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Emilio De Marchi
Giacomo l'idealista
PARTE PRIMA
I
L'AMICO GIACOMO
Giacomo Lanzavecchia mi scriveva sui primi di settembre: «Ti ricordo
la promessa che mi hai fatta di venir a passare qualche giorno alle
Fornaci. Non ebur neque aureum Mea renidet in domo lacunar... Ma c'è
sempre la cameretta libera dello zio prete colla bella vista sul
Resegone. Seguace dei pitagorici, io non sono cacciatore, ma c'è qui
presso il "Roccolo" di don Andrea, dove sento che quest'anno i tordi
si lasciano pigliare volontieri. Se stenterai a pigliar sonno la
notte, ti darò a leggere le bozze di stampa d'un certo mio "Saggio
sull'Idealismo dell'avvenire", che ebbe, se non lo sai, l'onore d'un
mezzo premio d'incoraggiamento dal R. Istituto Veneto. Ma non
spaventarti, caro Edoardo! So fare anche una polenta che non teme
contraddizioni... Se discendi sabato sera colla corsa delle sette
alla stazione di Cernusco, sarò a prenderti colla grigia e col
venerando Blitz, un vecchio cane in cui dev'essere trasmigrata
l'anima penitente d'un antico scettico. I miei ti aspettano a cena».
Una timonella di due ruote, che si appoggiava colle due lunghe
stanghe alla schiena d'una magra cavalla, che pareva un sistema
orografico, fu lí pronta a ricevermi quando scesi alla stazione.
L'equipaggio di casa Lanzavecchia, se avesse avuto l'onore di uno
stemma, poteva scrivervi dentro il motto: «Adagio, Biagio!» perché
tra cavalla e legno era tutta una sconquassatura d'ossa e di
carcassa. Bestia e carrozza poi, per il gran secco della giornata,
eran coperti d'un denso strato di polvere come due palinsesti.
Giacomo in carniera di velluto color amaranto, con in testa un gran
cappellaccio di paglia, mi venne incontro appena mi raffigurò dietro
lo steccato, mi strinse allo stomaco col braccio che teneva la
frusta, mi picchiò coll'altra mano sulle spalle, sulla vita, sulle
gambe, come se volesse assicurarsi che non c'era nulla di guasto nel
vecchio amico, e disse semplicemente: - Bravo, trapezio! temevo
quasi che non venissi. - Non so se per allusione ai miei studi di
matematica o se per qualche somiglianza ch'io avessi colla figura
d'un trapezio, questo era il nome che mi avevano regalato i compagni
del collegio Ghislieri ai tempi beati, quando si studiava con
Giacomo all'Università di Pavia, ed evocandolo l'amico sapeva di
darmi gusto.
- Come va, Giacomo? - domandai al filosofo. - Sai che è un gran
pezzo che non ci vediamo, corpo di bacco baccone? Ti trovo quasi piú
bello.
Il debole di Giacomo ai tempi beati era d'aspirare modestamente al
titolo di bel giovine. E veramente, senza essere Apollo Musagete,
poteva piacere per un non so che di dolce e di arrendevole ch'era
nella sua persona forte di campagnuolo e di ex garibaldino. Era
biondo, ma d'un biondo carico, con due baffetti scarsi e due
cespuglietti di una piccola barba d'oro alla punta del mento, che
gli davano quasi l'aspetto di un giovine professore tedesco senza
gli occhiali, che sono cosí gran parte d'una soda dottrina. Gli
occhi nella loro trasparenza cerulea lasciavano veder una gran bontà
e una grande indulgenza, non priva di quella malizia brianzuola, che
conserva forse nella sua vivacità lo spirito dell'antica razza
celtica, che ha fondato e popolato i villaggi tra il Lambro e
l'Adda. Se ora il bel giovinetto del collegio Ghislieri era
diventato un uomo alquanto trasandato e abbruciato dal sole, e se la
barbetta d'oro era diventata piú folta e piú scura, gli occhi
conservavano sempre l'antica dolcezza pensierosa, che svelavano il
filosofo e il poeta anche al disotto della logora cacciatora e del
cappellaccio di paglia. Nemico d'ogni saccenteria, Giacomo, figlio
di Mauro Lanzavecchia, il fornaciaio del Ronchetto, portava in tutte
le sue abitudini una originalità quasi signorile e ridente, che in
molti incontri avrebbe potuto ricordare l'arguzia di Sterne, un
altro celta anche lui. In filosofia dopo aver vagolato a vent'anni
con Hegel negli spazi sconfinati dell'Essere, dopo aver disprezzato
per qualche tempo il suo simile con Schopenhauer in causa di un
pignoratario che gli aveva sequestrato il tabarro, a poco a poco,
non ancora mortificato dall'esperienza, andava raccogliendosi nel
concetto d'un idealismo pieno di simpatie, che gli faceva sperar
bene della natura e degli uomini. In questo suo tenero ottimismo
entrava probabilmente una certa fiamma, che gli scaldava il cuore da
un pezzo, perché pare quasi dimostrato che l'amore sia un buon
maestro di filosofia. Le donne entrano dappertutto, fin nei dialoghi
di Platone. Per una certa esitanza naturale, frutto
d'incontentabilità e del rispetto ch'egli nutriva per la verità,
finora l'amico nostro non aveva ancor dato che qualche tenue saggio
del suo ingegno e della sua dottrina in una dissertazione
sull'Energia morale dell'educazione, dove con tratti non comuni
aveva cercato di abbozzare il tipo dell'Uomo moderno, prima che
s'inventasse questa nuova corbelleria del Superuomo. Egli carezzava
in questo suo primo saggio un ideale d'uomo, nel quale il sentimento
avesse d'andar d'accordo colla ragione come l'ala e l'aquila. Ma il
filosofo delle Fornaci sperava di farsi meglio conoscere col suo
nuovo studio sull'Idealismo dell'avvenire, rivolto specialmente
contro il pedestre meccanismo della scuola positiva. Con tutta la
sua coltura filosofica e filologica, colpa in parte le condizioni
della sua famiglia e in parte l'indole sua un po' scontrosa e schiva
del farsi avanti, dopo cinque o sei anni dacché aveva prese le sue
due lauree, Giacomo Lanzavecchia era costretto ancora a litigare col
pane in un collegio di preti poco discosto da casa sua, e vi
insegnava la grammatica latina ai ragazzi del ginnasio. Come a chi
studia per il gusto di studiare, unicamente per cavare dai libri
qualche utile esperienza e qualche consolazione per sé e per gli
altri, gli mancavano forse le attitudini pratiche per prepararsi
quei quattro o cinque chilogrammi di carta compressa e stampata che
giovano nei concorsi governativi. E questo spiega la sua poca
fortuna nella carriera, dove per riuscire bisogna pesare di piú.
