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di Wolfgang J. Mommsen
Sommario: 1. Definizione dell'imperialismo. a) L'evoluzione
semantica del concetto di imperialismo . b) La formazione del
concetto moderno di imperialismo nell'epoca dell'imperialismo
maturo. 2. L'imperialismo come fenomeno della storia
universale. 3. L'imperialismo come formazione storica. a)
Imperialismo formale e imperialismo informale . b) L'epoca del primo
imperialismo (1815-1881) . c) L'epoca dell'imperialismo maturo
(1881-1918) . d) Le forze motrici dell'espansione imperialistica; e)
riflusso dell'imperialismo tra le due guerre mondiali. 4. Teorie
dell'imperialismo. a) Le prime teorie borghesi dell'imperialismo b)
Le teorie marxiste classiche dell'imperialismo . c) Recenti teorie
politiche dell'imperialismo d) teorie ‛oggettivistiche'
dell'imperialismo . e) Teorie sociologiche e sociopolitiche
dell'imperialismo . f) Teorie periferiche dell'imperialismo.
g) Teorie del neocolonialismo e del sottosviluppo . h)
L'imperialismo come potere strutturale. □ Bibliografia.
1. Definizione dell'imperialismo
a) L'evoluzione semantica del concetto di imperialismo
Nella sua accezione originaria, ‛imperialismo' indica il dominio
più o meno illimitato di un monarca o di una potenza cesarea
su un vasto impero, il quale oltrepassi largamente i confini
territoriali di uno Stato etnicamente e nazionalmente unitario.
Già nel Medioevo incontriamo la concezione secondo la quale
ad un sovrano spetta il rango di imperatore soltanto se il suo
dominio si estende su più d'un regno (v. Stengel, 1965, pp.
243 ss.). Sebbene i concetti di sovranità imperiale e di
imperialismo si orientassero sempre sul modello storico dell'Impero
romano, originariamente s'intendeva con ‛imperialismo' in primo
luogo la sovranità - più o meno illimitata - di un
singolo su un vasto impero, di norma costituito di elementi
disparati. In questo senso si è talvolta parlato, ad esempio,
di un imperialismo di Napoleone I. Dopo che ebbe assoggettato mezza
Europa, Napoleone fondò un impero che, sebbene qualificato
come Impero dei Francesi, non a caso si riallacciava, nel simbolismo
e nella titolatura, alle antiche tradizioni romane. Nel 1851
l'impero fu ricostituito da Napoleone III, il quale usava designarlo
come système impérial (v. Koebner e Schmidt, 1963, pp.
3 ss.). E fu in Francia che gli avversari di Napoleone III fecero,
per la prima volta, largo uso del concetto di ‛imperialismo' per
indicare appunto il suo sistema di potere. Con quest'uso si prendeva
di mira soprattutto la politica interna di questo sistema
autoritario, mentre il momento dell'espansione territoriale aveva
ancora scarsa importanza. In una prospettiva analoga, osservatori
inglesi definirono imperialismo la fondazione (1871) dell'Impero
germanico.
Il concetto acquisì il suo significato moderno soltanto in
connessione con la politica estera perseguita da B. Disraeli negli
anni settanta dello scorso secolo. Già nel discorso tenuto a
Londra al Crystal Palace (24 giugno 1872), Disraeli si
professò enfaticamente sostenitore di una conseguente
politica di consolidamento dell'Impero britannico, in opposizione
alla politica - condotta sin allora dai liberali - di liquidazione
dell'Impero. Nel contempo egli designava questo nuovo corso
imperialistico come una ‟politica conservatrice" nel vero senso del
termine. Questo discorso di Disraeli è comunemente
considerato come il segnale di avvio del ‛nuovo imperialismo'
dell'epoca 1870-1918. La politica disraeliana di consolidamento e di
ampliamento dell'Impero britannico, quale si esprimeva nell'acquisto
delle azioni della Compagnia del Canale di Suez (1876) e
nell'annessione di Cipro (1878), stava ancora interamente, tuttavia,
sotto il segno della politica interna. La proclamazione della regina
Vittoria quale imperatrice delle Indie - la limitazione del titolo
alle Indie non era affatto, inizialmente, nelle intenzioni di
Disraeli, il quale vi si era indotto soltanto sotto la pressione
dell'opinione pubblica - illumina la tendenza di questa politica
più chiaramente di qualsiasi altra cosa: il nuovo
imperialismo doveva da una parte stabilizzare le istituzioni
politiche esistenti, e dall'altra, sotto la bandiera del
nazionalismo, legare le grandi masse alla corona che con la
promozione alla dignità imperiale, godeva di un'accresciuta
autorità. Già nel summenzionato discorso al Crystal
Palace si diceva che i ceti lavoratori d'Inghilterra sono orgogliosi
di appartenere a un grande paese e vogliono custodire la sua
grandezza; che sono orgogliosi di appartenere a un impero e sono
decisi - se possibile - a conservarlo; e che sono in generale
convinti che la grandezza dell'Inghilterra e il suo Impero sono da
attribuire alle sue antiche e venerabili istituzioni. Anche in
Disraeli non mancavano riferimenti al modello storico dell'Impero
romano, come si rivelava ad esempio nel motto ‟imperium et
libertas", ch'egli adoperava spesso a scopo propagandistico.
L'imperialismo di Disraeli costituisce il punto di sutura tra l'uso
più antico e quello più recente del concetto; talvolta
troviamo ancora, tuttavia, testimonianze dell'uso più antico:
ad esempio nell'idea - di Friedrich Naumann - di Guglielmo II come
imperatore democratico alla testa di un imperialismo tedesco.
Contro la politica di Disraeli che, sfruttando il prestigio
derivante dalla politica estera, cercava di raggiungere obiettivi di
politica interna, i liberali inglesi polemizzarono sin dall'inizio
con estrema asprezza; essi la qualificarono appunto come
‛imperialistica', cioè inconciliabile con le tradizioni
politiche britanniche. Fu così che il concetto di
imperialismo entrò per la prima volta nell'usuale linguaggio
politico inglese, nel quale fu per il momento destinato a indicare
le caratteristiche autoritarie e cesaree del dominio imperiale
all'interno. Ad esempio R. Lowe così si esprimeva nel 1878
sulla ‟Fortnightly review": ‟Che cosa si intende con imperialismo?
Si intende la rivendicazione di un potere assoluto sugli altri" (v.
Koebner e Schmidt, 1963, p. 149). E in modo analogo J. Chamberlain -
che doveva diventare poco dopo un esponente eminente
dell'imperialismo britannico - nel 1879 bollava, da posizioni
radicali, come autoritario e regressivo il ‟new imperialism of the
government". Agli occhi dei liberali, l'imperialismo appariva come
un sistema politico che si serviva abusivamente dell'espansione
territoriale e della politica di potenza oltremare come di strumenti
per una politica reazionaria all'interno; a questo proposito,
l'esempio di Napoleone III rimaneva in larga misura determinante.
b) La formazione del concetto moderno di imperialismo nell'epoca
dell'imperialismo maturo
Fu soltanto nella scia del mutamento radicale subito dal clima
politico all'inizio degli anni ottanta - quando in tutti i paesi
europei si assisté a un risveglio delle tendenze
espansionistiche - che il concetto di imperialismo acquisì a
poco a poco un più concreto contenuto e quindi il suo
significato moderno. Anche se per i liberali rimaneva in larga
misura associato a pratiche governative autoritarie, al jingoism e
alla manipolazione dell'opinione pubblica, il termine veniva ormai
sempre più usato come una denominazione complessiva di quei
processi di espansione imperialistica che in quegli anni
riprendevano con rinnovata intensità.
L'imperialismo divenne infine, almeno in certi settori dell'opinione
pubblica, un concetto affatto positivo, tanto che, alla lunga,
neppure i liberali britannici poterono più sottrarsi alla sua
forza di suggestione. Nel 1895 lord Rosebery così
propagandava i principî di un imperialismo razionale e
liberale: ‟L'imperialismo liberale implica, in primo luogo, la
conservazione dell'Impero; in secondo luogo, l'apertura di nuove
aree del globo alla nostra popolazione eccedente; in terzo luogo, la
soppressione della tratta degli schiavi; in quarto luogo, lo
sviluppo delle iniziative missionarie; e in quinto luogo,
l'incremento del nostro commercio" (v. Coates, 1900, vol. II, p.
778). E un lord Curzon non esitava più, all'inizio del
secolo, a dichiararsi un ‟convinced and unconquerable imperialist".
Il concetto di imperialismo aveva ormai perduto il suo contenuto
polemico, per diventare definitivamente un elemento positivo del
linguaggio politico usuale. Il modello inglese doveva irradiarsi sul
continente; fu soprattutto il possesso dell'India - il gioiello
della corona britannica, come allora si amava dire - a spronare
l'imperialismo continentale. In misura crescente l'opinione pubblica
di tutti i grandi Stati europei si trovava d'accordo sul fatto che
il futuro sarebbe appartenuto soltanto a quelle potenze che si
fossero date dimensioni mondiali. Ad esempio J. Chamberlain scriveva
nel 1897: ‟La tendenza del nostro tempo è la concentrazione
di tutto il potere nelle mani dei grandi imperi, mentre i regni
minori - quelli che non si espandono - sembrano destinati a un ruolo
secondario e subordinato".
E Max Weber, nella sua prolusione tenuta a Friburgo nel 1895,
esprimeva idee analoghe: ‟Dobbiamo renderci conto che l'unificazione
della Germania è stato un gesto giovanile che la nazione ha
compiuto nella sua maturità e che sarebbe stato meglio non
compiere, a causa del suo prezzo elevato, se esso doveva restare il
punto di arrivo anzichè il punto di partenza di una politica
tedesca di potenza mondiale" (v. Weber, 19583; tr. it., pp.
107-108). E quasi allo stesso modo argomentava J. Ferry già
nel 1884: ‟Oggi la grandezza delle nazioni poggia unicamente sul
loro spirito di intraprendenza, e non sull'irradiazione pacifica
delle loro istituzioni"; la rinuncia all'espansione sarebbe
perciò per ‟una grande nazione sinonimo di abdicazione" e ne
deriverebbe ‟la sua decadenza a nazione di terzo o quart'ordine" (v.
Robiquet, 1897, p. 218). Ai contemporanei la politica imperialistica
appariva interamente come la logica continuazione della politica
nazionale di potenza; l'imperialismo era per essi, per dirla con le
parole di lord Rosebery del 1899: ‟null'altro che [...] un
più vasto patriottismo" (discorso al City of London Liberal
Club, del 5 maggio 1899, Liberal League Publications, n. 5).
Naturalmente, dietro il pathos nazionalistico, che si sforzava di
giustificare con ogni mezzo l'espansione imperialistica, si celava
un complesso di tendenze, rappresentazioni e concezioni ideologiche
assai diverse nei singoli casi. L'analisi semantica del concetto di
imperialismo e della terminologia ‛imperialistica' dei contemporanei
può servire quindi unicamente come indicazione per una
determinazione sistematica della natura dell'imperialismo. A questo
fine, ci stanno aperte dinanzi, in linea di principio, due strade,
le quali sono state entrambe battute, sebbene in misura diversa e
con diversa intensità, dalla ricerca storica e politica che
si è occupata dei problemi dell'imperialismo: 1) quella
basata sulla possibilità di una definizione dell'imperialismo
in termini di storia universale, definizione che consenta
l'applicazione comparata del concetto alle varie epoche storiche e
formazioni sociali; 2) quella mirante alla definizione
dell'imperialismo come formazione storica concreta che ha condotto
alla ripartizione delle regioni sottosviluppate del globo tra gli
Stati industriali; e, in ultima analisi, come forma strutturale
della dipendenza delle regioni relativamente meno sviluppate dalle
metropoli industriali.
2. L'imperialismo come fenomeno della storia universale
Sul piano della storia universale, parlare di imperialismo significa
più o meno parlare della formazione di grandi imperi - o
anche di imperi mondiali - che vengono governati e amministrati da
un nucleo, spesso assai piccolo ed etnicamente omogeneo: si pensi ad
esempio all'Impero romano, che all'epoca della sua maggiore
estensione aveva portato l'intero mondo mediterraneo sotto la
sovranità della res publica romana e del successivo Impero
dei Cesari. Diversissimi possono essere le forme e i metodi del
dominio esercitato sui popoli e territori dipendenti; storicamente,
si conoscono sia il dominio diretto, esercitato prevalentemente con
mezzi militari, sia la formazione di sistemi di satelliti, basati su
forme assai differenti di dominio indiretto, che vanno dalla
subordinazione formale, garantita da trattati, al pagamento di
tributi, talvolta meramente simbolico. Un buon esempio dell'ultima
forma di dominio imperialistico è costituito dall'Impero
ottomano, che sin dal sec. XIV assoggettò il Vicino Oriente,
il Nordafrica e l'intera penisola balcanica ed è
sopravvissuto fino al sec. XX. Accanto ai vincoli religiosi
rappresentati dall'Islām, i sultani ricorrevano di norma
all'istituzione di satrapie, affidate a uno strato dominante esiguo
e oltremodo privilegiato.
Storicamente ancora più frequente, e associato in numerose
forme di transizione al primo tipo, è un dominio
imperialistico nella forma della supremazia di uno strato di
conquistatori - per lo più etnicamente omogeneo - che, grazie
alla superiorità della propria cultura o della propria
tecnica militare, ha saputo imporsi alle popolazioni preesistenti.
Già il breve regno di Alessandro Magno, dal quale doveva
derivare l'irradiazione della cultura ellenistica, dev'essere
attribuito a questo tipo. Ciò vale anche per numerose
formazioni imperialistiche derivanti da migrazioni di popoli, e in
particolare per l'impero carolingio, che ebbe i suoi presupposti
nella colonizzazione franca e nell'instaurarsi del predominio di uno
strato dominante franco sulle popolazioni indigene. O. Hintze ha
richiamato l'attenzione sul fatto che il feudalesimo, come forma
specifica - in un economia agraria - di amministrazione decentrata
retta da uno strato dominante aristocratico, dev'essere visto come
un tipico fenomeno concomitante di questo tipo d'imperialismo, che
ha la sua origine nella colonizzazione forzata (v. Hintze, Wesen...,
19622, p. 105). Un tale imperialismo è caratterizzato dal
ruolo di una nobiltà di spada, la quale è separata
dalla massa della popolazione sia da uno specifico codice d'onore
che da diversità etniche e culturali, e vede la propria
vocazione nell'esercizio e nell'affermazione del dominio.
Fu questo il punto di partenza scelto da Schumpeter nella sua
Soziologie der Imperialismen del 1918, la quale, sebbene possa oggi
sembrare contestabile in punti importanti, conserva però
un'insuperata ampiezza di visione. Schumpeter descrisse
l'imperialismo come il prodotto tipico degli istinti agonistici
propri degli strati dominanti aristocratici, che ricevono il loro
slancio tanto dalla loro posizione sociale, quanto dalla loro
disposizione psichica ‟all'espansione violenta e intollerante di
confini". Così inteso, l'imperialismo è dunque un
fenomeno specifico di società aristocratiche, nelle quali le
funzioni di direzione e di dominio siano monopolizzate da ristrette
élites; in situazioni siffatte, la guerra e l'aggressione
sono un fattore necessario per la conservazione delle strutture
feudali (v. Schumpeter, 1953, specialmente pp. 145 ss.).
Una forma particolare d'imperialismo è costituita dagli
imperi marittimi, la cui forza era basata soprattutto sulla flotta
(uno strumento particolarmente importante in un economia
prevalentemente agraria). Appartengono già in certo modo a
questa categoria le città-stato greche con le loro colonie
nell'Egeo e al di là dell'Egeo, e in seguito specialmente
Venezia, che dalla condizione di piccola città-stato nel sec.
XVII assurse al rango di padrona assoluta del Mediterraneo
orientale. Ma debbono essere annoverati in questa categoria
anzitutto gli imperi coloniali (in via di formazione dal sec. XVI)
del Portogallo, della Spagna, dell'Inghilterra e dell'Olanda, il cui
dominio territoriale si limitava spesso alle regioni costiere, ma
che, grazie alla loro potenza navale, erano sempre in grado di
domare eventuali ribellioni locali.
Queste molteplici forme della potenza imperialistica, quali le
incontriamo, sebbene in condizioni assai diverse, nel corso della
storia, hanno senza dubbio una grande importanza per
un'interpretazione moderna dell'imperialismo; però, ove si
voglia adoperarle come paradigmi per l'interpretazione dei fenomeni
dell'imperialismo moderno, risultano relativamente generiche e
aspecifiche. Già O. Hintze ha tracciato la distinzione tra
gli ‛imperialismi antichi', che nutrivano l'aspirazione al dominio
mondiale e s'identificavano - o almeno in gran parte coincidevano -
con una determinata area culturale, e gli imperialismi moderni, i
quali, all'interno di un sistema di Stati precostituito, lottano per
accrescere il proprio prestigio o la propria potenza.
Secondo Hintze, si deve ‟considerare come tratto caratteristico
dell'imperialismo antico il fatto di dare espressione politica agli
interessi generali di una vasta ma determinata area culturale, il
cui orizzonte, nell'essenziale, non andava al di là di se
stessa" (v. Hintze, Imperialismus..., 19622, pp. 461 ss.). Nel caso
dell'imperialismo moderno si tratta invece ‟non del dominio mondiale
di un popolo (come nell'antichità), ma di un'élite di
nazioni, che assumono una posizione guida nel mondo" (ibid., p.
469). Hintze sottolinea inoltre che gli imperialismi moderni non si
fondano più su una base prevalentemente feudale,
bensì, all'opposto, su una base burocratica. H. Lüthy ha
invece interpretato, non senza qualche ragione, l'imperialismo
moderno come lo stadio finale di un processo mondiale di
civilizzazione, il quale ha di necessità condotto al crollo
dei sistemi sociali premoderni e in massima parte arcaici del Terzo
Mondo (crollo a volte desiderato dagli stessi interessati). Sotto
questo aspetto, svanirebbero le differenze tra l'imperialismo
moderno - caratterizzato dalla lotta dei paesi europei
industrializzati e degli Stati Uniti per i territori tuttora ‛non
civilizzati' dell'Asia e dell'Africa - e gli imperialismi antichi;
si tratterebbe piuttosto di un processo di acculturazione forzata
affine a molti altri della storia universale, i quali sono sempre
terminati con il trionfo - conseguito, o almeno accelerato, con
strumenti politici violenti - di una cultura più forte (o
forse si dovrebbe dire ‛superiore') sulle culture più deboli.
3. L'imperialismo come formazione storica
a) Imperialismo formale e imperialismo informale
Affidandosi all'ovvia comprensione dei contemporanei, H. Friedjung
coniò nel 1919, per il periodo dal 1880 al 1914, la nozione
di ‛età dell'imperialismo': un'epoca nella quale ‟i popoli e
i loro governanti" avevano ‟recato chiaramente alla coscienza,
facendone il criterio della loro azione", la ‟spinta" verso i
possedimenti oltremare e verso una ‟partecipazione crescente al
dominio mondiale" (v. Friedjung, 1919, vol. I, pp. 2 ss.). La
ricerca moderna si è di gran lunga discostata da una tale
determinazione storicistica del proprio oggetto; in particolare, la
nozione di imperialismo ha subito una straordinaria dilatazione,
tanto sotto il profilo cronologico che sotto quello dei contenuti.
