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di Giuseppe Izzi
Nacque ad Atene il 19 genn. 1848 da Adolfo, agiato commerciante
tedesco di Norimberga, e da Serafina Bini, anconetana, il primo di
fede luterana, la seconda cattolica. Né la diversità
di credo religioso, né la differenza di lingua incrinarono
mai l'unità della famiglia e l'atmosfera di rispetto,
comprensione e cultura in cui crebbero il G. e il fratello Ottone,
di lui maggiore di sei anni. Gravi conseguenze ebbe invece il
dissesto dell'azienda commerciale del padre, costretto nel 1851 a
trasferirsi con i suoi a Trieste dove, nel 1855, lo colse improvvisa
la morte. Un anno dopo i Graf si trasferirono a Brăila, in Romania,
presso un fratello della madre che aveva lì impiantato
un'attività commerciale.
Libertà di vita e di studi compensarono la solitudine e la
mancanza di comodità e di agi di questo primo soggiorno
rumeno. Alle letture fatte attingendo ai circa cinquecento volumi
conservati della biblioteca paterna si aggiunsero le lezioni di G.L.
Frollo, che da privato precettore ebbe poi una brillante carriera di
insegnante e studioso e non fu senza influsso sulle inclinazioni
letterarie del G., precocemente manifestatesi nel volumetto di
Poesie pubblicate nel 1861 a Brăila con lo pseudonimo di Filarete
Franchi quattordicenne.
Nel 1863 la famiglia decise di fargli proseguire gli studi in
Italia, e precisamente a Napoli, città a cui il G. rimase
legatissimo e nella quale, accompagnato dalla madre, si recò
in quello stesso anno, senza peraltro iscriversi a una scuola,
manifestando quella predilezione per un apprendimento libero e
autodisciplinato cui rimase fedele per tutta la vita.
Conseguì la licenza liceale nel 1867 con esiti
brillantissimi, soprattutto nelle discipline scientifiche, alle
quali si dedicava con passione. La scelta universitaria non fu
però né letteraria né scientifica, dal momento
che il G. si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, da cui
uscì nel 1870, laureato e destinato alla carriera di
avvocato, abbandonata dopo tre mesi di pratica in uno studio legale.
Sul rifiuto quasi fisico del G. per l'avvocatura influirono anche le
esperienze umane e intellettuali maturate negli anni napoletani, dal
primo contatto con l'opera di A. Comte all'amicizia con Antonio
Labriola, dalla conoscenza di M. Bakunin alla ripresa
dell'attività letteraria, con l'abbozzo o la composizione di
opere teatrali e la pubblicazione a Napoli nel 1867 di Cinque
poesie. Il "sentimento d'orrore" che gli aveva ispirato il suo primo
contatto con l'ambiente forense lo spinse, tuttavia, a staccarsi
dall'amato mondo napoletano e a tornare alla solitudine di Brăila,
per dedicarsi anch'egli all'attività commerciale della
famiglia, accanto al fratello Ottone e con la speranza di potersi
presto staccare da un lavoro che pure detestava.
Il suo animo era, infatti, sempre teso verso il ritorno in Italia, e
Brăila era per lui sempre più come Recanati per G. Leopardi,
alla cui condizione sembrò avvicinarlo anche una malattia
degli occhi, e intorno alla filosofia del quale abbozzò un
saggio di cui dava notizia al Labriola. Questi, destinatario di
molti suoi sfoghi, gli dedicò nel 1873 il saggio Della
libertà morale, dedica che il G. ricambiò l'anno
successivo con il trattato Della qualità e parti della
tragedia (Brăila 1874), cui seguì un volumetto di poesie
(Versi, ibid. 1874), grazie al mecenatesco intervento di un giovane
procuratore d'affari triestino, V. Mendl, che, insieme col fratello
Ottone, gli fornì anche i denari necessari per il viaggio e
lo aiutò, così, a uscire da Brăila. Il 4 nov. 1874 il
G. partì infatti per l'Italia, questa volta con meta Roma e
ben deciso a "tener fede a se stesso". A Roma ritrovò il
Labriola, docente di filosofia morale all'Università, e
conobbe R. Bonghi, A. Aleardi, S. e B. Spaventa, F. De Sanctis, G.
Prati e altri.
