Le riflessioni di Gramsci su Sorel


Q1 §31 Lettere del Sorel al Croce. Nelle lettere del Sorel al Croce si può spigolare più di un elemento sul «lorismo» o «lorianismo». Per esempio, il fatto che nella tesi di laurea di Arturo Labriola si scrive come se si credesse che il Capitale di Marx è stato elaborato sull’esperienza economica francese e non su quella inglese.

Q1 §45 America e Europa. Madison Grant (scienziato e scrittore di grande fama), presidente della Società biologica di New York, ha scritto un libro Una grande stirpe in pericolo in cui «denuncia» il pericolo di un’invasione «fisica e morale» dell’America da parte degli Europei, ma restringe questo pericolo nell’invasione dei «mediterranei», cioè dei popoli che abitano nei paesi mediterranei. Il Madison Grant sostiene che, fin dal tempo di Atene e di Roma, l’aristocrazia greca e romana era composta di uomini venuti dal Nord e soltanto le classi plebee erano composte di mediterranei. Il progresso morale e intellettuale dell umanità fu dunque dovuto ai «nordici», Per il Grant i mediterranei sono una razza inferiore e la loro immigrazione è un pericolo; essa è peggiore di una conquista armata e va trasformando New York e gran parte degli Stati Uniti in una «cloaca gentium». Questo modo di pensare non è individuale: rispecchia una notevole e predominante corrente di opinione pubblica degli Stati Uniti, la quale pensa che l’influsso esercitato dal nuovo ambiente sulle masse degli emigranti è sempre meno importante dell’influsso che le masse degli emigranti esercitano sul nuovo ambiente e che il carattere essenziale della «miscela delle razze» è nelle prime generazioni un difetto di armonia (unità) fisica e morale nei popoli e nelle generazioni seguenti un lento ma fatale ritorno al tipo dei vari progenitori.

Su questa quistione delle «razze» e delle «stirpi» e della loro boria alcuni popoli europei sono serviti secondo la misura della loro stessa pretesa. Se fosse vero che esistono razze biologicamente superiori, il ragionamento del Madison Grant sarebbe abbastanza verosimile. Storicamente, data la separazione di classe‑casta, quanti romani‑ariani sono sopravvissuti alle guerre e alle invasioni? Ricordare la lettera di Sorel al Michels, «Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica», settembre‑ottobre 1929: «Ho ricevuto il vostro articolo su la “sfera storica di Roma”, le cui tesi sono quasi tutte contrarie a ciò che lunghi studi m’hanno mostrato essere la verità più probabile. Non c’è paese meno romano dell’Italia; l’Italia è stata conquistata dai Romani perché essa era altrettanto anarchica quanto i paesi berberi; essa è rimasta anarchica per tutto il Medio Evo, e la sua propria civiltà è morta quando gli Spagnoli le imposero il loro regime amministrativo; i Piemontesi hanno compiuto l’opera nefasta degli Spagnoli. Il solo paese di lingua latina che possa rivendicare l’eredità romana è la Francia, dove la monarchia si è sforzata di mantenere il potere imperiale. Quanto alla facoltà d’assimilazione dei Romani, si tratta di uno scherzo. I Romani hanno distrutto la nazionalità sopprimendo le aristocrazie». Tutte queste quistioni sono assurde se si vuole fare di esse elementi di una scienza e di una sociologia politica. Rimane solo il materiale per qualche osservazione di carattere secondario che spiega qualche fenomeno di secondo piano.

Q2 §75 R. Michels, Les Partis politiques e la contrainte sociale
[...]
Rapporti tra Michels e Sorel: lettera di Sorel a Croce in cui accenna alla superficialità di Michels e tentativo meschino del Michels per togliersi di dosso il giudizio del Sorel. Nella lettera al Croce del 30 maggio 1916 («Critica», 20 settembre 1929, p. 357) il Sorel scrive: «Je viens de recevoir une brochure de R. Michels, tirée de Scientia, mai 1916: “La débacle de L’Internatioriale ouvrière et l’avenir”. Je vous prie d’y jeter les yeux; elle me semble prouver que l’auteur n’a jamais rien compris à ce qui est important dans le marxisme. Il nous présente Garibaldi, L. Blanc, Benoit Malon (!!) comme les vrais maîtres de la pensée socialiste…». (L’impressione del Sorel deve essere esatta – io non ho letto questo scritto del Michels – perché essa colpisce in modo più evidente nel libro del Michels sul movimento socialista italiano, Edizioni della «Voce»).
Nei «Nuovi studi di Diritto, Economia e Politica» del settembre‑ottobre 1929, il Michels pubblica cinque letterine inviategli dal Sorel (1a nel 1905,2a nel 1912 3a nel 1917, 4a nel 17, 5a nel 17) di carattere tutt’altro che confidenziale, ma piuttosto di corretta e fredda convenienza, e in una nota (v. p. 291) scrive a proposito del su citato giudizio: «Il Sorel evidentemente non aveva compreso (!) il senso più diretto dell’articolo incriminato, in cui io avevo accusato (!) il marxismo di lasciarsi sfuggire (!) il lato etico del socialismo mazziniano ed altro, e di aver, esagerando il lato meramente economico, portato il socialismo alla rovina. D’altronde, come risulta dalle lettere già pubblicate (quali lettere? quelle pubblicate dal Michels, queste cinque in parola? esse non dicono nulla), lo scatto (in corsivo dal Michels, ma si tratta di ben altro che scatto; per il Sorel si tratta, pare, di conferma di un giudizio già fatto da un pezzo) del Sorel nulla tolse ai buoni rapporti (!) coll’autore di queste righe». In queste note nei «Nuovi Studi», il Michels mi pare tende ad alcuni fini discretamente interessanti e ambigui: a gettare un certo discredito sul Sorel come uomo e come «amico» dell’Italia e a far apparire se stesso come patriotta italiano di vecchia data. Ritorna questo motivo molto equivoco nel Michels (credo di aver notato altrove la sua situazione allo scoppio della guerra). È interessante la letterina di Sorel a Michels del 10 luglio 1912: «Je lis le numéro de la Vallée d’Aoste che vous avez bien voulu m’envoyer. J’y ai remarqué que vous affirmez un droit au séparatisme qui est bien de nature à rendre suspect aux Italiens le maintien de la langue française dans la Vallée d’Aoste», Michels nota che si tratta di un numero unico: «La Vallée d’Aoste pour sa langue française», pubblicato nel maggio 1912 ad Aosta dalla tipografia Margherittaz, sotto gli auspici di un Comitato locale valdostano per la protezione della lingua francese (collaboratori, Michels, Croce, Prezzolini, Graf, ecc.). «Inutile dire che nessuno di questi autori aveva fatta sua, come con soverchia licenza poetica si esprime il Sorel, una qualsiasi tesi separatista». Il Sorel accenna solo al Michels ed io sono portato a credere che egli abbia veramente per lo meno accennato al diritto al separatismo (bisognerebbe controllare nel caso di una presentazione del Michels che sarà necessaria un giorno).

Q3 §59 Passato e presente. L’influsso intellettuale della Francia. Ci siamo veramente liberati o lavoriamo effettivamente per liberarci dall’influsso francese? A me pare, in un certo senso, che l’influsso francese sia andato aumentando in questi ultimi anni e che esso andrà sempre più aumentando. Nell’epoca precedente, l’influsso francese giungeva in Italia disorganicamente come un fermento che metteva in ebollizione una materia ancora amorfa e primitiva: le conseguenze erano, in un certo senso, originali. Anche se la spinta al movimento era esterna, la direzione del movimento era originale, perché risultava da una componente delle forze indigene risvegliate. Ora invece, si cerca di limitare o addirittura di annullare questo influsso «disorganico», che si esercitava spontaneamente e casualmente, ma l’influsso francese è stato trasportato nel sistema stesso, nel centro delle forze motrici che vorrebbero appunto limitare e annullare. La Francia è diventata un modello negativo, ma siccome questo modello negativo è una mera apparenza, un fantoccio dell’argomentazione polemica, la Francia reale è il modello positivo. La stessa «romanità» in quanto ha qualcosa di efficiente, diventa un modello francese, poiché, come giustamente osserva il Sorel (lettere al Michels pubblicate nei «Nuovi Studi di Politica Economia Diritto»), la tradizione statale di Roma si è conservata specialmente nel centralismo monarchico francese e nello spirito nazionale statale del popolo francese. Si potrebbero trovare curiose prove linguistiche di questa imitazione: i marescialli dopo la guerra, il titolo di direttore della Banca d’Italia cambiato in governatore ecc. C’è nella lotta Francia‑Italia sottintesa una grande ammirazione per la Francia e per la sua struttura reale e da questa lotta nasce un influsso reale enormemente più grande di quello del periodo precedente. (Nazionalismo italiano copiato da nazionalismo francese ecc.: era la traccia, ben più importante che il mimetismo democratico, che questo influsso reale era già nato nel periodo precedente).

Q3 §132 Lorianismo. Paolo Orano. A proposito dei rapporti tra gli intellettuali sindacalisti italiani e Sorel occorre fare un confronto tra i giudizi che su di essi il Sorel ha pubblicato recensendone i libri (nel «Mouvement socialiste» e altrove) e quelli espressi nelle sue lettere al Croce. Questi ultimi illuminano i primi di una luce spesso ironica o reticente: cfr il giudizio su Cristo e Quirino di P. Orano pubblicato nel «Mouvement socialiste» dell’aprile 1908 e quello nella lettera al Croce in data 29 dicembre 1907: evidentemente il giudizio pubblico era ironico e reticente, ma l’Orano lo riporta nella edizione Campitelli, Foligno, 1928, come se fosse di lode1.

Q4 §1
[...]
Conseguono da ciò parecchie avvertenze di metodo e alcune indicazioni per ricerche collaterali. Che valore ha il libro di Mondolfo sul Materialismo storico di Federico Engels? Il Sorel (in una sua lettera a B. Croce) pone il dubbio che si possa studiare un argomento di tal fatta, data la scarsa capacità di pensiero originale dell’Engels. A parte la quistione di merito accennata dal Sorel, mi pare che per il fatto stesso che si suppone una scarsa capacità teoretica in Engels (per lo meno una sua posizione subalterna in confronto a Marx), sia indispensabile ricercare le differenze tra il Marx che dirò autentico e l’Engels, per essere in grado di vedere ciò che non è marxistico nelle esposizioni che l’Engels fa del pensiero del suo amico: in realtà nel mondo della cultura questa distinzione non è mai fatta e le esposizioni di Engels, relativamente sistematiche (specialmente Antidühring), sono assunte come fonte autentica e spesso come sola fonte autentica. Il libro del Mondolfo mi pare perciò molto utile, a parte il suo valore intrinseco che ora non ricordo, come indicazione di una via da seguire.

