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Estratto da Domenico Losurdo, Con Gramsci oltre Marx e oltre
Gramsci, in «Critica Marxista», n. 5-6, 1997, pp. 56-66;
ora in Giorgio Baratta - Guido Liguori (eds.), Gramsci da un secolo
all’altro, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 95-112.
“Perché, nonostante la disfatta del «socialismo
reale» e la conclusione del ciclo storico nell’ambito del
quale dobbiamo pur collocare Gramsci, egli continua a rivelare
grande vitalità e forza suggestiva, tanto da esser letto e
discusso anche in ambienti politici ben lontani dal marxismo e dal
comunismo e in contesti culturali e geografici assai remoti rispetto
all’Italia? Si tenta talvolta di staccare questo straordinario
autore dalla storia tragica del comunismo novecentesco. Ma un tale
approccio è fuorviante. Già come pensatore, Gramsci
mostra chiaramente di aver fatto tesoro della lezione di Hegel e di
Marx: filosofare significa pensare concettualmente il proprio tempo;
elaborare un pensiero e un progetto di emancipazione significa
tracciare un bilancio storico dei movimenti di emancipazione
concretamente emersi e sviluppatisi. Ma oltre che pensatore, Gramsci
è stato anche dirigente comunista di primo piano: non
può essere trasformato in una sorta di Horkheimer o di Adorno
italiano, impegnato a costruire una teoria critica senza rapporto o
con un rapporto esclusivamente polemico nei confronti del movimento
comunista e del «movimento reale» di trasformazione
della società. [...]"
“E, sulla collocazione privilegiata di Gramsci nell’ambito del
marxismo novecentesco, conviene intanto tener presente che l’Italia
del tempo è un punto alto del dibattito filosofico e
politico, e non solo per la presenza di Croce e Gentile. Si pensi a
Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, cioè agli
elitisti che hanno elaborato o contribuito in modo considerevole ad
elaborare la teoria della democrazia oggi dominante. Sono questi gli
autori che Schumpeter ha alle spalle allorché definisce la
democrazia come una leadership concorrenziale garantita dal mercato
politico. Espunta è dalla definizione di questo regime
politico ogni idea di emancipazione e di partecipazione popolare al
potere. Come il mercato economico consente ai consumatori di
scegliere liberamente tra diversi prodotti, così il mercato
politico consente ai consumatori-elettori di scegliere liberamente
tra diversi leaders ediverse élites. Fuori discussione resta
l’avvicendarsi delle élites, rispetto alle quali le masse
popolari continuano ad essere una «moltitudine bambina»
che ora è possibile controllare e governare attraverso
strumenti di comunicazione e di manipolazione sempre più
potenti e irresistibili. Si potrebbe dire che tutta la riflessione
filosofica e politica in Gramsci è un tentativo di rispondere
alla sfida costituita dall’elitismo e dalla teoria elitista della
democrazia: si tratta di far sì che il «popolo
lavoratore» non rimanga nella condizione di «preda buona
per tutti», di semplice «materiale umano»,di
«materiale grezzo per la storia delle classi
privilegiate». Tale condizione risulta insuperabile fino a
quando le classi subalterne continuano ad essere una «massa
amorfa che ondeggia perennemente fuori di ogni organizzazione
spirituale».
Epperò questa «organizzazione spirituale» e
politica si configura come un processo che può essere
interrotto e spezzato dall’iniziativa dell’élite dominante,
la quale può cooptare al suo interno gli elementi più
capaci e più pericolosi delle classi subalterne. Si spiega
così, secondo Pareto, l’evoluzione del «socialista
“intellettuale” e “trasformista”» Bissolati che, in occasione
della guerra libica e poi del primo conflitto mondiale, fa proprie
le parole d’ordine colonialiste e interventiste della borghesia. Si
comprende allora il problema attorno a cui si arrovellano in
particolare i Quaderni del carcere: come impedire all’élite
dominante di decapitare, ideologicamente epoliticamente, il
movimento di emancipazione delle classi e dei popoli tenuti in
condizione subalterna dal sistema dominante? Tali decapitazioni
risultano agevoli anche per il fatto che «generalmente»
-osserva Pareto- i movimenti rivoluzionari degli «strati
inferiori» sono «capitanati da individui degli strati
superiori». E di nuovo vediamo Gramsci cimentarsi, in modo al
tempo stesso rigoroso e appassionato, coi problemi sollevati dal
geniale teorico dell’elitismo: come evitare che, durante le
«grandi “svolte” storiche», gli intellettuali
«formatisi» sul «terreno» del movimento
operaio ritornino alle «classi intermedie tradizionali»
da cui provengono? [...]