Abbandonata ben presto l'idea di fondare con il Labriola un
giornale, letterario o politico, il G., incoraggiato anche dalle
nuove amicizie con E. Monaci, che nel 1872 aveva fondato la Rivista
di filologia romanza, e con A. Messedaglia, puntò alla
carriera universitaria, ottenendo nel 1875 alla Sapienza di Roma la
libera docenza in letteratura italiana con una dissertazione sul
Leopardi e, per titoli, quella in letterature neolatine. A questi
titoli accademici fece seguito la pubblicazione di un volume
Dell'epica neolatina primitiva (Torino 1876) e di un saggio
Dell'epica francese nel Medioevo (Nuova Antologia, ottobre 1876), a
cui si aggiunsero un saggio Delle origini del dramma moderno (in
Rivista europea, ottobre-novembre 1876), uno su Amleto, indole del
personaggio e del dramma (Nuova Antologia, marzo 1876) e un volume
di Poesie e novelle (Roma 1876). Su queste basi, e grazie anche alle
amicizie accademiche e politiche romane, il G. ebbe a Torino
l'incarico per l'insegnamento della storia comparata delle
letterature neolatine, a cui si aggiunse, quasi subito, quello di
letteratura italiana. Iniziò così quella lunga
carriera di insegnante a cui la sua figura è strettamente
legata e alla quale egli si accinse con l'impegno e la
consapevolezza attestati dalla serie di prolusioni e lezioni
metodologiche del biennio 1876-77: Storia letteraria e comparazione
(Torino 1876), Dello spirito poetico de' tempi nostri (ibid. 1877),
Considerazioni intorno alla storia letteraria, a' suoi metodi e alle
sue appartenenze (ibid. 1877), Di una trattazione scientifica della
storia letteraria (ibid. 1877). Muovendosi tra Ch. Darwin e H.H.
Steinthal, tra evoluzionismo e psicologia dei popoli, confrontandosi
in modo non sempre esplicito con il modello desanctisiano, il G.,
che era dotato di "una coscienza problematica vigile e acuta"
(Lucchini, p. 71) ma non aveva una vera preparazione linguistica e
filologica, orientò i suoi interessi prevalentemente verso la
storia letteraria.
Dare a questa un fondamento scientifico gli sembrava, infatti, il
compito del momento, e indispensabile gli appariva il ricorrere
all'aiuto delle scienze naturali e sociali, alla loro
capacità di connettere il fenomenico al costante, l'individuo
alla società, la psicologia individuale alla psicologia
sociale. Anche nel regno della poesia, infatti, si trovano "la
conseguenza e l'ordine" (Storia letteraria e comparazione), motivo
per cui lo storico delle lettere deve affidare la sua valutazione
non al gusto ma alla "spassionata considerazione scientifica", e
soltanto dopo di questa al giudizio estetico: "ciò che
più importa nella storia delle lettere si è, non
già il sapere se il tale o il tal libro sia bello o non sia,
ma bensì di sapere che cosa sia, come sia, perché sia"
(Di una trattazione scientifica della storia letteraria). La
letteratura, però, è in funzione delle altre energie
sociali, mai funzione di nessuna: per cui "una letteratura ha
propria esistenza anche fuori di queste cause che la determinano e
la configurano" (Considerazioni intorno alla storia letteraria);
tanto è vero che "l'opera letteraria non acquista la sua
importanza, né la sua vera significazione, se non il giorno
in cui diventa libro, ed esce dal dominio privato dell'autore per
entrare nel dominio pubblico dei lettori", ricca di "più cose
che l'autore non vi abbia messe con intenzione" e aperta nel tempo a
un "perpetuo commento" (ibid.).
Malgrado l'apparente freddezza, frutto di un naturale riserbo e del
costume di austerità scientifica proprio
dell'Università torinese di quegli anni, il respiro europeo
della sua cultura, i dichiarati interessi metodologici e la
serietà del lavoro di scuola gli attirarono il consenso di
colleghi e scolari. Alcuni di questi ricorderanno in particolare le
"sabatine", i seminari del sabato alle 15, aperti al pubblico,
imperniati sul contraddittorio fra uno studente che esponeva il suo
lavoro e il pubblico, con il G. come moderatore, e in cui, accanto
ai primi lavori critici, trovavano posto anche le produzioni
poetiche degli allievi.
