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Biografia
Figlio di un liberale, Paolo Emilio Imbriani, e nipote del poeta
risorgimentale Alessandro Poerio, di cui la madre Carlotta Poerio
era sorella, seguì fin da bambino (1849) il padre in
esilio, dove trascorse la sua giovinezza, dapprima a Nizza e poi a
Torino, dove la famiglia si stabilì nel 1856. Nel 1858
seguì a Zurigo i corsi su Petrarca e la letteratura
cavalleresca tenuti da Francesco de Sanctis, che il giovane
venerò come un maestro fino alla rottura intervenuta per
insanabili divergenze politiche e di carattere personale (Imbriani
« ritenne De Sanctis - a torto - colpevole di un proprio
insuccesso amoroso »).[1] Nel 1859 partì volontario
per la seconda guerra di indipendenza, in cui non poté
combattere per l’improvvisa pace separata tra Francia e Austria.
Nel 1860 proseguì gli studi a Berlino dove studiò
letteratura e filosofia e approfondì il pensiero di Hegel
convertendosi a un assolutismo monarchico reggente uno Stato
etico. Era una posizione politica splendidamente reazionaria, che
ne fece però un isolato anche nella parte politica, la
destra storica, in cui pure militò tutta la vita:
«L’individuo, secondo me, non esiste, non debbe esistere che
per e nello stato; a questo Moloch deve sacrificare tutto,
libertà, affetto, opinioni».
Nel 1861 tornò a Napoli, anche per evitare gli strascichi
giudiziari d’uno dei suoi tanti duelli, e due anni dopo vi ottenne
la libera docenza di estetica pubblicando la prolusione Del valore
dell’arte forestiera per gli Italiani. Ebbe inizio in questo
periodo con il suo grande amico Alfonso Ridola avvocato e
letterato un’intensa attività giornalistica in varie
riviste del tempo a cui dedicò tutta la sua vita. Nel 1866
tenne un corso di estetica alla stessa università che
pubblicò in opuscolo col titolo Dell’organismo poetico e
della poesia popolare italiana; nello stesso anno partì
volontario garibaldino per la terza guerra di indipendenza e
partecipò alla battaglia di Bezzecca dove fu catturato e
inviato in prigionia in Croazia. Mentre era di stanza con la sua
brigata a Gallarate, conobbe Eleonora Bertini, moglie del nobile
Luigi Rosnati, con la quale ebbe una lunga e intensa relazione
amorosa e di cui fu precettore delle due figlie.
Tornato dopo pochi mesi a Napoli dalla prigionia, dove s’era
diffusa la falsa notizia della sua morte, tranne soggiorni
più o meno lunghi a Firenze (1867- 1870) e Roma (1871), non
vi si mosse più e da allora proseguì una frenetica
attività culturale in tutti i campi del sapere letterario,
politico e critico-saggistico, di cui sono testimonianza varie
pubblicazioni e l’intensa collaborazione a molte riviste della
destra risorgimentale o storica. Nel 1872 fondò con
Bertrando Spaventa e Francesco Fiorentino il «Giornale
napoletano di filosofia e lettere», d’indirizzo hegeliano.
Nel 1876 visse come tragedia nazionale l’ascesa al potere della
sinistra risorgimentale tanto da mettere il lutto per l’occasione:
«Io non so rassegnarmi alla vergogna ed all’obbrobrio. Io
non so rassegnarmi a vivere disprezzando la mia patria,
disprezzando il governo che la regge. Questo stato è mille
volte peggiore della morte. Io non mi ci posso fare assolutamente
in alcun modo. Stupisco, che altri possa serbare intatta la
serenità dell’anima, mentre gli viene disonorata e
sfasciata la patria: ma non vorrei essere anch’io di
quelli»; e intensificò l’attività politica
fino a essere eletto consigliere provinciale nel mandamento di
Pomigliano d'Arco. Nel 1877 partecipò al concorso per la
cattedra di letteratura italiana dell’Università di Napoli,
ma venne respinto; subodorò motivi politici nella
bocciatura e fece ricorso al re per cambiare il giudizio della
commissione, a capo della quale v’era quel Carducci che Imbriani
aveva attaccato veementemente per i trascorsi repubblicani e il
recente voltafaccia filomonarchico.