L'età dal 1880 al 1914 è oggi comunemente considerata
come il periodo dell'imperialismo ‛classico' (v. Mommsen, 1971, p.
14), ovvero dell'imperialismo ‛maturo' (Hochimperialismus; v.
Ziebura, 1974, p. 495); essa è la fase culminante di un
processo che ha i suoi inizi nel cosiddetto ‛imperialismo del libero
scambio' del primo Ottocento e giunge quasi fino ai nostri giorni
(se non si voglia, come fanno molti autori neomarxisti e
naturalmente anche il marxismo-leninismo ufficiale, nonché -
seppure con diversa accentuazione - il maoismo, designare i rapporti
oggi esistenti tra i paesi industrializzati e i paesi del Terzo
Mondo con il termine di ‛neocolonialismo').
Di importanza decisiva è il fatto che non soltanto la
concezione marxista-leninista dell'imperialismo, che ha sempre
interpretato i fenomeni imperialistici anzitutto come prodotti del
capitalismo in un determinato stadio del suo sviluppo, ma anche gli
studi occidentali hanno svincolato la nozione di imperialismo da
quella di controllo territoriale. Secondo il pionieristico, ma anche
criticato lavoro The imperialism of free trade di Robinson e
Gallagher (v., 1953), il dominio coloniale formale è da
considerare soltanto come una delle molte possibili forme dei
rapporti imperialistici di dipendenza. Accanto al dominio
imperialistico più o meno formale c'è tutta una gamma
di tipi di ‛imperialismo informale', tra i quali la dipendenza
economica è il più importante, sia essa dovuta
all'instaurazione di relazioni commerciali che favoriscano
unilateralmente le metropoli, ovvero a investimenti di capitali di
tale entità da creare nel paese in questione una dipendenza
economica più o meno totale nei confronti del paese
creditore. S'incontrano inoltre diverse forme di dipendenza
imperialistica dovuta a una superiorità tecnologica o anche
soltanto militare o persino a una maggiore energia spirituale o
religiosa.
b) L'epoca del primo imperialismo (1815-1881)
Sinora, gli studi sull'imperialismo hanno tracciato una distinzione
relativamente netta tra il colonialismo più antico, quale si
andò sviluppando a partire dal Cinquecento nel corso di un
processo talora estremamente complicato, e i fenomeni imperialistici
quali hanno preso l'avvio verso la metà dell'Ottocento per
poi subire una più rapida accelerazione negli anni ottanta.
In realtà, dopo che il distacco delle colonie americane dalla
Gran Bretagna rese evidente la problematicità di una politica
coloniale che favorisse unilateralmente gli interessi commerciali
della madre patria, si cominciò in Inghilterra e altrove a
nutrire dubbi sul valore delle colonie. Nell'epoca dell'incipiente
libero scambio, la politica coloniale mercantilistica sin allora
seguita sembrò aver perduto gran parte del suo significato.
Già Adam Smith, nella sua celebre opera The wealth of nations
(1776) rivolse un aspro attacco alle colonie, che non recano alcun
frutto alla madrepatria mentre la coinvolgono in guerre e armamenti
dispendiosi : ‟I governanti della Gran Bretagna hanno dilettato la
popolazione, per più di un secolo, con la fantastica idea che
essa possedesse un grande impero sulla riva occidentale
dell'Atlantico. Tuttavia questo impero, fino a oggi, è
esistito solo nell'immaginazione; finora non è stato un
impero, ma solo il progetto di un impero; non è stato una
miniera d'oro, ma solo il progetto di una miniera d'oro, un progetto
che è costato, che continua a costare e che, proseguendo
nello stesso modo in cui è proseguito fino a oggi, è
probabile che continuerà a costare una spesa immensa, senza
che ci siano possibilità che dia qualche profitto, dato che
gli effetti del monopolio del commercio con le colonie, come
è già stato dimostrato, sono, per la grande massa
della popolazione, pure perdite, invece che profitti" (Indagine
sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973,
p. 945).
In realtà i vecchi imperi coloniali della Spagna e del
Portogallo, e in parte anche quello britannico, edificati in una
prospettiva prevalentemente politica e mercantilistica, andavano
tramontando sin dalla fine del sec. XVIII; si pervenne infatti
all'emancipazione di quasi tutte le colonie europee sul continente
americano, mentre l'interesse degli uomini politici alla
conservazione e al consolidamento dei possedimenti coloniali si
attenuò considerevolmente. Parecchie delle stazioni fondate
in Africa e nel Pacifico nel sec. XVII e agli inizi del XVIII
ristagnavano o conducevano una misera esistenza. Un numero crescente
di uomini politici e di teorici, sotto l'influsso della dottrina
liberoscambista, si mostrava propenso a rinunciare ai possedimenti
coloniali esistenti, o almeno sosteneva doversi garantire alle
colonie la massima autonomia possibile, anziché come si era
fatto sin allora legarle alla madrepatria e alla sua economia con
ogni sorta di imposizioni e di restrizioni commerciali ; e
ciò anche a costo di rischiare la separazione dalla
madrepatria. Già nel 1793 J. Bentham pubblicava il suo
scritto Emancipate your colonies, nel quale queste concezioni
ricevevano una formulazione magistrale. La critica del sistema
coloniale raggiunse infine il vertice nel movimento di Godwin, Smith
e Cobden per un sistema universale di libero scambio. ‟Data
l'abbagliante attrazione che esercita sulle passioni della gente, il
sistema coloniale non potrà essere liquidato se non per il
tramite indiretto del libero scambio che, gradualmente e
impercettibilmente, allenterà i vincoli che, sulla base di un
malinteso interesse egoistico, ci uniscono alle nostre colonie" (v.
Schuyler, 1945, p. 132).
Comunque, l'abbandono dei sistemi coloniali mercantilistici non ebbe
un grande significato per gli interessati, se si prescinde da quei
pochi territori cui era stato concesso già nella prima
metà dell'Ottocento un limitato grado di autonomia. Il legame
strettissimo fra le economie coloniali e la madrepatria non fu
affatto soppresso, neppure dopo l'abbandono del vecchio sistema
commerciale basato su pratiche monopolistiche e su restrizioni.
Bisogna notare innanzitutto che il processo di espansione
territoriale specialmente nel caso dell'Impero britannico, ma anche
di altri imperi coloniali, in particolare di quello francese
proseguì anche in quel periodo allo stesso ritmo, sebbene
ciò accadesse, come scrisse più tardi lo storico
inglese J. Seeley, ‟per distrazione" (v. Seeley, 1883, p. 10). A
questo proposito, gli studi più recenti parlano, con una
brusca inversione rispetto alla vecchia interpretazione di Myths of
the ‛Little England' era (v. Galbraith, 1961). In verità
è stato mostrato che anche nel pensiero degli economisti e
ideologi liberali, che i vecchi studiosi qualificavano comunemente
come antimperialisti, sopravvivevano forti elementi mercantilistici,
e d'altro 14t0 che costoro rifiutavano non le colonie in sé,
ma soltanto quelle del vecchio tipo monopolistico, che riproducevano
il tradizionale sistema aristocratico della madrepatria (v. Semmel,
1970, pp. 103 55. ; v. Winch, 1965).
Non è più possibile, pertanto, designare il primo
Ottocento come un'epoca di antimperialismo. Bisogna invece parlare
di questo periodo come dell'epoca del ‛primo imperialismo', nella
quale, se da un lato si abbandonavano le posizioni colonialistiche
tradizionali, dall'altro si sviluppavano forme nuove di espansione,
di specie prevalentemente informale. Per citare un solo esempio, i
Colonial reformers, un gruppo di teorici britannici delle colonie,
negli anni trenta e quaranta si entusiasmarono (e con loro
l'opinione pubblica britannica) per un nuovo tipo di colonie bianche
di insediamento, le quali dovevano sì rimanere associate alla
madrepatria, ma dovevano nel contempo godere di una larga autonomia
nelle questioni economiche e in gran parte anche in quelle
politiche. Spuntarono nuove società, le quali si accinsero
alla colonizzazione di vaste aree della Nuova Zelanda e delle
regioni sin allora inesplorate dell'Australia. Anche gli economisti
orientati verso i principi liberali salutarono con favore questi
sviluppi.
Nel contempo si sosteneva in generale la necessità di
estendere i commerci britannici verso sempre nuovi territori del
globo, e a questo scopo apparivano utili anche i progetti
colonialistici, specialmente se dovuti all'iniziativa privata. E.
Gibbon Wakefield così formulava il programma di un tale
espansionismo informale ‟Il mondo intero è dinanzi a voi
[...]. Aprite nuove vie per un impiego il più possibile
redditizio del capitale inglese. Lasciate che gli Inglesi comprino
pane da chiunque abbia pane da vendere a buon mercato. Fate
dell'Inghilterra, per tutto ciò che si produce col vapore,
l'opificio del mondo. E se poi rimangono ancora capitali ed energie
umane, imitate gli antichi Greci; prendete lezioni dagli Americani
che, non appena i loro capitali o la loro popolazione aumentano,
trovano nuovi spazi mediante la colonizzazione" (v. Semmel, 1960, p.
91). Il programma dell'espansione economica sulla base del libero
scambio, cioè il programma di un accesso il più
possibile libero a tutti i mercati del mondo, si accordava
ottimamente sia con la fondazione di nuove colonie di insediamento,
che a loro volta avrebbero potuto contribuire a un'intensificazione
degli scambi commerciali e quindi all'accrescimento della ricchezza
generale, sia con la sistematica apertura delle regioni sin allora
‛non civilizzate' del globo al commercio e alla cultura
dell'Occidente.
E un programma siffatto era infine rafforzato anche dal ricorso a
ragioni di ordine religioso o umanitario, come per esempio la lotta
contro la tratta degli schiavi. La verità è che
già nel primo Ottocento si cominciò a perfezionare il
sistema degli avamposti coloniali (alcuni dei quali esistevano
già da lungo tempo) e a fondare nuove basi coloniali nelle
regioni costiere dell'Africa e dell'Asia. In alcuni casi, per
esempio in Sudafrica e specialmente in India e nelle regioni
confinanti, si assisté a un processo di espansione
addirittura clamoroso. E vero che si può considerare come
caratteristico di questa fase il fatto che solo in casi eccezionali
si procedette a conquiste territoriali nel senso stretto del
termine; ci si accontentava di norma di conseguire il controllo di
regioni costiere strategicamente ed economicamente importanti,
mentre si trascurava quasi completamente l'entroterra, nel quale le
popolazioni indigene potevano mantenere pressoché immutati
sia i loro metodi produttivi che le loro forme di organizzazione
politica. In altre parole, alla fondazione di costose
amministrazioni coloniali (statali o private) si preferiva il
controllo estensivo, accompagnato dall'intensificazione degli scambi
con gli indigeni. Tutto quello che si richiedeva era la sicurezza
dei commerci e, talvolta, la soppressione della tratta degli
schiavi. Persino la britannica East India Company, che nella prima
metà dell'Ottocento estese enormemente la propria sfera di
controllo, preferiva, sempre che fosse possibile, forme indirette di
controllo, compatibili con la conservazione dei sistemi politici
locali, all'edificazione di una propria diretta amministrazione
coloniale.
I metodi imperialistici della prima età vittoriana sono stati
caratterizzati in modo calzante da Robinson e Gallagher con la
formula ‟Commercio con controllo informale, se possibile; commercio
con dominio esplicito, se necessario" (v. Robinson e Gallagher,
1953, p. 13). In effetti il periodo del primo imperialismo è
caratterizzato dal fatto che di norma si dava la precedenza alle
iniziative e alle società private rispetto all'azione
statale: si faceva ricorso all'intervento diretto dello Stato solo
quando i metodi del controllo estensivo, sotto la protezione della
madrepatria, diventavano impraticabili, come nel caso, per esempio,
che gruppi rivali di società coloniali invocassero ciascuno
l'appoggio della madrepatria. La forma normale dell'organizzazione
colonialistica fu rappresentata in quel periodo dalla chartered
company, che in linea di principio promuoveva l'espansione
imperialistica a proprio rischio e pericolo e svolgeva nelle regioni
controllate funzioni statali, nel cui esercizio sottostava solo in
misura assai limitata e indirettamente al controllo della
madrepatria. Questo modo di procedere era naturalmente motivato
anche da ragioni di politica interna. In quel periodo i governi, e
con essi l'opinione pubblica, guardavano con avversione piuttosto
che con entusiasmo all'instaurazione di un controllo formale e
diretto nelle regioni oltremare, anzitutto a causa dei costi
considerevoli associati a un'iniziativa del genere. Essi cercavano
quindi, in molti casi, di perseguire una politica di ‟limited
responsibility", la quale spostasse verso la periferia, cioè
sui governi coloniali o sulle chartered companies, la
responsabilità dell'ordine pubblico nei territori di confine
o dei conflitti militari di qualsiasi genere.
Nonostante il riserbo delle metropoli, o piuttosto assai spesso
appunto per questo, si assisté, specialmente nel continente
africano, a un irresistibile processo di colonizzazione, sebbene
talvolta interrotto per breve tempo da un temporaneo arretramento
dell'avanzata coloniale imposto dalle metropoli. Ciò è
vero anzitutto della Gran Bretagna, ma in misura minore anche della
Francia, che già nel 1830 procedette all'annessione
dell'Algeria, con l'intento prevalente di farne una colonia di
insediamento francese. In questo stesso contesto bisogna inoltre
menzionare le conquiste coloniali degli Stati Uniti e della Russia
zarista, conquiste cui è unicamente dovuta quella formidabile
estensione territoriale che conferisce alle due potenze un peso cosi
grande nella politica mondiale dei nostri giorni. In particolare, la
graduale annessione dei territori asiatici da parte della Russia
assomigliava anche formalmente alle forme abituali dell'espansione
coloniale: uno strato superiore russo si imponeva su una moltitudine
di popoli culturalmente ed etnicamente affatto eterogenei e,
relativamente, assai più arretrati. Soltanto a poco a poco
questi popoli furono in larga misura assimilati attraverso la
pressione amministrativa e fu consolidato il predominio
dell'elemento russo-bianco.
C'è ancora un punto cui bisogna accennare in questo contesto,
e cioè le strategie alle qua i gli Stati europei e gli Stati
Uniti ricorsero per costringere quei paesi e Stati delle regioni
sottosviluppate del globo che si chiudevano più o meno
completamente all'influsso dell'Occidente, ad aprire i loro mercati
e ad esporsi all'influsso della civiltà occidentale. Furono
in particolare due imperi di antica origine, che potevano vantare
uno sviluppo culturale e religioso di importanza universale, a
opporsi per ragioni di principio a influssi occidentali di qualsiasi
natura: la Cina e l'Impero ottomano. Ma anche in altre regioni
(specialmente in quelle di religione islamica) si ebbero opposizioni
di principio a un'apertura nei confronti della civiltà e del
commercio europei.
Nell'Impero ottomano la politica di penetrazione economica, adottata
con crescente intensità sin dagli inizi dell'Ottocento,
poté richiamarsi al regime delle capitolazioni, che si basava
su numerosi accordi, risalenti sino al sec. XV, tra la Porta e le
potenze europee e che garantiva agli Europei lo status di
extraterritorialità. Fu nondimeno necessaria una massiccia
pressione politica per conseguire un'estensione di questo regime
tale da rendere possibile agli Europei, e quindi ai loro
protégés (cioè agli indigeni posti sotto la
loro protezione), di fondare degli avamposti economici e culturali
sotto la protezione dell'extraterritorialità, cui si
accompagnavano di norma l'esenzione fiscale e il diritto di essere
portati in giudizio soltanto dinanzi ai propri consoli. Per esempio
il Marocco fu costretto nel 1856 dalla Gran Bretagna, sotto la
minaccia dell'uso della forza, a stipulare un trattato commerciale e
a garantire ai cittadini britannici e ai loro protégés
l'illimitato godimento del regime delle capitolazioni; e dovette
persino impegnarsi a sopprimere i monopoli statali che non fossero
compatibili con i principi del libero scambio.
Ancora più drastico fu il comportamento della Gran Bretagna,
che faceva da battistrada delle altre potenze occidentali, nei
confronti della Cina. Con la guerra dell'oppio la Cina fu costretta
ad aprire cinque porti al commercio britannico e all'oppio indiano,
a concedere agli Inglesi il diritto di extraterritorialità e
a cedere Singapore, avamposto della penetrazione economica
britannica. A questo primo passo seguì l'apertura forzata
dell'intero paese attraverso una serie di trattati commerciali con
le potenze europee. Il Giappone fu costretto nel 1854
dall'ammiraglio americano Perry a concessioni analoghe, sebbene di
portata minore, e soltanto due decenni più tardi la Corea,
che era allora, formalmente, ancora uno Stato dipendente dalla Cina,
fu costretta dallo stesso Giappone alle medesime concessioni.
Questi processi sono suscettibili di generalizzazione. Se è
vero che, nell'epoca dell' ‛imperialismo del libero scambio', si
dava sistematicamente la preferenza ai metodi informali di
espansione economica e culturale rispetto all'espansione
territoriale diretta (secondo il motto ‟la bandiera segue il
commercio"), è però anche vero che non si esitava a
costringere, mediante la pressione diplomatica e militare, le
culture non europee ad aprire le porte al commercio e ai capitali
europei e, ancor più, a concedere agli Europei e ai loro
protégés privilegi di straordinaria estensione, che
conducevano spesso a una qualche specie di dipendenza economica
informale (per esempio dalla finanza imperialistica). Tanto la Cina
che l'Impero ottomano si trovarono subito dopo la metà del
secolo nella situazione di non poter più stabilire
liberamente le proprie tariffe doganali; in modo fu loro in larga
misura sottratta la possibilità di porre un freno anche solo
parziale all'afflusso, necessariamente disastroso per le industrie
locali, della tecnologia e delle merci europee. Indiscutibilmente,
questa politica fu considerata dai contemporanei non già come
imperialistica ma piuttosto, sebbene favorisse unilateralmente gli
interessi occidentali, come un fattore di civilizzazione che rese
possibile la modernizzazidne di quelle società e di quelle
culture. Non si deve però trascurare il fatto che su questa
base si costituirono in molti luoghi dei ‛sub-sistemi', controllati
dall'imperialismo finanziario, che condussero spesso al crollo degli
ordinamenti politici tradizionali e quindi all'instaurazione di un
dominio coloniale formale.