Q4

§3 Due aspetti del marxismo. Il marxismo è stato un momento della cultura moderna: in una certa misura ne ha determinato e fecondato alcune correnti. Lo studio di questo fenomeno molto importante e significativo è stato trascurato o è addirittura ignorato dai marxisti «ufficiali» per questa ragione: che esso ha avuto per tramite la filosofia idealista, ciò che ai marxisti legati essenzialmente alla particolare corrente di cultura dell’ultimo quarto del secolo scorso (positivismo, scientismo) pare un controsenso. Per questo mi pare da rivalutare la posizione di Antonio Labriola. Perché? Il marxismo ha subito una doppia revisione, cioè ha dato luogo a una doppia combinazione. Da un lato alcuni suoi elementi, esplicitamente o implicitamente, sono stati assorbiti da alcune correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson ecc., i pragmatisti ecc.); dall’altra i marxisti «ufficiali», preoccupati di trovare una «filosofia» che contenesse il marxismo, l’hanno trovata nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche in correnti idealistiche come il Kantismo (Max Adler). Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri con la sua affermazione che il marxismo stesso è una filosofia indipendente e originale. In questa direzione occorre lavorare, continuando e sviluppando la posizione del Labriola. Il lavoro è molto complesso e delicato. Perché il marxismo ha avuto questa sorte, di apparire assimilabile, in alcuni suoi elementi, tanto agli idealisti che ai materialisti volgari? Bisognerebbe ricercare i documenti di questa affermazione, ciò che significa fare la storia della cultura moderna dopo Marx e Engels.

Per gli idealisti: vedere quali elementi del marxismo sono stati assorbiti «esplicitamente», cioè confessatamente. Per esempio, il materialismo storico come canone empirico di ricerca storica del Croce, che ha introdotto questo suo concetto nella cultura moderna, anche fra i cattolici (cfr Olgiati) in Italia e all’estero, il valore delle ideologie ecc.; ma la parte più difficile e delicata è la ricerca degli assorbimenti «impliciti», non confessati, avvenuti perché appunto il marxismo è stato un momento della cultura, una atmosfera diffusa, che ha modificato i vecchi modi di pensare per azioni e reazioni non apparenti o non immediate. Lo studio del Sorel può dare molti indizi a questo proposito. Bisognerebbe però studiare specialmente la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico del marxismo; così per il Croce e Gentile ecc.

Un altro aspetto della quistione è l’insegnamento pratico che il marxismo ha dato agli stessi partiti che lo combattono per principio, così come i gesuiti combattevano Machiavelli pur applicandone i principii (in una «Opinione» pubblicata dal Missiroli nella «Stampa» del 1925 o 26 su per giù si dice: «Sarebbe da vedere se nell’intimo della loro coscienza, gli industriali più intelligenti non siano persuasi che Marx abbia visto molto bene nelle cose loro» o qualcosa di simile). Ciò è naturale, perché se Marx ha esattamente analizzato la realtà, egli non ha fatto che sistemare razionalmente ciò che gli agenti storici di questa realtà sentono confusamente e istintivamente.

L’altro aspetto della quistione è ancor più interessante. Perché anche i marxisti ufficiali hanno «combinato» il marxismo con una filosofia non marxista? Cfr R. Luxemburg in volumetto su Marx. Nel campo filosofico mi pare che la ragione storica sia da ricercare nel fatto che il marxismo ha dovuto allearsi con tendenze estranee per combattere i residui del mondo precapitalistico nelle masse popolari, specialmente nel terreno religioso. Osservazione di Sorel a proposito di Clemenceau e il marxismo nella lettera a Missiroli. Il marxismo aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata e rischiarare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, ha assorbito tutte le forze, non solo «quantitativamente», ma «qualitativamente»; per ragioni «didattiche» il marxismo si è confuso con una forma di cultura un po’ superiore alla mentalità popolare, ma inadeguata per combattere le altre ideologie delle classi colte, mentre il marxismo originario era proprio il superamento della più alta manifestazione culturale del suo tempo, la filosofia classica tedesca. Ne è nato un «marxismo» in «combinazione» buono per la letteratura di cui parla il Sorel, ma insufficiente per creare un vasto movimento culturale che abbracci tutto l’uomo, in tutte le sue età e in tutte le sue condizioni sociali, unificando moralmente la società.

Q4 §31 Di Giorgio Sorel vedi p. 78. La «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 pubblica un lungo articolo (da p. 289 a p. 307) intitolandolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito). Si tratta di un saggio, scritto nel 1920, che doveva servire di prefazione ad una raccolta di articoli pubblicati dal 1910 al 1920 in giornali italiani e che ancora non è stata pubblicata (nel 1929 sembrava imminente la pubblicazione presso la Casa Ed. «Corbaccio» di Milano di questa raccolta, a cura di Mario Missiroli, ma fino ad oggi – settembre 1930 – niente se ne è fatto e probabilmente non se ne farà più niente, perché in Italia la rinomanza del Sorel – fondata su una serie di equivoci più o meno disinteressati – è molto scaduta ed esiste già una letteratura antisorelliana).

Il saggio riassume tutti i pregi e tutti i difetti del Sorel: è tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, profondo ecc.: ma dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati, obbliga a pensare e ad approfondire. Qual è il significato esatto della conclusione del saggio del Sorel? Esso appare chiaramente da tutto l’articolo e fa ridere la noticina introduttiva della Nuova Antologia che conclude con queste parole: «... uno scrittore, che assegnò all’Italia del dopo guerra il primato intellettuale e politico in Europa». A quale Italia? Potrebbe dire qualcosa in proposito esplicitamente il Missiroli o si potrebbe trovare qualcosa nelle lettere private del Sorel a Missiroli (che dovrebbero essere pubblicate, secondo gli annunzi dati, ma non lo saranno o lo saranno non integre).

Toglierò da questo saggio del Sorel solo qualche spunto, notandone, pro memoria, la grande importanza per comprendere il Sorel e il suo atteggiamento nel dopo guerra. (Mi pare che non si può comprendere il Sorel come figura di «intellettuale rivoluzionario» se non si pensa alla Francia di dopo il 70: il 70‑71 videro in Francia due terribili disfatte: quella nazionale, che pesò sugli intellettuali borghesi e sugli uomini politici, creando dei tipi come Clemenceau, quintessenza del giacobinismo francese, e la disfatta del popolo parigino della Comune, che pesò sugli intellettuali rivoluzionari e creò l’antigiacobino Sorel: il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario, meschino, antistorico è un portato del salasso popolare del 71, è anti‑thiersismo. Il 71 distrusse il cordone ombelicale tra il nuovo popolo e la tradizione del 93: Sorel avrebbe voluto essere il rappresentante di questa tendenza, ma non ci riuscì ecc.).

1°. Bernstein ha sostenuto (Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, trad. franc., pp. 53‑54) che un rispetto superstizioso per la dialettica hegeliana ha condotto Marx a preferire alle costruzioni degli utopisti tesi rivoluzionarie assai prossime a quelle della tradizione giacobina babeuvista o blanquista: non si comprende allora, però, come mai nel Manifesto non si parli della letteratura babeuvista che Marx indubbiamente conosceva. L’Andler è del parere (vol. II del Manifesto, p. 191) che Marx faccia un’allusione piena di disprezzo per la congiura degli Uguali, quando parla dell’ascetismo universale e grossolano che si riscontra nelle più antiche rivendicazioni proletarie dopo la Rivoluzione francese.

2°. Pare che Marx non si sia mai potuto liberare completamente dall’idea hegeliana della storia, secondo la quale diverse ere si succedono nell’umanità, seguendo l’ordine di sviluppo dello spirito, che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Alla dottrina del suo maestro egli aggiunge quella della lotta di classe: sebbene gli uomini non conoscano che le guerre sociali, nelle quali sono spinti dai loro antagonismi economici, essi cooperano inconsciamente a un’opera che il solo metafisico suppone. Questa ipotesi del Sorel è molto azzardata ed egli non la giustifica: ma evidentemente gli sta molto a cuore, sia per la sua esaltazione della Russia, sia per la sua previsione della funzione civile dell’Italia (è da segnalare, a proposito di questo avvicinamento Russia‑Italia, l’atteggiamento di D’Annunzio in un tempo quasi coincidente: la pubblicazione – ma mi pare che non si tratti di una pubblicazione ma solo di manoscritto fatto circolare – è proprio della primavera del 1920: conobbe il Sorel questo atteggiamento del D’Annunzio? Il Missiroli solo potrebbe dare una risposta): secondo il Sorel, «Marx aveva una così grande fiducia nella subordinazione della storia alle leggi dello sviluppo dello spirito, che ha insegnato che, dopo la caduta del capitalismo, l’evoluzione verso il comunismo perfetto si produrrebbe, senza essere provocata da una lotta di classi (Lettera sul programma di Gotha). Sembra che Marx abbia creduto, come Hegel, che i diversi momenti dell’evoluzione si manifestino in paesi diversi, ciascuno dei quali è specialmente adatto a ciascuno di quei momenti. (Vedere la prefazione del 21 gennaio 1882 a una traduzione russa del Manifesto). Egli non ha mai fatta un’esposizione esplicita della sua dottrina; così molti marxisti sono persuasi che tutte le fasi dell’evoluzione capitalista devono prodursi nella stessa forma presso tutti i popoli moderni. Questi marxisti sono troppo poco hegeliani».

3°. La quistione prima o dopo il 48? Il Sorel non intende l’importanza di questo problema e accenna al «curioso» cambiamento che si produsse nello spirito di Marx alla fine del 1850: nel marzo egli aveva firmato un manifesto dei rivoluzionari, che sostituisce il termine «comunisti» adoprato nel testo di Sorel citato da G. rifugiati a Londra, nel quale era tracciato il programma di una agitazione rivoluzionaria da intraprendersi in vista di un nuovo prossimo sconvolgimento sociale, che Bernstein trova degno del primo venuto dei rivoluzionari da club (Socialismo teorico ecc., p. 51), mentre poi egli si convinse che la rivoluzione nata dalla crisi del 47, finiva con quella crisi. Ora gli anni dopo il 48 furono di una prosperità senza eguale: mancava dunque per la rivoluzione progettata la prima delle condizioni necessarie, un proletariato ridotto all’ozio e disposto a combattere (cfr Andler, Manifesto, I, pp. 55‑56; ma di quale edizione?) Così sarebbe nata nei marxisti la concezione della miseria crescente, che avrebbe dovuto servire a spaventare gli operai e indurli a combattere in vista di un peggioramento probabile anche in una situazione prospera (– spiegazione infantile e contraddetta dai fatti anche se è vero che della teoria della miseria crescente si fece uno strumento di questo genere: ma arbitrariamente? non mi pare).

