Antonio Gramsci

Letteratura e vita nazionale

a cura di Gerratana, Valentino
Editori riuniti, 1996
V. Lingua nazionale e grammatica



Note per una introduzione allo studio della grammatica

q 29 § 1 Saggio del Croce: Questa tavola rotonda è quadrata. Il saggio è sbagliato anche dal punto di vista crociano (della filosofia crociana). Lo stesso impiego che il Croce fa della proposizione mostra che essa è «espressiva» e quindi giustificata: si può dir lo stesso di ogni «proposizione», anche non «tecnicamente» grammaticale, che può essere espressiva e giustificata in quanto ha una funzione, sia pure negativa (per mostrare l'«errore» di grammatica si può impiegare una sgrammaticatura). Il problema va quindi posto in altro modo, nei termini di «disciplina alla storicità del linguaggio» nel caso delle «sgrammaticature» (che sono assenza di «disciplina mentale», neolalismo, particolarismo provinciale, gergo, ecc.) o in altri termini (nel caso dato del saggio crociano l'errore è stabilito da ciò, che una tale proposizione può apparire nella rappresentazione di un «pazzo», di un anormale, ecc. ed acquistare valore espressivo assoluto; come rappresentare uno che non sia «logico» se non facendogli dire «cose illogiche»? ecc.). In realtà tutto ciò che [non] è «grammaticalmente esatto» può anche essere giustificato dal punto di vista estetico, logico, ecc., se lo si vede non nella particolare logica, ecc., dell'espressione immediatamente meccanica, ma come elemento di una rappresentazione piú vasta e comprensiva.

La quistione che il Croce vuol porre: «Cosa è la grammatica?» non può avere soluzione nel suo saggio. La grammatica è «storia», o «documento storico»: essa è la «fotografia» di una fase determinata di un linguaggio nazionale (collettivo) formatosi storicamente e in continuo sviluppo, o i tratti fondamentali di una fotografia. La quistione pratica può essere: a che fine tale fotografia? Per fare la storia di un aspetto della civiltà o per modificare un aspetto della civiltà?

La pretesa del Croce porterebbe a negare ogni valore a un quadro rappresentante tra l'altro una... sirena, per esempio, cioè si dovrebbe concludere che ogni proposizione deve corrispondere al vero o al verosimile, ecc.

(La proposizione può essere non logica in sé, contradditoria, ma nello stesso tempo «coerente» in un quadro piú vasto).

Q 29 § 2 Quante forme di grammatica possono esistere? Parecchie, certamente. C'è quella «immanente» nel linguaggio stesso, per cui uno parla «secondo grammatica» senza saperlo, come il personaggio di Molière faceva della prosa senza saperlo. Né sembri inutile questo richiamo, perché il Panzini (Guida alla Grammatica italiana, 18° migliaio) non pare distinguere tra questa «grammatica» e quella «normativa», scritta, di cui intende parlare e che per lui pare essere la sola grammatica possibile esistente. La prefazione alla prima edizione è piena di amenità, che d'altronde hanno il loro significato in uno scrittore (e ritenuto specialista) di cose grammaticali, come l'affermazione che «noi possiamo scrivere e parlare anche senza grammatica». In realtà oltre alla «grammatica immanente» in ogni linguaggio, esiste anche, di fatto, cioè anche se non scritta, una (o piú) grammatica «normativa», ed è costituita dal controllo reciproco, dall'insegnamento reciproco, dalla «censura» reciproca, che si manifestano con le domande: «Cosa hai inteso, o vuoi dire?», «Spiegati meglio», ecc., con la caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a stabilire «norme» o giudizi di correttezza o di scorrettezza, ecc. Ma questo manifestarsi «spontaneo» di un conformismo grammaticale, è necessariamente sconnesso, discontinuo, limitato a strati sociali locali o a centri locali, ecc. (Un contadino che si inurba, per la pressione dell'ambiente cittadino, finisce col conformarsi alla parlata della città; nella campagna si cerca di imitare la parlata della città; le classi subalterne cercano di parlare come le classi dominanti e gli intellettuali, ecc.).

Si potrebbe schizzare un quadro della «grammatica normativa» che opera spontaneamente in ogni società data, in quanto questa tende a unificarsi sia come territorio, sia come cultura, cioè in quanto vi esiste un ceto dirigente la cui funzione sia riconosciuta e seguita.