Un corso universitario è alle origini del capitolo degli
Studi drammatici (Torino 1878) dedicato a Tre commedie italiane del
Cinquecento, in cui già si delinea il gusto del G., tutto
particolare e oltrepassante le esigenze didattiche, per una critica
che racconti i testi esprimendo il giudizio nello svolgersi della
narrazione, e si avvia quella lettura più ricca ed equanime
del Cinquecento che si manifestò pienamente nei saggi di
Attraverso il Cinquecento. Nel 1880 uscì a Torino Prometeo
nella poesia (2ª ed., ibid. 1888), uno dei libri più
significativi del G., soprattutto per la forte e appassionata difesa
della poesia, del suo "compito sacro", di cui Prometeo, maestro agli
uomini di arti e civiltà, è visto come alta e
simbolica figura.
Il triennio 1880-82 fu contraddistinto da eventi diversamente
importanti: la morte della madre, il 28 ag. 1880, che in qualche
modo segnò la fine della giovinezza; la pubblicazione, a
Torino presso Loescher, di Medusa (60 poesie nel 1880, 109 nel
1881), che aprì la vera carriera del G. poeta, dopo i versi
giovanili; l'affermazione non senza contrasti nel concorso per la
cattedra di letteratura italiana all'Università di Torino
(1882); la pubblicazione di Roma nella memoria e nelle immaginazioni
del Medio Evo (I-II, ibid. 1882-83); la fondazione, con R. Renier e
F. Novati, del Giornale storico della letteratura italiana.
A Torino era da anni attivo H. Loescher, editore che già
aveva "grandi benemerenze nel fornire strumenti disponibili di alto
livello al nuovo assetto della ricerca e degli studi nel campo della
filologia e della linguistica" (M. Raicich, Di grammatica in
retorica, Roma 1998, p. 228), come attestavano la Rivista di
filologia e di istruzione classica (1872) e l'Archivio glottologico
italiano (1873). Nel 1882 il G., "consigliere letterario di
Loescher, aveva ricevuto da lui l'invito ad assumere la direzione di
una rivista di storia della letteratura; e ne aveva subito parlato
al suo scolaro Renier, di cui conosceva la tenacia e la
capacità organizzativa, e che stava per essere chiamato a
Torino con l'incarico di storia comparata delle letterature
neolatine (lasciata vacante dallo stesso Graf che passava a
insegnare letteratura italiana)" (Berengo, p. 10). L'occasione fu
colta al volo dal Renier che, insieme con Novati, S. Morpurgo e A.
Zenatti, aveva appunto in animo di fondare una rivista il cui
progetto era stato respinto dalla Le Monnier: in seguito al serrato
dibattito che seguì, Morpurgo e Zenatti si separarono dagli
altri, che diedero così vita a quello che dal 1883 fu il
Giornale storico della letteratura italiana, a cui il G.
collaborò per sette anni, pur essendo "ben lontano
dall'identificarsi in esso e dal considerare un punto d'arrivo il
metodo e gli interessi di ricerca delimitati dalla rivista"
(Barbarisi, p. 179). Quanto ai volumi del G. su Roma nella memoria e
nelle immaginazioni del Medio Evo, essi furono "il primo dei grandi
pegni ch'egli doveva dare alla causa comune della ricerca
scientifica" (Benedetto, p. 23).
Frutto di estese ricerche in biblioteche italiane e straniere, mosso
dall'attrazione per una "età inquieta e fantastica" e per il
mondo delle leggende in cui spesso si consolida parte dello spirito
dei tempi, tanto che la leggenda diviene allora "una forza che
interferisce e si compone con l'altre forze ond'è promosso e
guidato il corso della storia" (p. X), il libro ricostruiva il mito
di Roma nell'età medievale, guardando con occhio equilibrato
sia alla tradizione letteraria sia a quella popolare.
Al centro dell'opera erano i rapporti fra Roma e la Chiesa e l'idea
di Impero, che costituì come un ponte fra due mondi e un
baluardo, il cui crollo avrebbe segnato l'arrivo dell'Anticristo.
Non a caso il libro si chiudeva avendo in appendice uno studio su
Gog e Magog, le schiere del male che premono alle frontiere delle
popolazioni cristiane. Ma il lavoro è pieno di racconti sulle
rovine di Roma, sui suoi monumenti, sui suoi tesori, sulle biografie
leggendarie di imperatori e poeti: davvero, come ebbe a scrivere D.
Comparetti nella seconda edizione del suo Virgilio nel Medioevo
(Firenze 1896, p. 220 n.), "il fascino che Roma esercitò
sulle menti e le fantasie medievali da niuno fu così
largamente e vivamente narrato e descritto come da Arturo Graf".