Inoltre Giacomo dava cosi poca importanza a sé stesso che anche gli
amici erano quasi costretti a non stimarlo troppo per paura di far
offesa alla sua modestia. Un terzo suo difetto, preso come filosofo,
era di voler dire le cose con tanta chiarezza che quasi non pareva
piú filosofia. Si sa che i dotti, specialmente i filosofi, amano
scrivere in uno stile elevato, pieno di misteri, fatto apposta per
non lasciar entrare i profani nel sacro tempio del sapere; Giacomo
invece non aveva ripugnanza a pensare e scrivere come tutti gli
altri. Leggendo le sue paginette cosí sobrie, cosí domestiche, cosí
alla mano, pareva di non trovarci nulla che non fosse già prima nel
senso comune e, dirò cosí, nell'aria respirabile: nulla che non
potesse diventare patrimonio di tutti, e questo gli toglieva molta
autorità presso coloro che imbottiscono d'ombre la verità e ne fanno
un cuscino alla loro prosopopea.
- Come stanno in casa tua? - gli domandai.
- Tutti bene. Salta su che ti aspettano - disse aiutandomi colle due
mani a montare sulla timonella, che sotto alle scosse oscillò come
una gelatina.
- Ehi, Blitz, dormi? - gridò Giacomo schioccando in aria un colpo di
frusta. Al rumore si mosse qualche cosa d'ispido in mezzo alla
strada e il cane prese a correre davanti alla carrozza per
prepararci una bella nuvola di polvere. Colla punta della frusta il
filosofo raschiò il collo della grigia, che dondolò la testa in atto
di compatimento, mosse un pezzo lo scheletro sotto la pelle senza
mai riuscire a mover questa, allungò dolorosamente il collo e, dopo
una penosa riflessione, finalmente si rassegnò a partire.
Si prese subito a correre, cioè per dir giusto, a ballare sulla
strada che dalla stazione mena al piccolo borgo, e, attraversato
questo, si voltò a man destra, lasciando a sinistra la torre rotonda
di Merate, per la lunga strada diritta che va a Imbersago e al passo
dell'Adda. Il Resegone coi monti contigui e coi verdi colli
digradanti ci si spiegava davanti come un immenso scenario.
- Non sarò di disturbo ai tuoi? - chiesi, quando uscimmo dai sassi
rumorosi dell'abitato sulla terra molle della strada.
- Tu non sei una conoscenza nuova per mio padre.
- Si ricorda ancora di me?
- Mi domanda spesso notizie del mio amico delle canzonette. Ti
ricordi quando venne a trovarci a Pavia?
- Che ci pagò un magnifico pranzo...
- Si è divertito tanto alle tue burlette al cembalo.
- Allora si era allegri e matti. Quanti anni son passati?
- Sei, sette, otto... che giova a contarli? passano lo stesso.
- Io ne ho ventisette.
- E io ventinove, trapezio.
- E insegni sempre in quel collegio di preti, dove?
- A Celana, lassú - disse Giacomo, indicandomi colla frusta un punto
sotto il monte Albenza.
- A star coi preti s’impara a dire il rosario - osservai con un
pizzico d'ironia.
- Ip! - fece l'amico, lasciando andare una piccola frustata sui
finimenti della cavalla. Dopo un istante riprese a dire con serietà:
- I miei non vedono volentieri che io vada lontano da casa. Son
vecchi tutti e due, bisogna aver pazienza. Volevi che accettassi un
posto in Calabria o in Sicilia? Il governo non può far di piú per
me; qui a Celana c'è anche un mio zio prete che insegna, spiega le
coniugazioni, e come si fa?... ip!
Superato un dossetto, la timonella riprese ancora a discendere e a
traballare sulle antiche molle, che conservavano tutta la loro
giovanile ed elastica resistenza. Un piede sprofondando nel rotto
della maglia di corda, che serviva di fondo alla carrozza mi restò
impigliato, e fu quasi la mia fortuna, perche a certe scosse e a
certi trabalzi c'era a temere che il sediolo mi avesse a lanciare
netto nell'Adda come una bombarda. Giacomo avvezzo a quella
ginnastica, si divertiva alle mie paure; anzi ebbe il coraggio di
citare Orazio:
... metaque fervidis
Evitata rotis, palmaque nobilis
Terrarum dominos evehit ad deas.
- Basta, son nelle tue mani, e sai quel che valgo.
- Abbi pazienza, ora siamo alle Fornaci. Non aspettarti un palazzo,
ve'. È un gruppetto di vecchie case intorno a due fornaci di
mattoni, che furono messe su da mio nonno verso il quaranta. Gli
affari andarono mica male in principio, tanto che mio padre poté
allargare l'azienda e mettere da parte qualche soldo. Ma la
costruzione di questa strada ferrata, dando un gran colpo al
commercio fluviale, ha sviato molti interessi. Il progresso non fa
bene a tutti, e vuol le sue vittime come il carro di Budda.
Desideravo per questo che tu venissi qualche giorno alle Fornaci per
parlarti di queste nostre faccende, che non vanno troppo bene. Un
ingegnere fa presto a raccapezzarsi, mentre con tutto il mio latino,
con tutto il mio greco e colla filosofia per giunta, io non ci
capisco nulla.
- Ecco quel che si guadagna a studiar troppo... - dissi ridendo,
mentre Giacomo picchiava colla frusta una stanghetta per avvertire
la grigia che si poteva correre. La strada, dopo un altro bel tratto
in piano, ricominciò a girare sotto un poggio coltivato a viti, che
finiva in un bel vedere su cui dominava un imponente palazzo.
- Casa Magnenzio... - indicò colla frusta - detto anche il palazzo
del Ronchetto. Ti farò conoscere la contessina mia scolara, donna
Enrichetta.
- Tu, dunque, non insegni solo la grammatica ai chierichetti!
- Proventi delle vacanze, mio caro. Conoscerai una famiglia
simpatica, quantunque qui passi per gente clericale e di principii
intransigenti. La contessa è nipote del vescovo di San Zeno e il
conte è un mezzo dotto, un classico anche lui, che, fuori dei suoi
libri, s'intende di poche cose. Ora è tutto occupato in una grande
raccolta d'iscrizioni, che fa trascrivere di qua, di là, dalle
chiese, dalle meridiane, dai cimiteri di campagna.