Ora il pensiero corre non più a Bissolati, bensì a
Mussolini e agli anarco-sindacalisti che passano al nazionalismo e
al fascismo, un fenomeno a cui anche i Quaderni del carcere dedicano
notevole attenzione a dimostrazione dell’estrema difficoltà
per il proletariato di un ceto di intellettuali e dirigenti ad esso
legato in modo stabile e organico. D’altro canto, è lo stesso
Mussolini a vantarsi, nel 1919 e nel 1924,della sua parabola
ideologica e politica, di essere un «eretico» espulso
dalla «chiesa ortodossa» del socialismo, nel quale aveva
comunque da giovane immesso, lui per primo, la lezione di Blanqui.
Gramsci non solo condanna il «blanquismo di questo
epilettico», ma esprime anche un giudizio complessivo:
«Il blanquismo, nella sua materialità, può
essere oggi sovversivo, domani reazionario, ma giammai
rivoluzionario».
L’articolo, pubblicato su «L’Ordine Nuovo» del 22 giugno
1921, porta il titolo Sovversivismo reazionario. Il sovversivismo
non è di per sé sinonimo di rivoluzione o di
rinnovamento. I Quaderni del carcere richiamano l’attenzione sul
fatto che «le frasi di “ribellismo”, di“sovversivismo”, di
“antistatalismo” primitivo ed elementare» sono espressione
di«apoliticismo», e dunque di rinuncia, di accettazione
o interiorizzazione di una situazione di subalternità. In
realtà, «scarsa comprensione dello Stato significa
scarsa coscienza di classe». Una classe subalterna dimostra di
essere matura per la conquista del potere solo allorché si
rivela in grado di costruire concretamente un «ordine
nuovo». Comincia ad emergere il carattere originale del
pensiero di Gramsci e della sua collocazione nell’ambito della
tradizione marxista. A definire tale originalità non è
solo l’attenzione al problema della democrazia, certo non estranea a
Marx, Engels e Lenin. Epperò, in questi autori il problema
della democrazia si affaccia, si presenta talvolta anche con forza,
ma per dileguare immediatamente. Col superamento degli antagonismi
di classe e delle classi sociali, è destinato ad estinguersi
lo Stato e dunquela democrazia, essa stessa una forma di Stato.
Alle spalle della tesi, ovvero dell’illusione, di Marx e Engels
c’è un drammatico bilancio storico. In Francia, la Prima
Repubblica, nata sull’onda della rivoluzione del 1789, si trasforma
nella dittatura e, poi, nell’impero di Napoleone I; la Seconda
Repubblica, scaturita dalla rivoluzione del 1848 cede poi il posto
alla dittatura bonapartistica di Napoleone III. Per quanto riguarda
l’Inghilterra, in situazioni di crisi la classe dominante procede
agevolmente alla sospensione dell’habeas corpus e delle garanzie
costituzionali e sottopone ad una sorta di stato d’assedio
permanente l’Irlanda riottosa al dominio imperiale britannico. E
dunque, col verificarsi o il profilarsi di una situazione di crisi,
lo Stato liberale e democratico non ha difficoltà a
trasformarsi in una dittatura aperta e persino terroristica. A
maggior ragione s’impone questa conclusione per Lenin. Con lo
scoppio della prima guerra mondiale, il dirigente bolscevico vede
anche gli Stati di più consolidata tradizione liberale
procedere ad una totale irreggimentazione della popolazione e
trasformarsi in Moloch sanguinari inoccasione della prima guerra
mondiale che, col ricorso alla legge marziale, ai plotoni
d’esecuzione e, talvolta, alla pratica della decimazione, impongono
il sacrificio inmassa dei loro cittadini sull’altare della
volontà di potenza e del dominio imperialistico.
