiamo che la carne fresca ed il sangue erano i soli ricostituenti che essi conoscessero, è necessario ammettere che l'uomo, il quale fu da principio un animale granivoro, divenne carnivoro durante il periodo glaciale. In quest'epoca trovava in quantità delle renne, ma le renne emigrano spesso nelle regioni artiche, e qualche volta lasciano del tutto un territorio per parecchi anni. In questi casi spariscono le ultime risorse dell'uomo. In così terribili frangenti gli Europei stessi ànno ricorso al cannibalismo, ed è ciò che ànno fatto i selvaggi. Fino ai tempi nostri essi divorarono talvolta i cadaveri dei loro morti, ed ànno divorato i cadaveri di quelli che stavano per morire. Dei vecchi si uccisero, convinti, con la loro morte, di rendere un servizio alla tribù. Ed è per ciò che il cannibalismo è considerato da certi selvaggi come avente origine divina, come qualche cosa comandata da un celeste messaggio. Più tardi però il cannibalismo perdette il suo carattere di necessità e sopravvisse quale superstizione. Si mangiarono i propri nemici per ereditarne il coraggio.

In un'epoca ancora posteriore si mangiava, allo stesso scopo, l'occhio o il cuore del nemico; invece tra altre popolazioni aventi numerosi preti ed una mitologia progredita, dei cattivi dei, assetati di sangue umano, furono inventati ed i sacrifici umani furono domandati dai preti per calmare gli dei. In questa fase religiosa della sua esistenza il cannibalismo raggiunge caratteri ripugnanti. Il Messico è un esempio molto noto; ed alle isole Fidji, nelle quali il re poteva mangiare non importa quale dei suoi sudditi, troviamo una potente casta di preti, una teologia complicata40 e uno sviluppo completo della autocrazia. Così il cannibalismo derivato dalla necessità divenne, in un'epoca posteriore, una istituzione religiosa, e sotto questa forma sopravvisse lungo tempo dopo che era sparito dalle tribù che certamente l'avevano usato in epoche precedenti, ma che non avevano raggiunta la fase teocratica della evoluzione. In certi casi queste consuetudini sono state conservate come una sopravvivenza del tempo antico, come una tradizione religiosa.

Sto per terminare le mie note citando un altro costume che dà pure luogo alle più errate conclusioni. È il costume della vendetta del sangue. Tutti i selvaggi vivono nel sentimento che il sangue sparso debba essere vendicato col sangue. Se qualcuno è stato ucciso, l'uccisore deve morire; se qualcuno è stato ferito, il sangue dell'aggressore deve essere sparso. Non vi è eccezione alla regola neppure per gli animali; così il sangue del cacciatore è sparso al suo ritorno al villaggio, se egli à sparso il sangue di un animale. Questo è il concetto della giustizia secondo i selvaggi – concetto che esiste ancora nell'Europa occidentale per ciò che riguarda l'omicidio. Allorchè l'offensore e l'offeso appartengono alla stessa tribù, la tribù e la persona offesa aggiustano la faccenda.41 Ma quando l'offensore appartiene ad un'altra tribù e questa tribù per una ragione o per un'altra ricusa un risarcimento, allora la tribù offesa decide di vendicarsi essa stessa. I popoli primitivi considerano gli atti di ciascuno come un affare che riguarda tutta la tribù;42 poichè nulla si può fare senza aver avuta la generale approvazione, arrivano facilmente all'idea che il clan è responsabile degli atti di ciascun membro. Per conseguenza la giusta rivincita può venir presa su non importa quale membro del clan dell'offensore, o su uno dei suoi parenti.43 Può spesso accadere, tuttavia, che le rappresaglie vadano più lontano dell'offesa. Nel tentare di infliggere una ferita, si può uccidere l'offensore, o ferirlo più di quanto si avesse intenzione di fare, e ciò è causa di nuove vendette; cosicchè i primi legislatori presero cura di specificare che le rappresaglie sarebbero limitate occhio per occhio, dente per dente, e sangue per sangue.44