4°. Su Proudhon: «Proudhon apparteneva a quella parte della borghesia che era più vicina al proletariato: per questo i marxisti hanno potuto accusarlo di essere un borghese, mentre gli scrittori più sagaci lo considerano come un ammirevole prototipo dei nostri (francesi) contadini e dei nostri artigiani (cfr Daniele Halévy nei “Débats” del 3 gennaio 1913)». Mi pare si possa accettare. Da questo punto di vista Sorel spiega anche il «giurismo» di Proudhon: «In ragione della modicità delle loro risorse, i contadini, i proprietari delle più piccole fabbriche, i piccoli commercianti sono obbligati a difendere aspramente i loro interessi davanti ai tribunali. Un socialismo che si proponga di proteggere i ceti posti sui gradini più bassi dell’economia, è naturalmente destinato a dare una grande importanza alla sicurezza del diritto; e una tendenza siffatta è particolarmente forte presso quegli scrittori che, come Proudhon, hanno la testa piena di ricordi della vita campagnola». E dà ancora altri spunti per rinforzare questa analisi. Lo strano è che il Sorel, avendo una simile convinzione della tendenza sociale del Proudhon, lo esalti e lo proponga come modello o fonte di principi per il proletariato moderno. Data questa origine delle tendenze giuridiche del Proudhon, perché gli operai dovrebbero occuparsi della quistione? Si ha, a questo punto, l’impressione che il saggio del Sorel sia mutilato e che manchi precisamente una parte, riguardante il movimento italiano delle fabbriche: dato il pubblicato, è possibile immaginare che Sorel abbia trovato nel movimento delle commissioni interne intorno ai regolamenti di fabbrica e in generale intorno alla «legislazione» interna di fabbrica, che dipende unicamente dalla volontà sovrana e incontrollata dell’imprenditore, il corrispettivo della esigenza che Proudhon rifletteva per i contadini. Il saggio, così com’è pubblicato, è incoerente e incompleto; la sua conclusione riguardante l’Italia («Molte ragioni mi avevano condotto, da gran tempo, a supporre, che quello che un hegeliano chiamerebbe il Weltgeist, spetta oggi all’Italia. Grazie all’Italia la luce dei tempi nuovi non si spegnerà») non ha nessuna dimostrazione, sia pure per accenni, al modo di Sorel. Nell’ultima nota c’è un accenno ai consigli degli operai e dei contadini in Germania, «che io consideravo conformi allo spirito proudhoniano» e un rimando ai Materiali di una teoria del proletariato (pp. 164 e 394). Sarebbe interessante sapere se veramente il saggio è stato mutilato e da chi: se direttamente dal Missiroli o da altri.

Gli scritti del Sorel del dopoguerra hanno una particolare importanza per la storia della cultura occidentale: il Sorel ascrive al pensiero di Proudhon tutta una serie di istituzioni e di atteggiamenti ideologici di questo periodo. Perché il Sorel ha potuto far questo? È assolutamente arbitrario questo suo modo di giudicare? E data la acutezza del Sorel come storico delle idee, che esclude, almeno in grande parte, una tale arbitrarietà, da quali esperienze culturali è partito il Sorel, e non è tutto ciò molto importante per un giudizio complessivo dell’opera soreliana? Da questo punto di vista occorre accostare al Sorel il De Man, ma quale differenza fra i due! Il De Man si imbroglia assurdamente nella storia delle idee, e si lascia abbagliare dalle superficiali apparenze: se un rimprovero si può fare invece al Sorel è proprio in senso contrario, di analizzare troppo minutamente il sostanziale delle idee e di perdere il senso delle proporzioni. Il Sorel trova che i «fatti» del dopoguerra sono di carattere proudhoniano; il Croce trova che il De Man segna un ritorno al Proudhon, ma il De Man tipicamente non capisce i «fatti» del dopoguerra indicati dal Sorel. Per il Sorel è «proudhoniano» ciò che è «spontanea» creazione del popolo, è «marxista ortodosso» ciò che è burocratico, perché egli ha dinanzi sempre, ossessionante, l’esempio della Germania da una parte e del giacobinismo letterario dall’altra, il fenomeno del centralismo-burocrazia. Il De Man in realtà rimane un esemplare pedantesco della burocrazia laburista belga: tutto è pedantesco in lui, anche l’entusiasmo: crede di aver fatto delle scoperte grandiose, perché ripete come formula scientifica la descrizione di fatti empirici: caso tipico di positivismo che raddoppia il fatto, descrivendolo e formulandolo sinteticamente e poi fa della formulazione del fatto la legge del fatto. Per il Sorel, come appare da questo saggio, ciò che conta in Proudhon, è l’orientamento psicologico, non già il concreto atteggiamento pratico, sul quale in verità non si pronunzia esplicitamente: questo orientamento psicologico consiste nel «confondersi» coi sentimenti popolari che concretamente pullulano dalla situazione reale fatta al popolo dalla disposizione del mondo economico, nel «calarsi» in essi per comprenderli ed esprimerli in forma giuridica, razionale; questa o quella interpretazione, o anche l’insieme di esse possono essere errate, o cervellotiche o addirittura ridicole, ma l’atteggiamento generale è il più produttivo di conseguenze buone. L’atteggiamento del De Man non è questo: è invece quello «scientifista»: egli si china verso il popolo non per comprenderlo disinteressatamente, ma per «teorizzarne» i sentimenti, per costruirvi degli schemi pseudo‑scientifici, non per mettersi all’unisono ed estrarre principi giuridico‑educativi (leggi «scientifiche» in De Man – espressioni «giuridiche» in Proudhon). cfr p. 78.

Q4

§44 Sorel. In un articolo su Clemenceau pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 e in un altro pubblicato nell’«Italia Letteraria» del 15 dicembre (il primo firmato «Spectator», il secondo firmato con nome e cognome) Mario Missiroli pubblica due brani importanti di lettere inviategli da Giorgio Sorel e riguardanti Clemenceau: «Egli (Clemenceau) giudica la filosofia di Marx, che costituisce l’ossatura del socialismo contemporaneo, come una dottrina oscura, buona per i barbari di Germania, come sempre è apparsa alle intelligenze pronte e brillanti, abituate alle facili letture. Spiriti leggeri come il suo non riescono a capire ciò che Renan capiva così bene, che, cioè, valori storici di grande importanza possono apparire congiunti con una produzione letteraria di evidente mediocrità, quale è appunto la letteratura socialista offerta al popolo». «Io credo che se Clemenceau ha fatto per lungo tempo poco conto del socialismo, meno ancora dovette farne quando vide Jaurès diventare l’idolo dei partiti socialisti. La facondia oratoria di Jaurès lo inaspriva. Nella sua “estrema leggerezza” – la definizione è di Giuseppe Reinach – giudicò che il socialismo non potesse contenere nulla di serio, dal momento che un professore di università, riconosciuto capo della nuova dottrina, non riusciva a ricavarne che vento. Non si curava di sapere se le masse, una volta scosse dalle vacue declamazioni dei capi, non avrebbero saputo trovare nel loro seno dei direttori capaci di condurle verso delle regioni, che i capi della democrazia non potevano neppure sospettare. Clemenceau non crede all’esistenza di una classe che si travaglia a formarsi la coscienza di una grande missione storica da compiere, missione che ha per iscopo il rinnovamento totale della nostra civiltà. Crede che il dovere delle democrazie sia quello di venire in soccorso dei diseredati che assicurano la produzione delle ricchezze materiali, delle quali nessuno può fare a meno. Nei momenti difficili un potere intelligente deve fare delle leggi per imporre ai ricchi dei sagrifici, destinati a salvare la solidarietà nazionale. Un’evoluzione bene ordinata, che conduca ad una vita relativamente dolce, ecco quanto il popolo reclamerebbe in nome della scienza, se avesse dei buoni consiglieri. Ai suoi occhi i socialisti sono dei cattivi pastori quando introducono, nella politica di un paese democratico, la nozione della rivoluzione. Come tutti gli uomini della sua generazione, Clemenceau ha conservato un vivo ricordo della Comune. Credo fermamente che egli non abbia ancora perdonato al popolo di Parigi la brutalità con la quale le guardie nazionali insorte lo cacciarono dal palazzo del Comune di Montmartre». I due brani nell’articolo della Nuova Antologia sono stampati come un tutto organico; nell’«Italia Letteraria» come distinti: tra il primo e il secondo il Missiroli scrive: «E altrove:», ciò che fa meglio comprendere stilisticamente il contesto.

Sorel. Questi due brani spingono sempre più a pensare che occorre ristudiare Sorel, per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che vi è di più essenziale e permanente. Bisogna tener presente che si è esagerato alquanto sulla «austerità» e «serietà» morale e intellettuale del Sorel; dall’epistolario col Croce risulta che egli non sempre ha saputo vincere gli stimoli di una certa vanità: ciò risulta dal tono molto impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c’era un certo dilettantismo negli atteggiamenti «politici» del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «politici‑culturali», «politici‑intellettuali», «au dessus de la mêlée»: anche a lui si potrebbero muovere alcune delle accuse contenute nell’opuscolo di un suo discepolo I misfatti degli intellettuali. Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare con una analisi accurata ciò che vi è nelle sue opere di superficiale, di brillante, di accessorio, legato alle contingenze della polemica estemporanea, e ciò che vi è di «polposo» e sostanzioso, per farlo entrare, così definito, nel circolo della cultura moderna.

Q4 §70 Sorel, i giacobini, la violenza. Vedere come Sorel concilia il suo odio contro i giacobini‑ottimisti e le sue teorie della violenza. Contro i giacobini sono continue le filippiche del Sorel. (Vedere la Lettre à M. Daniel Halévy nel «Mouvement Socialiste», 16 agosto e 15 settembre 1907).

Q 5§80 Sorel e i giacobini. Nell’articolo riferito nella nota precedente è riportato questo giudizio di Proudhon sui giacobini: Il giacobinismo è «l’applicazione dell’assolutismo di diritto divino alla sovranità popolare». «Il giacobinismo si preoccupa poco del diritto: procede volentieri per mezzi violenti, esecuzioni sommarie. La rivoluzione per esso sono i colpi di folgore, le razzie, le requisizioni, il prestito forzato, l’epurazione, il terrore. Diffidente, ostile alle idee, si rifugia nell’ipocrisia e nel machiavellismo: i giacobini sono i gesuiti della rivoluzione». Queste definizioni sono estratte dal libro: La justice dans la révolution. L’atteggiamento di Sorel contro i giacobini è preso da Proudhon.