Benché comprensibile nella sua genesi storica e psicologica,
la tesi dell’estinzione dello Stato sembra sfociare nella visione
escatologica di una società priva di conflitti e,
conseguentemente, non bisognosa di norme giuridiche capaci di
limitarli e regolamentarli. Del carattere astrattamente utopistico
della loro parola d’ordine sembrano in certi momenti rendersi conto
Marx e Engels che, con significativa oscillazione, talvolta parlano
di abolizione o estinzione dello Stato in quanto tale,talaltra dello
«Stato nell’attuale senso politico» ovvero del
«potere politico propriamente detto». D’altro canto,
secondo la loro stessa analisi, oltre ad essere uno strumento del
dominio di classe, lo Stato è anche una forma di
«garanzia reciproca», di «assicurazione
reciproca» tra gli individui della classe dominante. Non si
comprende allora perché, dopo lo scomparsa delle classi e
della lotta di classe, dovrebbe diventare superflua la
«garanzia» o l’«assicurazione» da fornire ai
singoli membri di una comunità unificata. In ogni caso,
l’attesa del dileguare di ogni conflitto e dell’estinzione dello
Stato e del potere politico in quanto tale rende impossibile la
soluzione del problema della trasformazione in senso democratico
dello Stato scaturito dalla rivoluzione socialista;questa attesa
favorisce l’emergere o il permanere di un atteggiamento fatto
di«sovversivismo» banale e inconcludente, incapace di
conferire concretezza e stabilità all’emancipazione delle
classi subalterne.
Gramsci si dimostra piuttosto critico nei confronti delle tendenze
anarchiche e messianiche. Il socialismo viene visto dal pensatore
dell’ «Ordine Nuovo» non come l’inizio del processo di
estinzione, bensì come la costruzione dello «Stato
sociale del lavoro e della solidarietà»; e non
può essere diversamente, dato che «non esiste
società se non in uno Stato». Si tratta, secondo i
Quaderni di trovare una forma di organizzazione della società
che, superando ogni antagonismo di classe, sappia fare a meno
dell’apparato di repressione, costruito in vista della guerra di
classe all’interno e dello scontro armato con altre classe
sfruttatrici concorrenti a livello internazionale. Ma tale forma di
organizzazione della società comunista è essa stessa
una forma di Stato: «L’elemento Stato-coercizione si
può immaginare esaurientesi man mano che si affermano
elementi sempre più cospicui di società regolata (o
Stato etico o società civile)».
Naturalmente, non mancano dichiarazioni che vanno in direzione
diversa e contrastante e che prospettano cioè uno
«sparire» dello Stato e il «riassorbimento della
società politicanella società civile»; è
tuttavia da tener presente che per Gramsci la «società
civile [...] è anch’essa “Stato”, anzi è lo Stato
stesso», e dunque resta da vedere fino a che punto il
«riassorbimento della società politica nella
società civile» comporta l’avvento di una
società realmente senza Stato. I Quaderni del carcere mettono
esplicitamente in guardia contro l’«errore teorico» che,
nell’indagare il rapporto tra società civile e Stato,
trasforma una «distinzione metodica» in
«distinzione organica», dimenticando che «nella
realtà effettuale società civile e Stato si
identificano». Ma non è per l’appunto inquesto errore
che incorre la tesi dell’estinzione dello Stato?
Per un verso, la presa di distanza da questo mito è la
condizione preliminare per pensare realmente – hegelianamente -la
negazione determinata (non quella indeterminata che si esprime nel
messianismo e nell’anarchismo) dell’ordinamento esistente, il
progetto e il processo di costruzione di una società
post-capitalistica; per un altro verso, tale presa di distanza
consente una comprensione più completa e più profonda
della stessa società capitalistica, che ora è
possibile indagare alla luce di una fenomenologia del potere
più ricca e più concreta. Certo, per quanto riguarda
quest’ultimo punto, Gramsci si colloca sulla scia di Marx ed Engels
che, a tale proposito, si differenziano nettamente dalla tradizione
liberale. Questa individua il luogo del dominio e della
sopraffazione esclusivamente nello Stato, sicché
l’emancipazione non può consistereche nella progressiva
riduzione della presenza dello Stato. Il Manifesto del partito
comunista sorprende invece all’interno della fabbrica capitalistica
un «dispotismo» di carattere militare, rispetto al quale
l’intervento dello Stato, e persino dello Stato borghese, può
costituire un ostacolo e un contrappeso. Epperò, in
più occasioni, Engels celebra gli USA come il paese in cui
l’«abolizione dello Stato» è già
realizzata, almeno nel senso «borghese» del termine.