Il numero delle «grammatiche spontanee o immanenti» è incalcolabile e teoricamente si può dire che ognuno ha una sua grammatica. Tuttavia, accanto a questa «disgregazione» di fatto sono da rilevare i movimenti unificatori, di maggiore o minore ampiezza sia come area territoriale, sia come «volume linguistico». Le «grammatiche normative» scritte tendono ad abbracciare tutto un territorio nazionale e tutto il «volume linguistico» per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che d'altronde pone in un piano piú alto l'«individualismo» espressivo, perché crea uno scheletro piú robusto e omogeneo all'organismo linguistico nazionale di cui ogni individuo è il riflesso e l'interprete. (Sistema Taylor e autodidattismo).

Grammatiche storiche oltre che normative. – Ma è evidente che uno scrittore di grammatica normativa non può ignorare la storia della lingua di cui vuole proporre una «fase esemplare» come la «sola» degna di diventare, «organicamente» e «totalitariamente», la lingua «comune» di una nazione, in lotta e concorrenza con altre «fasi» e tipi o schemi che esistono già (collegati a sviluppi tradizionali o a tentativi inorganici e incoerenti delle forze che, come si è visto, operano continuamente sulle «grammatiche» spontanee e immanenti nel linguaggio). La grammatica storica non può non essere «comparativa»: espressione che, analizzata a fondo, indica la intima coscienza che il fatto linguistico, come ogni altro fatto storico, non può avere confini nazionali strettamente definiti, ma che la storia è sempre «storia mondiale» e che le storie particolari vivono solo nel quadro della storia mondiale. La grammatica normativa ha altri fini, anche se non [si] può immaginare la lingua nazionale fuori del quadro delle altre lingue, che influiscono per vie innumerevoli e spesso difficili da controllare su di essa (chi può controllare l'apporto di innovazioni linguistiche dovute agli emigrati rimpatriati, ai viaggiatori, ai lettori di giornali e lingue estere, ai traduttori, ecc.?)

La grammatica normativa scritta è quindi sempre una «scelta», un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale. Potrà discutersi sul modo migliore di presentare la «scelta» e l'«indirizzo» per farli accettare volentieri, cioè potrà discutersi dei mezzi piú opportuni per ottenere il fine; non può esserci dubbio che ci sia un fine da raggiungere che ha bisogno di mezzi idonei e conformi, cioè che si tratti di un atto politico.

Quistioni: di che natura è questo atto politico, e se debba sollevare opposizioni di «principio», una collaborazione di fatto, opposizioni nei particolari, ecc. Se si parte dal presupposto di centralizzare ciò che esiste già allo stato diffuso, disseminato, ma inorganico e incoerente, pare evidente che non è razionale una opposizione di principio, ma anzi una collaborazione di fatto e un accoglimento volenteroso di tutto ciò che possa servire a creare una lingua comune nazionale, la cui non esistenza determina attriti specialmente nelle masse popolari, in cui sono piú tenaci di quanto non si creda i particolarismi locali e i fenomeni di psicologia ristretta e provinciale; si tratta insomma di un incremento della lotta contro l'analfabetismo ecc. L'opposizione di «fatto» esiste già nella resistenza delle masse a spogliarsi di abitudini e psicologie particolaristiche. Resistenza stupida determinata dai fautori fanatici delle lingue internazionali. È chiaro che in questo ordine di problemi non può essere discussa la quistione della lotta nazionale di una cultura egemone contro altre nazionalità o residui di nazionalità.

Il Panzini non si pone neanche lontanamente questo problema e perciò le sue pubblicazioni grammaticali sono incerte, contraddittorie, oscillanti. Non si pone per esempio il problema di quale oggi sia, dal basso, il centro di irradiazione delle innovazioni linguistiche; che pure non ha poca importanza pratica. Firenze, Roma, Milano. Ma d'altronde non si pone neanche il problema se esista (e quale sia) un centro di irradiazione spontanea dall'alto, cioè in forma relativamente organica, continua, efficiente, e se essa possa essere regolata e intensificata.

Q 29 § 3 Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali. 1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori d'arte e quelli popolari; 4) il teatro e il cinematografo sonoro; 5) la radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose; 7) i rapporti di «conversazione» tra i vari strati della popolazione piú colti e meno colti – (una quistione alla quale forse non si dà tutta l'importanza che si merita è costituita da quella parte di «parole» versificate che viene imparata a memoria sotto forma di canzonette, pezzi d'opera, ecc. È da notare come il popolo non si curi di imparare bene a memoria queste parole, che spesso sono strampalate, antiquate, barocche, ma le riduca a specie di filastrocche utili solo per ricordare il motivo musicale); 8) i dialetti locali, intesi in diversi sensi (dai dialetti piú localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali piú o meno vasti: cosí il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia, ecc.).