È da osservare, tuttavia, che simili casi di vendetta presso molti popoli primitivi sono infinitamente più rari che non ci si potrebbe aspettare, benchè presso altri di essi il numero raggiunga delle proporzioni anormali, specialmente presso i montanari, spinti verso le alture dalle invasioni straniere, tali i montanari del Caucaso e sopra tutti di Borneo, i Daiachi. Presso questi – ci è stato detto recentemente – gli odî sono così feroci che un giovane non può ammogliarsi nè essere dichiarato maggiorenne prima d'aver portato la testa d'un nemico. Questo orribile costume è stato ampiamente descritto in un'opera inglese moderna.45 Sembra d'altronde che quest'asserzione sia molto esagerata. Per di più, la «caccia alle teste» dei Daiachi prende tutt'altro aspetto quando si sa che il preteso cacciatore di teste non è spinto affatto da passione personale. Se cerca di uccidere un uomo, lo fa per ubbidire a ciò che considera obbligo morale verso la tribù, esattamente come il giudice europeo che, per ubbidienza allo stesso principio, evidentemente falso, «del sangue per il sangue», consegna l'assassino al carnefice. Tutti e due, il Daiaco ed il giudice, proverebbero del rimorso se qualche simpatia li movesse a risparmiare l'assassino. Quando si metta da parte gli assassinî che commettono per sodisfare il loro concetto di giustizia, i Daiachi sono dipinti da quanti li conoscono come un popolo molto simpatico. Così Carlo Bock, lo stesso autore che à fatto una sì terribile descrizione della caccia alle teste, scrive:

«Per ciò che si riferisce alla moralità, mi abbisogna assegnare ai Daiachi un gradino elevato nella scala della civiltà..., il brigantaggio ed il furto sono affatto sconosciuti fra essi. Sono anche molto veritieri... Se non s'otteneva sempre da essi «tutta» la verità, almeno ciò che si otteneva era sempre la verità. Vorrei poter dire altrettanto dei Malesi» (pag. 209 e 210).

La testimonianza del Bock è pienamente confermata da quella di Ida Pfeiffer. «Riconosco pienamente, scrive, che mi piacerebbe viaggiare più a lungo tra essi. Li trovo generalmente onesti, buoni e riservati... ed anche molto più di ogni altro popolo da me conosciuto».46

Lo Stoltze usa quasi le stesse parole parlando di essi. I Daiachi non ànno generalmente che una moglie e la trattano bene. Sono socievolissimi, ed ogni mattina l'intero clan esce per pescare, andar a caccia o coltivare il giardino in gruppi numerosi. I loro villaggi consistono in grandi capanne, ciascuna delle quali è abitata da una dozzina di famiglie, e, qualche volta, da parecchie centinaia di persone, viventi pacificamente insieme. Mostrano un grande rispetto per le donne ed amano molto i figli; quando uno di questi cade malato, le donne lo curano a turno. In generale mangiano e bevono moderatamente. Tale è il Daiaco nella sua vera vita quotidiana.

Sarebbe una faticosa ripetizione il dare altri esempi della vita selvaggia. Dappertutto dove andiamo, troviamo le stesse attitudini sociali, lo stesso spirito di solidarietà. E quando ci sforziamo di penetrare nella notte dei tempi lontani, troviamo la stessa vita del clan, le stesse associazioni d'uomini per quanto siano primitivi, riguardo al mutuo appoggio. Darwin aveva dunque interamente ragione allorchè vedeva nelle qualità sociali dell'uomo il fattore principale della sua ulteriore evoluzione, ed i volgarizzatori di Darwin sono assolutamente nell'errore quando sostengono il contrario.

«La poca forza e rapidità dell'uomo (scriveva Darwin) la sua mancanza di armi naturali, ecc., sono difetti più che controbilanciati, primieramente dalle sue attività intellettuali (le quali, rileva egli altrove, sono state principalmente od anche esclusivamente acquisite per il beneficio della comunità); e secondariamente dalle sue qualità sociali che lo conducono a dare il suo appoggio ai suoi simili ed a ricevere il loro».47

Nel secolo XVIII il selvaggio e la sua vita «allo stato di natura» furono idealizzati. Ma oggi i dotti si sono portati all'estremo opposto, particolarmente dacchè alcuni di essi, desiderosi di mostrare l'origine animale dell'uomo, ma non avendo familiari gli aspetti sociali della vita animale, si sono messi a caricare il selvaggio di tutti i caratteri «bestiali» immaginabili. È evidente, tuttavia, che questa esagerazione è ancora più antiscientifica che l'idealizzazione del Rousseau. Il selvaggio non è un ideale di virtù, ma non è neppure un ideale di selvatichezza.