- Ne avrà per un pezzo, pover'uomo...
- Egli dice che questa è la sua uccellanda... Qualche cosa bisogna
pur fare a questo mondo.
In fondo alla strada comparve una chiesa, un campanile, un
villaggio, credo Imbersago; ma prima di arrivare alle case, la
grigia di moto proprio voltò a sinistra e si messe per un viottolone
di terra rossiccia profondamente solcato dai carri, che menava
diritto alle Fornaci. Dieci minuti dopo la timonella si fermava
davanti a un casolare che aveva tutto l'aspetto di un vecchio
cascinale raffazzonato ad uso abitazione civile, col tetto sbilenco,
con un portico rustico al basso e una loggetta di sopra, rivestita
da una vite molto sparpagliata e polverosa. Un piazzaletto davanti
all’ingresso col suo bel pozzo all'ombra d'un gelso quasi secolare,
era ingombro di carri, di carriole, di catastelle di legna, di
mattoni arrimucchiati e addossati ai pilastri, in mezzo ai quali
passeggiavano anitre e galline e conigli, che al nostro arrivo si
ritrassero in disparte senza mostrar né scompiglio né paura. Un
contadino non vestito che d'una camicia sporca e d'un paio di
calzoni di fustagno color creta venne a staccare la grigia, mentre
noi, preceduti da Blitz, si passava sotto il portico, un rustico e
sgangherato portico colle grosse travi in vista, nude e storte come
la natura le aveva fatte; addobbate di ragnatele, di gerle, di
roncole, di vecchi finimenti di carrozza, di tutto quel che si
adopera e non si adopera nella casa della gente che lavora. Sul muro
greggio era dipinta un'Addolorata a colori grossi e sbiaditi; e una
lampada, che ardeva davanti, diceva che la vecchia fede non era
sbiadita nella casa del signor Mauro Lanzavecchia.
- O pà, siete qui? - chiamò Giacomo, mettendo la testa nell'uscio
della cucina.
- Oh, è lei l'amico che fa l'ingegnere? - domandò facendosi avanti
nella luce quasi spenta del crepuscolo una vecchietta pulita pulita,
vestita di lanetta scura, con due o tre spilloni d'argento appuntati
nella poca treccia dei capelli sulla foggia delle contadine d'una
volta.
- Bravo! Come sono mai contenta che sia venuto a far un po' di
compagnia a Giacomo e a tenerlo allegro. Non guardi il sito, per
carità! Siam gente che lavora.
- La mia mamma... - fece Giacomo, stringendo con fanciullesca
famigliarità il mento acuto della donnetta tra l'indice e il
pollice.
- Son contento di conoscerla, signora Santina. Giacomo mi scrive
sempre parole d'oro della sua mammetta.
- Figurarsi, signor ingegnere, siam gente del credo vecchio. Però,
se non le dispiace, la polenta la troverà buona... - La Santina,
incoraggiata dal modo amichevole con cui avevo saputo entrare in
casa sua, sorrise bonariamente accartocciando la faccia solcata di
rughe, a cui l'aria e il sole avevano dato il colore della terra
cruda.
- Dov'è questo pà? - tornò a chiedere Giacomo.
- È sabato e ha gli uomini da pagare. Giacomo intanto le aprirà la
stanza, sor ingegnere. Ci sarà dell'acqua e credo d'averci messo
anche una spazzola. Ce n'è della polvere in questi paesi; quasi più
polvere che miseria.
E con questa sentenza, che essa pronunciò non senza un pesante
sospiro, che tradiva un segreto affanno, ci accompagnò fino ai piedi
di una scaletta interna che menava alla loggetta. Essendo già mezzo
buio, Giacomo accese una candela al fuoco del camino, su cui
bollivano due grosse pentole, e mi menò alla stanza preparata per
me, che dava sul ballatoio colla vista sulla valle.
Per quanto non sia nelle mie abitudini l'osservare e il criticare
quel che si fa in casa altrui, pure non poteva sfuggirmi il
fantastico guazzabuglio delle suppellettili e degli arnesi, che
ingombravano il pianerottolo di quella loggetta. Pareva il refugium
peccatorum della casa. Mobili fuori d'uso, con qualche segno ancora
dell'antico valore, sacchi di grano accatastati, casse di
ferravecchi, barili vuoti, pezzi di lardo sospesi agli uncini,
pannocchie di grano turco che mettevano il loro giallo vivo in mezzo
al lividore delle pareti, tutta questa roba parve muoversi al
comparire del lume in cima alla scaletta e farsi incontro a darmi il
benvenuto. Vidi subito che se in casa Lanzavecchia non mancava il
lavoro che porta la roba, non mancava nemmeno il disordine che la
piglia a calci.
- Questa è la stanza dello zio prete - disse Giacomo, facendo
scorrere il paletto d'un vecchio uscio a due battenti, che cigolò
sugli inerti arpioni. – È la piú bella stanza del convento e la
riserbiamo per gli amici. Ora ti porto l'acqua fresca e la spazzola.
- E che cosa dirà questo tuo zio prete, quando saprà che usurpo il
loco suo, il loco suo che vaca...
- Don Angelo non viene alle Fornaci che il tempo della passata dei
tordi: e quest'anno poi ha gli esercizi spirituali.
Rimasto un istante solo nella stanza, feci un giro col lume per
rischiarare certe vecchie stampe, che rappresentavano i fatti
principali della vita di San Carlo e resi il mio omaggio a S. E. il
conte Romilli, un arcivescovo di Milano, che ha fatto molto parlare
di sé ai tempi del dominio austriaco, quando, probabilmente, lo zio
prete cominciava a dir messa. Anche il letto, il tavolino, il solido
scaffaletto di libri e un seggiolone di vacchetta all'antica a
spalliera diritta, coi bracciuoli di legno e le grosse borchie di
ottone, parevano ripetere nella loro tabaccosa austerità:
«Sissignore, noi siamo dello zio prete».
- E la tua metafisica dove dorme? - domandai all'amico, quando tornò
col secchietto dell'acqua fresca e colla spazzola.
- Di là, verso il pozzo, in una stanza, detta ab antiquo la stanza
delle cipolle, perché pare che una volta servisse di deposito a
queste tenere «del pianto umano antiche eccitatrici». E una
reminiscenza di quel lacrymae rerum, si sente ancora quando si tien
chiuso un pezzo.