Nel 1878 sposò a Milano Gigia Rosnati, figlia minore
dell’ex amante, molto più giovane di lui e a differenza di
lui molto religiosa. Nel 1879 nacque il primogenito Paolo Emilio
II, che morì due anni dopo nel 1881, anno della nascita
della secondogenita Carlotta, destinata anch’essa a una morte
precocissima. Ma i guai privati ebbero una brusca svolta con la
malattia contratta nel 1880, la tabe dorsale, che lo ridusse
progressivamente a una paralisi completa. Ciò non
gl’impedì di pubblicare e collaborare a riviste anche negli
ultimi anni di vita. Nel 1884 gli venne resa giustizia e assegnata
la cattedra di letteratura italiana dell’Università di
Napoli, ma essendo la malattia in stadio troppo avanzato non
poté tenere alcuna lezione. Il primo gennaio del 1886
Vittorio Imbriani, ridotto a un tronco umano, morì nella
città natale.
Traccia viva e immediata di quest’esistenza piuttosto breve ma
fitta d’uomini donne e di cose restano i suoi Carteggi, pubblicati
in due volumi: Vittorio Imbriani intimo, lettere familiari e diari
inediti e Gli Hegeliani di Napoli e altri corrispondenti letterati
ed artisti, a cura di N. Coppola, Roma, Istituto di Storia del
Risorgimento, 1963-64.
Saggi e studi
Della vasta opera di Vittorio Imbriani come studioso del grande
passato d'Italia su cui costruire e migliorare il deludente
presente, a cui nulla sapeva perdonare il suo temperamento
inflessibile, si fa cenno di alcune delle cose più
importanti.
Attento studioso della letteratura popolare, che andava integrata
nella sua visione organica nell'alveo letterario della nuova
nazione unita, raccolse e pubblicò a più riprese
fiabe, canti e novelle di tradizione orale. Spiccano La
novellaja fiorentina (Napoli 1871), ripubblicata con
l'integrazione de La novellaja milanese a Livorno nel
1877, i Canti popolari delle provincie meridionali
pubblicati per i tipi di Loescher (1871- 72) e i XII conti
pomiglianesi pubblicati a Napoli nel 1877.
Simile esigenza di integrazione nazionale ha il suo interessamento
e studio della lingua, di cui fu, con Tommaseo, per unanime
riconoscimento critico, il massimo esperto del suo secolo, che
voleva preservata in tutta la sua ricchezza, apporto di tutti i
dialetti d’Italia, contro la pruderie toscaneggiante: «Io
non vorrei però che toscaneggiassimo, perché aborro
le mascherate, soprattutto nello stile; il Giusti dice così
bene che la lue di voci pellegrine fa l'anime false; ma si
falserebbe anche l'animo del Lombardo e del Siciliano, quando gli
volessero fare esprimere i propri affetti ed i propri pensieri in
un linguaggio, che non è prodotto dalla sua mente, che non
risponde alla conformazione del suo cerebro, a' suoi bisogni
morali ed intellettuali. La lingua Italiana, essa sì, vi
risponde; perché vi abbiamo tutti collaborato: quindi
possiamo e dobbiamo servircene, per esprimere tutto il nostro
retaggio comune. Quantunque è poi speciale, municipale, non
può bene esprimersi da ciascuno, se non nel suo rispettivo
dialetto »; e che voleva adatta ai nuovi tempi, con libero
uso di forestierismi, anzitutto i gallicismi, contro le fisime dei
puristi: «Io, sappilo, sono un lassista senza paura e senza
rimorsi. Lassista deliberatamente, non apro i Vocabolari de'
gallicismi, se non per fare tesoro delle parole, che vi sono poste
alla berlina, appunto come il governo Italiano ha preso i galeotti
politici de' Borboni per popolare il Senato, le cattedre, i
tribunali, le amministrazioni». Era una posizione teorica
della lingua come fatto sociale che si riverberava poi in un ben
preciso e inconfondibile stile di scrittura, contrario ai gusti e
le mode letterarie correnti. Importanti sono per la questione
della lingua nel nuovo Stato unitario gli Appunti critici, editi a
Napoli nel 1878.