Nessuna attenzione sembra essere riservata alla sorte degli indios e
a quella dei neri, prima sottoposti a schiavitù e, negli anni
successivi alla guerra di Secessione, costretti ad un regime di
apartheid e di whitesupremacy che giunge sino alle forme più
efferate di linciaggio. Negli USA della fine dell’Ottocento,
è forse debole lo Stato (centrale), ma è tanto
più forte il Ku Klux Klan, espressione certo della
società civile, la quale però è essa stessa il
luogo dell’esercizio del potere, e di un potere assai brutale. Nel
1883, la Corte Suprema dichiara incostituzionale una legge federale
che pretende di vietare la segregazione dei neri sui luoghi di
lavoro o sui servizi (le ferrovie) gestiti da compagnie private, per
definizione sottratti ad ogni interferenza statale. Nella misura in
cui sussiste un argine alla sopraffazione a danno dei neri e degli
indios, esso risiede nel potere politico centrale, di cui Engels
celebra l’estinguersi o il dileguare! Il fatto è che nei
testi sopra citati, il luogo della violenza e del dominio viene
identificato esclusivamente nello Stato, e il luogo della
libertà nella società civile, proprio come nella
fenomenologia del potere cara alla tradizione liberale.
Ben più feconda, ai fini della comprensione della storia
degli USA e del mondo contemporaneo in genere, si rivela la tesi di
Gramsci secondo cui la società civile è essa stessa
una forma di Stato. A questo punto, il problema dell’emancipazione
diventa piùcomplesso e più drammatico. Se anche fosse
possibile, l’estinzione dello Stato non sarebbe di per sé
sinonimo di emancipazione, dato che la società civile
può bene sprimere una carica di violenza e sopraffazione non
inferiore a quella dispiegata delloStato politico, anzi tanto
più priva di scrupoli, in quanto suscettibile di dispiegarsi
senza impacci, senza neppure la preoccupazione di mantenere la forma
o la parvenza dell’imparzialità.
All’attesa dell’estinzione dello Stato s’intreccia spesso,
nell’ambito della tradizione marxista, la rivendicazione della
democrazia diretta. Questo tema da un lato è in stridente
contraddizione col primo (per diretta che sia, la democrazia
è pur sempre una forma di Stato), dall’altro è un suo
riecheggiamento in forma più blanda ed incerta (così
diretta è l’auto-espressione del popolo che diventano
irrilevanti sino adileguare del tutto gli organismi rappresentativi,
le istituzioni statali e dunque,paradossalmente, la stessa
democrazia). La contrapposizione della democrazia diretta a quella
rappresentativa scaturisce comunque dal rifiuto di una
«democrazia» che non riesce a dispiegare alcuna
efficacia nei luoghi di produzione, nelle fabbriche, dove, secondo
l’analisi del Manifesto del partito comunista, gli operai,
«organizzati militarmente» e, «come soldati
semplici dell’industria [...] sottoposti alla sorveglianzadi tutta
una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali», continuano ad
essere sottoposti ad un «dispotismo» che in pratica li
priva di quella stessa libertà negativa che pure la
tradizione liberale dice di avere a cuore. Per un altro verso,
però, la contrapposizione in questione sembra scaturire
dall’illusione che, col dileguare della mediazione costituita dalla
rappresentanza, il popolo riuscirebbe a esprimere la sua carica
autentica di emancipazione senza più ostacoli o distorsioni.
E’ un’illusione ben si comprende a partire dai presupposti anche
epistemologici dell’anarchismo che talvolta assume toni
irrazionalistici, con Bakunin costantemente impegnato a celebrare
l’«istinto» e la «vita» in contrapposizione
al «pensiero» e alla sua pretesa di «prescrivere
regole alla vita»: come violenza e sopraffazione si configura
allora l’idea di rappresentanza in quanto tale, che al dirigente
anarchico fa pensare a Saturno il quale «rappresentava i
propri figli a misura che se li divorava». Ma questa fede in
una spontaneità mitica, senza mediazioni e senza storia, ben
difficilmente può essere conciliabile con la tesi di Marx
secondo cui le idee dominanti sono le idee della classe dominante,
quella che monopolizza i mezzi di produzione materiale e spirituale.
La rappresentanza diverrebbe superflua dopo il rovesciamento del
potere politico ed economico della borghesia? Stato e rivoluzione
cade nel momento in cui più aspra era, e non poteva non
essere, la denuncia dei regimi rappresentativi liberali o
liberal-democratici: nel corso della prima guerra mondiale, essi
effettivamente funzionano nel modo descritto dal dirigente
anarchico, dato che tranquillamente immolano milioni di uomini e di
«rappresentati» in un gigantesco rito sacrificale.