Q 7 §39 Croce. L’elemento «passionale» come origine dell’atto politico, così come è teorizzato dal Croce, non può essere accettato tal quale. Dice il Croce a proposito del Sorel: «il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito (il sindacalismo) abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il “mito” lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale» (cfr Cultura e Vita morale, 2a ed., p. 158). Le osservazioni sul Sorel sono giuste anche per il Croce: la «passione» teorizzata non è anch’essa sorpassata? la «passione» di cui si dà una spiegazione dottrinale, non è anch’essa «dissipata»? Né si dica che la «passione» di Croce sia cosa diversa dal «mito» di Sorel, che la «passione» significhi la «categoria o il momento spirituale pratico» mentre il «mito» sia una «determinata» passione, che come «determinata» può essere dissipata e sorpassata senza che perciò la «categoria» sia dissipata e «sorpassata»; l’obbiezione è vera solo in parte, e cioè in quanto significa che Croce non è Sorel, cosa ovvia e banale. Sorel non ha teorizzato un determinato mito, ma «il mito» come sostanza dell’azione pratica e ha poi fissato quale determinato mito era storicamente e psicologicamente il più aderente a una certa realtà. La sua trattazione ha perciò due aspetti: uno propriamente teorico, di scienza politica, e uno pratico-politico. È possibile, sebbene sia discutibile, che l’aspetto pratico‑politico sia stato dissipato e sorpassato; oggi si può dire che è stato sorpassato solo nel senso che è stato integrato, ma il determinato mito aveva una base reale. In ogni modo rimane la «teoria dei miti» che non è altro che la «teoria delle passioni» con un linguaggio meno preciso e formalmente coerente. Se teorizzare il mito significa dissolvere tutti i miti, teorizzare le passioni significa dissipare tutte le passioni, costruire una nuova medicina delle passioni.

Q8

§21 Il moderno Principe. Sotto questo titolo potranno raccogliersi tutti gli spunti di scienza politica che possono concorrere alla formazione di un lavoro di scienza politica che sia concepito e organizzato sul tipo del Principe del Machiavelli. Il carattere fondamentale del Principe è appunto quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro «vivente», in cui l’ideologia diventa «mito» cioè «immagine» fantastica e artistica tra l’utopia e il trattato scolastico, in cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un «condottiero» che presenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva». Il processo per la formazione della «volontà collettiva» viene presentato non attraverso una pedantesca disquisizione di principii e di criterii di un metodo d’azione, ma come «doti e doveri» di una personalità concreta, che fa operare la fantasia artistica e suscita la passione.

Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del «mito» sorelliano, cioè dell’ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come «fantasia» concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere utopistico del Principe è dato dal fatto che il «principe» non esisteva realmente, storicamente, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza storica, ma era esso stesso un’astrazione dottrinaria, il simbolo del capo in generale, del «condottiero ideale». Si può studiare come mai il Sorel, dalla concezione del «mito» non sia giunto alla concezione del partito politico, attraverso la concezione del sindacato economico; ma per il Sorel il mito non si impersonava nel sindacato, come espressione di una volontà collettiva, ma nell’azione pratica del sindacato e della volontà collettiva già organizzata e operante, azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè una «attività passiva» per così dire, non ancora passata alla fase «attiva o costruttiva». Ma può essere un mito «non‑costruttivo», può immaginarsi, nell’ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo ciò che lascia la «volontà collettiva» alla sua fase primitiva di formarsi, distinguendosi (scindendosi), per distruggere?
Il moderno Principe, il mito‑Principe non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo, un elemento sociale nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la forma moderna in cui si riassumono le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali. Solo un’azione politico‑storica immediata, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi in un individuo concreto: la rapidità non può essere data che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo e annulla il senso critico e l’ironia che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (esempio del Boulanger). Ma questa azione immediata, per ciò stesso non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali (come era il caso nel Principe di Machiavelli, in cui l’aspetto restaurazione se mai era di tinta retorica, cioè legato al concetto dell’Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l’ordine romano); di tipo «difensivo» e non creativo, in cui si suppone che una «volontà collettiva» già esistente si sia snervata e dispersa e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una «volontà collettiva» sia da creare ex‑novo e da indirizzare verso mete concrete sì, ma di una concretezza non ancora verificata dall’esperienza passata. Il carattere «astratto» (spontaneista) del Sorel appare dalla sua avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che furono una «incarnazione» «categorica» del Principe di Machiavelli.

Q10 §3 Croce e Bernstein [Trotzky ndc]. Nella lettera di Sorel a Croce del 9 settembre 1899 (confrontare tutta la lettera nella «Critica») è scritto: «Bernstein vient de m’écrire qu’il a indiqué dans la “Neue Zeit” n° 46, qu’il avait été inspiré, en une certaine mesure, par vos travaux. Cela est intéressant parce que les Allemands ne sont pas faits pour indiquer des sources étrangères à leurs idées».

Q10 §41 V Deve essere criticata l’impostazione che il Croce fa della scienza politica. La politica, secondo il Croce, è l’espressione della «passione». A proposito del Sorel il Croce ha scritto (Cultura e vita morale, 2a ed., p. 158): «Il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito (il sindacalismo) abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il “mito” lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale». Ma il Croce non si è accorto che le osservazioni fatte al Sorel si possono ritorcere contro il Croce stesso: la passione teorizzata non è anch’essa sorpassata? La passione di cui si dà una spiegazione dottrinale, non è anch’essa «dissipata»? Né si dica che la «passione» del Croce sia cosa diversa dal «mito» soreliano, che la passione significhi la categoria, il momento spirituale della pratica, mentre il mito sia una determinata passione che come storicamente determinata può essere sorpassata e dissipata senza che perciò si annichili la categoria che è un momento perenne dello spirito; l’obbiezione è vera nel solo senso che Croce non è Sorel, cosa ovvia e banale. Intanto è da osservare come l’impostazione del Croce sia intellettualistica e illuministica. Poiché neanche il mito concretamente studiato dal Sorel era una cosa di carta, una costruzione arbitraria dell’intelletto soreliano, esso non poteva essere dissipato da qualche paginetta dottrinale, conosciuta da ristretti gruppi di intellettuali, che poi diffondevano la teoria come prova scientifica della verità scientifica del mito quale ingenuamente appassionava le grandi masse popolari.
Se la teoria del Croce fosse reale, la scienza politica dovrebbe essere niente altro che una nuova «Medicina» delle passioni e non è da negare che una gran parte degli articoli politici del Croce sia proprio una intellettualistica e illuministica Medicina delle passioni, così come finisce con l’essere comica la sicurezza del Croce d’aver ammazzato vasti movimenti storici nella realtà perché crede d’averli «sorpassati e dissolti» in idea. Ma in realtà non è neanche vero che il Sorel abbia solo teorizzato e spiegato dottrinalmente un determinato mito: la teoria dei miti è per il Sorel il principio scientifico della scienza politica, è la «passione» del Croce studiata in modo più concreto, è ciò che il Croce chiama «religione» cioè una concezione del mondo con un’etica conforme, è un tentativo di ridurre a linguaggio scientifico la concezione delle ideologie della filosofia della praxis vista attraverso appunto il revisionismo crociano. In questo studio del mito come sostanza dell’azione politica, il Sorel ha anche studiato diffusamente il mito determinato che era alla base di una certa realtà sociale e ne era la molla di progresso. La sua trattazione ha perciò due aspetti: uno propriamente teorico, di scienza politica e un aspetto politico immediato, programmatico. È possibile, sebbene sia molto discutibile, che l’aspetto politico e programmatico del sorelismo sia stato sorpassato e dissipato; oggi si può dire che esso è stato superato nel senso che è stato integrato e depurato di tutti gli elementi intellettualistici e letterari, ma anche oggi occorre riconoscere che il Sorel aveva lavorato sulla realtà effettuale e che tale realtà non è stata sorpassata e dissipata.

Q10

§41 X L’importanza che hanno avuto il machiavellismo e l’antimachiavellismo in Italia per lo sviluppo della scienza politica e il significato che in questo svolgimento hanno avuto recentemente la proposizione del Croce sull’autonomia del momento politico‑economico e le pagine dedicate al Machiavelli. Si può dire che il Croce non sarebbe giunto a questo risultato senza l’apporto culturale della filosofia della praxis? È da ricordare in proposito che il Croce ha scritto di non poter capire come mai nessuno abbia pensato di svolgere il concetto che il fondatore della filosofia della praxis ha compiuto, per un gruppo sociale moderno, la stessa opera compiuta dal Machiavelli al suo tempo. Da questo paragone del Croce si potrebbe dedurre tutta l’ingiustizia dell’attuale suo atteggiamento culturale, anche perché il fondatore della filosofia della praxis ha avuto interessi molto più vasti del Machiavelli e dello stesso Botero (che per il Croce integra Machiavelli nello svolgimento della scienza politica, sebbene ciò non sia molto esatto, se del Machiavelli non si considera solo il Principe ma anche i Discorsi) non solo, ma in lui è contenuto in nuce anche l’aspetto etico‑politico della politica o la teoria dell’egemonia e del consenso, oltre all’aspetto della forza e dell’economia.

La quistione è questa: dato il principio crociano della dialettica dei distinti (che è da criticare come soluzione puramente verbale di una reale esigenza metodologica, in quanto è vero che non esistono solo gli opposti, ma anche i distinti) quale rapporto che non sia quello di «implicazione nell’unità dello spirito» esisterà tra il momento economico‑politico e le altre attività storiche? È possibile una soluzione speculativa di questi problemi, o solo una soluzione storica, data dal concetto di «blocco storico» presupposto dal Sorel?

Q10

§41 XIII In un articolo su Clemenceau pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 e in un altro pubblicato nell’«Italia Letteraria» il 15 dicembre (il primo firmato «Spectator», il secondo col nome e cognome), Mario Missiroli riproduce due importanti brani di lettere inviategli dal Sorel e riguardanti Clemenceau (nella Nuova Antologia i due brani sono stampati come un tutto organico; nell’«Italia Letteraria» invece come distinti e tra il primo e il secondo il Missiroli intercala un «altrove», ciò che fa meglio comprendere stilisticamente il contesto): 1) «Egli (Clemenceau) giudica la filosofia di Marx, che costituisce l’ossatura del socialismo contemporaneo, come una dottrina oscura, buona per i barbari di Germania, come sempre è apparsa alle intelligenze pronte e brillanti, abituate alle facili letture. Spiriti leggeri come il suo non riescono a capire ciò che Renan capiva così bene, che, cioè, valori storici di grande importanza possono apparire congiunti con una produzione letteraria di evidente mediocrità, quale è appunto la letteratura socialista offerta al popolo». 2) «Io credo che se Clemenceau ha fatto per lungo tempo poco conto del socialismo, meno ancora dovette farne quando vide Jaurès diventare l’idolo dei partiti socialisti. La faconda oratoria di Jaurès lo inaspriva. Nella sua “estrema leggerezza” – la definizione è di Giuseppe Reinach – giudicò che il socialismo non potesse contenere nulla di serio, dal momento che un professore di università, riconosciuto capo della nuova dottrina, non riusciva a ricavarne che vento.