Quando si prenda in considerazione: la penetrazione economica nei
territori sottosviluppati del globo (ove fosse possibile, con un
minimo di controllo formale, ma tuttavia accompagnata abbastanza
spesso dall'instaurazione di un dominio coloniale diretto); la
nascita, o l'ampliamento, di colonie di insediamento di nuovo tipo
in numerose regioni oltremare; le gigantesche dimensioni della
colonizzazione nel golden West degli Stati Uniti e nella Russia
asiatica; la fondazione di avamposti del commercio coloniale nelle
regioni costiere dell'Asia e dell'Africa (una politica che, a causa
della ‟turbulent frontier" o dell'ambizione dei militari o della
fame di terra dei ‟men on the spot", degenerò talvolta in una
massiccia espansione territoriale verso l'interno); e infine
l'apertura più o meno forzata di paesi formalmente autonomi
al commercio e ai capitali europei, talora seguita da investimenti
di capitali a tassi d'interesse esorbitanti e a condizioni
privilegiate (in particolare la costituzione in pegno, in favore di
società di capitale straniere, di fonti d'entrata statali);
quando si prendano in considerazione tutti questi elementi, non si
potrà più considerare questo periodo come
antimperialistico, ma si dovrà invece qualificarlo come
l'epoca del primo imperialismo.
E vero che i contemporanei rendevano omaggio in linea di principio a
una economia di mercato cosmopoliticamente orientata e davano
perciò di gran lunga la preferenza a tipi informali e
indiretti di dominio o di controllo imperialistico rispetto agli
interventi statali diretti; nondimeno il secolare processo di
espansione della civiltà europea fu portato avanti su un
vasto fronte e con pertinacia degna di nota, sebbene non sempre con
eguale costanza. E se per lo più ci si limitava a forme di
dominio indiretto e in molti casi ci si accontentava, in luogo della
costruzione di apparati amministrativi autonomi, dell'egemonia sui
regimi indigeni o addirittura ci si preoccupava di cooperare con
essi, ciò era in relazione da un lato con lo Zeitgeist, che
voleva l'attività dello Stato ridotta al minimo possibile, e
dall'altro con gli scarsi profitti materiali che si ricavano dai
possedimenti coloniali, ancora sottosviluppati e non soggetti a uno
sfruttamento intensivo.
c) L'epoca dell'imperialismo maturo (1881-1918)
Questa situazione subì modificazioni radicali a partire dai
primi anni ottanta, quando le questioni imperialistiche emersero
bruscamente alla coscienza generale dell'opinione pubblica, in parte
perché la neonata stampa di massa si volse con energia verso
questi temi e, attraverso la promozione di un nazionalismo di massa,
seppe nel contempo guadagnarsi più vaste schiere di lettori.
Si sviluppò una mentalità imperialistica, che assunse
presto tratti espressamente sciovinistici o, come si diceva in
Inghilterra con un termine tratto da una canzonetta allora popolare
nei music halls londinesi, jingoistic. Si trasformò allora
anche il comportamento dei governi. Sino a quel momento essi si
erano adoperati prevalentemente per circoscrivere gli impegni
territoriali nelle regioni oltremare, e questo già soltanto a
causa degli oneri finanziari che ne derivano; non si era stati
perciò alieni, talvolta, dal lasciare la precedenza, in
materia di iniziative coloniali, alle altre potenze e dall'affidare
loro il ruolo di battistrada della civiltà occidentale. Anche
in seguito gli uomini di Stato, a parte poche, cospicue eccezioni,
rimasero ‟reluctant imperialists" (v. Lowe, 1967); ma sotto la
pressione dell'opinione pubblica e in considerazione dei vantaggi
sia economici sia politici l'astensione dalle iniziative coloniali
divenne sempre meno praticabile.
All'opposto, si produsse tra le grandi potenze un'esplicita
concorrenza per l'acquisizione di territori coloniali e di sfere
d'influenza imperialistica. Tale concorrenza assunse presto la
natura di un processo autonomo, che trovava in se stesso il proprio
nutrimento e andava prendendo forme sempre più nette. Se sino
a quel momento era rimasto in vigore il principio ‟la bandiera segue
il commercio", ormai la situazione si era capovolta; ora ci si
aspettava dallo Stato che ‟anticipasse le rivendicazioni future"
(Rosebery l'1/3/1893), cioè ci si aspettava che lo Stato
conquistasse territori per così dire a guisa di scorte, in
previsione di uno sfruttamento economico futuro (v. Mommsen, 1968,
pp. 624 ss.).
L'intervento della Gran Bretagna in Egitto nel luglio 1882 e la
conseguente occupazione del paese possono essere considerati come
l'innesco di questo processo; accadde infatti, in quell'occasione,
che una zona particolarmente importante per l'imperialismo informale
europeo fu assegnata unilateralmente alla sfera di controllo di una
potenza imperialistica. Non è privo d'importanza il fatto che
il governo britannico sotto Gladstone non si proponesse
originariamente questo risultato, ma avesse piuttosto in mente un
intervento comune con la Francia per ‟la restaurazione del diritto
europeo", piano che era però fallito dinanzi all'opposizione
interna esistente in Francia contro un intervento imperialistico. Il
sistema franco-britannico di controllo finanziario, instaurato in
Egitto nel 1876, era stato nel 1881 messo in pericolo dalla
ribellione del movimento nazionale egiziano guidato dal colonnello
‛Orabī contro il regime collaborazionista del chedivè Tawfīq,
e l'intervento britannico era destinato fondamentalmente a rimettere
in sella il regime fantoccio di Tawfīq, il quale aveva svolto il
ruolo di uomo di paglia favorendo la partecipazione di uomini
politici europei a un governo formalmente egiziano. Sennonché
lo sgombero del paese, che Gladstone si proponeva seriamente dopo
aver conseguito la restaurazione di un regime collaborazionista di
obbedienza britannica e il ristabilimento del controllo finanziario
europeo, non ebbe mai luogo: da un lato, perché le
assicurazioni che il governo britannico esigeva dal sultano di
Costantinopoli e dalle altre grandi potenze non furono mai ottenute
e, dall'altro, perché, dopo la morte del generale Gordon a
Khartūm nel 1885, l'opinione pubblica britannica era caduta in un
tale stato di eccitazione nazionalistica che non si poteva
più pensare a una ritirata britannica dall'Egitto senza
l'assicurazione di un formale diritto d'intervento nel caso di
pericolo per il canale di Suez.
L'occupazione temporanea dell'Egitto, priva di qualsiasi avallo sul
piano del diritto internazionale e per la cui legittimazione
all'interno come all'esterno ci si basava sulla restaurazione del
chedivè, si trasformò così, con l'esercizio di
fatto del potere da parte dell'Alto Commissario britannico lord
Cromer e di uno staff di funzionari britannici al servizio egiziano,
in un'occupazione permanente. L'occupazione inglese costituì
il punto di partenza per le iniziative imperialistiche rivali della
Francia e dell'Italia, e produsse indirettamente una situazione
politica complessiva che consentì a Bismarck, ad onta
dell'opposizione inglese, di annettere Angra Requeña,
l'Africa Orientale Tedesca, il Togo e il Camerun.
In tre grandi avanzate fu portato a compimento nei decenni
successivi un formidabile processo di espansione territoriale, che
assoggettò al controllo imperialistico quasi tutti i
territori oltremare ancora liberi. Nella prima fase (1881-1888),
ancora relativamente priva di conflitti, si assisté a una
strenua gara tra le potenze per fondare le loro pretese
territoriali; la seconda fase, che comincia, dopo una breve pausa,
nel 1893, e giunge sino alla fine della guerra boera nel 1902, fu
segnata in misura crescente da gravi conflitti internazionali.
L'ultima fase fu caratterizzata da un lato dagli sforzi per
considerare e ‛arrotondare' i possedimenti coloniali e dall'altro
dai tentativi febbrili delle potenze ri aste sen bottino di
accaparrarsi all'ultimo minuto una congrua fetta della torta. Questa
terza fase ebbe inizio con la seconda crisi marocchina del 1911 e
raggiunse l'acme negli sterminati elenchi di obiettivi di guerra
imperialistici e di redistribuzioni territoriali della prima guerra
mondiale. A questo proposito violentissimi furono i contrasti per la
suddivisione del continente africano, cui si è dato il nome
calzante di ‟scramble for Africa". In modo comparativamente
più circospetto si comportavano le grandi potenze in Estremo
Oriente, soprattutto in considerazione del fatto che gli Stati Uniti
si erano opposti a partire dal 1900 alle conquiste territoriali
dirette in Cina e avevano ostacolato in modo massiccio i tentativi
europei di assicurarsi in quell'area interessi economici da
sfruttare monopolisticamente. Anche nel Vicino Oriente le brame
territoriali furono frenate da particolari costellazioni politiche:
il comune interesse delle grandi potenze alla conservazione
dell'equilibrio esigeva per il momento il mantenimento del
venerabile ma da lungo tempo decrepito Impero ottomano,
cosicché le cupidigie imperialistiche dovettero rivolgersi in
prevalenza verso la dipendenza economica informale. Come conseguenza
della prima guerra mondiale si ebbe finalmente il crollo dell'Impero
ottomano, ma allora i desideri lungamente covati dalle potenze
imperialistiche poterono realizzarsi soltanto nella forma del
sistema mandatario.
In questo periodo fu instaurato anche un effettivo dominio nei vasti
territori che o erano posseduti in forza di titoli giuridici
tradizionali o potevano essere conquistati ex novo. E giacché
la colonizzazione europea si era sin allora esclusivamente servita
del problematico istituto giuridico rappresentato dalla stipulazione
di contratti con i capi locali, i quali in maggioranza non sapevano
scrivere né si rendevano chiaramente conto, salvo che per
sommi capi, dei documenti che sottoscrivevano, al Congresso di
Berlino, riunitosi alla fine del 1884 in occasione della fondazione
dello Stato Internazionale del Congo di Leopoldo II, si raggiunse un
accordo secondo il quale si doveva garantire il principio della
‟effettività dell'occupazione", e alla presa di possesso dei
territori coloniali si doveva riconoscere validità sul piano
del diritto internazionale, mentre non potevano invece bastare i
meri pezzi di carta dei trattati. I tentativi del Congresso di
Berlino di sottoporre a norme di diritto internazionale la
concorrenza per la conquista di territori oltremare, e nel contempo
di accordarsi su certe esigenze umane minime in materia di
trattamento delle popolazioni indigene (cfr. le deliberazioni sul
Congo del 26 febbraio 1885), non conseguirono in verità che
un limitato successo.
Per quanto riguarda lo Stato del Congo e il bacino del Congo, gli
sforzi per un'estesa internazionalizzazione di quell'area subirono
uno scacco completo. È vero che a Leopoldo II, come anche
alle potenze egemoni sui regimi confinanti col Congo (specialmente
la Francia, il Portogallo e la Gran Bretagna) fu imposto di
praticare in quell'area il principio della ‟porta aperta" e di
garantire al commercio di tutte le potenze interessate un eguale
accesso alla regione del Congo; cionondimeno questa disposizione fu
in realtà presto elusa soprattutto dalle società di
sfruttamento create da Leopoldo II, e cadde poi completamente nel
vuoto la garanzia dei principî umanitari elementari. Nuove
norme giuridiche erano tuttavia stabilite; l'instaurazione del
dominio coloniale abbisognava ormai del riconoscimento
internazionale, il quale era legato all'effettività
dell'esercizio del potere nella regione interessata.
Questa circostanza accelerò il processo di penetrazione
dell'‛entroterra' dei vari territori coloniali, che sinallora era
stato in massima parte assoggettato solo a uno sfruttamento di
natura oltremodo estensiva ed era spesso rimasto pressoché
inaccessibile agli Europei. In questo sviluppo la forma giuridica
della chartered company - di cui le grandi potenze si erano servite
nonostante i ripetuti fallimenti di queste società coloniali,
spesso edificate su basi esclusivamente speculative - non si
dimostrò più idonea alla nuova situazione, essendo
incapace, per ragioni sia di personale sia di natura finanziaria, di
esercitare un dominio coloniale intensivo. La British South African
Company di C. Rhodes rappresenta sotto questo aspetto un'eccezione
degna di nota. Già verso la fine degli anni ottanta Bismarck
si vide costretto, molto di malavoglia, a liquidare la politica di
controllo indiretto e a porre i protettorati sotto la diretta
amministrazione del Reich. Similmente si comportò la Gran
Bretagna quando nel 1894, con una combattutissima decisione,
raccolse l'eredità della fallita British East African Company
e trasformò l'Uganda in una colonia della corona.
Verso la fine dell'Ottocento, dunque, si procedette quasi ovunque
alla costituzione di amministrazioni coloniali nonché alla
determinazione dei confini dei singoli territori mediante un gran
numero di accordi bilaterali, i quali però conseguirono non
di rado validità generale soltanto dopo considerevoli
coniplicazioni internazionali. Per esempio, contro l'accordo
britannico sui confini con lo Stato internazionale del Congo (12
maggio 1894), accordo con cui lord Rosebery sperava di realizzare il
piano preesistente di un collegamento Capo-Cairo, sia il governo
tedesco che quello francese elevarono vivacissime proteste,
soprattutto in considerazione del fatto che la prevista cessione
alla Gran Bretagna di una striscia del confine orientale dello Stato
del Congo avrebbe tagliato fuori l'Africa Orientale Tedesca
dall'accesso diretto a quella regione (v. Robinson e altri, 19683);
si dovette pertanto procedere a una revisione della materia.
Soprattutto a proposito della delimitazione dei territori
dell'Africa occidentale e dell'avvenire politico del Sudan si
produssero - in seguito agli sforzi per una fissazione definitiva
dei singoli possedimenti coloniali (inclusi i rispettivi entroterra)
- aspri contrasti che raggiunsero l'acme con il conflitto di
Fascioda nel 1898.
Verso la fine del secolo la maggior parte dell'Africa veniva
ripartita tra le potenze in modo definitivo, e soltanto il Marocco e
Tripoli, in quanto tributari della Porta, conservavano
temporaneamente la propria indipendenza politica (il primo grazie
alla garanzia internazionale contenuta nel Trattato di Madrid del
1880, il quale, naturalmente, poneva nel contempo anche le basi per
una politica di ‛penetrazione pacifica' con mezzi economici
specialmente da parte della Francia e della Spagna); il processo di
colonizzazione territoriale nell'Estremo Oriente, invece, si
arrestava a mezza strada. È vero che la Francia s'impadroniva
a poco a poco di tutta l'Indocina e che la Gran Bretagna estendeva
incessantemente il suo controllo sul subcontinente indiano, ma la
ripartizione territoriale dell'immenso Impero cinese, che i
contemporanei vedevano già a portata di mano, non ebbe luogo.
Gli Stati Uniti occuparono nel 1898 - con una rottura degna di nota
della loro tradizione in materia di politica estera - le Filippine,
considerate come un trampolino verso la Cina, e nel contempo la
Russia, la Gran Bretagna e il Reich tedesco si procurarono sulla
costa cinese posizioni che dovevano fungere da basi per la
penetrazione economica nell'entroterra, mentre il Giappone si
assicurò il predominio indiretto sulla Corea, di cui fece nel
1905 un protettorato. E tuttavia la politica di delimitazione delle
zone d'interesse conseguì risultati relativamente scarsi. Gli
Stati Uniti propugnavano, in luogo della delimitazione, il principio
della ‛porta aperta', e ciò obbligava le potenze
imperialistiche a fare ricorso esclusivo ai metodi informali, tra i
quali c'erano, accanto all'acquisto di concessioni ferroviarie e
portuali, anzitutto le strategie della finanza imperialistica,
basate sulle colonie straniere sorte, sotto la protezione
dell'extraterritorialità, nei ‛porti cinesi dei trattati'.
Anche nel Vicino Oriente la politica delle grandi potenze faceva di
norma ricorso, per assicurarsi zone di interesse preferenziale, a
strategie indirette, diplomatiche o economiche, mentre soltanto in
casi eccezionali si procedette all'annessione diretta. Per esempio,
la Gran Bretagna pose sotto la propria protezione gli sceiccati del
Kuwait e di Bahrein, che formalmente appartenevano ancora all'Impero
ottomano, senza curarsi più che tanto dell'anomalia di un
simile comportamento dal punto di vista del diritto internazionale.
Anche la Persia, pur rimanendo secondo il diritto internazionale uno
Stato sovrano, fu coinvolta nel gioco degli interessi imperialistici
russi e britannici; il conflitto fu infine risolto dalla
delimitazione delle rispettive sfere d'interesse nel Trattato
russo-britannico del 1907. Bisogna ora aggiungere che, qui come
altrove, gli sforzi dei beati possidentes per assicurare e
‛arrotondare' i loro possedimenti coloniali mediante una serie di
accordi bilaterali (come per esempio l'entente cordiale del 1904)
furono ostacolati dai tumultuosi tentativi delle potenze inseritesi
relativamente tardi nella competizione di procacciarsi una congrua
quota del bottino coloniale. Il Reich tedesco sperava di porre, con
un massiccio intervento nella seconda crisi marocchina (1911), la
prima pietra d'un'‛Africa Centrale Tedesca', progetto che
naturalmente falli nell'essenziale, in quanto la Gran Bretagna
intervenne decisamente a fianco della Francia. Solo un anno
più tardi l'Italia, in un'ondata di entusiasmo
nazionalistico, procedette all'annessione della Libia e
occupò le isole del Dodecanneso; uno sviluppo, questo, che
doveva incoraggiare gli Stati balcanici a liberarsi finalmente dai
residui del dominio ottomano.
Questi avvenimenti fecero tremare sin dalle fondamenta l'equilibrio
del potere in Europa e condussero - in parte direttamente e in parte
indirettamente - allo scatenamento della prima guerra mondiale.
d) Le forze motrici dell'espansione imperialistica
Le cause di tale secolare processo di ripartizione del mondo, che
raggiunse il massimo sviluppo nell'imperialismo maturo, non si
lasciano ricondurre facilmente sotto un'etichetta conclusiva. Sino a
tempi recentissimi, violente controversie - non da ultimo a causa
delle implicazioni politiche di questi problemi - hanno agitato gli
studi sull'imperialismo. Tradizionalmente, le cause del processo di
espansione imperialistica sono state ricercate con assoluta
prevalenza sul versante delle potenze imperialistiche, cioè
delle metropoli. La più antica storiografia tedesca
neorankiana, per esempio, interpretava l'imperialismo come una
consegnenza di un'aspirazione al potere insita nella natura delle
grandi potenze, le quali sogliono ‟ascriversi e usurpare un
interessamento ai processi economici e politici di una vasta area
[...] un'area anzi che abbracci l'intera superficie del pianeta" (v.
Weber, 19583).
Recentemente i processi dell'imperialismo maturo sono stati fatti
risalire alle condizioni economiche e sociali esistenti negli Stati
industriali dell'Occidente - in cui la modernizzazione procede con
grande rapidità -, e in particolare sono stati posti in
connessione con le oscillazioni della crescita economica come anche
con gli sfasamenti dello sviluppo dell'economia (v. sotto). Ancor
più recentemente è stato messo l'accento -
specialmente da Gallagher, Robinson e Fieldhouse - sui fattori
‛periferici', cioè sui processi sviluppatisi negli stessi
Stati e territori oggetto dell'espansione europea.