L'intenso lavoro di quegli anni, e in particolare le ricerche per il
libro su Roma, lasciarono il G. "estenuato", come scriveva a V.
Mendl il 16 apr. 1883, psicologicamente e fisicamente non disposto a
intraprendere altri studi di grande respiro. Così, negli anni
successivi la sua attività, a parte l'insegnamento, si
dispiegò in conferenze e saggi sulla Nuova Antologia, sul
Fanfulla della domenica, sulla Domenica del Fracassa, oltre che sul
Giornale storico. Nel 1888 vide la luce il volume Attraverso il
Cinquecento (Torino), che raccoglieva contributi già
pubblicati in rivista, in parte già passati al vaglio delle
lezioni universitarie, e in cui si guardava soprattutto al rapporto
dei fenomeni letterari con la società, con la psicologia
individuale e con la psicologia sociale, come si può, per
esempio, vedere negli studi Petrarchismo e antipetrarchismo e Un
processo a Pietro Aretino, basati, come gli altri del resto, su una
quantità e varietà sorprendente di letture.
Nello stesso 1888 il G. divenne socio della R. Accademia delle
scienze di Torino, ai cui Atti (XXIV [1888-89]) affidò lo
scritto Questioni di critica, che si accompagnava alla prolusione La
crisi letteraria. Nei due saggi il G. continuava a muoversi, "unico
fra i rappresentanti della scuola storica, con indubbia intelligenza
e superiore conoscenza della cultura filosofica del tempo, fra le
questioni di metodo" (Lucchini, p. 82): così, in Questioni di
critica, partendo dall'analisi del libro di E. Hennequin, La
critique scientifique (1888), e prendendo le distanze dalle teorie
di H. Taine, tentava di individuare un metodo di critica che
consentisse di guardare all'opera d'arte sia nel suo aspetto di
"formazione estetica", sia in quello di "individuo di una specie
morfologica variabile". Anche se la contraddizione non era sanabile,
il discorso del critico si articolava in una serie di suggerimenti
ancor oggi suggestivi.
Il tema dei rapporti dell'opera d'arte con l'ambiente acquistava
accenti di quasi drammatica attualità, che investivano la
società e l'arte contemporanee, nella prolusione letta il 3
novembre all'Università. Alle origini della crisi letteraria
è il trionfo della democrazia che "introdusse nel mondo nuovi
spiriti e nuovi costumi, e mutò così, di sana pianta,
non solo le condizioni morali, ma ancora le condizioni materiali
della letteratura". Nuovi soggetti per le opere d'arte e nuove
condizioni di vita per gli artisti, sempre più legati al
pubblico che acquista le loro opere, sono tra le conseguenze di quel
principio di variabilità che il G., sulla scorta delle
riflessioni dell'economista inglese W. Bagehot, vede favorito dalla
democrazia, così come il dispotismo è invece
favorevole al principio di stabilità. Contro la letteratura
condizionata dallo spirito della democrazia si leva in Francia un
moto di reazione, che proclama "che l'arte è essenzialmente e
necessariamente aristocratica e il divorzio tra l'artista e il
pubblico assoluto e irreparabile", mentre i simbolisti "affermano
che la poesia deve avere un senso recondito, anzi più sensi
reconditi, nascosti l'un dietro l'altro, e che solo gl'iniziati sono
in grado di scoprire e d'intendere". La speranza per il futuro
è affidata dal G. ancora alla scienza, forza più
grande della stessa democrazia, "più trasformatrice di lei,
che a lei stessa dà legge", e al suo strumento, l'analisi.
Nel 1889 pubblicò con Treves a Milano Il diavolo, dedicato a
E. De Amicis, un "libro popolare", che difatti giunse nel 1890 alla
quarta ristampa, un libro "che si potesse leggere senza fatica, ma
forse non senza qualche gusto, da chiunque non faccia profession
d'erudito". In realtà il libro si fondava proprio sulla
profonda conoscenza che il G. aveva della letteratura e delle fonti
medievali, che gli consentiva di seguire la storia del diavolo
dall'origine alla fine, passando per la descrizione del suo aspetto
e della sua dimora, delle sue vittorie e delle sue sconfitte, delle
burle fatte e di quelle subite, fino alla sconfitta definitiva a
opera della scienza. All'anno successivo vanno ascritte l'edizione
definitiva di Medusa (Torino 1890) e la nuova raccolta di versi Dopo
il tramonto (Milano 1890), nonché le dimissioni dalla
direzione del Giornale storico, seguite poco dopo dalla
pubblicazione di un'altra grande opera critica, frutto di ricerche
estese e originali, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo
(I-II, Torino 1892-93), in parte raccolta di saggi già
pubblicati.