Non si curava di sapere se le masse, una volta scosse dalle vacue declamazioni dei capi, non avrebbero saputo trovare nel loro seno dei direttori capaci di condurle verso delle regioni che i capi della democrazia non potevano neppure sospettare. Clemenceau non crede all’esistenza di una classe che si travaglia a formarsi la coscienza di una grande missione storica da compiere, missione che ha per iscopo il rinnovamento totale della nostra civiltà. Crede che il dovere delle democrazie sia quello di venire in soccorso dei diseredati che assicurano la produzione delle ricchezze materiali, delle quali nessuno può fare a meno. Nei momenti difficili un potere intelligente deve fare delle leggi per imporre ai ricchi dei sacrifici, destinati a salvare la solidarietà nazionale. Un’evoluzione bene ordinata, che conduca ad una vita relativamente dolce, ecco quanto il popolo reclamerebbe in nome della scienza, se avesse dei buoni consiglieri. Ai suoi occhi i socialisti sono dei cattivi pastori quando introducono, nella politica di un paese democratico, la nozione della rivoluzione. Come tutti gli uomini della sua generazione, Clemenceau ha conservato un vivo ricordo della Comune. Credo fermamente che egli non abbia ancora perdonato al popolo di Parigi la brutalità con la quale le guardie nazionali insorte lo cacciarono dal palazzo del Comune di Montmartre».

Q10b PUNTI DI RIFERIMENTO PER UN SAGGIO SU B. Croce
[...]
2°. Croce come leader intellettuale delle tendenze revisionistiche degli anni 90: Bernstein in Germania, Sorel in Francia, la scuola economico‑giuridica in Italia.

Q10b §2 Croce come leader intellettuale delle correnti revisionistiche della fine del secolo XIX. Nella lettera di Giorgio Sorel al Croce in data 9 settembre 1899 è scritto: «Bernstein vient de m’écrire qu’il a indiqué dans la “Neue Zeit” n. 46 qu’il avait été inspiré, en une certaine mesure, par vos travaux. Cela est intéressant, parce que les Allemands ne sont pas faits pour indiquer des sources étrangères à leurs idées». Dei rapporti intellettuali tra il Sorel e il Croce esiste oggi una documentazione molto importante nell’epistolario del Sorel al Croce pubblicato dalla «Critica» (1927 sgg.): appare che la dipendenza intellettuale del Sorel dal Croce è stata più grande di ciò che prima potesse pensarsi.

Q10b §66 Sorel, Proudhon, De Man. (Cfr p. 78). La «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 ha pubblicato un lungo (da p. 289 a p. 307) saggio di Giorgio Sorel col titolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito). Si tratta di uno scritto del 1920, che doveva servire di prefazione a una raccolta di articoli pubblicati dal Sorel in giornali italiani dal 1910 al 1920 (raccolta che è stata pubblicata dalla Casa Ed. «Corbaccio» di Milano, a cura di Mario Missiroli col titolo L’Europa sotto la tormenta, forse con criteri molto diversi da quelli che sarebbero stati applicati nel 1920 quando la prefazione fu scritta: sarebbe utile vedere se nel volume sono riprodotti alcuni articoli come quello dedicato alla Fiat e qualche altro). Il ritardo nella pubblicazione del libro non è indipendente dalle oscillazioni che in Italia ha avuto la rinomanza del Sorel, dovuta a una serie di equivoci più o meno disinteressati, e che oggi è scaduta di molto: esiste già una letteratura antisorelliana.

Il saggio pubblicato dalla Nuova Antologia riassume tutti i pregi e tutte le manchevolezze del Sorel: è tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, sibillino, ecc.; ma dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati eppur veri, obbliga a pensare e ad approfondire.

Qual è il significato di questo saggio? Esso risulta chiaramente da tutto l’articolo, che fu scritto nel 1920, ed è una patente falsificazione la noticina introduttiva della «Nuova Antologia» (dovuta forse allo stesso Missiroli, della cui lealtà intellettuale è bene non fidarsi) che conclude con queste parole: «... uno scrittore, che assegnò all’Italia del dopoguerra il primato intellettuale e politico in Europa». A quale Italia? Qualcosa in proposito potrebbe dire esplicitamente il Missiroli o si potrebbe trovare nelle lettere private del Sorel al Missiroli (lettere che dovrebbero essere pubblicate, secondo che è stato annunziato, ma non lo saranno o lo saranno non integre), ma si può arguire da numerosi articoli del Sorel. Da questo saggio è utile, pro‑memoria, annotare alcuni spunti, ricordando che tutto il saggio è molto importante per comprendere Sorel e il suo atteggiamento nel dopoguerra:

a) Bernstein ha sostenuto (Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, trad. francese, pp. 53‑54) che un rispetto superstizioso per la dialettica hegeliana ha condotto Marx a preferire alle costruzioni degli utopisti tesi rivoluzionarie assai prossime a quelle della tradizione giacobina, babeuvista o blanquista; non si comprende allora, però, come mai nel Manifesto non si parli della letteratura babeuvista che Marx indubbiamente conosceva. L’Andler è del parere (vol. II della sua ediz. del Manifesto, p. 191) che Marx faccia un’allusione piena di disprezzo per la congiura degli Uguali, quando parla dell’ascetismo universale e grossolano che si riscontra nelle più antiche rivendicazioni proletarie dopo la Rivoluzione Francese.

b) Pare che Marx non si sia mai potuto liberare completamente dall’idea hegeliana della storia, secondo la quale diverse ere si succedono nell’umanità, seguendo l’ordine di sviluppo dello spirito, che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Alla dottrina del suo maestro egli aggiunge quella della lotta di classe: sebbene gli uomini non conoscano che le guerre sociali, nelle quali sono spinti dai loro antagonismi economici, essi cooperano inconsciamente a un’opera che il solo metafisico suppone. Questa ipotesi del Sorel è molto azzardata ed egli non la giustifica: ma evidentemente gli sta molto a cuore, sia per la sua esaltazione della Russia, sia per la sua previsione della funzione civile dell’Italia (è da segnalare, a proposito di questo avvicinamento Russia‑Italia, l’atteggiamento di D’Annunzio, in un tempo quasi coincidente, nei manoscritti fatti circolare nella primavera del 1920; conobbe il Sorel questo atteggiamento dannunziano? Solo il Missiroli potrebbe dare una risposta). Secondo il Sorel «Marx aveva una così grande fiducia nella subordinazione della storia alle leggi dello sviluppo dello Spirito, che ha insegnato che, dopo la caduta del capitalismo, l’evoluzione verso il Comunismo perfetto si produrrebbe senza essere provocata da una lotta di classi (Lettera sul programma di Gotha). Sembra che Marx abbia creduto, come Hegel, che i diversi momenti dell’evoluzione si manifestino in paesi diversi, ciascuno dei quali è specialmente adatto a ciascuno di quei momenti (vedere la prefazione del 21 gennaio 1882 a una traduzione russa del Manifesto). Egli non ha mai fatto una esposizione esplicita della sua dottrina; così molti marxisti sono persuasi che tutte le fasi dell’evoluzione capitalista devono prodursi nella stessa forma, presso tutti i popoli moderni. Questi marxisti sono troppo poco hegeliani».

c) La quistione: prima o dopo il 48? Il Sorel non intende il significato di questo problema, nonostante la letteratura in proposito (sia pure letteratura da bancarella) e accenna al «curioso» (sic) cambiamento che si produsse nello spirito di Marxa alla fine del 1850: nel marzo egli aveva firmato un manifesto dei rivoluzionariNel ms: «rivol.», che sostituisce il termine «comunisti» adoprato nel testo di Sorel citato da Gramsci. rifugiati a Londra, nel quale era tracciato il programma di una agitazione rivoluzionaria. In genere in questo paragrafo i termini «rivoluzione» e «rivoluzionario» sono abbreviati, come pure il termine «proletariato». da intraprendersi in vista di un nuovo prossimo sconvolgimento sociale, che Bernstein trova degno del primo venuto dei rivoluzionari da club (Socialismo teorico ecc. p. 51), mentre poi egli si convinse che la rivoluzione nata dalla crisi del 47 finiva con quella crisi. Ora gli anni dopo il 48 furono di una prosperità senza uguali: mancava dunque per la rivoluzione progettata la prima delle condizioni necessarie: un proletariato ridotto all’ozio e disposto a combattere (cfr Andler, I, pp. 55‑56, ma di quale edizione?) Così sarebbe nata nei marxisti la concezione della miseria crescente, che avrebbe dovuto servire a spaventare gli operai e indurli a combattere in vista di un peggioramento probabile anche in una situazione prospera (spiegazione infantile e contraddetta dai fatti, anche se è vero che della teoria della miseria crescente è stato fatto uno strumento di tal genere, un argomento di immediata persuasione: e del resto si trattò di un arbitrio? Sul tempo in cui nacque la teoria della miseria crescente è da vedere la pubblicazione di Roberto Michels).

d) Su Proudhon: «Proudhon apparteneva a quella parte della borghesia che era più vicina al proletariato; per questo i marxisti hanno potuto accusarlo di essere un borghese, mentre gli scrittori più sagaci lo considerano come un ammirevole prototipo dei nostri (cioè, francesi) contadini e dei nostri artigiani (cfr Daniele Halévy nei “Débats” del 3 gennaio 1913)». Questo giudizio del Sorel si può accettare. Ed ecco come il Sorel spiega la mentalità «giuridica» del Proudhon: «In ragione della modicità delle loro risorse, i contadini, i proprietari delle più piccole fabbriche, i piccoli commercianti sono obbligati a difendere aspramente i loro interessi davanti ai tribunali. Un socialismo che si proponga di proteggere i ceti posti sui gradini più bassi dell’economia, è naturalmente destinato a dare una grande importanza alla sicurezza del diritto; e una tendenza siffatta è particolarmente forte presso quegli scrittori che, come Proudhon, hanno la testa piena di ricordi della vita campagnola». E dà ancora altri spunti per rinforzare questa analisi, che non persuade del tutto: la mentalità giuridica del Proudhon è legata al suo antigiacobinismo, ai ricordi letterari della Rivoluzione francese e dell’antico regime che si suppone abbia portato all’esplosione giacobina proprio per l’arbitrarietà della giustizia: la mentalità giuridica è la sostanza del riformismo piccolo borghese del Proudhon e le sue origini sociali hanno contribuito a formarla per altro e «più alto» nesso di concetti e di sentimenti: in questa analisi il Sorel si confonde con la mentalità degli «ortodossi» da lui tanto spregiati. Lo strano è che il Sorel, avendo una tale convinzione sulla tendenza sociale del Proudhon, lo esalti e talvolta lo proponga a modello o fonte di principii per il proletariato moderno; se la mentalità giuridica del Proudhon ha questa origine perché gli operai dovrebbero occuparsi della quistione di un «nuovo diritto», di una «sicurezza del diritto» ecc.?