L'uomo primitivo à tuttavia una qualità, prodotta e mantenuta dalle necessità stesse delle sue dure lotte per la vita, – egli identifica la propria esistenza con quella della sua tribù; senza questa qualità l'uman genere non avrebbe mai toccato il livello al quale è giunto.

I primitivi, come abbiamo detto, identificano talmente la loro vita con quella della propria tribù che ciascuno dei loro atti, per quanto insignificante, è considerato un affare che li concerne tutti. La loro condotta è regolata da un'infinità di regole di convenienze orali, che sono il frutto della comune esperienza sopra ciò che è bene e ciò che è male, vale a dire vantaggioso, o nocivo, per la loro tribù. I ragionamenti sui quali sono basate le loro regole di convenienza sono qualche volta estremamente assurdi; molte sono nate dalla superstizione; e in generale, in tutto ciò che fa, il selvaggio non vede che le immediate conseguenze dei suoi atti; egli non può prevedere le loro conseguenze indirette ed ulteriori. In ciò egli non fa che esagerare un difetto che Bentham rimprovera ai legislatori civilizzati. Ma assurde o no, il selvaggio ubbidisce alle prescrizioni del diritto comune, per quanto fastidiose possano essere. Loro ubbidisce più ciecamente di quanto l'uomo civile ubbidisca alle prescrizioni della legge scritta. Il diritto comune è la sua religione; i suoi stessi costumi. L'idea del clan è sempre presente al suo spirito, e il dominio di se stesso ed il sacrificio di se stesso nell'interesse del clan s'incontrano quotidianamente. Se il selvaggio à infranta una delle più piccole regole della tribù, egli è perseguitato dallo scherno delle donne. Se la infrazione è grave, è torturato notte e giorno per il timore d'aver attirato una calamità sulla tribù. Se accidentalmente à ferito qualcuno del suo clan, ed à così commesso il maggiore di tutti i delitti, diventa del tutto misero; fugge nei boschi, pronto ad uccidersi, a meno che la tribù non lo assolva, infliggendogli un castigo corporeo o spargendo il suo sangue.48 Nell'interno della tribù tutto è messo in comune; ogni boccone di cibo è diviso fra tutti quelli presenti; e se il selvaggio è solo nei boschi, non incomincia a mangiare prima d'aver gridato ben forte, per tre volte, l'invito ad andare a condividere il suo pasto, a chiunque potrebbe udirlo.49

Insomma, nell'interno della tribù, la regola di «ciascuno per tutti» è sovrana, tanto che la famiglia distinta non à ancora spezzato l'unità tribale. Ma tale regola non si estende ai clans vicini, o alle tribù vicine, neanche in caso di federazione per la reciproca protezione. Ogni tribù o clan è una unità separata. Ciò è assolutamente come presso i mammiferi e gli uccelli; il territorio è approssimativamente diviso tra le diverse tribù, e salvo che in tempo di guerra, i limiti sono rispettati. Nel penetrare nel territorio dei vicini, si deve mostrare che non si ànno cattive intenzioni. Più uno grida alto il suo avvicinarsi e vieppiù guadagna fiducia; e se si entra in una casa, si deve deporre l'ascia sulla soglia.

Nessuna tribù, però, è obbligata a spartire il cibo con le altre; possono farlo o non farlo. In questo modo la vita del selvaggio è distinta in due serie di azioni e si mostra sotto due differenti aspetti morali; da una parte le relazioni interiori della tribù, dall'altra le relazioni del diritto comune. Così quando si viene alla guerra, le più ripugnanti crudeltà possono venir considerate come tanti titoli all'ammirazione della tribù. Questa doppia concezione della morale s'incontra attraverso tutta l'evoluzione del genere umano, e si è mantenuta fino ai nostri giorni. Noi, gli Europei, abbiamo ottenuto qualche progresso, non molto grande, per sbarazzarci di questa doppia concezione della morale; ma bisogna dire che, se abbiamo estese le nostre idee di solidarietà – almeno in teoria – alla nazione, ed in parte alle altre nazioni, abbiamo poi indeboliti i legami della solidarietà all'interno delle nostre nazioni, ed anche in seno alle nostre famiglie.