Eppure, persino in tale scritto possiamo leggere che anche la
democrazia più sviluppata non può fare a menodi
«istituzioni rappresentative». E tuttavia, il mito
dell’estinzione dello Stato continuaad alimentare la diffidenza nei
confronti dell’idea di rappresentanza nello stesso momento in cui la
Russia scaturita dalla rivoluzione d’Ottobre vede moltiplicarsi i
Soviet, organismi rappresentativi che non rifuggono neppure da una
rappresentanza a più gradi. D’altro canto, a dirigere il
nuovo Stato è un partito che, ben lungi dall’abbandonarsi al
culto dell’immediatezza e della spontaneità, si organizza e
siarticola mediante una complessa rete di mediazioni e di
rappresentanza a più gradi.
Protagonista dell’esperienza dei Consigli fondati, come i Soviet,
sul principio della rappresentanza e persino della rappresentanza a
più gradi, Gramsci non attribuisce alcun rilievo al tema
della democrazia diretta; forse, nei Quaderni è persino
assente l’espressione. La cosa ben si si comprende. Se la
società civile è una forma di Stato ed è essa
stessa il luogo del potere e del dominio, demandare ad essa
l’investitura diretta di un leader politico o di un gruppo dirigente
non è affatto sinonimo di emancipazione. Gramsci è il
pensatore marxista che fornisce gli strumenti teorici più
adeguati per la lotta contro il bonapartismo soft, per la lotta
cioè contro la riduzione della democraziaa investitura
diretta e plebiscitaria di un leader più o meno carismatico e
fornito di amplissimi poteri.
In conclusione, potremmo dire che in Marx e Engels, dopo aver
giocato un ruolo fondamentale nella conquista del potere, la
politica sembra poi dissolversi assieme allo Stato e al potere
politico. Tanto più che, oltre alle classi, allo Stato e al
potere politico, dileguano anche la divisione del lavoro, le
nazioni, le religioni, il mercato, ogni possibile fonte di
conflitto. Sostanzialmente immutata rimane questa piattaforma
teorica in Lenin; epperò, in contraddizione con essa, abbiamo
visto il dirigente bolscevico impegnarsi nella costruzione concreta
del nuovo Stato e dei suoi organismi rappresentativi. Ma è
solo con Gramsci che il messianismo comincia a cadere in crisi anche
sul piano teorico: se risulta assai difficile o impossibile separare
nettamente società civile e Stato, di una straordinaria
vitalità si rivelano gli organismi nazionali (nella cui
identità è spesso presente una forte componente
religiosa); quanto poi al mercato, converrebbe parlare di
«mercato determinato» piuttosto che di mercatoin quanto
tale. Assistiamo allo sforzo di conferire un corpo politico ovvero
un corpo politico più robusto al pensiero marxista. Emerge
ora con nettezza il posto originale nell’ambito del marxismo
novecentesco occupato da Gramsci. Questi agisce in una situazione
relativamente privilegiata. L’Italia interviene più tardi nel
primo conflitto mondiale, e questa ha un impatto catastrofico
soprattutto in Russia e in Germania, dove particolarmente elevato
è il numero delle vittime e dove alla guerra propriamente
detta s’intrecciano la rivoluzione e una guerra civile esplicita o
latente, un radicale mutamento di regime,una crisi economica,
politica e ideale di carattere epocale. Tutto ciò favorisce
la lettura in chiave apocalittica del marxismo, tanto più che
ad alimentarla ulteriormente è il peso della grande
intellettualità ebraica. La tradizione religiosa e culturale
alle sue spalle per un verso stimola potentemente la ribellione
contro la guerra e il massacro imperialista, per un altro verso
tende a conferire a tale ribellione una valenza messianica. Il
richiamo alla tradizione religiosa ebraica è talvolta
esplicito e dichiarato. E’ il caso di Benjamin e, in modo più
sfumato e mediato, anche di altri autori. Il giovane Bloch viene
descritto da testimoni a lui contemporanei come «un nuovo
filosofo ebreo» che si crede, «manifestamente, il
precursore di un nuovo Messia». E, in effetti, fa pensare
più ad Isaia che a Marx.