A questo punto, si ha l’impressione che il saggio del Sorel sia stato mutilato e che manchi precisamente una parte, riguardante il movimento italiano delle fabbriche: dal testo pubblicato, è possibile immaginare che Sorel abbia trovato nel movimento delle commissioni interne rivolte a controllare i regolamenti di fabbrica e in generale la «legislazione» interna di fabbrica che dipendeva unicamente dall’arbitrio incontrollato degli imprenditori, il corrispettivo delle esigenze che Proudhon rifletteva per i contadini e gli artigiani. Il saggio, così come è pubblicato, è incoerente e incompleto; la sua conclusione, riguardante l’Italia («Molte ragioni mi avevano condotto, da gran tempo, a supporre, che quello che un hegeliano chiamerebbe il Weltgeist, spetta oggi all’Italia. Grazie all’Italia, la luce dei tempi nuovi non si spegnerà») non ha nessuna dimostrazione, sia pure per scorci e accenni, al modo del Sorel. Nell’ultima nota c’è un accenno ai consigli degli operai e contadini in Germania, «che io consideravo conformi allo spirito proudhoniano» e un rimando ai Materiali per una teoria ecc. (pp. 164 e 394). Sarebbe interessante sapere se veramente il saggio è stato mutilato e da chi: se direttamente dal Missiroli o da altri.

Nota I. Non si può comprendere il Sorel come figura di «intellettuale rivoluzionario» se non si pensa alla Francia di dopo il 70, come non si può comprendere il Proudhon senza il «panico antigiacobino» dell’epoca della Restaurazione. Il 70 e il 71 videro in Francia due terribili disfatte, quella nazionale, che pesò sugli intellettuali borghesi e la disfatta popolare della Comune che pesò sugli intellettuali rivoluzionari: la prima creò dei tipi come Clémenceau, quintessenza del giacobinismo nazionalista francese, la seconda creò l’antigiacobino Sorel e il movimento sindacalista «antipolitico». Il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario meschino, antistorico, è una conseguenza del salasso popolare del 71 (è da vedere in proposito la Lettre à M. Daniel Halévy nel «Mouvement socialiste», 16 agosto e 15 settembre 1907); da esso viene una curiosa luce per le sue Riflessioni sulla violenza. Il salasso del 71 tagliò il cordone ombelicale tra il «nuovo popolo» e la tradizione del 93: Sorel avrebbe voluto essere il rappresentante di questa rottura tra popolo e giacobinismo storico, ma non gli riuscì.

Nota II. Gli scritti del Sorel del dopoguerra hanno una certa importanza per la storia della cultura occidentale. Il Sorel attribuisce al pensiero di Proudhon tutta una serie di istituzioni e di atteggiamenti ideologici di questo periodo.

Perché il Sorel ha potuto far questo? È assolutamente arbitrario questo suo giudizio? E data l’acutezza del Sorel come storico delle idee, che esclude, almeno in gran parte, una tale arbitrarietà, da quali esperienze culturali è partito il Sorel, e non è tutto ciò importante per un giudizio complessivo dell’opera sorelliana? È certo che occorre ristudiare Sorel, per cogliere al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente. Occorre tener presente che si è esagerato molto sull’«austerità» e «serietà» morale e intellettuale del Sorel; dall’epistolario col Croce risulta che egli non sempre vinceva gli stimoli della vanità: ciò risulta, per es., dal tono impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (titubante e sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con gli elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c’era molto dilettantismo, molto «non impegnarsi mai a fondo», quindi molta intrinseca irresponsabilità negli atteggiamenti «politici» del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «culturali‑politici», «intellettuali‑politici», «au dessus de la mêlée»: anche al Sorel si potrebbero muovere molte accuse simili a quelle contenute nell’opuscolo di un suo discepolo, I misfatti degli intellettuali. Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare, con una analisi accurata, ciò che vi è nelle sue opere di superficiale, di brillante, di accessorio, legato alle contingenze della polemica estemporanea, e ciò che vi è di «polposo» e sostanzioso, per farlo entrare, così definito, nel circolo della cultura moderna.

Nota III. Nel 1929, dopo la pubblicazione di una lettera in cui Sorel parlava di Oberdan, si moltiplicarono gli articoli di protesta per alcune espressioni usate dal Sorel nelle sue lettere al Croce e il Sorel fu «stroncato» (particolarmente violento un articolo di Arturo Stanghellini riportato nell’«Italia Letteraria» di quei giorni). L’epistolario fu interrotto nel numero successivo della «Critica» e ripreso, senza accenno alcuno all’incidente, ma con alcune novità: parecchi nomi furono pubblicati solo con le iniziali e si ebbe l’impressione che alcune lettere non siano state pubblicate o siano state espurgate. Da questo punto incomincia nel giornalismo una valutazione nuova del Sorel e dei suoi rapporti con l’Italia.
§66 Sorel, Proudhon, De Man. (Cfr p. 78). La «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 ha pubblicato un lungo (da p. 289 a p. 307) saggio di Giorgio Sorel col titolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito). Si tratta di uno scritto del 1920, che doveva servire di prefazione a una raccolta di articoli pubblicati dal Sorel in giornali italiani dal 1910 al 1920 (raccolta che è stata pubblicata dalla Casa Ed. «Corbaccio» di Milano, a cura di Mario Missiroli col titolo L’Europa sotto la tormenta, forse con criteri molto diversi da quelli che sarebbero stati applicati nel 1920 quando la prefazione fu scritta: sarebbe utile vedere se nel volume sono riprodotti alcuni articoli come quello dedicato alla Fiat e qualche altro). Il ritardo nella pubblicazione del libro non è indipendente dalle oscillazioni che in Italia ha avuto la rinomanza del Sorel, dovuta a una serie di equivoci più o meno disinteressati, e che oggi è scaduta di molto: esiste già una letteratura antisorelliana.

Il saggio pubblicato dalla Nuova Antologia riassume tutti i pregi e tutte le manchevolezze del Sorel: è tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, sibillino, ecc.; ma dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati eppur veri, obbliga a pensare e ad approfondire.

Qual è il significato di questo saggio? Esso risulta chiaramente da tutto l’articolo, che fu scritto nel 1920, ed è una patente falsificazione la noticina introduttiva della «Nuova Antologia» (dovuta forse allo stesso Missiroli, della cui lealtà intellettuale è bene non fidarsi) che conclude con queste parole: «... uno scrittore, che assegnò all’Italia del dopoguerra il primato intellettuale e politico in Europa». A quale Italia? Qualcosa in proposito potrebbe dire esplicitamente il Missiroli o si potrebbe trovare nelle lettere private del Sorel al Missiroli (lettere che dovrebbero essere pubblicate, secondo che è stato annunziato, ma non lo saranno o lo saranno non integre), ma si può arguire da numerosi articoli del Sorel. Da questo saggio è utile, pro‑memoria, annotare alcuni spunti, ricordando che tutto il saggio è molto importante per comprendere Sorel e il suo atteggiamento nel dopoguerra:

a) Bernstein ha sostenuto (Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, trad. francese, pp. 53‑54) che un rispetto superstizioso per la dialettica hegeliana ha condotto Marx a preferire alle costruzioni degli utopisti tesi rivoluzionarie assai prossime a quelle della tradizione giacobina, babeuvista o blanquista; non si comprende allora, però, come mai nel Manifesto non si parli della letteratura babeuvista che Marx indubbiamente conosceva. L’Andler è del parere (vol. II della sua ediz. del Manifesto, p. 191) che Marx faccia un’allusione piena di disprezzo per la congiura degli Uguali, quando parla dell’ascetismo universale e grossolano che si riscontra nelle più antiche rivendicazioni proletarie dopo la Rivoluzione Francese.

b) Pare che Marx non si sia mai potuto liberare completamente dall’idea hegeliana della storia, secondo la quale diverse ere si succedono nell’umanità, seguendo l’ordine di sviluppo dello spirito, che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Alla dottrina del suo maestro egli aggiunge quella della lotta di classe: sebbene gli uomini non conoscano che le guerre sociali, nelle quali sono spinti dai loro antagonismi economici, essi cooperano inconsciamente a un’opera che il solo metafisico suppone. Questa ipotesi del Sorel è molto azzardata ed egli non la giustifica: ma evidentemente gli sta molto a cuore, sia per la sua esaltazione della Russia, sia per la sua previsione della funzione civile dell’Italia (è da segnalare, a proposito di questo avvicinamento Russia‑Italia, l’atteggiamento di D’Annunzio, in un tempo quasi coincidente, nei manoscritti fatti circolare nella primavera del 1920; conobbe il Sorel questo atteggiamento dannunziano? Solo il Missiroli potrebbe dare una risposta). Secondo il Sorel «Marx aveva una così grande fiducia nella subordinazione della storia alle leggi dello sviluppo dello Spirito, che ha insegnato che, dopo la caduta del capitalismo, l’evoluzione verso il Comunismo perfetto si produrrebbe senza essere provocata da una lotta di classi (Lettera sul programma di Gotha). Sembra che Marx abbia creduto, come Hegel, che i diversi momenti dell’evoluzione si manifestino in paesi diversi, ciascuno dei quali è specialmente adatto a ciascuno di quei momenti (vedere la prefazione del 21 gennaio 1882 a una traduzione russa del Manifesto). Egli non ha mai fatto una esposizione esplicita della sua dottrina; così molti marxisti sono persuasi che tutte le fasi dell’evoluzione capitalista devono prodursi nella stessa forma, presso tutti i popoli moderni. Questi marxisti sono troppo poco hegeliani».