Giacomo, nella contentezza di rivedermi, ritrovava la vena
umoristica, che ai tempi beati faceva di lui uno dei meno rumorosi,
ma dei piú amabili compagni. Mentre compivo la mia semplice pulizia,
mi presentò Blitz, il degno Blitz, e volle che riconoscessi negli
occhi gialli e mesti del vecchio barbone bastardo l'espressione del
filosofo, scettico seguace di Pirrone, che vi era trasmigrato.
- Alle volte penso che possa essere lo spirito stesso di Epicuro che
mi ascolta. Vedessi come sta attento quando gli leggo le mie bozze
di stampa!
- E la chitarra la suoni ancora?
- Pende muta dal salice...
- E ti ricordi i famosi caffè che ci servivi nel gamellino?
- Il caffè del gamellino è una dissipazione che mi concedo ancora
insieme a peppinetta... - disse levando da un taschino della
carniera una pipa corta e tozza, che fece saltare nel palmo della
mano. Poi soggiunse: - Ora ti presenterò alla mia famiglia. Vedrai
gente cosí vicina alla natura che quasi ne mostra il sasso.
II
IL SIGNOR MAURO LANZAVECCHIA
La cena era stata preparata all'aperto sotto un pergolato della
vignetta, dal quale pendeva una lucerna a petrolio. Fu il signor
Mauro che mi venne incontro colle braccia aperte:
- Caro ingegnere, che bel regalo! - disse, stringendo nelle sue mani
corte e grassoccie i miei polsi, e storpiando, per far presto, il
nome di Mordini in quel di Morandini. - Venga qua, venga qua, sor
Morandini, - disse, tirandomi verso il pergolato illuminato - lei
deve avere una fame d'anticristo, immagino. Metta di essere in casa
del patriarca Giacobbe... Santina, e il vino? chi mangia senza vino,
senza archetto suona il violino.
Il signor Mauro era un vecchiotto ancor robusto, dalla testa grossa
e quadrata sopra un collo grosso e corto, dai grossi sopraccigli che
cominciavano a incanutire, dal parlare rumoroso e cordiale, in cui
amava intercalare certi proverbi e modi di dire, che spesso non
avevano che un significato approssimativo come i responsi delle
antiche e misteriose sibille. Dove alle molte idee che gli bollivano
in capo venivano meno le parole, egli suppliva con gesti espressivi
e con un socchiudere malizioso degli occhi, che voleva dire: i furbi
s'intendono... E veramente sarebbe stato come un usargli un'ingiusta
scortesia il mostrare di non capire tutti i sensi riposti, che
avevano certe sue parole cabalistiche, quasi erudite, e certi
sottintesi profondi, pieni di una malizia sopraffina, che gli
facevano fare gli occhietti piccoli e aprire le larghe narici di
quel suo naso ben piantato nel mezzo della rubiconda faccia di
galantuomo. Natura focosa e di primo impeto, piú d'una volta questa
sua malizia gli aveva impedito di vedere quella degli altri; e cadde
nelle trappole che gli tesero i furbi che non parlano. Ma in
compenso egli poteva dichiarare a voce alta che un Lanzavecchia non
porta mai il cappello sugli occhi e può sempre dire pane al pane,
ladro al ladro. Il Nonno Nicodemo Lanzavecchia aveva visto scappare
i francesi nella famosa battaglia di Verderio; il padre Galdino
Lanzavecchia aveva visto scappare i tedeschi nel quarantotto; e
l'attuale Mauro Lanzavecchia sapeva quel che vale questo centauro
che si chiama il regno d'Italia... Come chi possiede piú idee che
non parole per esprimerle, il nostro vecchio amico era costretto a
concentrare in certi suoi vocaboli prediletti tutti i significati
che non sapeva dove mettere; e siccome non c'è nulla che meglio si
adatti a un'idea confusa quanto una parola che non si capisce, sa
soltanto Iddio quel che egli intendesse dire, quando definiva il
regno d'Italia un centauro... cioè un mostro mezzo uomo e mezzo
bestia.
- Provi questo diaspro, ingegnere, e mi sappia dire quel che ne
pensa - riprese, porgendomi un tazzone colmo d'un vin rosso
chiaretto. - È un vino che tiriamo da questi nostri ronchi, tutto
vino, tutto d'un pezzo, senza ricchezza mobile: un vino che non ha
mai tradito nessuno. In vinum veritatem, dillo tu, Giacomo, che hai
studiato il vocabolario. Qualche volta ne faccio bere una tazzetta
alla mia vecchia legittima, e vedesse come canta.
- Va, va, chi ti crede? - fece la Santina, crollando la testa in
atto di rimprovero.
- Forse che il sor Morandini non sa come gira l'arcolaio? - E qui,
socchiudendo uno de' suoi piccoli occhi grigi, m'interrogò a lungo
coll'altro su qualchecosa che io e lui dovevamo sapere. - Il sor
ingegnere ha studiato la meccanica e sa da che parte ha il manico la
tazza... - E rise forte; e risi anch'io per dargli gusto.
Nell'espansione di quel lieto istante m'invitò a togliermi la
giacchetta, ché avrebbe fatto anche lui lo stesso, visto e
considerato che tirava sotto il pergolato una bell'arietta fresca,
netta anch'essa di ricchezza mobile. Durante questi discorsi ai
quali mi ingegnavo di partecipare con eguale espansione, sforzandomi
di alzare i toni per accordarmi all'intonazione alta del direttore
d'orchestra, la mamma Santina finí di preparare la tavola, aiutata
dalla Lisa, sorella di Giacomo, una ragazza lunga, ricca d'ossi,
cogli occhi sporgenti, che portava un tuppè di capelli neri, irti,
duri come lische.
Poco dopo l'uomo, che aveva fermato il cavallo in corte, mise in
tavola una grossa polenta tonda, che oscurò col suo fumo la luce
della lampada e alla polenta tenne dietro una larga tegghia di rame
con dentro stufato e con un contorno di salsiccia annegata nel
pomodoro. Le donne presero posto su una panca di legno, mentre
sull'altra panca in faccia, accanto a Giacomo, vennero a sedersi i
due fratelli, uno di nome Battista, detto per far presto,
Battistella, e l'altro, quasi ancora un ragazzo all'aspetto,
chiamato, in onore dello zio prete, Angiolino.