Spirito dell’utopia che, nella sua prima versione, chiama la Russia
sovietica e il comunismo a realizzare la «trasformazione
delpotere in amore». In Gramsci, invece, la rivoluzione
comunista rappresenta certo un momento di rottura ma non è la
negazione pura e semplice del passato e l’approdo ad un Novum
trasfigurato dall’utopia. L’esperienza traumatica del macello
consumatosi nel corso della prima guerra mondiale e del successivo
avvento del fascismo stimola nel marxismo novecentesco un
atteggiamento di liquidazione della storia della borghesia, anzi di
tutta la storia passata, come un cumulo di errori e orrori. Contro
tale «antistoricismo», sinonimo di
«metafisica», polemizzano i Quaderni del carcere: non ha
senso liquidare «il passato come “irrazionale” e
“mostruoso”» riducendo così la storia politica e delle
idee a un «trattato storico di teratologia», a una
grottesca vicenda di mostri.
Prendere le distanze dal messianismo e dall’anarchismo e sforzarsi
di conferire un corpo politico ovvero un corpo politico più
robusto al marxismo significa anche rompere con la lettura in chiave
economicistica di questa tradizione di pensiero. In Italia, il
lorianesimo non solo riduceva il materiale all’economico, ma
pretendeva di istituire una sorta di corrispondenza bi-univoca tra
singolo fatto economico e singola espressione ideologica e politica.
Ed è così che, nel confutarli, Max Weber legge Marx ed
Engels. Il grande sociologo tedesco sembra avuto una certa stima di
Achille Loria. E’ forse anche per questo che considera imprecisa
l’espressione di «materialismo storico» e ritiene che si
dovrebbe piuttosto parlare di «interpretazione economica
delcorso storico» ovvero «della realtà». In
modo analogo argomentano in Germania altri grandi intellettuali,
come Scheler e Sombart. Da questa tipo di lettura prende le distanze
già Lenin: «Ma dove avete “letto” in Marx e in Engels
che essi parlassero necessariamente di materialismo economico?
Quando essi definirono la loro concezione del mondo, la chiamarono
semplicemente materialismo». Epperò, sia pur con
qualche riserva, il Che fare? sembra accettare «la
denominazione di “economismo” (alla quale non abbiamo nessuna
intenzione dirinunziare poiché, in un modo o nell’altro, essa
ha ormai ottenuto diritto dicittadinanza)». Se nel suo metodo
di analisi concreta della situazione concreta ilrivoluzionario russo
è generalmente ben lontano dall’economismo, sul piano
teoricosembra rifuggire da una condanna netta e senza equivoci.
Diverso è il caso di Gramsci, alle cui spalle agisce la
lezione di Croce. Questi richiama l’attenzione sul fatto che
«le due formule» di «concezione economica della
storia» e di «materialismo storico» non sono
«sinonimiche». Dopo aver fatto risalire a Loria la
stessa espressione di «economismo storico»
(caratterizzato come un insieme di«concezioni più o
meno sgangherate»), i Quaderni del carcere sottolineano:
«Avviene spesso che si combatta l’economismo storico, credendo
di combattere il materialismo storico». Ma Gramsci procede
oltre. Non solo distingue nettamente la visione del processo storico
propria di Marx e Engels dalle sue interpretazioni o contraffazioni
in chiave economicistica, ma, sia pur timidamente, critica i residui
di economicismo e meccanicismo presenti in quella stessa visione.