c) La quistione: prima o dopo il 48? Il Sorel non intende il significato di questo problema, nonostante la letteratura in proposito (sia pure letteratura da bancarella) e accenna al «curioso» (sic) cambiamento che si produsse nello spirito di Marxa alla fine del 1850: nel marzo egli aveva firmato un manifesto dei rivoluzionariNel ms: «rivol.», che sostituisce il termine «comunisti» adoprato nel testo di Sorel citato da Gramsci. rifugiati a Londra, nel quale era tracciato il programma di una agitazione rivoluzionaria. In genere in questo paragrafo i termini «rivoluzione» e «rivoluzionario» sono abbreviati, come pure il termine «proletariato». da intraprendersi in vista di un nuovo prossimo sconvolgimento sociale, che Bernstein trova degno del primo venuto dei rivoluzionari da club (Socialismo teorico ecc. p. 51), mentre poi egli si convinse che la rivoluzione nata dalla crisi del 47 finiva con quella crisi. Ora gli anni dopo il 48 furono di una prosperità senza uguali: mancava dunque per la rivoluzione progettata la prima delle condizioni necessarie: un proletariato ridotto all’ozio e disposto a combattere (cfr Andler, I, pp. 55‑56, ma di quale edizione?) Così sarebbe nata nei marxisti la concezione della miseria crescente, che avrebbe dovuto servire a spaventare gli operai e indurli a combattere in vista di un peggioramento probabile anche in una situazione prospera (spiegazione infantile e contraddetta dai fatti, anche se è vero che della teoria della miseria crescente è stato fatto uno strumento di tal genere, un argomento di immediata persuasione: e del resto si trattò di un arbitrio? Sul tempo in cui nacque la teoria della miseria crescente è da vedere la pubblicazione di Roberto Michels).

d) Su Proudhon: «Proudhon apparteneva a quella parte della borghesia che era più vicina al proletariato; per questo i marxisti hanno potuto accusarlo di essere un borghese, mentre gli scrittori più sagaci lo considerano come un ammirevole prototipo dei nostri (cioè, francesi) contadini e dei nostri artigiani (cfr Daniele Halévy nei “Débats” del 3 gennaio 1913)». Questo giudizio del Sorel si può accettare. Ed ecco come il Sorel spiega la mentalità «giuridica» del Proudhon: «In ragione della modicità delle loro risorse, i contadini, i proprietari delle più piccole fabbriche, i piccoli commercianti sono obbligati a difendere aspramente i loro interessi davanti ai tribunali. Un socialismo che si proponga di proteggere i ceti posti sui gradini più bassi dell’economia, è naturalmente destinato a dare una grande importanza alla sicurezza del diritto; e una tendenza siffatta è particolarmente forte presso quegli scrittori che, come Proudhon, hanno la testa piena di ricordi della vita campagnola». E dà ancora altri spunti per rinforzare questa analisi, che non persuade del tutto: la mentalità giuridica del Proudhon è legata al suo antigiacobinismo, ai ricordi letterari della Rivoluzione francese e dell’antico regime che si suppone abbia portato all’esplosione giacobina proprio per l’arbitrarietà della giustizia: la mentalità giuridica è la sostanza del riformismo piccolo borghese del Proudhon e le sue origini sociali hanno contribuito a formarla per altro e «più alto» nesso di concetti e di sentimenti: in questa analisi il Sorel si confonde con la mentalità degli «ortodossi» da lui tanto spregiati. Lo strano è che il Sorel, avendo una tale convinzione sulla tendenza sociale del Proudhon, lo esalti e talvolta lo proponga a modello o fonte di principii per il proletariato moderno; se la mentalità giuridica del Proudhon ha questa origine perché gli operai dovrebbero occuparsi della quistione di un «nuovo diritto», di una «sicurezza del diritto» ecc.?

A questo punto, si ha l’impressione che il saggio del Sorel sia stato mutilato e che manchi precisamente una parte, riguardante il movimento italiano delle fabbriche: dal testo pubblicato, è possibile immaginare che Sorel abbia trovato nel movimento delle commissioni interne rivolte a controllare i regolamenti di fabbrica e in generale la «legislazione» interna di fabbrica che dipendeva unicamente dall’arbitrio incontrollato degli imprenditori, il corrispettivo delle esigenze che Proudhon rifletteva per i contadini e gli artigiani. Il saggio, così come è pubblicato, è incoerente e incompleto; la sua conclusione, riguardante l’Italia («Molte ragioni mi avevano condotto, da gran tempo, a supporre, che quello che un hegeliano chiamerebbe il Weltgeist, spetta oggi all’Italia. Grazie all’Italia, la luce dei tempi nuovi non si spegnerà») non ha nessuna dimostrazione, sia pure per scorci e accenni, al modo del Sorel. Nell’ultima nota c’è un accenno ai consigli degli operai e contadini in Germania, «che io consideravo conformi allo spirito proudhoniano» e un rimando ai Materiali per una teoria ecc. (pp. 164 e 394). Sarebbe interessante sapere se veramente il saggio è stato mutilato e da chi: se direttamente dal Missiroli o da altri.

Nota I. Non si può comprendere il Sorel come figura di «intellettuale rivoluzionario» se non si pensa alla Francia di dopo il 70, come non si può comprendere il Proudhon senza il «panico antigiacobino» dell’epoca della Restaurazione. Il 70 e il 71 videro in Francia due terribili disfatte, quella nazionale, che pesò sugli intellettuali borghesi e la disfatta popolare della Comune che pesò sugli intellettuali rivoluzionari: la prima creò dei tipi come Clémenceau, quintessenza del giacobinismo nazionalista francese, la seconda creò l’antigiacobino Sorel e il movimento sindacalista «antipolitico». Il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario meschino, antistorico, è una conseguenza del salasso popolare del 71 (è da vedere in proposito la Lettre à M. Daniel Halévy nel «Mouvement socialiste», 16 agosto e 15 settembre 1907); da esso viene una curiosa luce per le sue Riflessioni sulla violenza. Il salasso del 71 tagliò il cordone ombelicale tra il «nuovo popolo» e la tradizione del 93: Sorel avrebbe voluto essere il rappresentante di questa rottura tra popolo e giacobinismo storico, ma non gli riuscì.

Nota II. Gli scritti del Sorel del dopoguerra hanno una certa importanza per la storia della cultura occidentale. Il Sorel attribuisce al pensiero di Proudhon tutta una serie di istituzioni e di atteggiamenti ideologici di questo periodo.

Perché il Sorel ha potuto far questo? È assolutamente arbitrario questo suo giudizio? E data l’acutezza del Sorel come storico delle idee, che esclude, almeno in gran parte, una tale arbitrarietà, da quali esperienze culturali è partito il Sorel, e non è tutto ciò importante per un giudizio complessivo dell’opera sorelliana? È certo che occorre ristudiare Sorel, per cogliere al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente. Occorre tener presente che si è esagerato molto sull’«austerità» e «serietà» morale e intellettuale del Sorel; dall’epistolario col Croce risulta che egli non sempre vinceva gli stimoli della vanità: ciò risulta, per es., dal tono impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (titubante e sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con gli elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c’era molto dilettantismo, molto «non impegnarsi mai a fondo», quindi molta intrinseca irresponsabilità negli atteggiamenti «politici» del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «culturali‑politici», «intellettuali‑politici», «au dessus de la mêlée»: anche al Sorel si potrebbero muovere molte accuse simili a quelle contenute nell’opuscolo di un suo discepolo, I misfatti degli intellettuali. Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare, con una analisi accurata, ciò che vi è nelle sue opere di superficiale, di brillante, di accessorio, legato alle contingenze della polemica estemporanea, e ciò che vi è di «polposo» e sostanzioso, per farlo entrare, così definito, nel circolo della cultura moderna.

Nota III. Nel 1929, dopo la pubblicazione di una lettera in cui Sorel parlava di Oberdan, si moltiplicarono gli articoli di protesta per alcune espressioni usate dal Sorel nelle sue lettere al Croce e il Sorel fu «stroncato» (particolarmente violento un articolo di Arturo Stanghellini riportato nell’«Italia Letteraria» di quei giorni). L’epistolario fu interrotto nel numero successivo della «Critica» e ripreso, senza accenno alcuno all’incidente, ma con alcune novità: parecchi nomi furono pubblicati solo con le iniziali e si ebbe l’impressione che alcune lettere non siano state pubblicate o siano state espurgate. Da questo punto incomincia nel giornalismo una valutazione nuova del Sorel e dei suoi rapporti con l’Italia.

Q10b §69 Sorel, Proudhon, De Man (continuazione pagina 70 bis sgg.). Mario Missiroli ha pubblicato nel 1932 presso le «Edizioni Corbaccio» di Milano, l’«annunziata» raccolta di articoli scritti da Giorgio Sorel nei giornali italiani dal 1910 al 1921, col titolo L’Europa sotto la tormenta. Lo scritto del Sorel, pubblicato nella «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 col titolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito) non è riprodotto nel volume, sebbene fosse stato annunziato come scritto dal Sorel a modo di prefazione: la scelta degli articoli riprodotti, del resto, non permetteva la stampa di tale prefazione, che col contenuto del libro non ha niente a che vedere. Appare evidente che il Missiroli non si è attenuto alle indicazioni che il Sorel doveva avergli dato per compilare la raccolta, indicazioni che si possono ricavare dalla «prefazione» scartata. La raccolta è stata fatta ad usum delphini, tenendo conto solo di una delle tante direzioni del pensiero sorelliano, che non si può ritenere fosse giudicata dallo scrittore come la più importante, perché altrimenti la «prefazione» sarebbe stata di altra intonazione. Alla raccolta precede invece una prefazione del Missiroli, che è unilaterale ed è in contrasto stridente con la prefazione censurata, della quale, poco lealmente, non si fa neppur cenno.

Q13 §1
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§69 Sorel, Proudhon, De Man (continuazione pagina 70 bis sgg.). Mario Missiroli ha pubblicato nel 1932 presso le «Edizioni Corbaccio» di Milano, l’«annunziata» raccolta di articoli scritti da Giorgio Sorel nei giornali italiani dal 1910 al 1921, col titolo L’Europa sotto la tormenta. Lo scritto del Sorel, pubblicato nella «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 col titolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito) non è riprodotto nel volume, sebbene fosse stato annunziato come scritto dal Sorel a modo di prefazione: la scelta degli articoli riprodotti, del resto, non permetteva la stampa di tale prefazione, che col contenuto del libro non ha niente a che vedere. Appare evidente che il Missiroli non si è attenuto alle indicazioni che il Sorel doveva avergli dato per compilare la raccolta, indicazioni che si possono ricavare dalla «prefazione» scartata. La raccolta è stata fatta ad usum delphini, tenendo conto solo di una delle tante direzioni del pensiero sorelliano, che non si può ritenere fosse giudicata dallo scrittore come la più importante, perché altrimenti la «prefazione» sarebbe stata di altra intonazione. Alla raccolta precede invece una prefazione del Missiroli, che è unilaterale ed è in contrasto stridente con la prefazione censurata, della quale, poco lealmente, non si fa neppur cenno.