L'apparizione di una famiglia separata in mezzo al clan smuove necessariamente l'unità stabilita. Una famiglia separata significa beni distinti e l'accumularsi delle ricchezze. Abbiamo veduto come gli Esquimesi ovviavano a questi inconvenienti; uno studio molto interessante è il seguire, nel corso dell'età, le differenti istituzioni (comunità, villaggi, gilde, ecc.) per mezzo delle quali le masse si sono sforzate a mantenere l'unità della tribù a dispetto degli agenti che miravano a distruggerla. D'altra parte, i primi rudimenti del sapere, che apparvero in un'epoca molto remota, allorchè si confondevano con la stregoneria, diventarono un potere nelle mani dell'individuo che poteva usarne contro la tribù. Erano segreti accuratamente custoditi e trasmessi ai soli iniziati, nelle società segrete degli stregoni, dei maghi e dei preti che troviamo presso tutti i selvaggi [e i... civili del nostro tempo. L'uso s'è perpetuato attraverso le civiltà egizia e greca: i misteri eleusini, ad es., il formarsi della massoneria, il culto cattolico, ecc. (l'Ed.)]. Nel tempo stesso le guerre e le invasioni crearono l'autorità militare; così le caste guerresche, le cui associazioni acquistarono anche grandi poteri. Tuttavia in nessun periodo della vita umana le guerre sono state lo stato normale dell'esistenza. Mentre i guerrieri si sterminavano a vicenda ed i sacerdoti celebravano questi massacri, le masse continuavano la loro vita giornaliera, e continuavano il loro lavoro di ogni giorno. Una ricerca delle più attraenti è quella del seguire la vita delle masse, dello studiare i mezzi con i quali esse conservarono la loro propria organizzazione sociale, basata sul loro concetto d'onestà, d'aiuto reciproco e di mutuo appoggio – il diritto comune, in una parola, – anche sotto i regimi più ferocemente teocratici od autocratici.

1 Nineteenth Century, febbraio 1888, pag. 165.

2 Il K. come l'Engels, il Bebel e quasi tutti gli scrittori socialisti, tende alla soluzione evoluzionista del problema dell'origine della famiglia. Per lo Spencer, il Lubbock, il Morgan, il Gumplowicz, l'Haeckel e gli altri evoluzionisti, l'orda, la tribù precede, nello sviluppo, la famiglia. Il Bachofen (Das Mutterrecht, Stuttgart, 1861) à dato un contenuto scientifico a questa teoria, che à trovato aperti e forti oppositori: come lo Starcke (Die primitive Familie, 1888) e il Westermack (The History of human Mariage, 1891). Alla scuola evoluzionista si è opposta la scuola storica, fondatori della quale furono il Grebner e l'Ankermann, che nelle loro opere sui popoli dell'Oceania e dell'Africa (1904) gettarono le basi di un metodo etnologico basato sullo studio oggettivo, storico dei prodotti dell'incivilimento. Dalle ricerche di questa scuola risulterebbe che la famiglia à avuto origini e sviluppi vari, e che la promiscuità e comunanza sessuale non ànno preceduto in tutti i popoli primitivi la famiglia monogamica. Per chi voglia mettersi al corrente sui metodi e sui resultati della nuova scuola etnologica potrà essere utile la lettura del libro di A. Gemelli, L'Origine della famiglia, Milano, 1913 (N. del T.).

3 L'Origine dell'uomo, fine del cap. II.

4 Certi antropologi che accettano completamente le teorie qui sopra esposte per ciò che riguarda l'uomo, ammettono tuttavia che le scimmie vivono in famiglie poligame sotto la guida di «un maschio forte e geloso». Non so fino a qual punto quest'affermazione sia basata su osservazioni concludenti. Ma il passo de La vie des animaux del Brehm al quale ci si referisce qualche volta, non può guari essere riguardato come concludente in questo senso. Esso si trova nella sua descrizione generale delle scimmie, ma le sue descrizioni più particolareggiate delle specie separate, non lo confermano o lo contraddicono. Anche per quello che si riferisce ai circopitechi, Brehm è affermativo nel dire «essi vivono quasi sempre in branchi e raramente in famiglie». (Ed. francese, pag. 59). Quanto alle altre specie, il grande numero di individui componenti i loro branchi, che comprendono sempre molti maschi rende la famiglia poligama più che dubbia. È evidente che sono necessarie più ampie osservazioni.

5 Lubbock, Prehistoric Times, 5a Ediz., 1890.

6 Questa distesa di una superficie di ghiaccio è ammessa oggi dalla maggior parte dei geologi che ànno studiato specialmente l'età glaciale. L'istituto geologico russo s'è di già acconciato a quest'opinione per quel che concerne la Russia, e la maggior parte degli specialisti la sostengono per quel che concerne la Germania. Quando i geologi francesi studieranno con maggior attenzione i depositi glaciali, non potranno fare a meno di riconoscere che quasi tutto il piano centrale della Francia era coperto di ghiaccio.