Nei testi dei due fondatori del materialismo storico è
possibile sorprendere due diverse e contrastanti versioni della
teoria della rivoluzione, anche se il punto di partenza è pur
sempre costituito dall’acutizzarsi della contraddizione tra forze
produttive e rapporti di produzione. Grevemente meccanicistica
è la versione consegnata alla celeberrima pagina del Capitale
che vede la rivoluzione socialista come conseguenza immediata e
automatica del compiersi del processo di accumulazione capitalistica
che avanza implacabilmente espropriando i piccoli produttori sino al
momento in cui «suona l’ultima ora dellaproprietà
privata capitalistica» e «gli espropriatori vengono
espropriati». La politica, le peculiarità nazionali, i
fattori ideologici, la stessa coscienza rivoluzionaria, tutto
ciò sembra non giocare alcun ruolo, ed è chiaro che
tale teoria è inservibile per spiegare una qualsiasi
rivoluzione concretamente determinata. Al contrario, il Manifesto
del partito comunista prevede la possibilità di una
rivoluzione socialista in un paese come la Germania che, sul piano
dello sviluppo capitalistico è ancora piuttosto arretrato
rispetto all’Inghilterra e che, per quanto riguarda l’assetto
propriamente politico, è al di qua della rivoluzione
borghese. In Gramsci non c’è traccia della prima versione,
quella economicistica, della rivoluzione. Questa scaturisce da una
molteplicità e un intreccio di contraddizioni diverse. Per
usare il linguaggio di Althusser, potremmo dire che la rottura
rivoluzionaria è per definizione sovradeterminata: essa
presenta un’ineludibile dimensione nazionale, e dunque si colloca in
un contesto storico e culturale determinato e con caratteristiche
peculiari. Considerazioni analoghe potrebbero ovviamente essere
fatte valere anche per Lenin, ma è solo Gramsci a spingersi
sino alla critica di Marx e Engels. Il celebre articolo che saluta
la rivoluzione d’Ottobre scoppiata «contro Il capitale»
(positivisticamente interpretato dalla Seconda Internazionale)
sottolinea che da «incrostazioni positivistiche e
naturalistiche» (ed economicistiche) non sono immuni neppure
nei fondatori del materialismo storico. E’ in questo contesto che va
collocata l’attenzione tutta particolare rivolta al tema
dell’egemonia. Per comprendere adeguatamente questo punto, non ci si
può limitare alla dicotomia egemonia/dittatura ovvero
consenso/coercizione. Gramsci sottolinea ripetutamente che ogni
Stato comporta entrambi i momenti, anche se il secondo, ne ipaesi di
consolidata tradizione liberale, diviene evidente soprattutto in
situazioni di crisi acuta; peraltro, questi due momenti sono
presenti all’interno della stessa società civile. Se anche
progetta un ordinamento in cui sia ridotto al minimo il momento
della coercizione, il teorico dell’egemonia non è il profeta
disarmato o l’anima bella che evade dal terreno delle contraddizioni
reali. Il tema dell’egemonia istituisce in primo luogo una polemica
contro ogni visione meccanicistica ed economicistica della
storia,del processo rivoluzionario e dello stesso processo di
formazione della coscienza rivoluzionaria. Il Manifesto del partito
comunista insiste sul fatto che l’organizzazione del proletariato in
classe è continuamente rimessa in discussione dalla
concorrenza economica che il capitale suscita tra i membri della
classe operaia. Senza ignorare questo aspetto, Gramsci richiama
l’attenzione sugli aspetti politici e persino morali del passaggio
dalla classe in sé alla classe per sé. Per conquistare
autonoma soggettività politica, le classi subalterne devono
saper realizzare una «riforma intellettuale e morale»,
devono riuscire a distaccarsi dall’arroccamento corporativo e saper
procedere ad una «catarsi» culturale e politica
(emergono qui una problematica e una terminologia che rompono
definitivamente con l’interpretazione in chiave economicistica del
materialismo storico):
«Il metallurgico, il falegname, l’edile, ecc. devono non solo
pensare come proletari e non più come metallurgico,
falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un passo avanti;
devono pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere
i contadini e gli intellettuali, di una classe che può
vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e
seguita dalla grande maggioranza di questi strati sociali. Se non si
ottiene ciò, il proletariato non diventa classe
dirigente».
Tutta una tradizione di pensiero, liberale o reazionaria, pretende
di individuare nell’invidia o nel ressentiment la molla del
socialismo: così Nietzsche e così in Italia, per fare
solo un esempio, Pareto. La riflessione di Gramsci in carcere si
sviluppa mentre in Germania il nazismo attizza il risentimento e
l’invidia degli strati popolari più arretrati nei confronti
degli intellettuali soprattutto rivoluzionari e incanala contro gli
ebrei la frustrazione delle masse impoverite dalla guerra e dalla
crisi economica. Contrariamente al luogo comune della tradizione di
pensiero liberale o reazionaria, il ressentiment si rivela uno
strumento della reazione per deviare su falsi bersagli la protesta
sociale, per frantumare le classi subalterne in innumerevoli rivoli
corporativi e spezzare e liquidare il movimento operaio e comunista.
Alla luce di tutto ciò, acquista particolare rilievo la
riflessione dei Quaderni che, significativamente, individuano nel
«momento “catartico” [...] il punto di partenza per tutta la
filosofia della prassi».