Effettivamente, la direzione, i tempi e il ritmo dei processi di
espansione territoriale nelle regioni oltremare, e in particolare
l'instaurazione del dominio coloniale formale furono determinati in
misura essenziale dagli eventi che si verificarono nelle regioni e
nei territori stessi e non già da specifici sviluppi delle
metropoli imperialistiche. Il processo di abbandono delle vecchie
forme di dominio più o meno informale - ovvero di dominio
formale con una misura minima di effettivo esercizio del potere
(come si verificava tipicamente quasi ovunque all'epoca del primo
imperialismo) - a favore di moderne amministrazioni coloniali
territoriali, è stato innescato quasi sempre dal crollo
parziale o completo delle strutture di potere indigene disposte a
collaborare, sia che fossero strutture politiche con un grado di
sviluppo abbastanza alto, come nel caso della Tunisia e dell'Egitto,
oppure semplici strutture tribali. I movimenti nazionalistici di
protesta, o le ribellioni di settori della popolazione indigena
contro il governo collaborazionista, o l'influsso indiretto della
civiltà europea - per esempio l'acquisto di armi occidentali,
o anche la corruzione morale, aggravata dall'abuso di alcolici, in
precedenza ignoti agli indigeni - furono i fattori che produssero il
crollo delle strutture di potere indigene. Si verificò quindi
un relativo vuoto di potere, che gli invasori furono spinti a
riempire, per così dire automaticamente.
Si aggiunga il fattore rappresentato dalla cosiddetta ‟turbulent
frontier", cioè dai continui conflitti con le popolazioni
indigene ai confini, conflitti che hanno spesso offerto lo spunto ad
‛azioni punitive' non di rado sfociate nell'ampliamento del
territorio. Con sincerità degna di nota il ministro degli
Esteri russo Gorčakov già nel 1864 attirò l'attenzione
sul fatto che il meccanismo, che si nutriva per così dire di
se stesso, dell'espansione territoriale, era incessantemente
innescato da tali conflitti di confine. Egli osservava infatti in
relazione alla colonizzazione russa nell'Asia centrale: ‟All'inizio
bisogna reprimere aggressioni e atti di saccheggio. Per sventare
realmente azioni del genere, di solito si è costretti ad
assoggettare in modo più o meno completo le popolazioni
responsabili..." (v. Kazemzadeh, 1968, p. 8). Questo vale anche per
i processi di espansione territoriale in Africa e in Asia.
La necessità, che andava di pari passo con il crescente
ampliamento dei territori coloniali, di passare a forme di dominio
diretto anziché limitarsi, come nel passato, all'esercizio di
un potere estensivo magari con la collaborazione delle
autorità indigene, non era accompagnata necessariamente da
vantaggi economici. All'opposto, l'instaurazione di un dominio
coloniale formale fu spesso presa in considerazione malvolentieri
dai diretti interessati, o addirittura combattuta, come per esempio
in Africa occidentale. Quando nel 1885 la Royal Niger Company si
accinse, con l'appoggio del protettorato britannico, a sottoporre la
Nigeria a un'amministrazione diretta che escludesse i capi tribali,
ci fu a Liverpool un coro di proteste da parte degli interessati, i
quali vedevano l'iniziativa come una minaccia per le loro relazioni
commerciali, che si basavano sulla partecipazione di middle men
africani.
Un ruolo di particolare rilievo fu svolto dai fattori periferici
negli Stati dell'Impero ottomano. Qui, come anche in altri casi, i
sovrani locali si erano sforzati di consolidare la loro posizione di
potere con una modernizzazione del paese, e in particolare
dell'esercito; a questo scopo facevano ricorso a capitali europei,
sebbene la maggior parte del denaro venisse poi dissipata per le
necessità quotidiane. Ciò vale particolarmente per
l'Egitto, per la Tunisia e per il paese che costituiva il nucleo
dell'Impero ottomano, cioè la Turchia. Il chedivè
Ismail aveva dato mano, sin dagli anni venti dell'Ottocento, a
grandi iniziative, con l'aiuto di capitali europei, per estendere il
sistema di trasporti egiziano e per gettare le basi, con la
costruzione di fabbriche e il rilascio di concessioni agli europei,
di uno sviluppo industriale del paese: un tentativo destinato a
fallire a causa della grave situazione finanziaria provocata dalla
costruzione del canale di Suez, che ingoiava somme enormi. In
Egitto, come anche in Tunisia e nella stessa Turchia, i tentativi
dei regimi ancora in gran parte feudali di avviare un processo di
modernizzazione in collaborazione con il capitale finanziario
europeo, si conclusero con un immane indebitamento, che non desta
meraviglia se si pensa alle rovinose condizioni imposte dalle banche
internazionali. I concession hunters trovavano qui, soprattutto
grazie alla posizione privilegiata degli Europei, un campo d'azione
estremamente redditizio. In tutti e tre i paesi menzionati i
castelli di debiti infine crollarono, e si poté evitare la
totale bancarotta dello Stato solo mediante l'instaurazione di un
controllo finanziario da parte di rappresentanti dei creditori
europei. Questi ultimi costituirono una sorta di ‛secondo governo',
dato che presero nelle loro mani l'amministrazione di vasti settori
del gettito fiscale degli Stati interessati, esercitando un largo
controllo indiretto sulle finanze dello Stato. In alcuni casi le
amministrazioni dei debiti, e in particolare l'Administration de la
Dette Publique Ottomane, creata in seguito alla pressione discreta
ma ferma del Congresso di Berlino, promossero persino politiche di
sviluppo miranti ad accrescere il gettito fiscale (in verità
solo nell'interesse dei creditori).
Le opposizioni locali a un simile sistema di imperialismo
finanziario informale costrinsero non di rado le potenze europee a
provvedere all'instaurazione (o alla conservazione) di regimi
collaborazionistici guidati dagli Europei; il che produsse
però turbamenti gravissimi nelle strutture politiche
tradizionali (v. Schölch, 1973, pp. 53 ss.). Tanto in Tunisia
che in Egitto il crollo delle strutture politiche minate
dall'imperialismo informale europeo condusse all'inizio degli anni
ottanta all'intervento e all'instaurazione di un dominio
imperialistico più o meno formale. Soltanto la Turchia
sfuggì a questo destino. Qui la Caisse de la Dette Publique
Ottomane diventò il ‟perno delle relazioni finanziarie
europeo-ottomane" (v. Schölch, 1975, p. 436) e il sostegno
decisivo della penetrazione imperialistica informale nell'Impero
ottomano. Anche il Marocco riuscì in un primo tempo a
mantenere l'indipendenza statale dinanzi ai tentativi
dell'imperialismo europeo, ma soltanto a condizione di rilasciare
concessioni e privilegi essenziali agli Europei o ai loro
incaricati. Ma quando nel 1910 il regime fantoccio del sultano del
Marocco cominciò a vacillare a causa di un movimento
insurrezionale interno, l'intervento militare francese mirante a
conservare il potere di questo sovrano - da cui dipendevano tanti
privilegi e concessioni - fu in realtà il primo passo verso
la perdita dell'indipendenza del paese.
Sebbene tutti questi imperialismi informali od operanti con metodi
estensivi si limitassero per lo più a sgombrare la via
all'attività economica dei propri cittadini e a ottenere
garanzie contro l'intervento di potenze concorrenti, le conseguenze
a lunga scadenza per le popolazioni indigene si dimostrarono assai
inquietanti; tornava infatti ad esclusivo vantaggio delle potenze e
dei rappresentanti degli interessi europei la conservazione di
strutture sociali spesso estremamente arcaiche e in genere feudali,
essendo ad esse legato tutto un complesso di prerogative,
concessioni e privilegi.
Per contro, il passaggio al dominio coloniale diretto fu in taluni
casi addirittura fonte di vantaggi per le popolazioni indigene,
giacché le amministrazioni coloniali avevano spesso
interesse, al fine di conservare il proprio potere, a eliminare
almeno gli abusi più gravi e a procurarsi per tale via una
sia pur minima disponibilità della popolazione a collaborare.
In ogni modo, è stato il pericolo gravante sui regimi
collaborazionistici indigeni, ovvero il loro crollo in seguito a
ribellioni interne o a influssi disgreganti di terzi, a costituire
molto spesso l'occasione che ha messo in moto il processo
dell'instaurazione o dell'espansione del dominio coloniale
territoriale. Questo fattore, insieme con quello della turbulent
frontier, ha contrassegnato tipicamente la transizione
all'imperialismo maturo, sebbene non siano naturalmente mancati,
neppure in questo periodo, vari tipi di imperialismi informali,
specialmente di natura commerciale e finanziaria. Anche per questo
è inopportuno - come fanno molti teorici dell'imperialismo -
presupporre una correlazione tra i processi di espansione
territoriale e i processi di crescita economica operanti nelle
società industriali (con le loro periodiche oscillazioni).
È nondimeno incontestabile che l'industrializzazione - dato
che all'epoca dell'imperialismo maturo la grande maggioranza degli
Stati industriali aveva oltrepassato (la Gran Bretagna l'aveva
già fatto verso il 1850) la soglia dello stadio della
maturità (nel senso di W. W. Rostow) - impresse una
fortissima accelerazione al secolare processo dell'espansione
imperialistica. Anzitutto, il vantaggio tecnologico nei confronti
delle società sottosviluppate si accrebbe in misura tale che
forze militari anche esigue erano in grado di annientare le
strutture politiche indigene e di annettere territori immensi. In
secondo luogo, la superiorità economica dell'Occidente
rispetto alle società tradizionali del mondo sottosviluppato
era tanto grande che, anche quando veniva mantenuta l'autonomia
politica formale, diventava ormai impossibile sottrarsi a una
penetrazione economica con mezzi informali, né era necessario
che tale penetrazione fosse accompagnata da misure politiche di
sostegno. D'altro canto, bisogna partire dalla considerazione che
l'espansione del sistema occidentale nel globo, a prescindere dalla
natura - formale o informale - dei suoi metodi, ha facilitato in
modo decisivo il processo di sviluppo di un sistema economico
multinazionale (v. Saul, 1960, pp. 122 s., 221), e ha quindi, almeno
indirettamente, accelerato in modo considerevole il ritmo della
crescita economica, ad onta del fatto che la diretta rilevanza
economica dei territori coloniali - a parte poche eccezioni, come
l'India - fosse in un primo tempo marginale.
È possibile percepire approssimativamente le dimensioni di
questo processo nella crescita del commercio estero degli Stati
industriali a partire dal 1870 (è però impossibile
determinare con precisione la parte spettante al commercio con i
territori dipendenti, giacché i dati a nostra disposizione
riguardano sempre e soltanto il commercio dei singoli Stati con le
proprie colonie e non il commercio con i territori sottosviluppati
in generale). Tra il 1880 e il 1910 il commercio estero britannico
sali da 634,2 milioni di sterline a 1.108,7 milioni; quello francese
(calcolando in sterline) da 356,8 milioni a 560,9 milioni; quello
tedesco da 280,8 milioni a 802,8 milioni; quello americano da 306,4
milioni a 671 milioni. Da questi dati risulta, considerando insieme
i quattro paesi, un aumento del 100%. Si dovrebbe inoltre prendere
in considerazione la forte tendenza alla caduta dei prezzi che
accompagnò la cosiddetta Great Depression (1873-1894), dalla
quale deriva che il volume delle merci scambiate dovrebbe essere
aumentato, secondo una stima grossolana, di un altro 20%. Si tratta
di cifre imponenti, anche se solo una frazione relativamente modesta
di esse può essere attribuita al commercio con i territori
dipendenti in senso stretto.
Affermazioni relativamente più concrete è possibile
fare circa lo sviluppo degli investimenti esteri dei principali
Stati industriali (nel periodo dell'imperialismo maturo erano
soprattutto Francia e Gran Bretagna i banchieri del mondo), sebbene
in questo campo siano disponibili soltanto stime scarsamente fidate
se si scende ai particolari. Perno della finanza internazionale e
intermediarie dei prestiti internazionali erano anzitutto le
cosiddette banche internazionali, e in particolare una serie di
banche private specializzate negli affari internazionali capeggiate
dalla banca Rothschild, ma anche banche di deposito di recente
fondazione, come il Crédit Lyonnais e più tardi le
banche universali come la Deutsche Bank (per un'impressionante
descrizione del sistema delle banche private francesi, che si
occupavano in modo particolare di affari oltremare, v. Landes,
19692). Gli investimenti esteri della Gran Bretagna, della Francia,
del Reich tedesco e degli Stati Uniti (i quali, naturalmente, erano
anche nel contempo, sino al 1914, creditori nei confronti
dell'Europa per un ammontare di 6.800 milioni di sterline) crebbero
con un ritmo straordinario.
I proventi degli investimenti esteri britannici costituivano quasi
il 10% del reddito nazionale, quelli degli investimenti francesi nel
1911 circa il 5-6%: essi contribuivano quindi in misura
significativa al benessere dei due paesi. Già i contemporanei
misero in relazione il clamoroso aumento degli investimenti esteri
(specialmente a partire dal 1898) con l'espansione imperialistica:
il primo fu C. A. Conant (v. Mommsen, 1968, p. 631), seguito da J.
H. Hobson nella fondamentale opera Imperialism. A study. In
verità, un'analisi della distribuzione geografica mostra come
solo una frazione degli investimenti esteri andasse ai territori
sottosviluppati, con quote minime alle colonie tropicali
(diversamente dalle più sviluppate colonie di insediamento,
come il Canada e l'Australia). Degli investimenti britannici andava
quasi sempre ai territori dell'Impero (con oscillazioni
insignificanti) soltanto un ammontare compreso tra un terzo e la
metà, e comparativamente modesta era la quota destinata ai
territori acquisiti durante l'epoca del capitalismo maturo (v.
Simon, 1968, pp. 28 ss.). Ancora più netto è il caso
della Francia. Le aree principali in cui affluivano i capitali
francesi erano situate nell'Europa orientale (in particolare in
Russia), nel continente americano e nel Vicino Oriente (v. Cameron,
1961, p. 486; v. Ducruet, 1964, pp. 13 s.), mentre gli investimenti
nelle colonie francesi ammontarono in media (con tendenza a calare)
per l'intero periodo 1882-1914 all'11%, gran parte del quale andava
all'Algeria in quanto colonia di insediamento. Anche il Reich, nel
1914, aveva destinato alle sue colonie una frazione minima dei suoi
investimenti esteri, il grosso dei quali era collocato in Europa
(37,8%), Nordamerica (15,7%) e America Latina (16,2%). Soltanto
nell'Impero ottomano si riscontra una certa concentrazione di
capitali tedeschi, ma anche qui solo a partire dagli anni novanta.
Nel complesso, nè le statistiche sul commercio nè
quelle sulle esportazioni di capitali suggeriscono l'esistenza di
una correlazione diretta tra l'espansione economica e l'espansione
territoriale. All'opposto, le due forme dell'imperialismo -
l'imperialismo finanziario e l'imperialismo politico-territoriale -
sono bensì tra loro intrecciate, ma rimangono nondimeno,
nell'essenziale, autonome, con obiettivi tendenzialmente differenti
(v. Mommsen, Europäischer..., 1975). Le esportazioni di
capitali preferirono gli Stati industrialmente sviluppati
dell'Europa e del Nordamerica, e inoltre regioni dotate di una
relativa autonomia politica, come il Sudamerica in primo luogo e poi
i paesi del Vicino Oriente, e infine le colonie di insediamento
economicamente prospere, mentre l'interesse a un impegno finanziario
nei paesi coloniali sottosviluppati era scarso, e talora persino
scarsissimo. La politica tedesca in Africa centrale mirava, secondo
l'industria pesante, a creare ‟imperi coloniali, che stanno sulla
luna" (v. Fischer, 1969, p. 379); e le grandi banche tedesche erano
disposte a impegnarsi su vasta scala in queste aree solo dietro
pressione politica, e anche allora solo dietro adeguate garanzie
dello Stato. Gli enormi investimenti francesi nella Russia zarista
rappresentavano un interessante caso particolare, che pone il
problema se si sia trattato di una variante dell'imperialismo
informale ovvero semplicemente di lucrosi ‛aiuti per lo sviluppo'.
La capacità d'azione politica della Russia e la sua
sovranità non sembrano infatti essere state intaccate, e anzi
la Russia fu messa proprio dai capitali francesi in condizione di
promuovere una politica di imperialismo informale, e talvolta anche
formale, nell'Estremo Oriente (v. Girault, 1973, pp. 371 ss.; v.
Romanov, 1952, pp. 323 ss.).
Neppure la struttura degli investimenti esteri degli Stati
industriali conforta l'ipotesi di un'abituale correlazione tra
l'espansione territoriale e la necessità di aprire
all'economia delle metropoli nuovi sbocchi commerciali o nuovi campi
d'investimenti produttivi. La parte di gran lunga maggiore degli
investimenti esteri fu erogata nella forma di prestiti statali o di
obbligazioni municipali; svolsero un ruolo assai importante anche le
obbligazioni ferroviarie, mentre la quota destinata a investimenti
produttivi nelle miniere e nell'industria fu comparativamente
modesta, specialmente nei territori dipendenti in senso stretto.
Nell'insieme, non si può dunque parlare di un legame abituale
tra capitale finanziario e capitale industriale, come è stato
ipotizzato, sulla scia di R. Hilferding, da molti autori marxisti.
L'assenza di un tale legame giocò d'altronde a sfavore delle
regioni sottosviluppate; il capitale investito nelle regioni
oltremare era infatti in massima parte di natura speculativa, e
soltanto una sua frazione fu impiegata in investimenti produttivi:
era quindi, per la sua natura parassitaria, incapace di promuovere
lo sviluppo. Le esportazioni di capitali furono inoltre usate, in
particolare dopo la svolta del secolo, come veicolo d'influenza
politica e perciò avviate spesso in direzioni prive di
rilevanza per un'effettiva modernizzazione dei paesi interessati,
come per esempio il finanziamento di armamenti o di strade ferrate
di importanza strategica. L'imperialismo americano, in fatti, fece
nuovamente ricorso, dopo il 1900, ai metodi informali, e la
cosiddetta ‛diplomazia del dollaro' doveva, soprattutto in
Sudamerica, creare per gli Stati Uniti un'alea d'influenza
privilegiata in campo sia economico che politico.