7 I rifiuti della cucina accumulati davanti una abitazione neolitica in una fenditura di roccia ad Hastings, ed esplorata da M. Lewis Abbot appartenevano alla stessa categoria. Hanno anche ciò di notevole, che non vi si trova nessuna silice che possa esser considerata come arma guerresca.

8 Bachofen, Das Mutterrecht, Stuttgart 1861; Lewis H. Morgan, Ancient Society, or Researches in the Lines of Human Progress from Savagery through Barbarism to Civilization, New York, 1877; J. F. Mac-Lennan, Studies in Ancient History, prima serie, nuova edizione, 1886; seconda serie 1896; L. Fison e A. W. Howitt, Kamilaroî and Kurnai, Melbourne. Questi quattro scrittori – come l'à ben rilevato Giraud Teulon – partendo da fatti differenti e da differenti idee generali e seguendo differenti metodi sono giunti alla stessa conclusione. Dobbiamo a Bachofen la conoscenza della famiglia materna e della successione materna; al Morgan il sistema di parentela malese e turanica ed un abbozzo molto perspicace sulle principali fasi dell'evoluzione umana; a Mac-Lennan la legge dell'esogamia; e al Fison ed Howitt le grandi linee o lo schema delle società coniugali in Australia. Tutti quattro arrivano all'origine tribale della famiglia. Quando Bachofen attirò per primo l'attenzione sulla famiglia materna, nella sua opera, che fece epoca, e quando Morgan descrisse l'organizzazione per clans – tutti e due s'accordarono nel riconoscere l'estensione quasi generale di queste forme di organizzazione e nel sostenere che le leggi del matrimonio erano la base stessa dei progressi successivi dell'evoluzione umana – furono accusati d'esagerazione. Tuttavia le ricerche più attive continuate da una falange di storici del diritto antico, ànno provato che tutte le razze umane mostrano tracce di fasi analoghe di sviluppo del costume del matrimonio tali quali le vediamo attualmente in vigore presso certi selvaggi. Vedansi le opere di Post, Dargun, Kovalevsky, Lubbock e dei loro numerosi continuatori: Lippert, Mucke, ecc.

9 Vedi Appendice VII.

10 Per i Semiti e gli Ariani vedere specialmente La legge primitiva (in russo) del professore Maxim Kovalevsky, Mosca, 1886 e 1887; così le conferenze che egli ha tenuto a Stoccolma e pubblicate in francese (Tableau des origines de la famille et de la propriété, Stoccolma, 1890) che sono una ammirabile analisi di questa questione. Consultare anche A. Post, Die Geschlechtsgenossenschaft der Urzeit, Oldenbourg, 1875.

11 Sarebbe qui impossibile discutere l'origine delle restrizioni al matrimonio. Mi si permetta soltanto di far notare che una divisione in gruppi, simile agli «Hawaiens» di Morgan, esiste fra gli uccelli; le giovani covate vivono separate dai loro parenti. Una simile divisione si troverebbe facilmente anche in qualche mammifero. Quanto alla proibizione del matrimonio fra fratelli e sorelle, essa è derivata probabilmente non da speculazioni relative ai cattivi effetti della consanguineità, speculazioni che non sembrano guari probabili, ma al fine d'evitare la precocità troppo facile di simili matrimoni. Con una così stretta coabitazione, la necessità di tale restrizione s'imponeva imperiosamente. Devo anche rilevare che, esaminando l'origine dei nuovi costumi, dobbiamo ricordarci che i selvaggi ànno, come noi, i loro «pensatori» ed i loro sapienti: stregoni, dottori, profeti, ecc., dei quali le cognizioni e le idee precorrono quelle delle masse. Con le loro associazioni segrete (anche questo un tratto quasi universale) sono certamente capaci di esercitare un potente influsso ed imporre dei costumi l'utilità dei quali può non essere ancor stata riconosciuta dalla maggioranza della tribù.