In ambito di riscoperta del grande passato letterario contrapposto
polemicamente al presente, v’è l’indagine e lo studio degli
amati autori del cinque e seicento meridionale. Pietra miliare
resta il suo studio su Giovan Battista Basile che segna la
riscoperta di questo artista prima d’allora poco considerato: Il
gran Basile: studio biografico e bibliografico (Napoli
1875). Ma va citata almeno la pubblicazione a sua cura della
Posilecheata di Pompeo Sarnelli (Napoli 1885) pochi mesi prima di
morire, quando la salute era ormai devastata dalla malattia.
Una menzione a parte meritano gli studi su Dante, fonti anch’essi
di memorabili scontri coi dantisti fautori di tesi opposte, che
furono raccolti e pubblicati postumi a cura di Felice Tocco (Studi
danteschi, Firenze 1891).
Da citare dei suoi studi estetici l’interessante “teoria della
macchia” in pittura, che mostra un Imbriani acuto osservatore, pur
dal suo “splendido isolamento” di reazionario, della realtà
artistica contemporanea: «la macchia è un accordo di
toni, cioè di ombra e di luce, atto a suscitare nell'animo
un qualsivoglia sentimento esaltando la fantasia fino alla
produttività... La macchia è la parte subjettiva del
quadro; mentre invece l’esecuzione è la parte obiettiva,
è il soggetto che si fa valere e s’impone». Brillante
e spesso polemica con artisti e soprattutto critici d’arte
è la raccolta delle sue cronache sull'omonima mostra
napoletana La quinta Promotrice (1868).
E di questa spesso risentita osservazione del presente vanno
almeno ricordate le giustamente definite “terribili” Fame
usurpate date in stampa a Napoli nel 1877, raccolta di
quattro saggi critici che sono altrettante stroncature dei poeti
Aleardo Aleardi e Giacomo Zanella, del Faust di Goethe e delle
traduzioni di Andrea Maffei. E nondimeno, anche per i risvolti
biografici, i due scritti contro Giosuè Carducci: Uno
sguaiato Giosuè, uscito sulla rivista “La Patria” nel
1868, e l’ode Alla regina un monarchico, che replicava
polemicamente all’ode carducciana Alla regina d'Italia.
Scritti politici
Altrettanto ampia l'attività di scrittore di cose
politiche, per la più parte disseminata nelle numerose
riviste alle quali nel corso di tutta una vita diede
collaborazione. Il tratto principale d'essi è un'esigenza
anzitutto morale d'intransigente opposizione a un andazzo della
cosa pubblica ritenuto debole, corrotto e indegno della passata
grandezza del paese e della forza e saldezza necessaria alla
nazione di recente unificata; intransigenza che s'incrudì
con l'ascesa della sinistra e che seppe giungere a una simile
paradossale affermazione, dove Cesare Borgia e Maramaldo assurgono
a simboli di buongoverno: «Che bella Italia sarebbe stata
quella, che avesse avuto a capo un Cesare Borgia, per ministri de'
Machiavelli, de' Guicciardini, de' Pontano, per generali de'
Bartolomeo d'Alviano, de' Piero Strozzi, de' Renzo da Ceri, de'
Fabrizio Maramaldo, per capo dell'istruzion pubblica un Bembo, per
poeti aulici Ariosto, Trissino, Tasso...Ahimè invece... ma
che cosa mi ha fatto questo povero foglio di carta per
contaminarlo co' nomi de' nostri contemporanei». Da notare
anche che quel Pietro Bembo a capo dell'istruzione è ben
probabile una sarcastica allusione a Francesco de Sanctis, l'ex
venerato maestro, che detestava il Bembo e che per allora era
l'effettivo ministro dell'istruzione del governo di sinistra.