Con Gramsci siamo in presenza di un autore e di un dirigente
politico che ha vissuto la tragedia della sconfitta del movimento
operaio e della vittoria del fascismo e, proprio per questo,
è stato costretto a rompere con le speranze di rapida e
definitiva palingenesi rivoluzionaria, per approfondire invece
l’analisi del carattere complesso e contraddittorio del processo di
trasformazione politica e sociale. Per quanto riguarda la Francia,
il ciclo della rivoluzione borghese abbraccia un periodo che va dal
1789 al 1871; il passaggio dal capitalismo alla
«società regolata», cioè al comunismo,
«durerà probabilmente dei secoli». Tale approccio
teorico non può non risultare particolarmente stimolante e
fecondo in un momento storico come quello attuale, in cui il
movimento di emancipazione delle classi e dei popoli in condizione
subalterna è costretto a registrare una nuova e disastrosa
sconfitta. Non si tratta di un motivo consolatorio.
Ricapitoliamo il cammino sin qui percorso. Gramsci richiama
l’attenzione sulle ampie possibilità che si offrono alla
classe dominante di decapitare politicamente e ideologicamente le
classi subalterne; con la sua fenomenologia del potere individua il
luogo del dominio non solo nello Stato politico propriamente dettoma
nella stessa società civile; insiste sulla dimensione non
solo economica e politica,ma anche ideologica e persino morale del
processo di formazione della coscienza rivoluzionaria. Per tutte
queste ragioni, Gramsci non solo è assai lontano da ogni
teoria del crollo ma sviluppa una visione della storia basata sulla
complessità del processo di trasformazione, sui tempi lunghi
del passaggio dall’antico regime all’«ordine nuovo».
Questo stesso «ordine nuovo» comincia ad essere pensato
con un approccio più realistico rispetto alla tradizione che
prende le mosse da Marx. Questi, nella Miseria della filosofia,
rimprovera agli economisti borghesi di essere attaccati ad una
visione per cui «c’è stata storia, ma ormai non ce
n’è più». Paradossalmente, tale visione ha
finito con l’essere ereditata dal «socialismo reale»;
dopo il brusco risveglio ai suoi ideologi imposto dalla storia, la
parola d’ordine della «fine della storia» è
ritornata agli apologeti della società borghese. Criticare
quest’ultima, confutare gli ingenui ideologi della sua
eternità e intranscendibilità non significa riprendere
acriticamente,come se nulla fosse successo, utopie astratte. Heri
dicebamus: questo può essere l’atteggiamento degli idealisti
pronti a ridurre la concreta vicenda storica ad una sorta parentesi
che può essere tranquillamente ignorata, non già di
coloro che fanno professione di materialismo storico. Con la sua,
sia pur timida, presa di distanza da ogni visione anarchica e
più o meno apocalittica della trasformazione
politico-sociale, Gramsci ha indicato una via che dev’essere ancora
percorsa sino in fondo: pensare un incisivo progetto di
emancipazione che non pretenda di essere la fine della storia. Si
tratta di prendere congedo da utopie astratte, spiegando al tempo
stesso le ragioni storiche del loro emergere. Possiamo qui far
tesoro di un’indicazione di Engels, il quale, nel fare il bilancio
della rivoluzione inglese e francese, osserva:
«Affinché potessero venire assicurate almeno quelle
conquiste della borghesia che erano mature e pronte adessere
mietute, era necessario che la rivoluzione oltrepassasse il suo
scopo [...] Sembra che questa sia una delle leggi dell’evoluzione
della società borghese». Non c’è motivo per
sottrarre alla metodologia materialistica elaborata da Marx e Engels
il movimento storico reale e la rivoluzione che a loro si sono
ispirati. In fondo, ogni rivoluzione tende a presentarsi come
l’ultima, anzi come la soluzione di ogni contraddizione e quindi
come la fine della storia.
L’incisivo progetto di emancipazione che non pretenda di essere la
fine della storia e di ogni conflitto dev’essere pensato in una
situazione radicalmente diversa rispetto al passato, il quale
tuttavia non può essere sommariamente liquidato. Nonostante
gli orrori della prima guerra mondiale e del fascismo, abbiamo visto
i Quaderni del carcere rifiutarsi di leggere la storia moderna come
un trattato di «teratologia»; non c’è motivo di
leggere in questo modo la storia del «socialismo reale»,
nonostante gli errori, le colossali mistificazioni e gli orrori che
l’attraversano. L’autore che ha chiamato il movimento operaio e
comunista ad ereditare i punti alti della rivoluzione francese
può ben essere d’aiuto oggi a comprendere il problema
dell’eredità anche per quanto riguarda la rivoluzione
d’Ottobre”.