Poiché il processo di formazione, di diffusione e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come «decisivo» e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria: si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità, e l'intervento organizzato accelererà i tempi del processo già esistente; quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire: in ogni caso, se l'intervento è «razionale», essa sarà organicamente legata alla tradizione, ciò che non è di poca importanza nell'economia della cultura.

Manzoniani e «classicisti». Avevano un tipo di lingua da far prevalere. Non è giusto dire che queste discussioni siano state inutili e non abbiano lasciato tracce nella cultura moderna, anche se non molto grandi. In realtà in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lingua unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della nazione italiana era a ritmo troppo lento. Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti piú intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale. Oggi si sono verificati diversi fenomeni che indicano una rinascita di tali quistioni: pubblicazioni del Panzini, Trabalza-Allodoli, Monelli, rubriche nei giornali, intervento delle direzioni sindacali, ecc...

Q 29 § 4 Diversi tipi di grammatica normativa. Per le scuole. Per le cosí dette persone colte. In realtà la differenza è dovuta al diverso grado di sviluppo intellettuale del lettore o studioso, e quindi alla tecnica diversa che occorre impiegare per fare apprendere o intensificare la conoscenza organica della lingua nazionale ai ragazzi, verso i quali non si può prescindere didatticamente da una certa rigidità autoritaria perentoria («bisogna dire cosí») e gli «altri» che invece bisogna «persuadere» per far loro accettare liberamente una determinata soluzione come la migliore (dimostrata la migliore per il raggiungimento del fine proposto e condiviso, quando è condiviso). Non bisogna inoltre dimenticare che nello studio tradizionale della grammatica normativa sono stati innestati altri elementi del programma didattico d'insegnamento generale, come quello di certi elementi della logica formale: si potrà discutere se questo innesto è opportuno o no, se lo studio della logica formale è giustificato o no (pare giustificato e pare anche giustificato che sia accompagnato a quello della grammatica, piú che dell'aritmetica, ecc., per la somiglianza di natura e perché insieme alla grammatica la logica formale è relativamente vivificata e facilitata), ma non bisogna prescindere dalla quistione.

Q 29 § 5 Grammatica storica e grammatica normativa. Posto che la grammatica normativa è un atto politico, e che solo partendo da questo punto di vista si può giustificare «scientificamente» la sua esistenza, e l'enorme lavoro di pazienza che il suo apprendimento richiede (quanto lavoro occorre fare per ottenere che da centinaia di migliaia di reclute della piú disparata origine e preparazione mentale risulti un esercito omogeneo e capace di muoversi e operare disciplinatamente e simultaneamente: quante «lezioni pratiche e teoriche» di regolamenti, ecc.) è da porre il suo rapporto con la grammatica storica. Il non aver definito questo rapporto spiega molte incongruenze delle grammatiche normative, fino a quella del Trabalza-Allodoli. Si tratta di due cose distinte e in parte diverse, come la storia e la politica, ma che non possono essere pensate indipendentemente: come la politica dalla storia. D'altronde, poiché lo studio delle lingue come fenomeno culturale è nato da bisogni politici (piú o meno consapevoli e consapevolmente espressi) le necessità della grammatica normativa hanno influito sulla grammatica storica e sulle «concezioni legislative» di essa (o almeno questo elemento tradizionale ha rafforzato nel secolo scorso l'applicazione del metodo naturalistico-positivistico allo studio della storia delle lingue concepito come «scienza del linguaggio»). Dalla grammatica del Trabalza e anche dalla recensione stroncatoria dello Schiaffini («Nuova Antologia», 16 settembre 1934) appare come anche dai cosí detti «idealisti» non sia compreso il rinnovamento che nella scienza del linguaggio hanno portato le dottrine del Bartoli. [La] tendenza dell'«idealismo» ha trovato la sua espressione piú compiuta nel Bertoni: si tratta di un ritorno a vecchie concezioni rettoriche, sulle parole «belle» e «brutte» in sé e per sé, concezioni riverniciate con un nuovo linguaggio pseudo-scientifico. In realtà si cerca di trovare una giustificazione estrinseca della grammatica normativa, dopo averne altrettanto estrinsecamente «mostrato» la «inutilità» teoretica e anche pratica.