12 Colonel Collins nelle Researches in South Africa di Philips, Londra, 1828. Citato da Waitz, II, 334.

13 Lichtenstein, Reisen im Südlichen Africa, II, pag. 92-97, Berlino, 1811.

14 Waitz, Anthropologie der Naturvölker, II, pag. 335 e seguenti. Vedere anche Fritsch, Die Eingeboren Africa's, Breslavia, 1872, pag. 386 e seg.; e Drei Jahre in Süd Africa. Anche W. Bleck, A Brief account of Bushemen Folklore, Capetown, 1875.

15 Eliseo Reclus, Géographie universelle, XIII.

16 P. Kolben, The present State of the Cape of Good Hope, tradotto dal tedesco dal Medley, Londra, 1731, vol. I, pag. 59, 71, 333, 336, ecc.

17 Citati nell'Anthropologie di Waitz, II, pag. 335 e seg.

18 Gli indigeni che vivono al nord di Sydney e parlano il Kamilaroi sono i meglio studiati sotto questo aspetto, nell'eccellente opera di L. Fison e A. W. Howitt, Kamilaroi et Kurnai, Melbourne, 1880. Vedere anche A. W. Howitt «Further Note on the Australian Class Systems» nel Journal of the Anthropological Institute, vol. XVIII, pag. 31 nel quale l'autore mostra la grande estensione della stessa organizzazione in Australia.

19 The Folklore, Manners, ecc., of Australian Aborigines, Adelaide, 1879, p. II.

20 Grey, Journal of Two Expeditions of Discovery in North West e Western Australia, Londra, 1841, vol. II, pag. 237-298.

21 Bulletin de la Société d'Anthropologie, 1888, vol. XI, p. 652. Abbrevio le risposte.

22 Stesso Bollettino, 1888, vol. XI, pag. 386.

23 La stessa cosa si pratica dai Papuasi di Kaîmani-Bay, i quali godono una grande riputazione di onestà. «Non accade mai che il Papauso sia infedele alla sua promessa» dice Finsch nel Neuguinea und seine Bewohner, Brema, 1865, pag. 829.

24 Atti della società geografica di Russia, 1880, pag. 161 e seg. Pochi libri di viaggio danno un miglior sunto dei piccoli particolari della vita dei selvaggi, quanto questi frammenti di note del Maclay.

25 L. F. Martial, Mission scientifique au Cap Horn, Paris, 1883, vol. I, pag. 183-201.

26 Expédition à l'Est du Groenland, del capitano Holm.

27 In Australia, si sono visti degli interi clans scambiarsi tutte le loro donne per scongiurare una calamità. Post, Studien zur Entwicklungsgeschichte des Familienrechts, 1890, pag. 342. Una maggiore fraternità, ecco il loro specifico contro le calamità.

28 Dr. H. Rink, The Eskimo Tribes, pag. 26 (Meddelelser om Grönland, vol. XI, 1887).

29 Dr. Rink, op. cit., pag. 24. Gli Europei allevati nel rispetto del diritto romano sono raramente capaci di comprendere la forza dell'autorità della tribù. «Infatti, scrive il Dr. Rink, ciò non è affatto una eccezione, bensì la regola, che gli uomini bianchi che sono restati dieci o venti anni tra gli Esquimesi, se ne tornarono senz'aver niente appreso sulle idee tradizionali che formano la base dello stato sociale degli indigeni. L'uomo bianco, che sia missionario o commerciante, à l'opinione dogmatica, ben arretrata, che il più volgare europeo sia superiore all'indigeno più distinto». The Eskimo Tribes, pag. 31.

30 Dall, Alaska and its Resources, Cambridge U. S., 1870.

31 Dall l'à veduto nel territorio di Alaska, Jacobsen ad Ignitok nella vicinanza dello stretto di Bering; Gilbert Sproat menziona lo stesso fatto presso gli indiani di Vancouver. Il Dr. Rink, descrivendo le esposizioni periodiche di cui abbiamo ora parlato, aggiunge: «Il principale uso delle ricchezze è la distribuzione periodica». Egli cita anche (op. cit., pag. 31) «la distruzione dei beni al medesimo scopo» (quello di mantenere l'uguaglianza).

32 Vedi Appendice VIII.

33 Veniaminoff, Memorie relative al distretto di Unalashka (in russo), 3 vol., Pietrogrado, 1840. Dall à dato degli estratti in inglese di queste memorie nel Alaska. Una descrizione simile della morale degli Australiani si trova in Nature, XLII, pag. 639.