Tornavano allora allora dalle fornaci, nel loro succinto arnese di
lavoro consistente in una grossa camicia di tela aperta sul petto,
colle maniche rimboccate, che lasciavano vedere due belle braccia
rinforzate dalla fatica e colorite dalla polvere rossa del mattone
cotto, e i calzoni tenuti in vita da una cintura di cuoio. Questi
due giovinotti, dopo avermi salutato con un segno duro del capo,
tuffarono subito il viso nel piatto. Giacomo, seduto sull'angolo
della panca, voltò il suo piatto al rovescio sulla tavola per
dimostrare che non era lí per mangiare.
- Ecco tutta raccolta la sacra famiglia - declamò il vecchio
Lanzavecchia colla voce piena e soddisfatta. - Lavoratori da una
parte, filosofi dall'altra, galantuomini tutti che non temono
concorrenza. È la quarta generazione, che cresce all'ombra delle
fornaci, e spero di veder la quinta, se questo centauro di governo
mi lascierà respirare. Giacomo scriverà un giorno la storia dei
Lanzavecchia e dirà come su tutti i muri delle Fornaci sia scritto:
«Poveri, ma onesti»... Solamente vorrei che Giacomo mangiasse di piú
alla tavola di suo padre. Dacché s'è messo a rovistare nella
filosofia, fa troppo il patetico. Che bisogno c'è di viver magri? La
gloria è una bella cosa e anch'io in gioventú ho sognato di diventar
maresciallo; ma sacco vuoto non regge. Glielo dica anche lei,
ingegnere.
- Sarà innamorato - dissi celiando per stare in armonia.
Giacomo arrossí, sorrise, e mi pregò con gli occhi di non insistere
su questo discorso.
- Se è innamorato, fa quello che fan tutti per mantenere questo
cataclisma di mondo, e non sarà mai suo padre che gl'impedirà di
mettere un cuscino sotto la testa se si sente basso. A ognuno la sua
volta. Che cosa dice il proverbio? Vicende umane, oggi la lepre
domani il cane. Se non provvedono i giovinotti al meccanismo, chi
mangerà il nostro frumento? dico bene, ingegnere? E, se non fosse
stata quella legnata tra capo e collo della Rivalta, gamba d'un
cane... - soggiunse aggrottando le folte sopracciglia,
rannuvolandosi in viso.
- Lascia stare le malinconie quando si mangia... - interruppe la
Santina, tagliando e quasi spazzando l'aria con un gesto frettoloso.
- Giacomo è il maggiore de' miei figli, ed è giusto che vada avanti
agli altri. La sua posizione è fatta, e ora che il mondo dei
professori sa chi è, non è necessario che sposi una mugnaia...
- Ci son tante contesse in giro... - scappò detto quasi a dispetto
suo alla Lisa, che non aveva mai aperto il becco fin qui, e a cui mi
parve di vedere che quel discorso irritasse le lische.
- O che mi vuoi tirar su le calze tu? - rispose il vocione di pà. -
Io non ho mai negata la mia minestra a nessuno de' miei figliuoli.
Chi è nato a portar farina, chi è nato a portar crusca, per tua
regola, la mia mai pettinata. Se Giacomo ha avuta la fortuna di
trovare dei benefattori che l'hanno fatto studiare, non è una
ragione perché egli abbia a mangiare dei sassi. Non sarà mai un
disonore che il nome d'un Lanzavecchia sia stampato sul cartone d'un
libro. Io non so che cosa è la scienza, perché la vacca quando ero
un ragazzo mi ha mangiato l'abbecedario, ma mi diceva il conte
Lorenzo, quando sono andato ieri a portargli le tegole per la
rimessa, mi diceva che a Bergamo e a Venezia son rimasti di
princisbecco per quel che Giacomo ha scritto su quel cataclisma
dell'avvenire: dillo tu come si chiama quel tuo libro per cui ti
hanno dato un premio. Né io, né tua madre non ne capiremo mai una
saetta, perché siam nati quando andavano ancora in processione le
formiche; ma don Lorenzo non è un'oca, e, in intuito, istruzione, sa
quel che pesano le lasagne. Io non so che cosa sia la scienza,
ripeto, ma fosse anche una scopa, il merito è di saper adoperarla. E
se quei signori di Venezia dànno un premio di tre mila lire a un
Lanzavecchia, capisci, scarmigliona...
- Mi dànno meno, molto meno, pà... - interruppe Giacomo sorridendo.
- Poiché Dio ti ha dato il dono di maneggiare bene la penna,
dovresti, gamba di un cane, scrivere qualche diaspro su questa
porcheria dell'esattore, che ogni anno ti aumenta la ricchezza
mobile. Sotto il cessato governo austriaco, prima del sessanta, si
pagava il pane in questi paesi non piú di cinque soldi la libbra, e
per cinque soldi avevi un boccale di vino di Mondònico che avrebbe
fatto cantare i morti. Oggi questi italiani ti fanno pagare sette
soldi la libbra il pane, e dico soldi di cinque centesimi l'uno; e a
stento per ottanta o novanta centesimi ti dànno uno scongiurato vin
di Barletta che ti abbrucia le viscere. Sotto il cessato, un onesto
padre di famiglia, che non avesse il capo alla politica, era sicuro
di lasciare un po' di dote alle sue figliuole, fare una posizione a
cavallo ai maschi, e salvarsi un bicchier di vin vecchio. Sotto
questi che comandano adesso, uno non salva nemmeno i denari del suo
funerale. E voglion che si gridi viva l'Italia! Grideremo: Viva i
ladri! Che se domani volessi, per citare un caso, maritare quella
povera cristiana, - e nel dir queste parole il vecchio fornaciaio
andava segnando colla punta della forchetta la ragazza lunga e
liscosa, - dopo quarant'anni di sacrosanto lavoro, mondo
scongiurato, non ho quasi da comperarle un paio di scarpe..
- O caro il mio pà, se lo dite un po' piú forte, vengono a cercarmi
i tre re magi - protestò la Lisa, ridendo nel piatto con un fare tra
l'amaro e il dispettoso.
- Sí, sí, cara la mia ricchezza mobile - seguitò quel rumoroso padre
di famiglia. - Oggi l'aver dei figliuoli non è piú una consolazione.
Ecco quel che dovresti scrivere in bel volgare, Giacomo, scriverlo e
stamparlo sulle loro gazzette a questi italiani, che il diavolo
porti sulla forca...