Il saggio del Trabalza sulla Storia della grammatica potrà fornire indicazioni utili sulle interferenze tra grammatica storica (o meglio storia del linguaggio) e grammatica normativa, sulla storia del problema, ecc.

Q 29 § 6 Grammatica e tecnica. Per la grammatica può porsi la quistione come per la «tecnica» in generale? La grammatica è solo la tecnica della lingua? In ogni caso, è giustificata la tesi degli idealisti, specialmente gentiliani, dell'inutilità della grammatica e della sua esclusione dall'insegnamento scolastico? Se si parla (ci si esprime con le parole) in un modo determinato storicamente per nazioni o per aree linguistiche, si può prescindere dall'insegnare questo «modo storicamente determinato»? Ammesso che la grammatica normativa tradizionale fosse insufficiente, è questa una buona ragione per non insegnare nessuna «grammatica», cioè per non preoccuparsi in nessun modo di accelerare l'apprendimento del modo determinato di parlare di una certa area linguistica, ma di lasciare che la «lingua si impari nel vivente linguaggio» o altra espressione del genere impiegata dal Gentile o dai gentiliani? Si tratta, in fondo, di una forma di «liberalismo» delle piú bislacche e strampalate. Differenze tra il Croce e il Gentile. Al solito il Gentile si fonda sul Croce, esagerandone all'assurdo alcune posizioni teoretiche. Il Croce sostiene che la grammatica non rientra in nessuna delle attività spirituali teoretiche da lui elaborate, ma finisce col trovare nella «pratica» una giustificazione di molte attività negate in sede teoretica: il Gentile esclude anche dalla pratica, in un primo tempo, ciò che nega teoreticamente, salvo poi a trovare una giustificazione teoretica delle manifestazioni pratiche piú superate e tecnicamente ingiustificate.

Si deve apprendere «sistematicamente» la tecnica? È successo che alla tecnica di Ford si contrapponga quella dell'artigiano di villaggio. In quanti modi si apprende la «tecnica industriale»: artigiano, durante lo stesso lavoro di fabbrica, osservando come lavorano gli altri (e quindi con maggior perdita di tempo e di fatica e solo parzialmente); con le scuole professionali (in cui si impara sistematicamente tutto il mestiere, anche se alcune nozioni apprese dovranno servire poche volte in tutta la vita e anche mai); con le combinazioni di vari modi, col sistema Taylor-Ford che crea un nuovo tipo di qualifica e di mestiere ristretto a determinate fabbriche, e anche macchine o momenti del processo produttivo.

La grammatica normativa, che solo per astrazione può essere ritenuta scissa dal linguaggio vivente, tende a fare apprendere tutto l'organismo della lingua determinata, e a creare un atteggiamento spirituale che renda capaci di orientarsi sempre nell'ambiente linguistico (vedi nota sullo studio del latino nelle scuole classiche). Se la grammatica è esclusa dalla scuola e non viene «scritta», non perciò può essere esclusa dalla «vita» reale, come è stato già detto in altra nota: si esclude solo l'intervento organizzato unitariamente nell'apprendimento della lingua e, in realtà, si esclude dall'apprendimento della lingua colta la massa popolare nazionale, poiché il ceto dirigente piú alto, che tradizionalmente parla in «lingua», trasmette di generazione in generazione, attraverso un processo lento che incomincia coi primi balbettamenti del bambino sotto la guida dei genitori, e continua nella conversazione (coi suoi «si dice cosí», «deve dirsi cosí», ecc.) per tutta la vita: in realtà la grammatica si studia «sempre», ecc. (con l'imitazione dei modelli ammirati, ecc.). Nella posizione del Gentile c'è molta piú politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, come del resto è stato notato altre volte e in altre occasioni: c'è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale, c'è un «lasciar fare, lasciar passare» che non è giustificato, come era nel Rousseau (e il Gentile è piú rousseauiano di quanto creda) dall'opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un'ideologia astratta, «astorica».