Il libro si apre con uno degli scritti più meditati e
più belli del G., Il mito del Paradiso terrestre, a cui si
accompagnano altri undici saggi, che coinvolgono il gran mondo delle
tradizioni leggendarie medievali intorno a personaggi come Silvestro
II, Celestino V o Michele Scoto, o a temi più generali come
il riposo dei dannati e la credenza nella fatalità. Né
il G. trascura, quando il discorso lo consente, di precisare un
giudizio letterario, come nel caso dei due felici saggi su G.
Boccaccio.
È questo il periodo anche della discussa e problematica
adesione al socialismo, di cui il G. ebbe una visione abbastanza
vicina a quella che egli definiva di "socialismo senza odio" del De
Amicis, "il meno catastrofico e il più riformista dei
socialisti", a casa del quale spese molte sere per tradurgli i testi
del marxismo (Come fu socialista E. De Amicis?, in Nuova Antologia,
1º apr. 1908). Certo, a differenza anche del De Amicis,
più impegnato di lui sul piano della propaganda e
dell'attivismo, il G. non uscì mai da un ruolo di testimone
critico, rifiutando il materialismo, difendendo i diritti storici
della borghesia (Critica sociale, 1° gennaio e 1° febbr.
1892), interpretando il socialismo come cooperazione (A proposito di
lotta, di libertà, ecc., ibid., 1° luglio 1893), anche
se, in un secondo momento, partecipando alle attività della
Società di cultura e della rivista Il Campo, non mancò
di appoggiare iniziative culturali animate da suoi allievi vicini in
vario modo al socialismo, come G. Balsamo Crivelli, G. Cena, Z.
Zini.
Ad allontanarlo da un certo tipo di ricerche concorsero peraltro
anche alcuni avvenimenti come la nomina a rettore
dell'Università di Torino, carica che tenne dal 25 ott. 1892
al 15 ott. 1894, il matrimonio, celebrato il 14 dic. 1893, con Sofia
Rauchenegger, vedova di H. Loescher, e il suicidio del fratello
Ottone nel luglio 1894, che ebbe anche pesanti ripercussioni di
carattere economico e personale. A ogni modo gli eventi esterni non
gli impedirono di produrre una serie di interventi che, se ricordano
quelli dell'inizio dell'insegnamento, hanno un giro d'orizzonte
più ampio di quello disciplinare, mossi sì dalla
"necessità di tornare a verificare i presupposti scientifici
e politici della sua formazione" (Guglielminetti, p. 9), ma motivati
anche da un malessere più profondo, spia dell'esistenza di
"un nesso tra il mal du siècle e l'ascesi professionale: una
crisi morale e si dica pure esistenziale è al fondo di quel
disperato accertamento della realtà storica che fu il
positivismo nell'ambito delle […] scienze umane" (Contini, p. 372).
Andiamo così dalla Letteratura dell'avvenire (in Nuova
Antologia, 16 giugno 1891) a La bancarotta della scienza (in
L'Illustrazione italiana, 24 maggio 1895), da Preraffaelliti,
simbolisti ed esteti (in Nuova Antologia, 1° e 16 genn. 1897) a
Per la nostra cultura (ibid., 1° marzo 1898), da Sofismi di
Leone Tolstoi in fatto d'arte e di critica (ibid., 16 sett. 1899) a
La scioperataggine letteraria in Italia (ibid., 16 apr. 1901). Vi si
accentuava l'interesse del G. per le implicazioni sociali dei
fenomeni letterari e culturali, come mostrano le ferme e ragionevoli
pagine sulla scuola in Per la nostra cultura o, in La
scioperataggine letteraria in Italia e - sulla scia di G. Pecchio -
quelle intorno ai rapporti delle opere dell'ingegno con la legge
della domanda e dell'offerta. Acquistava poi sempre più peso,
alimentata anche dal dibattito provocato dalle tesi di F.-V.
Brunetière sulla "bancarotta della scienza" e la "rinascita
dell'idealismo", la riflessione del G. intorno al valore e al limite
della scienza, "rea di essere solo la verità e non la
felicità, di essere per giunta una verità incompleta,
di non spiegare il mistero" (Benedetto, p. 23).