- Ohibò, un uomo che ha avuto un figliuolo garibaldino... - provai a
dire per far sonare un'altra corda meno stridente; ma il vecchio
impetuoso, che cominciava a sentire le tazzette del suo vecchio
diaspro, e che da quel ch'era facile capire, sedeva su vecchie
piaghe, mi tagliò la parola in bocca per dirmi, strillando come
un'oca:
- Eh, eh, si è ben creduto che il Garibaldi e compagnia bella
dovessero portar l'abbondanza. A sentire gli italianoni d'allora si
dovevano legare le siepi colle salsiccie e l'Adda doveva correre vin
di Piemonte. Mondo scongiurato, che fallimento! per ogni garibaldino
morto per la patria, son spuntati dieci esattori vivi che ti
mangiano vivo... - E come se cercasse di spegnere un gran fuoco
interno, Mauro Lanzavecchia tracannò la sua quarta o quinta
tazzetta.
In mezzo a questi discorsi, nei quali però né Battista, né Angiolino
non misero mai parola, la cena finí presto. La mia presenza forse
dava ombra ai due giovani, che, finito appena d'ingoiare l'ultimo
boccone, dettero una selvatica buona sera e se ne andarono pei fatti
loro.
- Non tornare a casa come l'altro sabato, Battistella, se non vuoi
che ti rinfreschi col secchio del pozzo - gridò il pà verso il
maggiore dei due che si allontanò zuffolando. Poi, voltosi a me,
soggiunse: - È un ragazzo un po' corto di cervello, che si lascia
facilmente ingarbugliare dal vino. Forse non è tanto la quantità che
fa male, quanto il meridionale che ti vendono quest'italiani di
osti.
Piú tardi venne a sedersi intorno alla tavola, nella frescura del
pergolato, che tremolava teneramente al caldo riflesso della
lampada, il maestro della banda, e quel don Andrea, padrone del
«Roccolo», un prete bergamasco, che avviò il gran discorso della
caccia, delle allodole, dei fringuelli, delle quaglie, dei cani da
naso, dei cani da fermo, con quella gravità di sentenze, che ogni
buon bergamasco mette in questa speciale istituzione della sua
provincia. Essendo sfuggito al prete un giudizio alquanto avventato
sulle correnti d'aria della riva lombarda, dove la passata degli
uccelli in certe stagioni è quasi nulla, tale da non pagare nemmeno
la spesa delle reti, il patriottismo del sor Mauro si risvegliò di
botto come un leone affamato; e tra lui e quel pretucolo ruvido e
nero come un carbonaio, il battibecco durò un pezzo con tanto calore
che bisognò rinnovare il fiasco. La sera passò d'incanto, e non mi
parve vero che fosse l'ora d'andare a dormire. Prima di salire a
sognare la polenta colla ricchezza mobile, mi lasciai condurre da
Giacomo a fare un giretto intorno alle fornaci, su cui batteva una
bella luna d'agosto in ritardo.
III
UN FILOSOFO ED UN CANE
Quando la mattina aprii le persiane, e che il piú bel sole entrò a
illuminare la stanza dello zio prete, i vecchi mobili parvero
risvegliarsi anch'essi a quell'ondata di luce. Quattro goccie cadute
nella notte avevano rinfrescata e purificata l'aria per modo che
l'occhio poteva scorrere e riposare sulla conca verde della valle
dell'Adda e sulla grandiosa parete dei monti che, addossandosi l'un
dietro all'altro, par che chiudano, oltre la riva del fiume, i
confini del mondo. Il Resegone colle sue creste agitate e colle sue
massiccie rugosità sorgeva davanti come un gran muro, a cui si
appoggiassero le schiene e i declivi degli altri monti, quale d'un
verde scuro, quale d'un verde trasparente, quale d'un azzurrognolo
leggiero, che andava a confondersi a sinistra colle creste sfumate
delle due Grigne di Lecco, che, rarefatte dalle nebbioline del
mattino, parevan lí lí per sfumare nel cielo. Piú morbida, piú lenta
si distaccava la linea del monte Albenza (quello stesso che vediamo
a Milano sullo sfondo del corso di Porta Venezia), un gran pascolo
verde senza una punta, su cui il sole, di man in mano che montava in
su, andava stendendo una specie di tappeto luminoso: e piú in basso
ancora, piú oscuro per l'ombra e pei boschi, il monte Canto, nel
grembo sinuoso del quale Villa d'Adda si sparpagliava colle sue
case, colle sue ville, in una fredda sonnolenza. L'Adda, nel fondo
della conca verde, si vedeva or sí or no di mezzo ai fitti boschi di
faggio e ai cespugli delle bassure, qua in un piccolo specchio
turchino, forse il laghetto di Brivio, più in giù in una bella vena
color smeraldo, e oltre ancora in una breve rapida agitata da
ricciolini biancheggianti. L'oscurità verde, in cui giaceva ancora
il fondo prolungato della valle, faceva ancor piú comparire, come un
teatro illuminato, il lontano territorio di Lecco e le chiesuole
isolate su questo o su quel poggio meglio esposto ai raggi del sole.
Essendo la festa della Madonna di settembre, veniva dalla vicina
Madonna del Bosco uno scampanare solenne, che risvegliava gli echi
della valle e dava un non so che di gioioso e di sacro all'aria, in
cui sentivi scorrere quasi il sentimento e la mitezza del giorno di
festa. Dopo aver contemplato a lungo in una estatica inerzia i vari
aspetti del paesaggio, uscii sulla loggetta, che alla luce del dí
perdeva molto del suo bello fantastico, e andai a bussare all'uscio
dell'amico filosofo.
- Vieni pure avanti, trapezio! - gridò Giacomo dal di dentro; e
quando ebbi spinto l'uscio: - Bravo, - soggiunse - mettiti lí cinque
minuti su quella sedia di paglia fin che abbia finito di leggere a
Blitz questa bozza di stampa. La posta parte alle nove e non vorrei
perdere una giornata.
- Fa conto ch'io sia il tuo cane - dissi sorridendo mentre mi
mettevo a sedere in un cantuccio.
Giacomo, per riconoscere gli errori nelle bozze di stampa, aveva
bisogno di leggere a voce alta la sua filosofia a qualcuno; ma, non
essendovi alle Fornaci chi avesse la pazienza di stare a sentire le
sue astruserie, obbligava Blitz a sedersi nel mezzo della stanza e a
dargli ascolto.
- «Qual è la causa e qual è l'effetto? - leggeva il filosofo,
alzando di tempo in tempo gli occhi verso il cane, che socchiudeva
un poco i suoi. – È l'organizzazione il principio della vita o è la
vita il principio dell'organizzazione? Quel che Claude Bernard ha
detto della vita fisica, io psicologo posso dire della vita morale.