Q 29 § 7 La cosí detta «quistione della lingua». Pare chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata «la quistione della lingua» che da questo punto di vista diventa interessante da studiare. Essa è stata una reazione degli intellettuali allo sfacelo dell'unità politica che esistè in Italia sotto il nome di «equilibrio degli Stati italiani», allo sfacelo e alla disintegrazione delle classi economiche e politiche che si erano venute formando dopo il Mille coi Comuni e rappresenta il tentativo, che in parte notevole può dirsi riuscito, di conservare e anzi di rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento). Il libretto di Dante ha anch'esso non piccolo significato per il tempo in cui fu scritto; non solo di fatto, ma elevando il fatto a teoria, gli intellettuali italiani del periodo piú rigoglioso dei Comuni, «rompono» col latino e giustificano il volgare, esaltandolo contro il «mandarinismo» latineggiante, nello stesso tempo in cui il volgare ha cosí grandi manifestazioni artistiche. Che il tentativo di Dante abbia avuto enorme importanza innovatrice, si vede piú tardi col ritorno del latino a lingua delle persone colte (e qui può innestarsi la quistione del doppio aspetto dell'Umanesimo e del Rinascimento, che furono essenzialmente reazionari dal punto di vista nazionale-popolare e progressivi come espressione dello sviluppo culturale dei gruppi intellettuali italiani e europei).

Linguistica

Q 3 § 74 Giulio Bertoni e la linguistica. Bisognerebbe scrivere una stroncatura del Bertoni come linguista, per gli atteggiamenti assunti ultimamente col suo scritto nel Manualetto di linguistica e nel volumetto pubblicato dal Petrini (vedi brano pubblicato dalla «Nuova Italia» dell'agosto 1930). Mi pare si possa dimostrare che il Bertoni né è riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in che consistano queste innovazioni e quale sia la loro importanza pratica e teorica.

Del resto nell'articolo pubblicato qualche anno fa nel «Leonardo» sugli studi linguistici in Italia egli non distingue per nulla il Bartoli dalla comune schiera e anzi per il gioco dei chiaroscuri lo mette in seconda linea, a differenza del Casella che nel recente articolo sul «Marzocco» a proposito della Miscellanea Ascoli, pone in rilievo l'originalità del Bartoli: nell'articolo bertoniano del «Leonardo» è da rilevare come il Campus appaia addirittura superiore al Bartoli, quando i suoi studi sulle velari ario-europee non sono che piccoli saggi in cui si applica puramente e semplicemente il metodo generale del Bartoli e furono dovuti ai suggerimenti del Bartoli stesso; è il Bartoli che disinteressatamente ha messo in valore il Campus e ha sempre cercato di metterlo in prima linea: il Bertoni, forse non senza accademica malizia, in un articolo come quello del «Leonardo» in cui occorreva quasi contare le parole dedicate a ogni studioso, per dare una giusta prospettiva, ha combinato le cose in modo che il Bartoli è messo in un cantuccio. Errore del Bartoli di aver collaborato col Bertoni nella compilazione del Manualetto, e dico errore e responsabilità scientifica. Il Bartoli è apprezzato per i suoi lavori concreti: lasciando scrivere al Bertoni la parte teorica induce in errore gli studenti e li spinge su una falsa strada: in questo caso la modestia e il disinteresse diventano una colpa.

D'altronde il Bertoni, se non ha capito il Bartoli, non ha nemmeno capito l'estetica del Croce, nel senso che dall'estetica crociana non ha saputo derivare dei canoni di ricerca e di costruzione della scienza del linguaggio, ma non ha fatto che parafrasare, esaltare, liricizzare delle impressioni: si tratta di un positivista sostanziale che si sdilinquisce di fronte all'idealismo perché questo è piú di moda e permette di fare della retorica. Fa meraviglia che il Croce abbia lodato il Manualetto, senza vedere e far notare le incongruenze del Bertoni: mi pare che il Croce abbia piú di tutto voluto prender atto benevolmente che in questo ramo degli studi, dove il positivismo trionfa, si cerchi di iniziare una via nuova nel senso idealistico. A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo. L'innovazione del Bartoli è appunto questa, che della linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto una scienza storica, le cui radici sono da cercare «nello spazio e nel tempo» e non nell'apparato vocale fisiologicamente inteso.

Bisognerebbe stroncare il Bertoni non solo in questo campo: la sua figura di studioso mi è sempre stata ripugnante intellettualmente: c'è in essa qualcosa di falso, di non sincero nel senso letterale della parola; oltre alla prolissità e alla mancanza di «prospettiva» nei valori storici e letterari.