I saggi su La letteratura dell'avvenire e Preraffaelliti, simbolisti
ed esteti apparvero anche in appendice al volume, edito a Torino,
che nel 1898 raccolse gli studi su Foscolo, Manzoni, Leopardi,
importanti per più aspetti, in particolare quelli relativi
agli ultimi due.
La conoscenza profonda dell'opera leopardiana consente al G. di
liberare il suo giudizio in una serie di valutazioni importanti su
Leopardi e la musica, sul suo particolare senso del paesaggio, sulla
funzione della memoria delle idee e della memoria dei sentimenti,
sul valore della sua filosofia e di opere come La ginestra, "quel
supremo e terribil canto, dove, quasi insiem con la vita, il poeta
esala il suo finale pensiero, e grida il verbo funereo in che tutta
s'assomma e si ristringe la sua filosofia". In qualche modo
più libere finiscono per essere le pagine sul Manzoni, sia
quelle sulla conversione dell'Innominato e sulla figura di don
Abbondio, sia quelle sul Manzoni e il romanticismo, in cui risultano
particolarmente felici le osservazioni sulla ragione del Manzoni nei
rapporti con il sentimento e la fantasia, quelle sul suo senso
storico, quelle, infine, sul vero morale che è il fondamento
della sua arte.
Parallelamente a quella saggistica si intensificò la
produzione letteraria del G., dalle raccolte poetiche Le Danaidi
(Torino 1897) e Morgana (Milano 1901) al romanzo Il riscatto,
pubblicato prima sulla Nuova Antologia nel 1900, poi in volume, a
Milano nel 1901, che apriva significativamente per il G. il nuovo
secolo, e che, nella forma narrativa così congeniale al G.
saggista, è un'opera di pacificazione, se non della ragione,
dell'animo.
Il protagonista del romanzo, Aurelio, scopre che il suo vero padre,
il marchese Alfredo Agolanti, appartenente a una nobile famiglia in
cui il suicidio ricompare periodicamente - destino da cui egli
stesso non si libererà - lo ha affidato all'amico conte
Ranieri per sottrarlo a quella infelice sorte. La sana educazione
del giovane, basata sul contatto con la natura e sull'esercizio
della volontà e della ragione, sembra in un primo tempo
offrirgli gli strumenti per resistere al male ereditario: quando
sarà invece per cedere, riceverà dall'amore di una
giovane americana, Viviana Sinclair, la forza di vincere, almeno
temporaneamente, il suo tragico destino. La forma narrativa scelta
dal G. è quella memorialistica, con l'inserzione di passi di
un diario di viaggio e di alcune lettere, cosa che contribuisce a
dare al libro il suo caratteristico andamento raziocinante.
Né, d'altra parte, ci si può sottrarre alla tentazione
di vedere nella liberazione del protagonista dal determinismo delle
leggi di ereditarietà anche la metafora della liberazione del
G. stesso dal condizionamento psicologico ed etico di un troppo
rigido positivismo.
Nel 1903 una Miscellanea di studi critici (Bergamo), ricca di 43
contributi e di quasi quattrocento sottoscrittori, con molti dei
più bei nomi della cultura letteraria europea, celebrò
nel G. il "lucido intelletto di critico", la "pensosa anima di
poeta", il "maestro sapiente geniale ed alto". Era il riconoscimento
formale di quel che avrebbe sottolineato, molti anni dopo, uno
studente entrato nell'Università di Torino nel 1904: "Grazie
a lui, grazie anche a R. Renier […] la Facoltà torinese si
era venuta rinnovando, si era venuta vieppiù investendo del
sacro compito allora spettante a una facoltà letteraria:
affermare colle opere e preparare coll'insegnamento una più
austera coscienza filologica e storica" (Benedetto, p. 23). E di
ciò è prova anche la nutrita schiera di critici
formatisi alla scuola del G., da V. Cian a F. Neri, da C. Calcaterra
ad A. Momigliano, per citarne solo alcuni.
Tra il 1905 e il 1906 videro la luce, oltre alle seconde edizioni di
Le Danaidi (Torino 1905) e di Morgana (Milano 1905), i Poemetti
drammatici (ibid. 1905), le Rime della selva. Canzoniere minimo e
semitragico (ibid. 1906), il saggio Per una fede (in Nuova
Antologia, 1° giugno 1905, poi in volume, Milano 1906), il
discorso L'università futura, letto il 27 ott. 1906
all'Università di Torino, in occasione del quinto centenario
dalla fondazione.