Rimane tuttavia il fatto che l'imperialismo finanziario, come
abbiamo già mostrato, ha in molti casi aperto la strada
all'instaurazione del dominio politico, e già solo per questo
esso rappresenta un fattore di straordinaria importanza all'interno
del fenomeno globale dell'imperialismo. Non si può
però affermare senz'altro che gli investimenti di capitali
nelle regioni oltremare siano stati indispensabili per lo sviluppo
del capitalismo negli Stati industriali, come la grande maggioranza
degli autori marxisti è ancor oggi incline a supporre,
appellandosi alla ‛legge della caduta tendenziale del saggio del
profitto'. Difficilmente si può vedere nella sovrabbondanza
di capitali, contrariamente a un'opinione avanzata recentemente da
Bouvier, un impulso decisivo all'espansione imperialistica, sebbene
possa aver svolto un ruolo in certe fasi (per esempio il capitale
reso libero dalla fine del boom ferroviario in Europa e negli Stati
Uniti nel 1873 si spostò in grandi quantità verso
progetti per la costruzione di ferrovie nelle regioni
sottosviluppate). Bisogna piuttosto partire dalla considerazione
che, nell'insieme, si trattò di capitali speculativi: nei
territori oltremare gli utili erano, o sembravano essere, assai
più alti che nei mercati interni degli Stati industriali,
cosicché non soltanto i detentori di grossi capitali ma
anche, e in particolar modo, i piccoli investitori furono spinti a
effettuare investimenti in questo settore, con il risultato che alla
fine spesso non riuscirono, diversamente dalle banche che emettevano
i titoli, a remunerare il proprio denaro. Per esempio, Feis ritiene
che nel caso della Francia ‟fino alla metà degli anni novanta
i proventi del prestito estero furono ingoiati dalle perdite" (v.
Feis, 19652; tr. it., p. 47).
Data la loro capacità di avviare, nel medio periodo, un
volume adeguato di scambi commerciali, gli investimenti esteri hanno
invece contribuito ad attenuare le crisi di crescita del sistema
capitalistico occidentale, sebbene le cose non siano affatto andate
sempre in questo modo. Nel complesso, la domanda ‟È stato
l'imperialismo remunerativo?" non consente una risposta senz'altro
affermativa: da un lato l'imperialismo formale, in una prospettiva
economica globale, non fu mai remunerativo, dall'altro
l'imperialismo informale, nonostante rischi incomparabilmente
maggiori, si dimostrò nell'insieme redditizio, sebbene
quantità notevoli dei capitali investiti andassero perdute.
Se si considerano invece i primi e diretti beneficiari, per esempio
le banche e i cacciatori di concessioni, o anche certi rami
dell'industria (come in Inghilterra l'industria tessile e taluni
settori dell'industria del ferro e dell'acciaio), come pure certi
interessi commerciali, soprattutto nei casi in cui era possibile
sfruttare concessioni monopolistiche, l'imperialismo risultò
indiscutibilmente vantaggioso. Tuttavia, la questione se il processo
imperialistico sia stato innescato primariamente dagli interessi dei
gruppi capitalistici per essere poi condotto a termine dagli
apparati del potere politico, o non sia invece accaduto il
contrario, è una questione che, stando alle ricerche
più recenti, deve rimanere aperta. In ogni modo, si
dovrà partire dalla considerazione che di norma le
aspettative di un futuro miglioramento economico, quali erano
coltivate in vaste cerchie specialmente dei ceti borghesi, svolsero
un ruolo assai maggiore di tutti gli interessi economici
riscontrabili concretamente, sebbene questi non siano certamente
mancati. La convinzione generale che il capitalismo abbisognasse,
per la sua ulteriore crescita, di nuove terre vergini in cui
investire e di nuovi sbocchi commerciali, preparò il terreno,
in seno a settori sempre più vasti della popolazione, alla
mentalità nazionalistica del territorial grab.
I processi di espansione territoriale sono sempre da ricondurre al
concorso di fattori endogeni e di fattori esogeni. Specialmente
nell'imperialismo britannico, l'‟official mind" era volto al
consolidamento e alla difesa dell'impero piuttosto che alla sua
ulteriore espansione, magari suggerita da ragioni economiche (v.
Robinson e altri, 19683, pp. 464 ss.); e anche nella grande
maggioranza degli Stati industriali non si trovano che pochi uomini
di Stato che aderissero senza restrizioni alle teorie
imperialistiche del giorno. Un'importanza decisiva spetta invece
all'azione combinata delle ‛cricche strategiche' nelle metropoli -
il cui interesse all'espansione territoriale aveva motivazioni
particolari (è indifferente se di indole economica, o di
conservazione sociale) - e del sub-imperialismo (v. Fieldhouse,
1973) dei coloni, militari e diplomatici bianchi della periferia. Ne
è un esempio caratteristico la pluridecennale tenace avanzata
(incessantemente ma vanamente contrastata dal governo di Londra)
della colonia del Capo e della South African Company di C. Rhodes,
che provocò a sua volta il cosiddetto esodo dei Boeri nel
Transvaal. Non di rado l'espansione territoriale era anzitutto il
risultato di un ‛imperialismo militare', specialmente nel caso della
Francia (v. Kanya-Forstner, 1969, pp. 263 ss.). Non senza fondamento
l'Indocina era considerata dai contemporanei una colonia des
admiraux; in questo caso era infatti la marina il fattore
propriamente aggressivo, in collegamento con alcuni gruppi
d'interesse - che non mancano mai - i quali attiravano l'attenzione
generale sulle grandi possibilità economiche del paese, tra
l'altro sui grandi giacimenti carboniferi (v. Brötel, 1971, pp.
263 ss.). La magica speranza di aprire in tal modo una via al
commercio europeo verso una Cina rimasta ancora in gran parte
inaccessibile ebbe anch'essa un ruolo di sprone. Anche il Sudan
occidentale fu conquistato, e poi gradualmente assoggettato, in
seguito alle iniziative, per lo più arbitrarie, del
militarismo coloniale francese.
Naturalmente, ciò era possibile perché soprattutto nei
ceti dirigenti, ma poi in misura crescente anche nelle classi medie
delle potenze europee, andava diffondendosi una mentalità
esplicitamente imperialistica. In ciò svolgeva un ruolo,
oltre agli interessi e alle aspettative in campo economico, il
nazionalismo tradizionale come anche le allora nascenti concezioni
razziste e social-darwiniste, che reinterpretavano la storia come
una lotta dei popoli per la sopravvivenza e manifestavano inoltre la
ferma convinzione della essenziale superiorità della ‛razza
bianca' (v. Semmel, 1960, pp. 23 ss.; v. Koch, 1973, pp. 87 ss.). La
disponibilità dell'opinione pubblica nei confronti di teorie
del genere - quali si manifestavano in una versione relativamente
blanda in Seeley e Dilke, in una variante quasi prefascista in K.
Peters, in una forma religiosa, come coscienza della propria
missione, in americani come J. Strong e J. Fiske, diventando infine,
in una forma naturalmente smussata, un elemento costitutivo della
coscienza politica delle classi dirigenti - sta in relazione con gli
effetti che il secolare processo di modernizzazione produceva sulla
compagine sociale delle società industriali: i valori e i
modelli di comportamento erano scossi, e si creava pertanto una
disposizione alla ricerca di modelli ideologici sussidiari di
autoidentificazione. La crescente mobilità sociale veniva
pagata con l'insicurezza economica e sociale, e anche ideologica, di
vasti strati. La prontezza impressionante della piccola borghesia e
di una parte degli intellettuali ad aderire ai nuovi ideali
(particolarmente vistosa era la partecipazione della classe media
inferiore e degli intellettuali alle associazioni imperialistiche,
sebbene i posti di comando fossero in genere occupati dalle
élites) deve essere spiegata tenendo presente questa
situazione (v. anche Wehler, 1973, pp. 179 ss.).
Nelle classi dirigenti, inoltre, si fece strada la tentazione di
sfruttare la politica imperialistica come una sorta di strategia per
il consolidamento dell'ordinamento sociale esistente e quindi del
loro tradizionale primato nello Stato e nella società.
Soprattutto Wehler e Berghahn hanno attirato l'attenzione
sull'importanza di queste strategie ‛social-imperialistiche' per la
formazione di un ‛consenso ideologico' sulla necessità
dell'espansione imperialistica (sulle tesi di Wehler e Berghahn cfr.
Mommsen, in ‟Central European History", 1969, II, pp. 366 ss.).
Elaborato sull'esempio dell'imperialismo bismarckiano, questo
modello interpretativo sembra, naturalmente, adattarsi assai meglio
alla ‛politica mondiale' tedesca dei tempi di Bulow che a quella
degli anni ottanta. Non c'è dubbio che simili strategie
manipolatorie, messe in opera per consolidare il primato delle
élites tradizionali e per difendersi dalle tendenze
democratiche e specialmente socialdemocratiche, abbiano svolto un
ruolo straordinariamente importante anche in altri casi. Per
esempio, il new imperialism britannico dopo la metà degli
anni ottanta potrà, con qualche limitazione (v. Rohe, 1971,
pp. 71. ss.), essere interpretato come una strategia politica intesa
a mantenere il potere nelle mani del partito conservatore e dei suoi
partners unionisti. La cosa si fece evidentissima nella febbrile
agitazione contro i liberali, malfidi nelle questioni riguardanti
l'impero, durante il decennio precedente la guerra boera, agitazione
che conseguì inizialmente pieno successo.
Non si potrà d'altro canto trascurare che l'imperialismo
poteva essere adoperato altrettanto bene sia come una strategia per
l'emancipazione delle classi medie nei confronti dell'anacronistico
primato dell'aristocrazia, sia per tracciare nel contempo una
distinzione nei confronti della classe operaia, quando questa non si
facesse aggiogare anch'essa al carro imperialistico. Tanto gli
‛imperialisti liberali' tedeschi (v. Dehio, 19613, pp. 72 s.; v.
Mommsen, Wandlungen..., 1975) quanto uomini come lord Rosebery
nutrivano pensieri del genere; e anche l'imperialismo del partito
dei cadetti in Russia, che in politica interna si opponeva
frontalmente all'autocrazia zarista, si muoveva in questa direzione.
Una posizione in certo modo speciale è quella
dell'‛imperialismo proletario', quale si sviluppò dopo la
fine del secolo particolarmente in Italia, dove fornì la
giustificazione ideologica per l'annessione della Libia: veniva
cioè avanzata l'idea di dare, con la fondazione di colonie di
insediamento, una soluzione alla scottante questione sociale
(cioè alla pressione sulla società italiana delle
masse proletarie in soprannumero), come anche al problema di
arrestare la continua emorragia di forze popolari dovuta
all'emigrazione verso gli Stati Uniti. Quest'idea ricevette,
specialmente nelle cerchie del nazionalismo estremista, una
colorazione esplicitamente aggressiva e nel contempo specificamente
irrazionalistica.
Così M. Morasso, per esempio, annunciava il programma
imperialistico di un rinnovato nazionalismo eroico: ‟E d'altro canto
la vastità, la violenza, la furia con cui all'interno della
società le classi lavoratrici vengono organizzate in correnti
di forza ed eccitate ad aspirare al dominio, obbligano a una difesa
altrettanto energica, rinnovando così tutte le fierezze e le
violenze delle lotte antiche, restituendo al coraggio, alla forza,
alla valentia individuale quel primato che i filosofi e i politici
della democrazia avevano [...] tentato di abolire, mentre il premere
presso alcuni popoli, chiusi e immobili nei loro confini, sempre
più minaccioso e intollerabile della questione così
detta sociale [...] ne ha fatto cercare la sola soluzione
all'estero, divergendo le masse fuori dei confini [...] e
apprestando loro sfoghi opportuni all'azione e nuovi domini a cui
aspirano le loro nuove energie" (v. Morasso, 1905, p. 250). Questo
programma fu elevato da E. Corradini al rango di messaggio di un
nuovo imperialismo collettivistico di impronta nazionalistica, che
prometteva di congiungere la solidarietà sociale con la
grandezza nazionale; né egli esitava, già nel 1909, a
parlare apertamente della necessità della guerra: ‟la lotta
internazionale che in tempi ordinari si chiama concorrenza, in tempi
straordinari si chiama guerra. Non può una nazione
partecipare con risolutezza alla lotta internazionale senza, presto
o tardi, dovere scegliere tra la pace e la guerra" (v. Corradini,
19252, p. 117). Già nel 1909, quindi, si ponevano le basi
ideologiche dell'ondata di nazionalismo irrazionale, associato alle
cupidigie imperialistiche, che doveva trascinare l'Italia nella
prima guerra mondiale.
Quanto abbiamo detto vale anche, sebbene non s'incontri sempre
l'accentuazione protofascista data alla dottrina imperialistica dal
nazionalismo estremista italiano, per la grande maggioranza
dell'opinione pubblica in Europa. Dovunque c'imbattiamo nell'idea
che, per il conseguimento dei propri obiettivi imperialistici non si
deve, se necessario, indietreggiare neppure dinanzi a una guerra, la
quale era del resto concepita come una sorta di bagno rigeneratore
per i popoli d'Europa, imprigionati nel materialismo borghese e
nelle utopie socialiste. Mediante processi di manipolazione
ideologica dell'opinione pubblica, i popoli d'Europa furono quindi
condotti a prepararsi alla possibilità di una guerra
generale, a considerarla come una necessità, anzi a salutarla
con entusiasmo come una liberazione da decenni di pace imbelle.
Ciò rese facile ai governi oltrepassare nel luglio 1914 la
soglia fatale e scatenare il conflitto mondiale, che doveva
costituire nel contempo il punto culminante e il punto terminale del
periodo dell'imperialismo aperto.
e) Riflusso dell'imperialismo tra le due guerre mondiali
La prima guerra mondiale diede libero sfogo alle immense energie
imperialistiche che erano ristagnate, negli ultimi decenni prima del
1914, nel grembo delle potenze europee. Appena dopo l'inizio della
guerra un'ondata di cupidigie imperialistiche travolse tutte le
dighe della razionalità politica, come testimoniano -
specialmente in Germania ma anche nelle altre potenze - i promemoria
sugli obiettivi e sui programmi di guerra (v. Fischer, 19643). Sotto
la pressione della mutata situazione, la spinta dell'imperialismo
tedesco si spostò verso il continente europeo; la creazione
di una ‛unione economica mitteleuropea', accompagnata dall'aperta
egemonia su tutta l'Europa continentale e sudorientale (inclusa la
Turchia) divenne il nucleo di uno smisurato programma
imperialistico, che doveva condurre alla definitiva affermazione
della Germania come potenza mondiale (v. Fischer, 19643, pp. 19 s.,
e 1969, pp. 639 ss.). Dal canto suo la Russia nel 1915, dopo
l'ingresso della Turchia in guerra a fianco delle potenze centrali,
vide arrivata l'ora della realizzazione di un suo grande obiettivo
storico: la conquista di Costantinopoli e degli Stretti. Le
aspirazioni della Gran Bretagna e della Francia erano volte alla
spartizione dell'Impero ottomano in zone d'interesse politico (la
Turchia doveva bensì sopravvivere, ma nei confini della sola
Anatolia). Questi ultimi obiettivi presero forma concreta
nell'accordo Sykes-Picot del 16 maggio 1916. Tra le potenze di
secondo piano, fu soprattutto l'Italia a ottenere considerevoli
concessioni imperialistiche in cambio dell'ingresso in guerra a
fianco degli Alleati. Nell'Estremo Oriente entrava pesantemente
sulla scena il Giappone, il quale sfruttò l'occupazione delle
colonie tedesche nel Pacifico e nella Cina continentale come
trampolino di lancio di una risoluta politica espansionistica,
rivolta soprattutto al controllo della Manciuria meridionale e
quindi al dominio esclusivo dei mercati cinesi. Naturalmente, la
Gran Bretagna e la Francia aspiravano a un nuovo assetto politico
che avrebbe escluso per sempre il Reich tedesco dall'arena politica
mondiale; il loro unico contrasto riguardava solo le modalità
della spartizione dei possedimenti coloniali tedeschi in Africa:
disputa, questa, in cui si inserirono per la prima volta anche i
dominions, soprattutto il Sudafrica e la Nuova Zelanda.
Da un lato, la prima guerra mondiale suscitò aspirazioni e
programmi imperialistici di portata immane, che talvolta, come nel
caso del Comando supremo tedesco nel 1918, si avvicinavano ai piani
napoleonici di dominio mondiale. D'altro canto, però,
produsse sviluppi che dovevano a lunga scadenza causare la fine di
quell'imperialismo, che infuriava sui campi di battaglia e ancor
più sui tavoli dei giornalisti. Tanto la Francia che la Gran
Bretagna si videro costrette dalle esigenze della guerra a ricorrere
alle risorse, umane e materiali, dei loro imperi coloniali. Ora,
ciò era possibile soltanto a prezzo di concessioni politiche
ovvero, parlando più concretamente, della
disponibilità a concedere ai rispettivi dominions, territori
o colonie, un grado maggiore o minore di autodeterminazione. I
grandi piani tedeschi di sconvolgere l'impero britannico mediante lo
scatenamento di processi rivoluzionari rimasero semplice utopia; e
tuttavia con la prima guerra mondiale furono poste indirettamente le
basi del processo di emancipazione dei popoli del Terzo Mondo,
processo che si è concluso vittoriosamente ai nostri giorni.
I grandi dominions bianchi del Sudafrica, del Canada e della Nuova
Zelanda inviarono per la prima volta alla Conferenza di Parigi
proprie delegazioni, presentandosi così in pratica come
nazioni autonome, e ciò sebbene esse allora, in teoria, non
contestassero alla Gran Bretagna il diritto di rappresentare nei
rapporti con l'estero tutti i paesi dell'Impero britannico.
Di importanza storica decisiva fu il fatto che, in seguito alla
prima guerra mondiale, l'idea dell'imperialismo cadde in discredito
e l'Europa dovette cedere agli Stati Uniti e, seppure con un certo
ritardo, alla neonata Unione Sovietica, la sua sin allora
incontestata posizione di guida nella politica mondiale. Sia gli
Stati Uniti che l'Unione Sovietica si dichiararono, nonostante
l'estrema diversità dei loro orientamenti politici,
antimperialistiche. W. Wilson non aveva neppure voluto prendere atto
dei trattati degli Alleati sugli obiettivi di guerra, data la loro
inconciliabilità con il principio del diritto di
autodeterminazione. Nei ‛14 Punti', che devono essere intesi in
certo modo come una reazione al celebre ‛decreto sulla pace' di
Lenin, Wilson sviluppava un ampio programma di un futuro ordinamento
pacifico, basato sul diritto democratico di autodeterminazione e sul
principio della ‛libertà dei mari' e della ‛porta aperta',
che erano per loro natura inconciliabili con la conservazione del
dominio coloniale. Wilson però non escludeva una temporanea
sopravvivenza dei sistemi coloniali, ed era anzi disposto a prendere
in considerazione, nel quadro di un trattato generale di pace, ‟una
sistemazione libera, aperta, assolutamente imparziale di tutte le
rivendicazioni coloniali" (v. Gierig, 1930, p. 85). Si può
dire invero che una tale politica era idonea ad aprire la via a un
nuovo imperialismo informale, che avesse come obiettivi il
predominio economico americano nel mondo, conseguito con mezzi
esclusivamente economici, e la diffusione del sistema sociale
americano.