In questo senso va valutato anche il leitmotiv imbrianesco
dell'applicazione inflessibile della pena capitale, che ricorre in
alcune opere letterarie (infra) e che fu trattato esplicitamente
in alcuni scritti di grande forza polemica: Per la pena
capitale, Napoli, 1865; Pena capitale e duello,
Bologna, 1869. Fino a giungere all'esaltazione poetica del tema
nell'ode Inno al cànape d'un monarchico (1881).
Ma per avere un'idea degli argomenti e della vis polemica dei suoi
scritti politici si può utilmente consultare le raccolte
degli interventi giornalistici: Passeggiate romane, a cura
di M. Praz, Bologna, Boni, 1980; e Ghiribizzi politici, a
cura di N. Coppola in osservatorio politico-letterario, Roma,
1956; riediti a cura di B. Iezzi, Massa Lubrense, 1983.
Il titolo di quest'ultima raccolta col termine "ghiribizzi"
rimanda efficacemente al punto di vista e lo stile tutti propri e
particolari con cui Vittorio Imbriani interveniva sulle questioni
politiche del suo tempo.
Opere letterarie
Nelle opere letterarie di Vittorio Imbriani confluiscono tutti i
suoi studi, le sue inclinazioni e le sue avversioni. Ciò
che dà spesso una ventata d'estro ai suoi testi letterari.
Ma il bizzoso, il ghiribizzoso, la bizzarria non sono tanto lo
sfogo umorale d’un capo ameno seppur brillante e acutissimo
d’ingegno, quanto una vera e propria macchina da guerra contro i
gusti e le convenzioni letterarie del tempo.
I due romanzi, Merope IV (1867) e Dio ne scampi dagli
Orsenigo (1876) sono la parodizzazione e il ribaltamento
ironico dei romanzi sentimentali torbidamente psicologici in cui
il secondo ottocento romantico si compiaceva di rappresentare i
suoi amori proibiti, da una parte ammantando di
eccezionalità i personaggi e le storie raccontate,
dall’altra ammiccando al gusto patetico e sentimentale dei
lettori, che s'identificassero e compatissero con loro.
L’operazione “perfida” d’Imbriani non è solo d’illustrare
nei suoi romanzi la tesi dissacrante che il rapporto adulterino
è giogo più pesante e noioso del matrimonio stesso:
«Non presumo sputar fuori ned un paradosso, ned una
novità; credo, anzi, ripeter cosa, ormai, consentita, da
chiunque s’intenda, alcun po’, della partita; dicendo che una
relazione è, quasi sempre, più pesante del
matrimonio»; ma per giunta di smontare l’impalcatura
narrativa, la struttura formale su cui i romanzi si reggevano e
assecondavano le aspettative del lettore-tipo di quel prodotto
letterario. E quest’opera di “guerrigliero”, di guastatore del
gusto letterario corrente, insomma di distruzione letteraria che
così a fondo fu condotta solo decine d’anni dopo dalle
avanguardie primonovecentesche, Imbriani poté anticiparla
paradossalmente proprio per la sua posizione di retroguardia in
letteratura e reazionaria in politica. Posto importante in
quest’opera di caustica distruzione ha la sua sterminata
conoscenza linguistica e culturale, che egli usa
indiscriminatamente in un miscuglio di registri differenti di
lingua e di citazioni erudite fatte per interrompere e sviare il
flusso del racconto. L'effetto di straniamento che si ottiene
impedisce scontrosamente qualunque facile abbandono alla lettura e
all'immedesimazione e può essere considerato il
corrispettivo, nello stile, dell’indignazione e del risentimento
morale imbrianesco. Ma erano romanzi forse troppo spiazzanti nel
pastiche linguistico e nella demolizione della macchina narrativa
per essere apprezzati appieno allora, e aspettavano probabilmente
lettori più scafati per essere apprezzati in tutti i pregi
che indubbiamente hanno.
Dei racconti d'Imbriani mette conto accennare almeno ai testi che
più hanno destato interesse editoriale e contribuito alla
recente reviviscenza di questo autore.