Nella «linguistica» è crociano il Vossler, ma che rapporto esiste tra il Bartoli e il Vossler e tra il Vossler e quella che si chiama comunemente «linguistica»? Ricordare a questo proposito l'articolo del Croce Questa tavola rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica) dalla cui critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in questa quistione.

Q 6 § 20 È stupefacente la recensione benevola che Natalino Sapegno ha pubblicato nel «Pègaso» del settembre 1930 di Linguaggio e Poesia («Bibliotheca» editrice, Rieti, 1930, L. 5). Il Sapegno non s'accorge che la teoria del Bertoni essere la nuova linguistica una «sottile analisi discriminativa delle voci poetiche da quelle strumentali» è tutt'altro che una novità perché si tratta del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per cui si dividono le parole in «brutte» e «belle», in poetiche e non poetiche o antipoetiche ecc., cosí come si erano similmente divise le lingue in belle e brutte, civili o barbariche, poetiche e prosastiche ecc. Il Bertoni non aggiunge nulla alla linguistica, altro che vecchi pregiudizi, ed è meraviglioso che queste stoltezze gli siano passate per buone dal Croce e dagli allievi del Croce. Cosa sono le parole avulse e astratte dall'opera letteraria? Non piú elemento estetico, ma elemento di storia della cultura e come tali il linguista le studia. E cos'è la giustificazione che il Bertoni fa dell'«esame naturalistico delle lingue, come fatto fisico e come fatto sociale»? Come fatto fisico? Cosa significa? Che anche l'uomo, oltre che elemento della storia politica deve essere studiato come fatto biologico? Che di una pittura si deve fare anche l'analisi chimica? ecc. Che sarebbe utile esaminare quanto sforzo meccanico sia costato a Michelangelo lo scolpire il Mosè?

Che questi crociani non si accorgano di tutto questo è stupefacente e serve a indicare quale confusione il Bertoni abbia contribuito a diffondere in questo campo. Addirittura scrive il Sapegno che per questa indagine del Bertoni (sulla bellezza delle singole parole astratte: come se il vocabolo piú «frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella concreta opera d'arte tutta la sua freschezza e ingenuità primitiva) «è difficile e delicata, ma non perciò meno necessaria: per essa la glottologia, meglio che scienza del linguaggio, rivolta a scoprire leggi piú o meno fisse e sicure, si avvierà a diventare storia della lingua, attenta ai fatti particolari e al loro significato spirituale». E ancora: «Il nucleo di questo ragionamento (del Bertoni) è, come ognuno può vedere, un concetto tuttora vivo e fecondo dell'estetica crociana. Ma l'originalità del Bertoni consiste nell'averlo sviluppato ed arricchito per una concreta via, dal Croce soltanto additata, o magari iniziata, ma non mai seguita fino in fondo e di proposito», ecc. Se il Bertoni «rivive il pensiero crociano» ma anzi lo arricchisce, e il Croce si riconosce nel Bertoni, occorre dire che il Croce stesso deve essere riveduto e corretto: ma a me pare che il Croce sia stato solo molto indulgente col Bertoni, per non aver approfondito la quistione e per ragioni «didattiche».

Le ricerche del Bertoni sono in parte e sotto un certo aspetto un ritorno a vecchi sistemi etimologici: «sol quia solus est», come è bello che il «sole» contenga in sé implicita l'immagine della «solitudine» nell'immenso cielo e via via: «come è bello che in Puglia la libellula con le sue alucce in forma di croce, sia detta la morte», e cosí via. Ricordare in uno scritto di Carlo Dossi la storiella del professore che spiega la formazione delle parole: «all'inizio cadde un frutto, facendo pum! ed ecco il "pomo"», ecc. «E se fosse caduta una pera?» domanda il giovanetto Dossi.

Q 6 § 71 Antonio Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea. Fasc. I: Cenni storici e quistioni teoriche, Libreria di Scienze e Lettere del dott. G. Bardi, Roma, 1930 (nelle «Pubblicazioni della Scuola di Filologia Classica dell'Università di Roma, Serie seconda: Sussidi e materiali, II, 1»). Sul libro del Pagliaro cfr. la recensione di Goffredo Coppola nel «Pègaso» del novembre 1930.

Il libro è indispensabile per vedere i progressi fatti dalla linguistica in questi ultimi tempi. Mi pare ci sia molto di cambiato (a giudicare dalla recensione) ma che tuttavia non sia stata trovata la base in cui collocare gli studi linguistici. L'identificazione di arte e lingua, fatta dal Croce ha permesso un certo progresso e ha permesso di risolvere alcuni problemi e di dichiararne altri inesistenti o arbitrari, ma i linguisti, che sono essenzialmente storici, si trovano dinanzi l'altro problema: è possibile la storia delle lingue all'infuori della storia dell'arte e ancora è possibile la storia dell'arte?