Q14 §26 Note di cultura italiana. A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal Sorel, che l’aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla Francia e più complessa aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale e morale). Nella «Critica» del 1931, in diverse puntate, è stato pubblicato un saggio inedito del Sorel, Germanesimo e storicismo di Ernesto Renan, scritto (datato) del maggio 1915 e che avrebbe dovuto servire di introduzione alla versione italiana del libro di Renan La riforma intellettuale e morale che doveva tradurre Missiroli e pubblicare Laterza. La traduzione del Missiroli non fu pubblicata e si capisce perché: nel maggio 1915 l’Italia intervenne nella guerra e il libro del Renan con la prefazione del Sorel sarebbe apparso un atto di tedescofilia. In ogni modo pare da accertare che la posizione del Missiroli sulla quistione del «protestantesimo in Italia» è una deduzione meccanica dalle idee critiche del Renan e del Sorel sulla formazione e le necessità della cultura francese. Non è però escluso che il Missiroli conoscesse anche le idee del Masaryk sulla cultura russa (egli per lo meno conosceva il saggio sul Masaryk di Antonio Labriola: ma il Labriola accenna a questa tesi «religiosa»? non mi pare) e nel 1918 conobbe dal «Grido del Popolo» il saggio sul Masaryk, con l’accenno alla tesi religiosa, pubblicato dal «Kampf» di Vienna nel 1914 e da me tradotto appunto nel «Grido» (questo saggio era anche conosciuto dal Gobetti). Le critiche fatte al Masaryk in questo saggio, metodologicamente, si avvicinano a quelle fatte dal Croce ai sostenitori di «riforme protestanti» ed è strano che ciò non sia stato visto dal Gobetti (per il quale, del resto, non si può dire che non comprendesse questo problema in modo concreto, a differenza del Missiroli, come dimostravano le sue simpatie politico‑pratiche). Occorrerebbe stroncare invece il Missiroli che è una carta asciugante di alcuni elementi culturali francesi.

Dal saggio del Sorel appare anche una strana tesi sostenuta dal Proudhon, a proposito di riforma intellettuale e morale del popolo francese (il Renan nella sua opera si interessa delle alte classi di cultura ed ha per il popolo un programma particolare: affidarne l’educazione ai parroci di campagna), che si avvicina a quella di Renan riguardante il popolo. Il Sorel sostiene che Renan anzi abbia conosciuto questo atteggiamento di Proudhon e ne sia stato influenzato. Le tesi di Proudhon sono contenute nell’opera La Justice dans la Révolution et dans l’Eglise, tome V, pp. 342‑44 e per esse si dovrebbe giungere a una riforma intellettuale e morale del popolo francese con l’aiuto del clero, che avrebbe, con il linguaggio e il simbolismo religioso, concretato e assicurato le verità «laiche» della Rivoluzione. Il Proudhon in fondo, nonostante le sue bizzarrie, è più concreto di quanto sembri: egli pare certamente persuaso che occorre una riforma intellettuale in senso laico («filosofico» come dice) ma non sa trovare altro mezzo didattico che il tramite del clero. Anche per Proudhon, il modello è quello protestante, cioè la riforma intellettuale e morale avvenuta in Germania con il protestantesimo, che egli vorrebbe «riprodotta» in Francia, nel popolo francese, ma con più rispetto storico della tradizione storica francese che è contenuta nella Rivoluzione. (Naturalmente occorre leggere bene Proudhon prima di servirsene per questo argomento). Anche la posizione del Sorel è strana in questo problema: la sua ammirazione per Renan e per i tedeschi gli fa vedere i problemi da puro intellettuale astratto.

Q15 §57 Passato e presente. Da una lettera a Uberto Lagardelle di Giorgio Sorel (scritta il 15 agosto 1898 e pubblicata nell’«Educazione Fascista» del marzo 1933): «Deville a pour grand argument que la campagne pour Dreyfus donne de la force aux militaristes et peut amener une réaction. Le malheureux ne voit pas que c’est tout le contraire: la réaction était en train express et elle se bute devant une résistence inopinée, où les avancés ont pour auxiliaire des modérés. Les gens qui ne voyaient pas le mouvement réel, qui en étaient aux apparences trompeuses des scrutins, croyaient que la France marchait dare dare vers le socialisme; j’ai toujours vu qu’elle marchait vers le césarisme. Le mouvement apparait maintenant, parce qu’il y a une pierre dans l’engrenage, les dents grincent et se cassent; mais ce n’est pas la pierre qui a fait naître l’engrenage, mais elle force les aveugles à s’apercevoir qu’il existe».

Q16 §9 Alcuni problemi per lo studio dello svolgimento della filosofia della praxis. La filosofia della praxis è stata un momento della cultura moderna; in una certa misura ne ha determinato o fecondato alcune correnti. Lo studio di questo fatto, molto importante e significativo, è stato trascurato o è addirittura ignorato dai così detti ortodossi e per la seguente ragione: che la combinazione filosofica più rilevante è avvenuta tra la filosofia della praxis e diverse tendenze idealistiche, ciò che ai così detti ortodossi, legati essenzialmente alla particolare corrente di cultura dell’ultimo quarto del secolo scorso (positivismo, scientismo) è parso un controsenso se non una furberia da ciarlatani (tuttavia nel saggio di Plekhanov su i Problemi fondamentali c’è qualche accenno a questo fatto, ma solamente sfiorato e senza tentativo alcuno di spiegazione critica). Per ciò pare sia necessario rivalutare la impostazione del problema così come fu tentata da Antonio Labriola.

È avvenuto questo: la filosofia della praxis ha subito realmente una doppia revisione, cioè è stata sussunta in una doppia combinazione filosofica. Da una parte, alcuni suoi elementi, in modo esplicito o implicito, sono stati assorbiti e incorporati da alcune correnti idealistiche (basta citare il Croce, il Gentile, il Sorel, lo stesso Bergson, il pragmatismo; dall’altra i così detti ortodossi, preoccupati di trovare una filosofia che fosse, secondo il loro punto di vista molto ristretto, più comprensiva di una «semplice» interpretazione della storia, hanno creduto di essere ortodossi, identificandola fondamentalmente nel materialismo tradizionale. Un’altra corrente è ritornata al kantismo (e si può citare, oltre il prof. Max Adler viennese, i due professori italiani Alfredo Poggi e Adelchi Baratono). Si può osservare, in generale, che le correnti che hanno tentato combinazioni della filosofia della praxis con tendenze idealistiche sono in grandissima parte di intellettuali «puri», mentre quella che ha costituito l’ortodossia era di personalità intellettuali più spiccatamente dedite all’attività pratica e quindi più legate (con legami più o meno estrinseci) alle grandi masse popolari (ciò che del resto non ha impedito alla più gran parte di fare capitomboli non di poca importanza storico‑politica). Questa distinzione ha una grande portata. Gli intellettuali «puri», come elaboratori delle più estese ideologie delle classi dominanti, come leaders dei gruppi intellettuali dei loro paesi, non potevano non servirsi almeno di alcuni elementi della filosofia della praxis, per irrobustire le loro concezioni e moderare il soverchio filosofismo speculativo col realismo storicista della teoria nuova, per fornire di nuove armi l’arsenale del gruppo sociale cui erano legati. D’altra parte la tendenza ortodossa si trovava a lottare con l’ideologia più diffusa nelle masse popolari, il trascendentalismo religioso e credeva di superarlo solo col più crudo e banale materialismo che era anch’esso una stratificazione non indifferente del senso comune, mantenuta viva, più di quanto si credesse e si creda, dalla stessa religione che nel popolo ha una sua espressione triviale e bassa, superstiziosa e stregonesca, in cui la materia ha una funzione non piccola.

Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri per la sua affermazione (non sempre sicura, a dire il vero) che la filosofia della praxis è una filosofia indipendente e originale che ha in se stessa gli elementi di un ulteriore sviluppo per diventare da interpretazione della storia filosofia generale. Occorre lavorare appunto in questo senso, sviluppando la posizione di Antonio Labriola, di cui i libri di Rodolfo Mondolfo non paiono (almeno per quanto si ricorda) un coerente svolgimento. Pare che il Mondolfo non abbia mai abbandonato completamente il fondamentale punto di vista del positivismo di alunno di Roberto Ardìgò. Il libro del discepolo del Mondolfo, il Diambrini Palazzi (presentato da una prefazione del Mondolfo) sulla Filosofia di Antonio Labriola è un documento della povertà di concetti e di direttive dell’insegnamento universitario del Mondolfo stesso.
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Una concezione della filosofia della praxis come riforma popolare moderna (poiché sono dei puri astrattisti quelli che aspettano una riforma religiosa in Italia, una nuova edizione italiana del calvinismo, come Missiroli e C.) è stata forse intravista da Giorgio Sorel, un po’ (o molto) dispersamente, intellettualisticamente, per una specie di furore giansenistico contro le brutture del parlamentarismo e dei partiti politici. Sorel ha preso da Renan il concetto della necessità di una riforma intellettuale e morale, ha affermato (in una lettera al Missiroli) che spesso grandi movimenti storici non sono rappresentati da una cultura moderna ecc. Ma mi pare che una tale concezione sia implicita nel Sorel quando si serve del cristianesimo primitivo come termine di paragone, con molta letteratura, è vero, ma tuttavia con più di un granello di verità, con riferimenti meccanici e spesso artificiosi, ma tuttavia con qualche lampo di intuizione profonda.

Q17 §20 Giorgio Sorel. Nella «Critica Fascista» del 15 settembre 1933 Gustavo Glaesser riassume il recente libro di Michael Freund (Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Klostermann Verlag, Francoforte am Main, 1932) che mostra quale scempio possa fare un ideologo tedesco di un uomo come Sorel. È da notare che, se pure Sorel possa, per la varietà e incoerenza dei suoi punti di vista, essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici, tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni. Bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque, ma egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare: il sindacalismo di Sorel non è un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali di uno Stato, ma solo di uno di essi, e la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un solo «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere ecc. Il punto oscuro nel Sorel è il suo antigiacobinismo e il suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno storico francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l’avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici.

Q28 §1
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Solo oggi (1935), dopo le manifestazioni di brutalità e d’ignominia inaudita della «cultura» tedesca dominata dall’hitlerismo, qualche intellettuale si è accorto di quanto fosse fragile la civiltà moderna – in tutte le sue espressioni contradditorie, ma necessarie nella loro contraddizione – che aveva preso le mosse dal primo rinascimento (dopo il Mille) e si era imposta come dominante attraverso la Rivoluzione francese e il movimento d’idee conosciuto come «filosofia classica tedesca» e come «economia classica inglese». Perciò la critica appassionata di intellettuali come Giorgio Sorel, come Spengler ecc., che riempiono la vita culturale di gas asfissianti e sterilizzanti.