La bella bionda. È un racconto lungo ambientato
nella Napoli del tempo, e che più correva il rischio di
cadere nel bozzettismo d'ambiente o nel realismo patetico di certe
descrizioni delle classi umili. L'autore mette invece in primo
piano l'ignavia e la corruzione della classe politica d'allora
nella figura di Mimì Squillacciotti, che, brigato
perché la bella Ersilia, orfana e povera, ottenesse un
posto di maestra dopo averne fatto la sua amante, e attaccato per
questo dai propri avversari politici non meno corrotti di lui,
crolla politicamente portandosi dietro di sé, incapace di
difenderla, la sua amante, che perde il posto e la sicurezza
economica conquistata. Ma la scelta cinicamente consapevole della
bella bionda di usare le sue grazie per procacciarsi da vivere
autonomamente riscatta questa figura femminile — e il racconto —
dalla fine strappalacrime che sembrava profilarsi. Tale
consapevolezza, anche se con un po' di forzatura anacronistica, ha
fatto definire questo racconto dalla casa editrice che di recente
l'ha riedito: «il primo romanzo femminista italiano».
Mastr'Impicca. Anche qui, però in controluce, è satireggiata l'imbelle classe politica del tempo e le sue istituzioni. Ma il modello letterario in cui l'autore trasfonde la satira, il racconto fantastico popolaresco o fiaba, libera maggiormente l'estro e il divertimento nel trattare il tema.
La novella del vivicomburio. È il racconto dove più esplodono i fuochi d'artificio linguistici d'Imbriani. La scelta del modello letterario e del tema scabroso contribuiscono in buona misura a questo risultato. La veste boccaccesca del racconto, l'esplicitezza del linguaggio e delle metafore sessuali mutuata dai pornografi del cinquecento come l'Aretino, l'uso della lingua furbesca, il gergo furfantesco del cinquecento, fanno di questo racconto in cui l'Imbriani ritorna sul tema prediletto della pena capitale un esercizio di bravura stilistica che teme pochi confronti. Ma anche qui, con quell'intuizione del mondo cinica e beffarda propria di questo magnifico reazionario, il personaggio più straordinario è il capitano genovese dell'equipaggio di sodomiti, tale Parodi, che fin sopra il rogo che lo brucerà vivo ― di qui il termine vivicomburio ― proclamerà coram populo la supremazia della sua scelta sessuale sull'altra banalmente normale: sodomita impenitente fino all'ultimo. Alcune citazioni di passi della novella possono dar conto dello straordinario gioco linguistico
« Chi v'immaginate, ch'io mi sia? O fottermi come si
conviene o menarvi la rilla. Ite ne' bronti di via Calabraghe:
lì forse troverete brocchiere pronte a darvi il messere per
qualche lampante di civetta o per poco di albume. Io no, io.
»
«Marinaracci, buscanti, soliti ad andare in zoccoli per lo
asciutto, rimanevan frigidi e scorgendo e palpando il più
bel paio di mammellette, il più morvido pettignone e
peloso; ma subito, ma ratto, vincendoli non so qual furia o fuoco
o foia, gli s'inalberava lo scatapocchio allo aspetto od al tatto
d'un paio di chiappe, di pacche, di mele.»
L’impietratrice. La sterminata erudizione
dell’Imbriani, che nei romanzi è usata per sviare
sardonicamente la narrazione, in questa “panzana”, tale è
definita dall’autore, è usata per avviare invece la
possibilità d’un diverso svolgimento storico, d’un’ucronia.