Rimane però il fatto che quella politica non aveva più
nulla in comune con l'imperialismo nell'accezione tradizionale, sia
nella forma di dominio territoriale sia in quella dello
sfruttamento, sostenuto da misure politiche, di mercati e di fonti
di materie prime.
In modo assai più radicale Lenin, nel ‛decreto sulla pace',
aveva propugnato la fine dell'imperialismo e aveva indicato la
liberazione dei popoli coloniali e semicoloniali dal giogo
imperialistico come un elemento costitutivo ed essenziale di un
futuro ordinamento socialista del mondo. La vittoria del socialismo,
dichiarava Lenin, poteva essere conseguita soltanto con l'alleanza
dei popoli coloniali del mondo. Egli poneva in tal modo le basi di
una strategia politica mondiale che l'Unione Sovietica ha attuato
per cinquant'anni e che ha trovato un'eco formidabile, sebbene non
sempre positiva, nel Terzo Mondo. Non è impossibile trovare
argomenti a sostegno della tesi che il comunismo sovietico, con la
sua proclamazione senza riserve del ‛diritto di autodeterminazione'
all'interno come all'esterno dell'Europa (diritto che in seguito,
ogniqualvolta la cosa gli sembrasse imposta dalle circostanze, non
doveva però mai farsi scrupolo di violare), abbia gettato le
fondamenta di un nuovo imperialismo di specie più indiretta:
un imperialismo che gode di una legittimazione ideologica assai
più efficace di quella dell'imperialismo classico, del quale
tuttavia condivide in larga misura i metodi.
Comunque, è innegabile che la presa di posizione degli Stati
Uniti e dell'Unione Sovietica - dovuta anche a una certa concorrenza
ideologica - contro i sistemi imperialistici tradizionali, ha reso
impossibile l'imperialismo nell'accezione tradizionale e ha
costretto le potenze occidentali, se non a una liquidazione del
dominio imperialistico, almeno ad una sua attenuazione. Da allora in
poi i processi di espansione imperialistica hanno perduto slancio;
improvvisamente, i vari imperialismi nazionalistici si sono visti
costretti alla difensiva. Soltanto le potenze fasciste e il
protofascista Giappone hanno cercato ancora una volta, negli anni
trenta, di ostacolare la ruota della storia, tentando, con sforzi
immensi e con un'estrema brutalità, di edificare nuovi
imperi: un'impresa che non per caso era anche diretta contro il
cosiddetto ‛sistema di Versailles', e le cui anacronistiche
finalità erano riconoscibili come tali, già dai
contemporanei.
‟Imperialism is dead": questa era l'opinione del Foreign Office
britannico nel luglio 1919, quando il governo italiano avanzò
la proposta di un accordo circa l'acquisizione di colonie portoghesi
da parte dell'Italia: ‟Una simile intesa, nelle attuali mutate
condizioni del mondo, sarebbe assolutamente impensabile" (v. Louis,
1967, p. 153). E in realtà manovre del genere, che
trascurassero la volontà delle popolazioni interessate, non
erano più possibili. Cionondimeno, le grandi potenze
trovarono gli strumenti e le strade per giustificare e mascherare
politicamente la sopravvivenza, e persino l'ampliamento, degli
imperi coloniali (v. Mommsen, 1971, p. 23).
La conferenza della pace di Parigi, sulla scia di iniziative che
risalivano originariamente al generale Smuts, creò con il
cosiddetto sistema mandatario uno strumento giuridico di nuovo tipo
che permetteva di conciliare le aspirazioni alleate all'annessione e
al controllo dei territori coloniali del Reich tedesco e della
Turchia con il principio del diritto di autodeterminazione. Questi
territori furono suddivisi, a seconda del grado di sviluppo di
ciascuno, in tre classi di mandati, la cui amministrazione fu
affidata, in nome della Società delle Nazioni, alle diverse
potenze, a condizione di promuovere l'autonomia e con la riserva di
un controllo della Società stessa a salvaguardia dei principi
umanitari. In questo modo le colonie ex-tedesche furono assegnate
agli Alleati, e i territori dell'ex-Impero ottomano furono
trasformati in mandati sotto l'amministrazione della Francia e della
Gran Bretagna, con l'impegno però di tener conto della
partecipazione delle popolazioni indigene.
In ultima analisi, almeno i mandati del terzo tipo non si
distinguevano in nulla dalle colonie ordinarie. Il Giappone, che con
il Trattato di Versailles aveva ottenuto Tsingtao, le isole
Caroline, le isole Marianne e le isole Marshall, nonché le
concessioni economiche fatte un tempo dalla Cina al Reich tedesco
nello Shantung, seppe in seguito sfruttare la sua posizione in vista
di un'espansione imperialistica ai danni della Cina.
In ogni modo, con il sistema mandatario fu posto un nuovo principio,
e cioè che il sistema coloniale era ammissibile soltanto se
inteso come ‛amministrazione fiduciaria' per conto delle popolazioni
indigene, e che l'amministrazione doveva avere come obiettivo finale
la concessione dell'autonomia. Anche se tutto ciò nella
maggioranza dei casi fu per forza di cose pura ideologia -
perché c'era ovviamente una grandissima diversità di
opinioni sul tempo necessario alla concessione dell'autonomia -
costituì tuttavia un decisivo punto di partenza per i
movimenti di emancipazione nazionale nel Terzo Mondo, e fu imposto
nel contempo alle potenze imperialistiche l'obbligo di giustificare
il proprio dominio - sul piano ideale come sul piano materiale -
anche dinanzi ai popoli coloniali. L'imperialismo degli anni venti e
trenta mostra pertanto una chiara tendenza al riflusso; non fu
più questione, per lo più, di un'ulteriore espansione
degli imperi coloniali, ma soltanto della loro conservazione.
Contemporaneamente fu avviato un processo di graduale concessione
dei diritti di partecipazione politica ai ceti dirigenti dei popoli
coloniali, processo che - sebbene nel periodo tra le due guerre non
abbia fatto in generale molti progressi - era per sua natura
irreversibile e doveva dare origine a situazioni nuove. La Gran
Bretagna fu all'avanguardia. Essa trasformò l'Impero
britannico nel Commonwealth britannico e concesse ai grandi
dominions bianchi e all'Irlanda e, nei gradi iniziali, anche
all'India, l'autonomia politica: un processo che trovò per la
prima volta con lo Statute of Westminster (1931) una definitiva
sistemazione giuridica.
Per il resto, nella sfera d'influenza britannica si affermò
senza contrasti la teoria dell'‟indirect rule", quale lord Lugard
aveva tentato di praticarla in Uganda sin dagli anni novanta. Lugard
definiva la dominazione coloniale come un'amministrazione fiduciaria
per conto della popolazione indigena. Le amministrazioni coloniali
dovevano per un verso preoccuparsi di introdurre anche nei territori
da esse governati i principî della civiltà e del
diritto; d'altro canto dovevano però sforzarsi di conservare
il più possibile le strutture culturali, economiche e
politiche indigene, e di governare insieme con - e non contro - i
capi o sovrani indigeni, nel pieno rispetto delle strutture di
potere locali. Ciò equivaleva, nella pratica, a un parziale
ritorno ai vecchi metodi di dominio del periodo del primo
imperialismo, ma questa volta con l'esplicito intento di ottenere la
collaborazione responsabile dei ceti dirigenti indigeni, ampliandone
prudentemente le competenze a seconda del loro grado di sviluppo
civile.
Una simile strategia, paternalistica nella sua essenza e
decentratrice nella sua azione pratica non era, naturalmente, priva
di elementi romantici, e tendeva a conservare le strutture sociali
tradizionali anche là dove queste erano manifestamente
superate. Inoltre, la formazione di un'élite europeizzata, in
grado di assumere un giorno il potere effettivo, ne risultò
in molti casi rallentata. Sebbene fosse interamente dettato, sotto
l'influsso della Oxford School (v. Perham, 1961), da principi
umanitari, il sistema dell'indirect rule ha sortito piuttosto
l'effetto di contrastare una radicale modernizzazione delle
società africane; circa i suoi vantaggi dal punto di vista
dei popoli del Terzo Mondo, varie sono state le opinioni (v. Austen,
1971; v. Louis, 1967, pp. 129 ss.), come già indicava
l'esempio, continuamente addotto da Lugard, del destino della
Nigeria (v. Lugard, 19652).
La Francia ha percorso invece un'altra strada, quella
dell'‛associazione'. Ciò significava in pratica che bisognava
rinunciare alla vecchia concezione dell'‛assimilazione', - in base
alla quale i territori dovevano gradualmente riunirsi con
parità di diritti in una ‛Grande Francia' (in realtà
la cittadinanza francese era stata concessa solo a pochissimi
appartenenti agli strati superiori indigeni) - in favore dello
sviluppo autonomo dei singoli territori. L'‛associazione' prometteva
la cooperazione delle popolazioni indigene nell'amministrazione
delle colonie e dei protettorati; nella pratica, ciò non
aveva che uno scarso significato. L'amministrazione fu anzi sempre
esercitata, in modo autoritario e paternalistico, da una burocrazia
coloniale, che seppe in pratica sottrarsi ad ogni controllo politico
da parte del Parlamento francese e fece spesso causa comune con i
colons. Soltanto in Siria e nel Libano, in obbedienza alle direttive
della Società delle Nazioni, furono, rispettivamente nel 1924
e nel 1930, emanate costituzioni che concedevano alla popolazione il
diritto di autoamministrarsi sotto la sovranità francese.
Anche l'Olanda, il Belgio e il Portogallo amministravano le loro
colonie secondo i principî di un benevolent patriarchalism,
inteso ad assicurare un modesto benessere agli strati superiori
indigeni, senza peraltro prendere serie iniziative che avviassero
concretamente i vari territori verso l'autonomia.
Per il resto le potenze coloniali si sforzarono di modernizzare nei
limiti del possibile le proprie colonie e anzitutto di promuovere lo
sviluppo economico, e ciò tra l'altro per superare la
spiacevole situazione che vedeva i contribuenti delle metropoli
considerevolmente salassati per l'amministrazione dei territori
oltremare mentre i proventi economici, nel caso in cui affiuissero
in quantità rilevanti, finivano nelle casse di poche grandi
società monopolistiche. Questa politica di sviluppo fu a
tratti oltremodo fruttuosa. Giocò a favore il fatto che, con
il generale riflusso del commercio mondiale dopo la crisi e la
diffusa svolta verso una politica economica il più possibile
autarchica, la rilevanza economica dei territori coloniali
aumentò nuovamente.
L'evoluzione degli anni venti è inoltre caratterizzata dallo
scarso interesse dell'opinione pubblica nelle metropoli per i
territori coloniali, salvo che in caso di gravi crisi o di
complicazioni militari. Gli amministratori coloniali, collegati con
le ‛cricche strategiche', prime beneficiarie dello sfruttamento
economico delle colonie, avevano una notevole libertà
d'azione.
Anche le classiche strutture dell'imperialismo informale
sopravvissero pressoché intatte. La Cina si sforzò
invano, alla Conferenza di Parigi per la pace di ottenere il pieno
riconoscimento della propria autonomia nazionale anche nelle
questioni economiche. È vero che la Conferenza di Washington
del 1921-1922 stabilì che in Cina non si potesse concedere ad
alcuna potenza privilegi, sfere d'influenza o monopoli di qualsiasi
specie (si continuava così la politica americana della porta
aperta), e deliberò la restituzione di Tsingtao; ma è
anche vero che i diritti di extraterritorialità per gli
Europei non furono revocati né fu restituita al paese la
sovranità doganale. Lo stesso vale anche per il Vicino
Oriente. La Turchia riuscì bensì nel 1923 a scuotersi
di dosso l'umiliante trattato di pace di Sèvres e quindi a
sbarazzarsi del regime delle capitolazioni, ma la Caisse de la Dette
e i debiti esteri sopravvissero. In Egitto, soltanto nel 1936 la
Gran Bretagna si dimostrò disposta a cedere al movimento di
liberazione egiziano e a restituire formalmente al paese
l'autonomia, e soltanto dietro l'assicurazione che il proprio
predominio di fatto sarebbe continuato sotto la forma di un trattato
di alleanza. Solo nel 1937, nella Conferenza di Montreux, l'Egitto
poté finalmente sbarazzarsi del regime delle capitolazioni e
del sistema delle ‛Corti internazionali di giustizia', che per quasi
un secolo avevano dato ai capitali e agli uomini d'affari europei
un'invidiabile posizione di privilegio nel paese.
Estremamente lento - e fitto di gravi conflitti con le
autorità coloniali - fu il cammino del Terzo Mondo verso
l'ancora lontano obiettivo dell'indipendenza, mentre d'altro canto i
meccanismi dell'imperialismo informale rimanevano in larga misura
intatti. Soltanto quando all'orizzonte si profilava ormai il
tramonto del dominio imperialistico, le colonie e i territori
dipendenti cominciarono a diventare economicamente redditizi per le
metropoli.
Questa evoluzione fu bruscamente interrotta nel 1932 dai tentativi
del Giappone e dell'Italia di conquistarsi, a qualsiasi costo e
contro lo spirito dei tempi, un impero coloniale. Con
l'instaurazione di un regime ombra nella Manciuria - il cosiddetto
Manciukuo - l'1 marzo 1932 il Giappone batteva nuovamente la strada
di un imperialismo nazionalistico-militare, che aveva
caratteristiche chiaramente protofasciste. Le radici e le
motivazioni dell'imperialismo giapponese affondavano, anzitutto, nel
terreno della politica interna: il suo obiettivo era la
conservazione di un ordine sociale elitario e antimoderno, di
impronta pseudoaristocratica, e non per caso esso si trovava in
contrasto con gli strati borghesi che promuovevano lo sviluppo
economico, anche se copriva le sue iniziative con le consuete
argomentazioni economiche a favore dell'espansione imperialistica.
Solo tre anni più tardi l'Italia, nello sconsiderato
tentativo di fondare un grande impero fascista annetteva l'Etiopia.
Aspirazioni analoghe del nazionalsocialismo tedesco non ebbero
attuazione pratica, giacché nei piani hitleriani di dominio
mondiale il recupero delle colonie tedesche e l'edificazione di un
sub-impero africano stavano relativamente in secondo piano rispetto
all'idea di una spartizione del mondo tra il Reich tedesco e
l'Impero britannico (non era certo la disponibilità
ideologica alla restaurazione del dominio imperialistico - nel senso
dell'imperialismo maturo - che faceva difetto al nazionalsocialismo;
v. Hildebrandt, 1969).
Solo le conseguenze della seconda guerra mondiale, che costrinse le
potenze occidentali a ricorrere in misura straordinariamente
massiccia alle risorse dei propri imperi coloniali e dei propri
dominions, resero definitivamente impossibile l'ulteriore
conservazione del dominio coloniale, soprattutto perché era
entrato sulla scena, con l'Unione Sovietica, un avversario
ideologico che, ormai nella pienezza della sua potenza, minacciava
di esercitare una grande forza d'attrazione sui popoli del Terzo
Mondo. Nel giro di pochi anni si procedette allo smantellamento
definitivo - pur se attenuato dai tentativi di conservare i vecchi
imperi coloniali sotto la forma di federazioni di Stati - del
dominio imperialistico. Nasceva allora, oltre al britannico
Commonwealth of Nations, che assunse la forma di una famiglia di
popoli sotto la sovranità puramente formale della corona
britannica, la Union Française, che nel 1958 fu trasformata
in una federazione di Stati nella quale la Francia non godeva
più di privilegi politici: la Communauté
Française. I tentativi di mantenere qualche resto dell'antica
comunanza mediante la concessione di costituzioni ispirate a quelle
metropolitane si rivelarono in genere caduchi.
In realtà, senza che si potesse indicare una data precisa, il
mondo era entrato in una nuova fase, quella della
‛decolonizzazione', anche se i nuovi principi dovevano imporsi solo
a poco a poco e gradualmente, e soltanto di rado il distacco
avveniva senza gravi conflitti. I
l processo di decolonizzazione, se si prescinde da qualche rara
sopravvivenza del vecchio dominio coloniale, ha raggiunto la sua
conclusione ai nostri giorni con la fine del Portogallo in quanto
potenza coloniale. In quale misura, con la fine dell'imperialismo
formale degli Stati industriali occidentali, siano state liquidate,
o siano crollate, nelle regioni oltremare anche le strutture
dell'imperialismo informale, è una questione sulla quale, fra
i diretti interessati come fra gli studiosi, regna una scarsa
concordia. Non c'è dubbio che anche nella nuova situazione
sopravvivano molteplici forme di dipendenza economica e culturale,
le quali si sono sviluppate nei lunghi anni del dominio
imperialistico, traendo da ciò il loro carattere specifico.
Come conseguenza della costellazione politica generale creatasi dopo
il 1945, gli Stati industriali non hanno più, oggi, il potere
di difendere, nè di creare ex novo, tali strutture di
dipendenza informale nè con la pressione politica nè
con la forza. Oggi non è più possibile imporre con
mezzi politici ai paesi del Terzo Mondo discipline commerciali che
favoriscano o privilegino unilateralmente le metropoli. L'intervento
della Gran Bretagna e della Francia nel 1956 contro la statizzazione
del canale di Suez fu l'ultima azione politica di forza che si
proponesse come obiettivo la conservazione di una dipendenza
imperialistica informale; con il suo esito disastroso
dimostrò che l'età dell'imperialismo era trascorsa.
In qual misura i rapporti di dipendenza tutt'oggi esistenti tra
paesi del Terzo Mondo e Stati industriali possano essere definiti
come ‛neocolonialismo' - secondo Nkrumah la peggior forma di
imperialismo (v. Nkrumah, 19682, p. XI) - è una questione cui
si possono dare risposte diverse a seconda dei presupposti da cui si
parte. Non c'è dubbio che, per la forma come per il
contenuto, tali rapporti abbiano ricevuto la loro impronta
dall'imperialismo, anche se non è stato l'imperialismo a
crearli. Non bisogna d'altro canto trascurare il fatto che il mondo
si trova oggi a fronteggiare dovunque - nel Vicino Oriente, in
Sudafrica, in Vietnam e nelle stesse società occidentali - le
conseguenze postume del dominio imperialistico. Ciò dimostra
ancora una volta come formazioni storiche che noi ci figuriamo
definitivamente alle nostre spalle, e che effettivamente io sono se
guardiamo alla realtà concreta, possano tuttavia esercitare
il loro immutato potere anche sul nostro presente.