Il discorso, nel delineare i compiti dell'università,
prospetta un ideale conciliativo tra scienze naturali e scienze
storiche e sociali e rivendica il posto della personalità nei
confronti dell'idolatria della natura ("Dichiararsi nullo dinanzi a
un altare, o dichiararsi nullo dinanzi a una tavola di laboratorio,
dov'è propriamente la differenza?") e della stessa
università che non "deve pretendere di uniformare il
carattere, di pareggiare le attitudini, di predeterminare l'opera di
quanti la frequentano. Non è buon maestro quello che tutti i
discepoli vuole ad immagine propria".
Il saggio Per una fede è, dal punto di vista del G., un atto
di onestà e responsabilità intellettuali. Presentando
la ristampa del 1906 (Milano) in volume dichiarava: "Penso che
chiunque creda d'avere fatto un passo verso la verità, sia in
dovere di darne notizia a quanti più può". Alla parte
negativa del saggio, la condanna del materialismo e del
determinismo, si aggiungeva una parte positiva, il riconoscimento
dell'esistenza di un ente supremo, di un'anima immortale, di una
volontà libera, elementi che, soli, danno senso alla
cooperazione con il bene nella sua continua lotta con il male.
C'erano, poi, nel saggio del G. e nelle Giustificazioni e commenti
che accompagnarono la ristampa in volume, elementi che spiegano le
simpatie con cui l'intervento venne accolto negli ambienti
modernisti. "Un cristianesimo purificato e ringiovanito", scriveva
il G., "potrebbe ancora molto giovare agli uomini. Se ciò non
farà, bisognerà darne colpa, non tanto a coloro che
credono di combatterlo, quanto a coloro che credono di difenderlo".
E però a P. Sabatier chiariva quanto già aveva
espresso ai cattolici che esultavano per la sua "conversione": "Io
non posso essere modernista, perché sono del tutto fuori del
grembo di Santa Madre Chiesa, e avrei anche più di una
obbiezione da fare al modernismo. Ma nutro vivissima simpatia per i
suoi compagni e credo che essi stiano facendo moltissimo bene". Nel
volume del 1906, il G. aveva accolto anche la recensione a Il santo
di A. Fogazzaro, dove si alternavano consensi e riserve sia sui
contenuti sia sui risultati artistici, e che si concludeva con uno
slancio di fiducia verso le nuove generazioni, che meglio sentivano,
a suo avviso, "il bisogno di un rinnovamento morale".
Dedicato ai giovani, "ai miei discepoli antichi nuovi nuovissimi"
come dice la dedica, "ad alcuni giovanissimi" come si intitola la
prefazione, fu anche Ecce homo. Aforismi e parabole (Milano 1908),
la cui prefazione è un po' la summa dei motivi di disagio del
G. di fronte alla "tristezza di questa nostra civiltà cupa e
feroce".
Con le Rime della selva si concludeva l'itinerario poetico del G.
che, ripercorso da questo punto di arrivo, appare parallelo al suo
itinerario umano, dalla ribellione prometeica contro il mistero
della vita e della morte (Medusa, Dopo il tramonto), attraverso
l'intermezzo di motivi e di forme di Le Danaidi, alla rassegnata e
ironica accettazione del proprio insignificante ruolo nella natura e
nella storia (Morgana, Rime della selva). E con il mutare del
paesaggio interiore si modificava, da drammatica a malinconica,
anche quella rappresentazione della natura che è, sia pure a
tratti, una delle novità della poesia del G., in cui la
critica ha anche registrato una sostanziale estraneità
all'esperienza della triade Carducci-Pascoli-D'Annunzio, oltre che
per scelte poetiche, per un sovrapposto risentimento morale che
investe la politica accademica del primo, le ambiguità del
secondo, l'immoralità del terzo. Così i punti di
riferimento individuati dalla critica nelle varie raccolte oscillano
dai romantici tedeschi a Leopardi, da Baudelaire ai parnassiani,
agli scapigliati, con incerte aperture al simbolismo e una presa di
distanza dall'estetismo, non per "una nostalgia di classicismo, un
senso di misura e di decoro formale", ma per "un'accentuata
inclinazione etica, quale si esprime anche nell'ininterrotta
frequentazione di Leopardi" (Cusatelli, p. 775). Gli strumenti
adoperati dal poeta vanno dall'uso, e abuso, di immagini simbolo e
visioni mitologiche, come si evince dai titoli stessi delle
raccolte, all'adozione di un linguaggio poetico non definito in
un'unica direzione di ricerca ma giocato sui registri più
vari, a un'attenzione alla metrica e alla rima che molti critici
hanno finito per giudicare l'elemento più idoneo a
caratterizzare il senso della sua poesia, individuando, per esempio,
nella "conservazione metrica […] il contrappeso strutturale della
mobilità e metamorfosi del reale" (Lonardi, p. 20), non
priva, tuttavia, di potenziali aperture.