Che il duca Valentino dopo la sconfitta in Italia sia morto in
Spagna, è storia solo per chi conosce appena le fonti
più note. Per chi come Imbriani è a conoscenza di
tante rarità librarie, l’ultima parte di vita di Cesare
Borgia ha ben altro esito. Che poi questo scorcio di biblioteca
imbrianesca che sorregge la tesi storica, “preborgesianamente”,
come è stato detto, mescoli edizioni false ma plausibili a
edizioni vere ma improbabili, come può il povero lettore,
impotente di fronte a tanto sfoggio di cultura, accorgersene? E
così citazione dopo citazione libresca Cesare Borgia
raggiunge il nuovo mondo e convince per amore la medusa atzeca, la
bellissima principessa che pietrifica chiunque la fissi negli
occhi, Ciaciunena l’impietratrice, a essere strumento della sua
vendetta e cambiare il corso storico delle cose italiane. Ma
innamoratosi anche lui, l’audacia e la confidenza che anche come
amante dimostra lo perde, e viene inavvertitamente pietrificato
dalla fanciulla. Che disperata, vuole almeno portare a termine la
vendetta dell’uomo che amava, e giunge in Vaticano alla presenza
di Giulio II per pietrificare il papa e tutta la sua corte. Ma,
com’è come non è, i suoi poteri lapidificatori
decadono in questo emisfero e Giulio II scampa alla
pietrificazione quanto al corpo; «quanto al cuore
dell’augusto vegliardo, già da prima e da un pezzo era di
sasso, di macigno, di scoglio», come lapidariamente –
è il caso di dire – soggiunge l’explicit di questa
serissima panzana. Neppure nel gioco letterario l’acre pessimismo
d’Imbriani che colora di tragico il cinico e il beffardo della sua
intuizione del mondo si placa. Né la storia d’Italia sa
mutarsi in meglio e far pendere le sorti in favore della santa
ambizione di Cesare Borgia d’unificarla. Sicché questa
panzana che così bizzarramente illustra il suo pessimismo
scava ben a fondo nelle scelte politiche d’Imbriani mettendo in
luce e mostrando una delle convinzioni e degli atteggiamenti che
infondono il suo spirito reazionario.
La controversa fortuna
Che alla turbinosa vita di questo scrittore così singolare
sia succeduta un’altrettanto accidentata fortuna e fama postuma, a
questo punto non è da stupire. Mette dunque conto in
chiusura di questa voce illustrarla brevemente.
L'atteggiamento costantemente polemico d'Imbriani verso i
contemporanei in ogni campo: politico, culturale, letterario
spiega l'eclissi dello scrittore intervenuta con la morte
dell'uomo. Sarà Croce a recuperare agli inizi del Novecento
quell'autore particolare che però era appartenuto
all'entourage dello zio e maestro Bertrando Spaventa. Ma pure in
quest'opera meritoria restava confermato in Croce il giudizio
scisso d'un Imbriani studioso serio e capace ma scrittore umorale
e bizzarro, come il titolo dell'antologia di scritti imbrianeschi
da lui curata subito rivela: Studi letterari e bizzarrie
satiriche (1907).
Toccherà a Gianfranco Contini oltre la metà del
secolo scorso (1968) a dare indicazione d'una lettura unitaria
della vicenda d'Imbriani, accostando il suo caso e il suo stile a
quello di Carlo Emilio Gadda, la cui grandezza veniva pienamente
riconosciuta in quel torno di tempo. Da allora gli studi e le
pubblicazioni d'Imbriani secondo il suggerimento di
quell'autorità indiscussa in letteratura che fu Contini si
sono susseguiti abbastanza regolarmente, e se pure il "misantropo
napolitano", come Imbriani stesso ebbe a definirsi, resta ancora
uno scrittore piuttosto "di nicchia", la sua presenza e importanza
anche in letteratura è oggi pacifica e riconosciuta dalla
critica più avvertita.
Quanto all'unità dell'uomo e dello scrittore, dello
studioso e del letterato sintetizzata in quello stile così
bizzarro e scorbutico, altra acquisizione ormai tutta compiuta
dalla critica moderna, anche per Vittorio Imbriani possono valere
alcune dichiarazioni che il gran lombardo fece della sua
concezione di letteratura e di stile: «Nella mia vita di
“umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta,
lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia”
verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento
della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi
umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della
vendetta». Era un'idea dell'esercizio letterario che non
poteva certo avvalersi come strumento stilistico della
«lingua dell'uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente
apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto
grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie». In questo
senso la trasgressione e l'eccesso nello stile possono
considerarsi anzitutto e principalmente come insofferenza e
dirompente superamento di quell'angusto orizzonte linguistico.