34 È molto interessante notare che parecchi scrittori (Middendorff, Schrenk, O. Finsch) ànno descritto gli Ostiachi ed i Samoiedi quasi con le stesse parole. «Anche quando sono ubbriachi le loro liti sono insignificanti». «Durante cento anni un solo omicidio fu commesso nella tundra». «I loro fanciulli non si picchiano mai». «Si può lasciare qualsiasi cosa, per degli anni, nella tundra, anche dei cibi o dell'aquavite; nessuno li toccherà». E così di seguito, Gilbert Sproat non è «mai stato testimonio d'una battaglia tra due indigeni che non abbiano bevuto» presso gli indiani Aht dell'isola di Vancouver. «Le liti sono rare anche tra i fanciulli». Rink, op. cit. E così di seguito.

35 Gill, citato nell'Antropologia di Gerland e Waitz, v, 641. Vedere anche pag. 636, 640, dove sono citati molti episodi di amor paterno e di amor filiale.

36 Elia Reclus, Les Primitifs, Paris, 1885.

37 Gerland, op. cit., V, 636.

38 Erskine, citato nell'Antropologia di Gerland e Waitz, V, 640.

39 Vi sono dei cannibali che fanno quasi macerare i cadaveri per ghiottoneria, e nelle isole Fidji, nelle isole Marchesi, in Australia, ecc., le donne ed i bambini sono preferiti perchè ànno la carne più tenera (N. del T.). [E noi, non mangiamo la carne «frolla»? (l'Ed.)].

40 W. T. Pritchard, Polynesian Reminescences, Londra, 1866, pag. 363.

41 Si deve notare che in caso di sentenza di morte, nessuno vuol assumerne la esecuzione. Ciascuno getta la sua pietra o dà con l'ascia il suo colpo, evitando attentamente di dare un colpo mortale. In una epoca posteriore sarà il sacerdote che colpirà la vittima con un coltello sacro. Ancora più tardi sarà il re, fino a che la civiltà inventa il carnefice pagato. Vedansi su questo soggetto le profonde osservazioni del Bastian in Der Mensch in der Geschichte, III. Die Blutrache, pag. 1-36. Un avanzo di questo uso molto antico, mi dice il professore E. Nys, à sopravvissuto fino ai giorni nostri nelle esecuzioni militari. Fino alla metà del XIX secolo, si aveva l'abitudine di caricare il fucile di dodici soldati, designati per tirare sul condannato con dodici cartucce a palla ed una cartuccia vuota. Siccome i soldati non sanno quale di essi aveva quest'ultima, ciascuno poteva tranquillare la sua coscienza, pensando che non era affatto l'uccisore.

42 Non è così fra noi «civili»? I reggitori di popoli non trascinano tutta l'umanità nelle «loro» guerre? (Nota dell'Ed.).

43 In Africa, ed altrove pure, un'abitudine molto diffusa è che, se è stato commesso un furto, il clan vicino debba restituire l'equivalente della cosa rubata, e poi cercare lui stesso il ladro. A. H. Post, Afrikanische Jurisprudenz, Leipzig, 1887, vol. I, pag. 77.

44 Vedasi Costumi moderni e la legge antica (in russo) del prof. Massimo Kovalevsky, Mosca, 1886, vol. II, che contiene importanti considerazioni su questo soggetto.

45 Vedasi Carlo Bock, The Head-Hunters of Borneo, Londra, 1881. Però Hugh Law, il quale è stato durante lungo tempo governatore di Borneo, mi diceva che la «caccia alle teste» descritta in quel libro è molto esagerata. Egli parla al contrario dei Daiachi assolutamente con gli stessi termini di simpatia di Ida Pfeiffer. Si può aggiungere che Mary Kingsley, nel suo libro su l'Africa occidentale, parla con le stesse espressioni di simpatia dei Fans che erano precedentemente stati rappresentati come «i più terribili cannibali».

46 Ida Pfeiffer, Meine zweite Weltreise, Vienna, 1856, vol. I, p. 116 e seg. Vedasi pure Müller e Temminch, Dutch Possessions in Archipelagic India, citato da Eliseo Reclus nella Geographie universelle, XIII.

47 Origine dell'uomo, cap. II.

48 Vedasi Mensch in der Geschichte di Bastian, III, pag. 7. Vedasi anche Grey, op. cit., pag. 238.

49 Miklukho-Maclay, op. cit. Lo stesso uso presso gli Ottentotti e presso i Cafri, si nota fino ai giorni nostri.