Cosa meravigliosa in noi non è tanto la varietà e la molteplicità
dei fenomeni spirituali, quanto il nascere e lo svilupparsi
dell'uomo morale, che opera e cammina secondo un ideale a cui egli
non può resistere».
- Ti giuro, Edoardo, che questa bestia capisce tutto, - interruppe
Giacomo per lasciare un po' di riposo al cane. - Non solamente egli
mi ascolta sempre con quell'immobile attenzione che vedi ora, ma
cogli occhi mi dice quando l'idea lo persuade e quando non lo
persuade, quando la sentenza è chiara e quando all'incontro è troppo
filosofica. Se nel testo c'è poca evidenza, Blitz chiude gli occhi e
par che si addormenti come un buon cristiano. Mi lasci andare fino
in fondo della pagina? Intanto si scalda l'acqua nel gamellino.
- Leggi pure: mi sforzerò anch'io di capire, se non ti par troppa
superbia.
Giacomo cambiò il foglietto, e, dopo aver richiamata l'attenzione di
Blitz, ripigliò a leggere con un tono alquanto declamatorio: «Questo
moto verso il miglioramento è la condizione necessaria della nostra
vita morale che, nell'inerzia, troverebbe la morte. Ogni passo
dev'essere necessariamente un passo avanti nella via del progresso
ideale, che è la risultante benefica di tutti gli altri progressi
economici e scientifici». Ti pare, Blitz?
Il cane mosse un poco il muso e fece dondolare le orecchie.
«L'uomo d'oggi è senza dubbio migliore di quello di ieri...» sta
attento, Blitz... - E volgendosi a me con uno scoppio di serena
ilarità - Guarda, - disse - si direbbe che il vecchio scettico è
poco persuaso di questa verità. - «Domani sarà ancor migliore,
finché, reso padrone della verità, potrà un giorno sedere ottimo
arbitro, giudice conciliatore tra sé e la natura. Dal suo idealismo,
come da un trono inarrivabile, il piccolo re dell'universo stenderà
sulla natura lo scettro ch'egli tiene per investitura divina e
formolerà le leggi eterne della felicità...».
Blitz, eccitato dal gesto e dallo sguardo ispirato del suo padrone
non seppe piú stare alle mosse, e protestò, se non sbaglio il
commento, con due o tre abbaiamenti sgarbati e dispettosi.
- Vedi se in lui non c'è lo scettico pessimista? - proruppe Giacomo,
abbandonandosi a ridere sulla sua seggiola, che perdeva le paglie
per il di sotto. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una
qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz:
ancora una cartella e poi ho finito.
Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel
gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un trepiedi di
ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile
cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede
nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un
pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate,
un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo
di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco
tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della
Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un
rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni
religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia
sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario
non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo
aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma
un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che
gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino,
piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia
segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai
parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo,
coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di
carbone e un arcolaio fuori uso.
L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene
che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della
mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato
fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze
della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si
possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce
dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli
la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura
ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso... era il motto
della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore,
come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di
questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i
piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i
pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che
vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo
padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua
ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far
presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà
intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale
andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la
polenta e il merluzzo di casa sua.
- Ho bisogno che questa dissertazione sull'Idealismo sia stampata
presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta
l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il
bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera
gente...
Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè
bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri,
quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera.
- A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo
della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere
galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano
tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno si è lasciato
trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita
quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato
all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina.
Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a
quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e
continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al
sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza
d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione,
crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per
cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti
a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di
stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani,
coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua
rovina. Se noi potessimo aiutarlo... ma Battista non ha che le
spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia
dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i
carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto
andar soldato. Ci sono io, il dotto... il sapiente... vale a dire il
piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che
vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di
mutui e di ipoteche?
Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: -
Maledetto il mio troppo saper.
Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che
collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri
e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me,
dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese:
- Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno
alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà
difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi
interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po'
in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche,
e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena.
- Lo farò volentieri.
- Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in
guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno.
- Tu pensavi forse a prender moglie...
Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando
appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il
caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per
un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione,
soggiunse:
- Sai che io son legato da un'antica promessa...
- Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio
idealismo.
- Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra
povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito
sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran
cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è
cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la
persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni
non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non
voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su
casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di
quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete,
che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il
nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno
non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo
prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli
ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare;
e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del
premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre:
Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande
consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera
gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e
stampare tutto quel che mi passa qua dentro...
Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli
occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se
parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre
sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo
sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai
mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a
conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto
dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo
sapere che non sa far nulla...
- Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a
sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio
morale...
- Ben, bene... lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il
lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara
Celestina addio.
Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una
tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo
suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza,
quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una
lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo
filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e
in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua
virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste
creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli
aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno
per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel
pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è
necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del
suo destino non sapevo dargli torto.
- Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo -
ma procuro di vederla co' tuoi occhi.
- Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco
casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla
protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona
famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona
e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me
un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho
dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero
per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna
d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande
delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina
non può che migliorare.
- E c'è anche una contessina?
- Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una
figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che
le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai
stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle
Fornaci si è tutti buoni cristiani.
- Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.
IV
ALTRE CONOSCENZE
Di maggio il nono - L'anno dieci sette
Videro qui Maria anime elette
dice una vecchia pietra del mille e seicento al luogo ove ora sorge
il Santuario della Madonna del Bosco; e dice ancora come, quasi a
conferma dell'apparizione, un castano lí presso che, essendo di
maggio, non aveva cominciato se non da poco a metter le foglie,
comparve ad un tratto ricco dei suoi frutti. E quasi se ciò non
bastasse, si vuole che in questo bosco un fanciulletto, figlio di
poveri pastori, venisse azzannato da un lupo; ma la Madonna,
invocata con fede dalla mamma del piccino, ottenne che la mala
bestia deponesse sull'erba il fanciullo senza fargli alcun male. Non
dice se il lupo si facesse frate; ma il caso meraviglioso fu poi
figurato in rilievo in mezzo a una gloria di angeli inverniciati, in
una cripta sotto l'altare, presso uno zampillo d'acqua freschissima,
che fa bene anche a chi non ci crede. Dalla cripta per una doppia
gradinata scende la scala santa nell'ombra del bosco, per la quale
continuo è l'andare e il venire dei devoti, che lasciano ad ogni
scalino un po' del peso della loro vita. Dalle terrazze del tempio
la vista si apre sulla valle, fino alle ultime case del territorio
di Lecco, che biancheggiano sul monte, come lenzuoli messi al sole
ad asciugare; ma, piú che la vista lontana, piace l'ombra vicina,
piace nelle ore calde e poco frequentate il silenzio mistico del
bosco e del sagrato, dove svolazzano le bianche colombe del Rettore
che vanno a bere alla fontana della Madonna, e svolazzano i pensieri
di chi fugge al rumore delle cose.