4. Teorie dell'imperialismo
a) Le prime teorie borghesi dell'imperialismo
La grande importanza che i fenomeni imperialistici hanno rivestito,
e in fondo tuttora rivestono, per le società dell'Occidente
come per quelle del Terzo Mondo, ha stimolato a ricercarne le forze
motrici e a raggiungere una comprensione concettuale delle strutture
e della dinamica del dominio imperialistico. Accenni in questa
direzione si trovano già nella filosofia idealistica e
nell'economia borghese classica. Hegel metteva il fenomeno dei
colonialismo in relazione con la nascita della società
industriale, nella quale si verifica ‟il decadere di una grande
massa ai disotto della misura di un certo modo di sussistenza, il
quale si regola da se stesso, come necessario per un componente
della società [...]". Con il progresso dell'evoluzione emerge
una polarizzazione della società, divisa nello strato dei
ricchi e nella plebe, e si fa allora evidente che ‟nella
sovrabbondanza della ricchezza, la società civile non
è ricca abbastanza, cioè non possiede, nella ricchezza
ad essa propria, abbastanza per ovviare all'esuberanza della
povertà e alla formazione della plebe [...]. Mediante questa
sua dialettica, la società civile, soprattutto questa
determinata società, è spinta al di là di
sé, per cercare fuori di essa, in altri popoli, che le
restano addietro nei mezzi, dei quali essa ha esuberanza, o, in
generale, nell'industria ecc., i consumatori e, quindi, i mezzi
necessari di sussistenza" (Hegel, Rechtsphilosophie,
ÈÈ 244, 245, 246; tr. it.: Lineamenti di filosofia del
diritto, Bari 19714). Anche in J. B. Say e J. Stuart Mill troviamo
l'idea che il colonialismo è importante sia come fonte di
accumulazione aggiuntiva sia come fattore in grado di pstacolare la
tendenza alla caduta del saggio del profitto e alla saturazione
delle economie industriali. Il ruolo delle colonie rimaneva per loro
- come dei resto anche per Marx - un ruolo marginale,
cosicché non si addivenne mai a una formulazione sistematica
di queste osservazioni.
Sebbene la scienza borghese non avesse mai perduto di vista
l'importanza che i territori oltremare rivestivano, come sbocchi
commerciali o come fornitori di materie prime, per le economie
capitalistiche in rapido sviluppo, le teorie dell'imperialismo
dominanti nella seconda metà dell'Ottocento erano di natura
politica. L'imperialismo appariva come il precipitato concreto della
spinta, per così dire ‛naturale', delle grandi potenze verso
l'espansione. Questa teoria fu avanzata nel modo più
sistematico dai neorankiani, specialmente da M. Lenz e E. Marcks (v.
Dehio, 19613, pp. 33 ss.). Essi interpretavano l'imperialismo come
l'espressione della transizione, concepita come necessaria, da un
sistema di Stati europeo a un sistema di Stati mondiale. Anche in
area anglosassone, per esempio in J. Seeley o J. Burgess, troviamo
una siffatta teoria ‛statale' dell'imperialismo. Questa teoria, poi,
era spesso strettamente associata a concezioni nazionalistiche,
razzistiche e biologiche, che a loro volta risalivano in parte al
darwinismo sociale.
L'elaborazione di teorie sistematiche dell'imperialismo è in
primo luogo dovuta, com'è naturale, ai suoi avversari.
Bisogna menzionare anzitutto J. A. Hobson il quale, sviluppando
spunti di A. Conan, avanzò per la prima volta, nel suo
Imperialism. A study (1902), una teoria coerente dell'imperialismo,
il cui influsso si fa sentire ancora oggi. La teoria hobsoniana
è essenzialmente una teoria del ‛sottoconsumo': a causa di
una struttura sociale che nega ai lavoratori un'adeguata
partecipazione al crescente prodotto sociale, si verificano fenomeni
di ristagno nei mercati interni delle società industriali. Di
conseguenza, il capitale non trova più nei mercati interni
possibilità di impieghi redditizi, e viene quindi stimolato a
ricercare investimenti più lucrosi nei territori oltremare. A
questo scopo i gruppi capitalistici esercitano crescenti pressioni
sul potere statale affinché proceda ad annessioni; nel
contempo si adoperano mediante una sofisticata manipolazione
dell'opinione pubblica - nella quale hanno la complicità
della stampa popolare - per convertire le grandi masse, contro i
loro veri interessi, a uno sciovinismo che diventa un ulteriore
efficace fattore di espansione imperialistica.
Caratteristico dell'imperialismo moderno è quindi, secondo
Hobson, un flusso costantemente crescente di investimenti di
capitali nei territori oltremare. Questo flusso viene preparato e
accompagnato per un verso dalla colonizzazione imperialistica, e per
un altro verso dall'intensificazione degli armamenti, da crescenti
carichi fiscali e da un aggravarsi del ristagno nei mercati interni
degli Stati industriali. A tutto ciò si aggiunge lo sviluppo
di forme parassitarie di esistenza nella élite che è
la diretta beneficiaria dei proventi imperialistici.
Questa teoria ha un'impronta liberal radicale e socialriformista;
essa non si rivolge contro il capitalismo in quanto tale, ma
soltanto contro le sproporzioni nella distribuzione del potere
d'acquisto all'interno delle società capitalistiche,
sproporzioni che nascono dal mantenimento di strutture politiche
anacronistiche e dall'oppressione dei lavoratori. Una politica
sociale attiva, unitamente alla demolizione delle strutture sociali
gerarchiche, potrebbe eliminare tali sproporzioni, che sono
all'origine dell'imperialismo. E una democrazia pienamente
dispiegata, che nella sua politica desse un peso adeguato a tutti
gli interessi economici, farebbe presto a meno di ogni forma di
imperialismo (v. Hobson, 19382, p. 363).
Max Weber, nelle sue riflessioni teoriche sul fenomeno
dell'imperialismo (le quali anticipavano in nuce le successive
teorie sociologiche dell'imperialismo), pose l'accento sulle
disfunzioni delle strutture sociali piuttosto che sui meccanismi
immanenti di un sistema capitalistico non ostacolato nella sua
azione. Weber attirava l'attenzione sul fatto che è sempre
esistito un ‛capitalismo di rapina', che si è sforzato di
sfruttare monopolisticamente quelle possibilità di mercato o
quelle concessioni che si accompagnano di solito a una politica
imperialistica di espansione. Sennonché, questa forma
parassitaria di corsa capitalistica al profitto non è tipica
del capitalismo moderno, il quale, al contrario, è orientato
verso la produzione e lo scambio di merci all'interno di un mercato
basato sul principio, formalmente senza restrizioni, della libera
concorrenza. Non mancano mai, è vero, gruppi finanziari e
imprenditori che hanno un interesse diretto alla politica
imperialistica ma di gran lunga più decisivo è il
fatto che gli strati dominanti hanno sempre un forte interesse
all'espansione imperialistica perché l'ampliamento della
sfera d'influenza del proprio sistema di dominio accresce il loro
prestigio sociale e quindi consolida il loro primato politico e il
loro status socialmente privilegiato: ‟ogni politica imperialistica
di forza all'esterno, se coronata da successo, accresce anche
all'interno, almeno immediatamente, il prestigio e quindi la potenza
e l'influenza di quelle classi, di quei ceti e di quei partiti sotto
la cui guida il successo è stato raggiunto" (v. Weber, 19725,
p. 527; tr. it., vol. II, p. 223). Weber accenna anche a uno
specifico interesse degli intellettuali all'espansione della sfera
d'influenza della propria cultura nazionale, interesse che riveste
una grande importanza come base sociologica di uno specifico
imperialismo culturale (v. Weber, 19725, p. 528; v. Mommsen, 1961,
pp. 43 s.).
b) Le teorie marxiste classiche dell'imperialismo
Diversa è stata la strada percorsa dalla teoria marxista la
quale, riallacciandosi ai precedenti spunti offerti dalla vecchia
economia politica borghese e da Marx stesso, ha interpretato
l'imperialismo come un prodotto necessario dell'ordinamento sociale
capitalistico in un determinato stadio del suo sviluppo. Marx
procedette ancora in larga misura, a questo riguardo, sui binari
dell'economia politica liberale: l'espansione del sistema
capitalistico sull'intero globo attraverso il colonialismo gli
sembrava una necessità ineluttabile che, sul piano della
storia universale, aveva un obiettivo valore di progresso. Per
quanto riguarda lo sviluppo delle contraddizioni del sistema
capitalistico in quanto tale, questo problema gli sembrava
naturalmente secondario. Solo in Engels incontriamo l'idea che la
contraddizione tra capacità produttiva e possibilità
di consumo spinge la società capitalistica a orientarsi verso
i territori oltremare, per aprire colà nuovi sbocchi
commerciali.
A questo spunto è stata data successivamente da Rosa
Luxemburg, nel suo libro Die Akkumulation des Kapitals del 1913,
un'elaborazione invero assai unilaterale e molto contestata nello
stesso campo marxista. Attenendosi strettamente alla teoria marxiana
della riproduzione del capitale e sulla base di una restrittiva
variante della teoria del sottoconsumo, essa giunse a sostenere che
la realizzazione della quota non consumata del ‛plusvalore' è
ormai possibile solo nei territori coloniali precapitalistici del
globo: ‟L'esistenza di acquirenti non capitalistici del plusvalore
è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la
sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del
problema dell'accumulazione del capitale" (v. Luxemburg, 1913; tr.
it., p. 361). Ne derivavano due conseguenze: da un lato, la febbrile
concorrenza delle grandi potenze per il possesso dei territori
oltremare, con i relativi fenomeni del militarismo e della corsa
agli armamenti, si dimostrava assolutamente necessaria ai fini della
conservazione del capitalismo; d'altro lato, quest'ultimo sarebbe
potuto sopravvivere soltanto sino a che fossero esistite sul globo
‛formazioni sociali non capitalistiche': ‟Con quanta maggior potenza
il capitale, grazie al militarismo, fa piazza pulita, in patria e
all'estero, degli strati non-capitalistici e deprime il livello di
vita di tutti i ceti che lavorano, tanto più la storia
quotidiana dell'accumulazione del capitale sulla scena del mondo si
tramuta in una catena continua di catastrofi e convulsioni politiche
e sociali, che, insieme con le periodiche catastrofi economiche
rappresentate dalle crisi, rendono impossibile la continuazione
dell'accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia
internazionale al dominio del capitale, prima ancora che, sul
terreno economico, essa sia andata a urtare contro le barriere
naturali elevate dal suo stesso sviluppo" (v. Luxemburg, 1913; tr.
it., pp. 469-470). La ‛spinta del capitalismo all'espansione
imperialistica' appariva pertanto a Rosa Luxemburg come
l'espressione della sua massima maturità, del suo ultimo
periodo di vita, e quindi anche, nel contempo, come il preludio
immediato del suo definitivo tramonto.
Di gran lunga più importante per il suo significato e per
l'influsso esercitato è l'opera di R. Hilferding Das
Finanzkapital, apparsa nel 1910. Hilferding parte da un'ampia e
penetrante analisi dello sviluppo monopolistico del capitalismo per
giungere a una teoria che ravvisa l'autentico contrassegno
dell'imperialismo nel dominio del ‟capitale finanziario", vale a
dire nella forza del ‟capitalismo organizzato", accumulata nelle
grandi banche, nei monopoli, nei trusts e cartelli di ogni genere.
Diversamente dalle prime fasi dello sviluppo del sistema
capitalistico, il capitale finanziario mira a perfezionare sempre di
più il suo dominio economico con l'esclusione - ottenuta
mediante le concentrazioni monopolistiche - di tutte le forme
primarie di concorrenza: ‟Il capitale finanziario non chiede
libertà, ma dominio [...] aborrisce l'anarchia della
concorrenza e promuove l'organizzazione solo per condurre la
concorrenza in ambiti sempre più vasti. Per riuscire in
ciò, per poter conservare e aumentare il proprio prepotere,
esso ha però bisogno dello Stato, il quale, con la sua
politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e
facilitargli la conquista di quelli esterni. Il capitale finanziario
ha bisogno di uno Stato politicamente forte, che nei suoi atti di
politica commerciale, non sia costretto a usare alcun riguardo agli
opposti interessi di altri Stati. È quindi necessario uno
Stato forte, capace di far valere, i suoi interessi finanziari
all'estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli
Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli
transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte
del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio
capitale finanziario; uno Stato, infine, sufficientemente forte per
condurre una politica espansionistica e per potersi incorporare
nuove colonie" (v. Hilferding, 1910; tr. it., pp. 440-441).
Quella di Hilferding è una teoria quadrata e compatta, degna
di nota sotto vari aspetti. Da un lato, gli investimenti di capitali
nei territori oltremare, la protezione artificiale dei mercati
interni a favore dell'industria nazionale, un'aggressiva politica di
esportazione mirante a potenziare la propria presenza sul mercato
sono tutte forme di imperialismo allo stesso titolo degli interventi
politici o addirittura militari diretti a conseguire favorevoli
posizioni di partenza in campo economico o speciali privilegi per
l'economia, cioè per il ‟capitale finanziario", del proprio
paese. L'espansione territoriale e le conquiste coloniali non sono
altro che varianti estreme di un unico e medesimo fenomeno. La
teoria hilferdinghiana è di un'ampiezza singolare: essa
include tutto ciò che oggi si suole denominare imperialismo
informale, e appunto per questo non distingue tra espansione
imperialistica in senso stretto e politica di potenza tradizionale.
D'altro canto, tutte le varianti di imperialismo sono ricondotte a
un'unica radice, cioè alla struttura interna del capitalismo
monopolistico il quale, diversamente dal capitalismo concorrenziale
classico, dà origine a oligopoli sempre più potenti,
miranti a dominare i mercati con l'esclusione - o con l'assorbimento
- di tutti i concorrenti. A questo proposito si concede che il
‟capitalismo organizzato" è almeno provvisoriamente in grado
di ridurre la predisposizione del sistema capitalistico alle crisi,
producendo una sorta di autocorrezione del sistema. Cionondimeno, il
crescente perfezionamento della ‟dittatura dei magnati del capitale"
conduce inevitabilmente a sempre più aspre lotte per il
potere tra le ‟oligarchie del capitale" dei singoli Stati
industriali e al conseguente scatenamento di guerre imperialistiche:
il risultato finale di questo processo è il capovolgimento
della ‟dittatura dei magnati del capitale" nella ‟dittatura del
proletariato" (v. Hilferding, 1910; tr. it., p. 491).
Qui è possibile solo accennare ai punti deboli di questa
teoria. Da un lato Hilferding sopravvalutava il ruolo effettivo
delle grandi banche nell'economia del capitalismo maturo e
ipotizzava un'identità di capitale bancario e capitale
industriale la quale, almeno in quella fase dello sviluppo del
capitalismo, era bensì tipica dei paesi relativamente
arretrati (nel senso di Gerschenkron) della seconda ondata
dell'industrializzazione, ma non aveva assolutamente un valore
paradigmatico generale. Dall'altro lato, la teoria si basava
sull'assunto, non avvalorato da particolari considerazioni ma
presentato semplicemente come assiomatico, che il potere statale
è sempre disposto a porsi al servizio del capitale
finanziario. Ad onta di tutto ciò, l'influsso della teoria di
Hilferding si è mantenuto straordinariamente forte sino ai
nostri giorni.
Sotto il profilo dell'influsso esercitato, riveste un'estrema
importanza il libro di battaglia di Lenin, Imperialismo, fase
suprema del capitalismo. Nonostante i suoi aspetti ‛datati', esso
conserva tuttora, presso i marxisti-leninisti, un valore canonico.
Sviluppando l'interpretazione di Hilferding, Lenin definivà
l'imperialismo come lo stadio monopolistico del capitalismo, il
quale è a sua volta caratterizzato, tra l'altro, da un grado
elevato di concentrazione della produzione del capitale (i monopoli
svolgono una ‟funzione decisiva nella vita economica"), dalla
‟fusione del capitale bancario col capitale industriale", e infine
dal ‟sorgere di associazioni monopolistiche internazionali, che si
ripartiscono il mondo" (v. Lenin, 1916; tr. it., p. 128). L'essenza
dell'imperialismo, consiste, secondo Lenin, negli sforzi che il
capitalismo compie per espandersi con tutti i mezzi, che possono
andare dalle varie forme di penetrazione economica appoggiata da
strumenti politici sino all'espansione violenta e alle guerre
imperialistiche. A questo proposito, egli non faceva
intenzionalmente alcuna distinzione tra le colonie formali e le
cosiddette ‛semicolonie,' cioè i paesi che godevano
formalmente dell'autonomia politica, ma erano di fatto assoggettati
al dominio del capitale finanziario occidentale.
Richiamandosi apertamente a Hobson, Lenin definiva l'esportazione di
capitali come la forma di gran lunga più importante di
espansione economica. La lotta condotta in tutto il mondo dalle
oligarchie finanziarie per gli investimenti redditizi lotta che si
era eccezionalmente inasprita proprio dopo la spartizione
territoriale del mondo - è quindi da considerare come il
contrassegno decisivo dell'imperialismo, il cui inizio,
coerentemente, viene fatto risalire a non prima del 1900.
Lenin credette di poter anzitutto constatare tre tendenze, tra loro
antagonistiche. In primo luogo c'era, come effetto della crescente
caduta del saggio del profitto e della conseguente necessità
di cercare investimenti redditizi fuori dei mercati interni, la
sempre maggiore acutizzazione dei contrasti tra le stesse potenze
capitalistiche, le quali si sarebbero alla fine dilaniate nelle
guerre imperialistiche. In secondo luogo, si poteva ormai
riscontrare la ‟putrefazione" proprio dei paesi finanziariamente
più forti, putrefazione che si manifestava tra l'altro in
fenomeni come il ‟taglio delle cedole" e la vita parassitaria degli
strati superiori. In terzo luogo, infine, la ‟non
contemporaneità" dello sviluppo dei paesi capitalistici
conduceva inevitabilmente da un lato a una sempre maggiore
polarizzazione del mondo in pochi paesi ricchi e in molti paesi
poveri, dipendenti dai primi, e dall'altro a sempre più gravi
conflitti tra gli stessi paesi industrialmente progrediti. In questa
situazione Lenin vedeva il punto di partenza di un'alleanza del
proletariato dei paesi industriali con i paesi del Terzo Mondo,
alleanza che avrebbe inevitabilmente accelerato il crollo incombente
del ‟capitalismo moribondo".
Quest'ultima idea di Lenin ha ricevuto una particolare accentuazione
nell'interpretazione postleniniana dell'imperialismo, ed è
stata sfruttata da Stalin a sostegno della sua strategia politica.
Nonostante il fatto evidente che il crollo del capitalismo si faceva
attendere, ci si atteneva rigidamente alla teoria del ‟capitalismo
moribondo"; si ammetteva però che gli Stati capitalistici
potessero temporaneamente riuscire, mediante interventi
nell'economia, a ‟superare in un modo o nell'altro" (v. Varga,
19742, pp. 34 e 75 ss.) la contraddizione tra la produzione - che si
andava socializzando - e l'appropriazione privata, contraddizione
che pure, in linea di principio, veniva sempre di più
acutizzata dalla ‛rivoluzione antimperialistica' dei popoli
coloniali. La teoria del ‟capitalismo monopolistico di Stato"
può essere considerata come la continuazione della teoria
leniniana dell'imperialismo in una situazione di riflusso
dell'imperialismo e di decolonizzazione. L'espansione dell'azione
dello Stato nella sfera economica e la destinazione di una parte
della produzione capitalistica a spese improduttive per gli
armamenti sono gli elementi di spicco della teoria, data
l'importanza sempre minore che i territori coloniali e gli
investimenti imperialistici di capitali nei territori oltremare
hanno rivestito per il capitalismo occidentale nel periodo tra le
due guerre e soprattutto dopo il 1945.
c) Recenti teorie politiche dell'imperialismo
Contro le teorie marxiste-leniniste, molti interpreti occidentali
dell'imperialismo tengono fermo, come già in passato, al
primato dei fattori politici e sociologici. Ogni teoria che faccia
leva unicamente sulle cause economiche dei fenomeni imperialistici
è insoddisfacente, perché spiega ‟solo una parte -
importante ma per nulla sufficiente - dei fatti", e inoltre trascura
di considerare che le motivazioni economiche sono in gioco non solo
sul versante dei colonizzatori, ma anche su quello dei loro
avversari (v. Landes, 1961, p. 95). Del resto, già W. E.