Ma i linguisti precisamente studiano le lingue in quanto non sono arte, ma «materiale» dell'arte, in quanto prodotto sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo ecc. Queste quistioni non sono risolte, o lo sono con un ritorno alla vecchia rettorica rimbellettata (cfr. Bertoni).

Per il Perrotto (anche per il Pagliaro?), l'identificazione tra arte e lingua ha condotto a riconoscere come insolubile (o arbitrario?) il problema dell'origine del linguaggio, che significherebbe domandarsi perché l'uomo è uomo (linguaggio = fantasia, pensiero): mi pare che non sia molto preciso; il problema non può risolversi per mancanza di documenti e quindi è arbitrario: si può fare, oltre un certo limite storico, della storia ipotetica, congetturale e sociologica, ma non storia «storica». Questa identificazione permetterebbe anche di determinare ciò che nella lingua è errore, cioè non lingua. «Errore è la creazione artificiale, razionalistica, voluta, che non s'afferma perché nulla rivela, che è particolare all'individuo fuori della sua società». Mi pare che allora si dovrebbe dire che lingua = storia e non lingua = arbitrio. Le lingue artificiali sono come i gerghi: non è vero che siano assolutamente non lingue perché sono in qualche modo utili: hanno un contenuto storico-sociale molto limitato. Ma ciò avviene anche tra dialetto e lingua nazionale-letteraria. Eppure anche il dialetto è lingua-arte. Ma tra il dialetto e la lingua nazionale-letteraria qualcosa è mutato: precisamente l'ambiente culturale, politico-morale-sentimentale. La storia delle lingue è storia delle innovazioni linguistiche, ma queste innovazioni non sono individuali (come avviene nell'arte) ma sono di un'intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura, che ha «progredito» storicamente: naturalmente anch'esse diventano individuali, ma non dell'individuo-artista, dell'individuo-elemento storico-culturale completo determinato.

Anche nella lingua non c'è partenogenesi, cioè la lingua [che] produce altra lingua, ma c'è innovazione per interferenze di culture diverse ecc., ciò che avviene in modi molto diversi e ancora avviene per intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico delle Gallie, e ha invece influenzato il germanico «molecolarmente», cioè imprestandogli singole parole o forme ecc.). L'interferenza e l'influenza «molecolare» può avvenire nello stesso seno di una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che diventa dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri ecc. cioè delle società particolari, innovano molecolarmente. Il giudizio artistico in queste innovazioni ha il carattere del «gusto culturale», non del gusto artistico, cioè per la stessa ragione per cui piacciono le brune o le bionde e mutano gli «ideali» estetici, legati a determinate culture.

Q 5 § 151 [La lingua in Dante.] Importanza dello scritto di Enrico Sicardi La lingua italiana in Dante, edito a Roma dalla Casa Ed. «Optima» con prefazione di Francesco Orestano. Ne ho letto la recensione di G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e l'interpretazione della poesia) nel «Marzocco» del 14 aprile 1929. Il Sicardi insiste sulla necessità di studiare le «lingue» dei vari scrittori, se si vuole interpretare esattamente il loro mondo poetico. Non so se tutto ciò che il Sicardi scrive sia esatto e specialmente se sia possibile «storicamente» lo studio delle «particolari» lingue dei singoli scrittori, dato che manca un documento essenziale: una vasta testimonianza della lingua parlata nei tempi dei singoli scrittori. Tuttavia il richiamo metodologico del Sicardi è giusto e necessario (ricordare nel libro del Vossler, Idealismo e positivismo sullo studio della lingua, l'analisi estetica della favola di La Fontaine sul corvo e la volpe e l'erronea interpretazione di «son bec» dovuta all'ignoranza del valore storico di «son»).

Q 29 § 8 Del Bartoli, Quistioni linguistiche e diritti nazionali, discorso tenuto all'inaugurazione dell'anno accademico torinese 1934, pubblicato nel 1935 (vedi nota in «Cultura» dell'aprile 1935). Pare dalla nota che il discorso sia molto discutibile per alcune parti generali: per esempio l'affermazione che «l'Italia dialettale è una e indivisibile».