Come si vede nelle Rime della selva, in cui il poeta non interviene
soltanto sulla scelta degli argomenti e dei vocaboli, ma "tenta di
trasformare le cadenze stesse poetiche con la varietà degli
spostamenti degli accenti proprio nel tipo di verso più
monotonamente popolare, l'ottonario; in tal modo non solo la lingua
diventa più colloquiale e intimistica ma anche il metro
diventa l'espressione di un ragionare pacatamente amaro tutto
infiltrato di ironie e di autoironie, non più alla ricerca di
un consenso ammirato bensì alla ricerca di una comunicazione
di uno stato d'animo perplesso amaro e rancoroso che non esclude
però quelle nostalgie di un ideale positivo di vita che trova
espressione nel famoso articolo della Nuova Antologia, Per una fede"
(Montanari, p. 307). È questo il G. che apre la strada a G.
Gozzano e ai crepuscolari, non ultimo esempio della sua
capacità di parlare alle nuove generazioni anche nel campo
della poesia, come già era avvenuto, per esempio, per G.
Cena, F. Pastonchi, Bertacchi e altri. E come avveniva per G.
Prezzolini e G. Papini, con i quali si stabilì un rapporto di
reciproca stima e simpatia, ai tempi del Leonardo e della prima
Voce.
Nel 1911 apparve L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel
secolo XVIII (Torino), "un'opera magistrale" (M. Praz), quasi
impossibile da riassumere per il suo carattere di sterminata
conversazione, una di quelle erudite e piacevoli conversazioni a cui
tanto deve la circolazione della cultura nel secolo XVIII, e che
attraversa la vita culturale delle due nazioni, dalle accademie alla
cucina, dalla filosofia alla moda, dalla stampa all'educazione, con
aderenza sempre viva alle personalità chiamate a testimoni.
Un commiato dal mondo degli studi finì per essere il saggio
Di alcuni giudizi di F. De Sanctis ed altri concernenti il
Decamerone, apparso postumo nel 1913 nel numero speciale della
Miscellanea storica della Valdelsa dedicato al Boccaccio, lucida
testimonianza, tra l'altro, del ruolo che il G. sentiva di aver
svolto nel campo degli studi di storia letteraria.
Dopo aver mostrato come il giudizio del De Sanctis sul Boccaccio
risentisse della sua insufficiente conoscenza del Medio Evo, il G.
concludeva: "I pappagalli della critica e dell'estetica, che si sono
fatti in Italia un grande e petulantissimo stuolo, si
scandalizzeranno di quanto ho scritto. A lor posta. Fui ammiratore
del De Sanctis prima ch'essi nascessero, e quando tra gli osservanti
del metodo storico era nullo il suo credito e ammiratore mi serbo.
Ma non idolatra. Senza troppo vergognarmi, mi lascerò mettere
tra quei ripetitori di spropositi che nella Storia della letteratura
italiana di F. De Sanctis non sanno vedere una vera e propria storia
della letteratura italiana, ma piuttosto un discorso, o una serie di
discorsi, su quella storia. E, titolo a parte, tale doveva pur
essere, o non molto diversa da tale, in sostanza, la opinione dello
stesso De Sanctis, s'ei pensò, e disse, che non era
possibile, allora, scrivere una storia della letteratura italiana".
E questa era anche una parziale risposta al giudizio limitativo che
intorno alla sua attività di critico e di poeta B. Croce
aveva espresso sulle pagine della Critica nel 1905, e che tanto lo
aveva amareggiato. Da questo giudizio, e da quello ancora più
netto espresso nella Storia della storiografia italiana del secolo
decimonono, la critica degli ultimi anni ha progressivamente preso
le distanze, offrendoci un ritratto del G. che, sia pure non
compiuto, meglio delinea la sua importanza storica di critico e di
poeta e il valore innovativo di alcune sue proposte di metodo e di
ricerca.
Malato di cuore da alcuni anni, il G. morì a Torino nella
notte fra il 30 e il 31 maggio 1913.