Langer osservava: ‟È possibile che esistano interessi
commerciali per le conquiste territoriali. Quanto agli interessi
delle cricche militari e dei gruppi dominanti, esistono sempre" (v.
Langer, 1935). Come mostra questa citazione, l'accento si è
spostato rispetto alle vecchie interpretazioni dell'imperialismo.
Viene in primo piano non più l'interesse delle grandi
potenze, dettato dalla ragion di Stato, ma la dinamica peculiare dei
movimenti di massa degli Stati industriali in via di
democratizzazione. Già Langer interpretava l'imperialismo
britannico essenzialmente come ‟una proiezione del nazionalismo al
di là dei confini d'Europa" (ibid., p. 11). H. Arendt ha
messo l'imperialismo in relazione con i movimenti fascisti di massa
del Novecento; gli elementi razzisti e antiliberali della politica
imperialistica scaturirebbero, al pari dei fascismi moderni, da una
radice comune, cioè da una democrazia solo esternamente
democratica, ma in realtà antiliberale e totalitaria. In modo
analogo Fieldhouse ha voluto vedere l'imperialismo come il prodotto
di una ‟isteria nazionalistica di massa" (v. Fieldhouse, 1966):
un'interpretazione che è stata recentemente proposta anche da
Lichtheim (v., 1971, pp. 81 ss.).
d) Teorie ‛oggettivistiche' dell'imperialismo
Un'altra schiera di teorici, in primo luogo H. Lüthy,
interpreta l'imperialismo come lo scontro inevitabile tra la
progredita civiltà occidentale e le vecchie, comparativamente
anacronistiche culture del Terzo Mondo, scontro i cui risultati
neppure i diretti interessati vorrebbero cancellare. L'espansione
imperialistica sarebbe stata promossa da gruppi meramente marginali
delle società occidentali, in primo luogo da migliaia di
coloni pionieri e avventurieri, in cui, per così dire,
s'incarnava la sovrabbondanza d'energie del mondo occidentale:
‟Questo scoppio di energie sovrabbondanti fu l'autentica forza
motrice dinanzi alla quale i primitivi o decrepiti o pietrificati
ordinamenti e sistemi politici del mondo extraeuropeo si
frantumarono e si disgregarono" (v. Lüthy, 1964, pp. 370 ss.).
Analogamente, Landes ha interpretato l'imperialismo come la
conseguenza di un fondamentale squilibrio politico, economico,
culturale e militare tra la civiltà occidentale e le
arretrate società del Terzo Mondo.
e) Teorie sociologiche e sociopolitiche dell'imperialismo
Secondo un significativo orientamento dell'interpretazione
occidentale dell'imperialismo, i fenomeni imperialistici vanno
ricondotti non tanto alla dinamica interna del sistema capitalistico
quanto piuttosto a certe strutture sociali e a certe confignrazioni
di interessi che, sorte sulla scia della modernizzazione delle
società occidentali, scatenano conflitti sociali che a loro
volta spingono le élites dominanti a cercare in una politica
di espansione una via d'uscita da una situazione socialmente
opprimente. Queste interpretazioni si rifanno per lo più al
classico saggio di Schumpeter Zur Soziologie der Imperialismen, nel
quale l'imperialismo viene definito come ‟la disposizione priva di
oggetto, da parte di uno Stato, più precisamente dei suoi
strati dominanti, all'espansione violenta e intollerante di
confini", e quindi come un ‛atavismo' sopravvissuto nei tempi
moderni (v. Schumpeter, 1953, p. 74; tr. it., p. 6). Contro Lenin,
Schumpeter sostenne con decisione l'idea che la società
capitalistica, lungi dal suscitare l'imperialismo, è invece
orientata, per sua natura, verso lo scambio pacifico dei beni nella
cornice di un mercato internazionale. Soltanto in un ambiente
politico, nel quale predominino ancora rapporti politici feduali,
può aver luogo la formazione di strutture monopolistiche ed
è perciò possibile che anche Stati capitalistici
promuovano talvolta una politica imperialistica.
Effettivamente, in Occidente è diffusa l'idea che
l'imperialismo sia in ultima analisi il risultato di strutture
sociali predemocratiche o non democratiche, e che la liquidazione di
queste ultime comporti il suo definitivo superamento. E. M. Winslow,
per esempio, è giunto alla conclusione che con lo sviluppo di
moderne società industriali capitalistiche di tipo
pluralistico, l'imperialismo appartiene ormai al passato (v.
Winslow, 1948). Analogamente, W. W. Rostow ha difeso la tesi che
grosse sproporzioni nella crescita economica, insieme con forti
differenze nel potenziale militare, possono sì fornire lo
spunto a una politica di aggressione su scala sia regionale che
globale, ma che le vere forze motrici di una politica siffatta vanno
ricondotte a fattori politici, specialmente al ruolo di gruppi
sociali, la cui posizione di potere affondi le radici nella fase
arcaica del capitalismo o addirittura in fasi precapitalistiche. Una
società dei consumi capitalistica che sia giunta alla
maturità non mostra invece alcuna inclinazione alla politica
imperialistica, giacché il capitalismo non ha affatto bisogno
dell'imperialismo per il proprio ulteriore sviluppo (v. Rostow,
19712).
Mentre queste concezioni si incentrano ancora in larga misura sulla
concezione classica dell'imperialismo come forma di dominio
territoriale di territori dipendenti, la tesi del
‛social-imperialismo', difesa soprattutto da H.-U. Wehler ma anche
da W. LaFeber e W. A. Williams, se ne distacca notevolmente. Con
‛social-imperialismo' non bisogna intendere quella variante
dell'imperialismo che, per esempio con J. Chamberlain e Fr. Naumann,
propagandava l'espansione economica e territoriale al fine di
elevare il livello economico e sociale degli strati inferiori (v.
Semmel, 1960; v. Düding, 1972). Si tratta piuttosto di una
politica di espansione imperialistica - è indifferente se di
specie formale o informale - mirante a difendere le posizioni
privilegiate di élites dirigenti tradizionali in
società soggette a rapidi mutamenti sociali dovuti
all'industrializzazione e alla democratizzazione. Questa strategia
di un ‟social-imperialismo manipolatorio", quale Wehler l'ha
analizzata dapprima nel caso di Bismarck e quindi generalizzata,
trova un ulteriore appoggio nel cosiddetto ‛consenso ideologico'
degli strati dominanti e degli strati borghesi, secondo i quali la
conservazione dell'ordinamento sociale esistente dinanzi alle crisi
periodicamente ricorrenti della crescita è possibile solo se
si provvede a una costante espansione economica (è
indifferente se attraverso incrementi forzati delle esportazioni o
esportazioni di capitali o conquiste coloniali formali).
Analogamente Williams, in base all'esempio americano, ha sostenuto
la tesi che anche i contadini americani - e in seguito la community
business americana - hanno considerato l'incessante apertura di
nuovi sbocchi commerciali nei territori oltremare come una
condizione del mantenimento del sistema sociale americano.
f) Teorie periferiche dell'imperialismo
Contro queste teorie, che cercano di spiegare l'imperialismo come il
risultato di strutture o processi endogeni, ha preso posizione di
recente una schiera di studiosi che, all'opposto, considerano
decisivi non i processi delle metropoli, bensì quelli della
periferia. Le vecchie teorie dell'imperialismo, ha osservato
recentemente Robinson, si basano tutte su una grande illusione, in
quanto partono sempre dall'assunto che le componenti attive dei
fenomeni imperialistici siano di origine europea, ed escludono
quindi, qua definitione, gli altrettanto vitali elementi non europei
(v. Robinson, 1972, p. 118). L'azione degli uomini di Stato europei
era invece di norma determinata dalle crisi e dai sommovimenti della
periferia, in particolare dalle ribellioni nazionalistiche contro i
regimi collaborazionisti. Su questa base Fieldhouse arriva alla
conclusione che l'imperialismo è in primo luogo una ‟reazione
a situazioni non soddisfacenti nella periferia" (v. Fieldhouse,
1973, p. 79).
Quando si è giunti all'espansione territoriale
indipendentemente da tali fattori periferici o ‛eccentrici', si
è trattato di norma di annessioni preventive o di misure
dirette primariamente (in particolare nel caso della Gran Bretagna)
a consolidare e preservare un impero coloniale già esistente;
l'official mind dell'imperialismo britannico era guidato anzitutto
da considerazioni strategiche e di sicurezza.
Sulla base di questi risultati della ricerca, Robinson ha avanzato
recentemente la proposta di sostituire il vecchio modello
eurocentrico con un modello pluralistico dell'imperialismo, il quale
combini i fattori eurocentrici - cioè da un lato l'espansione
economica degli Stati industriali occidentali che tendevano
all'integrazione economica delle regioni sottosviluppate del globo
nel sistema capitalistico (in via di rapida evoluzione), e
dall'altro i fenomeni di politica di potenza legati alla formazione
e alla reciproca delimitazione di imperi coloniali tra loro rivali -
con i processi operanti nelle società indigene stesse, i
quali fornirono spesso l'occasione per l'edificazione di un dominio
coloniale formale (v. Robinson, 1972, p. 139). L'imperialismo non
era, secondo questo modello, un processo guidato dalle metropoli
secondo un programma, ma un processo che sia gli agenti
dell'imperialismo nelle metropoli sia le sue vittime nella periferia
consideravano inarrestabile, e che si sottraeva in larga misura al
controllo razionale.
g) Teorie del neocolonialismo e del sottosviluppo
Le teorie ‛periferiche' dell'imperialismo forniscono un collegamento
diretto con i più recenti tentativi di sussumere sotto il
fenomeno generale dell'imperialismo le numerose forme di dipendenza
che sopravvivono anche dopo la fine dell'imperialismo formale. I
primi tentativi del genere sono dovuti a marxisti africani. Kwame
Nkrumah coniò nel 1965 lo slogan estremamente incisivo:
‟Neocolonialismo, fase suprema dell'imperialismo", intendendo con
ciò riferirsi alle numerose dipendenze indirette che
continuavano a sussistere anche dopo la concessione dell'autonomia
politica ai paesi ex coloniali. Attraverso l'esportazione di
capitali, l'influenza economica, la manipolazione dei terms of trade
e gli ‛aiuti per lo sviluppo', veniva di fatto continuato lo
sfruttamento dei popoli del Terzo Mondo, mentre i governi fantocci
indigeni prestavano di buon grado assistenza agli interessi
capitalistici degli ex padroni delle colonie. Questa fu anzi
definita da Nkrumah la ‛peggior forma di imperialismo',
giacché ormai era cessato ogni controllo su questi processi
di sfruttamento (v. Nkrumah, 19682, p. XI). F. Fanon mise invece
l'accento sui profondi danni psichici che l'imperialismo ha lasciato
dietro di sé nei popoli coloniali - e specialmente nei loro
strati dirigenti - e che sono d'intralcio all'emancipazione
definitiva (v. Fanon, 1961).
Questi argomenti sono stati ripresi in particolare da un vasto arco
di autori neomarxisti di obbedienza assai diversa. La tesi
essenziale è che nel corso del suo lungo dominio nei paesi
del Terzo Mondo, l'imperialismo ha creato strutture politiche ed
economiche, che riproducono incessantemente e necessariamente le
vecchie forme di dipendenza dagli Stati industriali. P. A. Baran ha
energicamente messo in chiaro che il processo di sfruttamento del
Terzo Mondo prosegue immutato anche dopo la fine del colonialismo,
sebbene su un piano nuovo e relativamente più razionale (v.
Baran, 19622, p. 309). La tesi di Baran è che non sarà
possibile superare le irrazionalità del sistema esistente,
che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre
più poveri, ‟sino a che esisterà il sistema
capitalistico" (ibid., p. 440). Anche Magdoff, che insieme con
Mandel appartiene all'ala revisionista degli autori neomarxisti e
che ha rifiutato la legge della caduta tendenziale del saggio del
profitto, richiama l'attenzione sul fatto che non è cosa
semplice ‟eliminare relazioni di dipendenza, che si sono sviluppate
durante un così lungo periodo storico e che hanno radici
tanto profonde". La struttura economica dei popoli coloniali e
semicoloniali si è sempre di più adattata al ruolo di
appendice dei centri metropolitani, e pertanto anche dopo la fine
del dominio coloniale formale tanto la struttura dei prezzi che la
distribuzione del reddito e l'allocazione delle risorse rimangono
soggette all'influsso del potere militare e ‟delle forze cieche del
mercato in misura tale che la dipendenza si riproduce
incessantemente" (v. Magdoff, 1969, pp. 166 ss.).
Così, accanto all'ala del marxismo-leninismo ortodosso,
rappresentato per esempio da Varga e Leontieff, e a un gruppo
relativamente più flessibile di teorici marxisti occidentali,
rappresentato per esempio da Dobb, Sweezy, Mandel e Kemp, che
sottolinea in particolare il ruolo del capitalismo monopolistico di
Stato nella conservazione e ulteriore evoluzione del capitalismo
anche dopo la fine del colonialismo (v. Kemp, 1967), si è
costituito un forte gruppo di studiosi che non fonda più la
sua critica al capitalismo in primo luogo sulle sue interne
contraddizioni condizionate dal sistema, ma sull'incapacità
del sistema capitalistico di dare una soluzione soddisfacente al
rapporto tra paesi industriali e paesi del Terzo Mondo. Vengono
allora in primo piano due problemi: quello dello ‛scambio ineguale',
cioè dell'ingiusta valutazione del valore dei beni
provenienti dai paesi in via di sviluppo rispetto a quelli
provenienti dai paesi industriali (v. Jalée, 1968 e 1969; v.
Emmanuel, 1969); e quello delle imprese multinazionali, che
dispongono di una capacità pressoché incontrollabile
di dominare i mercati del Terzo Mondo e alle quali risale la
formazione di una nuova ‛classe internazionale' (v. O' Connor, 1971,
p. 153). Queste tesi sono esemplificate soprattutto dagli Stati
Uniti in quanto centro di un nuovo ‛super-imperialismo' che ha
assunto una veste prevalentemente informale, dato che la
superiorità delle corporations internazionali è tanto
grande che si rinuncia per lo più agli strumenti della
politica di potenza. Il dominio diretto è stato infine
sostituito dalla ‟riproduzione della dipendenza sulla base del
potere strutturale" (v. Senghaas, 19732, p. 20).
h) L'imperialismo come potere strutturale
Sulla base di queste interpretazioni neomarxiste, J. Galtung ha
intrapreso l'interessante tentativo (che riguarda però, in
linea di principio, anche gli Stati socialisti in quanto oggetti e
soggetti di un siffatto super-imperialismo) di elaborare una teoria
generale dell'imperialismo secondo un ‛tipo ideale', che prescinde
in larga misura dalle forme storiche per definire l'imperialismo
come un ‟tipo speciale di rapporto di dominio tra collettivi
organizzati" (v. Galtung, 19732, p. 29). Galtung si richiama in
particolare alle considerazioni della ‛scuola periferica', e
descrive il dominio imperialistico come una forma di dipendenza
strutturale che si instaura tra ‛nazione centrale' e ‛nazione
periferica'; ciò si verifica in forza di un complicato
meccanismo, basato in primo luogo sul fatto che il centro dispone
nella periferia di una testa di ponte, cioè di uno strato
dominante indigeno disposto a cooperare e i cui valori sono ispirati
a quelli della metropoli, uno strato che ha quindi un proprio
interesse alla conservazione dei rapporti esistenti. In altre
parole, la dipendenza imperialistica ha le sue radici essenzialmente
nel terreno dell'inuguaglianza sociale, la quale, maggiore nella
periferia che nella metropoli, ridonda a vantaggio di quest'ultima.
Qui l'idea leniniana di un'aristocrazia operaia corrotta dai
sovrapprofitti imperialistici viene applicata ai rapporti esistenti
nella periferia. La ‛struttura asimmetrica di interazione' tra
‛nazione periferica' e ‛nazione centrale', che deriva dall'epoca
colonialistica ed è rafforzata dal fatto che i paesi
sottosviluppati sono anzitutto fornitori di materie prime, viene
sostenuta da tale ‛struttura feudale di interazione' e per questa
via perpetuata. Si costituisce così una forma di dipendenza
strutturale che soltanto in caso di uno sviluppo incompleto richiede
ancora il ricorso alla potenza politica o militare: ‟Soltanto
l'imperialismo imperfetto abbisogna di armi; l'imperialismo si fonda
sul potere strutturale piuttosto che sul potere diretto" (v.
Galtung, 19732, p. 55). Da questo modello fondamentale di dipendenza
imperialistica delle nazioni periferiche dalle nazioni centrali
Galtung ricava cinque forme diverse di imperialismo: l'imperialismo
economico, l'imperialismo politico, l'imperialismo militare,
l'imperialismo delle comunicazioni e, last but not least,
l'imperialismo culturale.
È invero dubbio se, dopo i profondi mutamenti intervenuti
negli ultimi anni nell'equilibrio dei rapporti tra paesi produttori
di materie prime e paesi industriali, questo modello sia ancora
plausibile, tanto più che l'argomento secondo il quale le
metropoli mantengono la dipendenza della periferia per mezzo delle
organizzazioni internazionali è altrettanto contestabile
della tesi che gli spin-off-effects, indotti dalle ‛relazioni di
interazione asimmetrica', debbano sempre e necessariamente tornare a
vantaggio degli Stati industriali (v. anche Schäfer, 1972, pp.
29 ss.). Comunque, sebbene le teorie dell'imperialismo appena
considerate trascendano il problema di un'interpretazione degli
imperialismi storici e corrano il rischio di trasformarsi in un
gioco di formule vuote, esse possono tuttavia fornire un contributo
importante ai gravi problemi che oggi si pongono nei rapporti tra
Stati industriali e paesi del Terzo Mondo. E ciò è
tanto più vero in quanto esse liberandosi della dicotomia
sistema socialista-sistema capitalista, prendono in considerazione
gli effettivi rapporti di dipendenza che si rinnovano
incessantemente, e che possono avere origine sia nel dominio
coloniale sia nel rapporto antagonistico oggi esistente tra i grandi
sistemi ideologici mondiali.
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