Giacomo, che era nato e cresciuto quasi all'ombra del santuario,
stava descrivendone la segreta poesia, quando la brigata s'imbatté
nell'illustrissima famiglia Magnenzio, che scendeva alla Messa dal
sentiero del Ronchetto. La villa co' suoi due piani spaziosi, e
colle sue sessanta finestre di stile romano, dominava nel mezzo d'un
giardino accomodato come una pittura, dall'alto d'un ampio terrazzo,
a cui si accedeva per un doppio ordine di scalinate fiancheggiate da
massicci vasi di terra cotta. Nella piena luce di quella bella
mattina di settembre, col sole d'oro che si specchiava nelle lucide
vetriate delle finestre e delle serre, coi viali umidi che mandavano
il buon odore della terra misto ai mille profumi confusi che
uscivano dagli sterrati messi a fiori e dalle serre, giardino e
palazzo, colla bandiera bianca e azzurra, svolazzante sulla
torretta, facevano pensare piú agli incantesimi di Armida che non
alla sobrietà morale di una famiglia di clericali, che vi
coltivassero i doveri del decalogo e i precetti della Santa Madre
Chiesa.
Alla vista del conte, Mauro Lanzavecchia si levò il cappello e,
agitandolo come una ventola, esclamò colla sua voce di maresciallo:
- Che bella Madonna di settembre eh!... sor conte...
Il conte Lorenzo Berengario Magnenzio di Villalta, quasi a dispetto
de' suoi nomi sonori e dei due draghi spiritati che si azzuffano da
ottocento anni nell'antico stemma della famiglia, era un ometto di
bassa statura, già sulla sessantina, dall'andatura lenta e
addolorata,come se camminasse sempre coi piedi nudi sui ricci delle
castagne; ma era pure un gran buon uomo, rispettoso anche dei
deboli, pauroso dell'ombra sua, dotto come una libreria, e non privo
di quell'arguzia un po’ grassoccia, che piaceva ai novellieri del
buon tempo antico, tra cui messer Giovanni è il capo dei ladri.
Purista appassionato, archeologo non da buttar via, piú che a far
libri, com'è la smania nuova si divertiva a leggerli, a patto che
fossero libri scritti colle mani e non coi piedi. Siccome però
intorno a quel che sia lo scrivere bene come. intorno a quel che sia
il buon governo, ognuno ha diritto di avere un'opinione sua, cosí il
conte trovava che dal Monti in poi nella poesia, e dal Giordani in
poi nella prosa, in Italia non si era piú scritto un libro
tollerabile. Il Monti, il Giordani, un poco di Botta e bott lí,
soleva dire. Dopo di questi, per colpa specialmente di quel bon omo
del Manzoni, lo scrivere non è piú un'arte, ma un mestiere che si fa
in maniche di camicia. Non contenti di aver scassinata la vecchia
sintassi, giornalisti, pubblicisti, romanzieri e perfino professori
di università lavorano ora a tutto spiano a scassinare l'ortografia,
introducendo anche nella grammatica quella smania di novità e di
distruzione che entra dappertutto.
Come si sente, c'era un tantino di pedante; ma nella penuria
desolante dei signori che studiano, don Lorenzo si poteva dire uomo
raro, originale, un prezioso avanzo d'altri tempi e di altri gusti
meritevole d'essere conservato nella bambagia.
La contessa, maritata giovanissima a quest'arca di scienza, più che
all'alba della seconda età, si poteva considerare arrivata allo
splendido tramonto della prima. Alta della persona, quasi maestosa,
con capigliatura ricca di un biondo vivo, che spiccava sulla
carnagione d'una pallidezza sana e fiorente, temperava quel che vi
poteva essere di troppo forte nell'indole, colla dolcezza d'uno
sguardo aperto a una gran luce, colla modulazione d'una voce media,
di signorile morbidezza, colla grazia di un sorriso sempre pronto e
cortese, che metteva in vista dei denti bellissimi. La sua condotta
onesta e diritta, di una perfetta trasparenza morale, la sua
religiosità alquanto austera le aveva acquistato la riverenza non
solo dei suoi dipendenti, ma il rispetto, piú difficile a ottenere,
de' suoi pari, di cui non esitava a urtare colle parole e
coll'esempio le facili transigenze, le opinioni accomodanti, i
comodi pregiudizi, le volgari abitudini.
«Cristina è una vita parlante» soleva dire suo zio, monsignor di San
Zeno, parlando di lei. Credente fervida e sincera, non immiseriva la
sua fede in piccoli pensieri; ma aveva un'opinione cosí alta dei
doveri a cui Dio destina la nobiltà, che ai leggeroni di professione
la sua morale non tornava sempre simpatica e di facile digestione.
Ma chi poteva avvicinarla nell'intimità sentiva in lei l'energia
d'una volontà che genera altre buone volontà, come la forza del
fiume che dove passa genera lavoro e ricchezza, e sopportava non mal
volentieri un'autorità benevola e signorile, che è una cosa ben
diversa dell'autoritarismo delle anime volgarmente aristocratiche.
Costretta a essere forte anche per conto degli altri, la sua virtú
intelligente s'era andata via via concentrando, non senza forse
irrigidirsi alquanto, per necessità di resistenza, nell'amore e
nell'educazione dei figli, nelle opere di carità e in quelle
istituzioni, in parte di propaganda, in parte di reazione, che sono
la sostanza piú vitale del programma del partito conservatore.
- È peccato che il figliuolo non somigli né a suo padre, né a sua
madre - prese a dirmi la mamma di Giacomo, colla quale ero rimasto
in disparte, mentre i Lanzavecchia presentavano il loro rispetto al
conte e alla contessa.
- C'è anche un figlio?
- Sí, don Giacinto, una spina nell'occhio di questa signora cosí
buona.
- Che cosa fa questo don Giacinto?
- Fa il bel giovine e l'ufficiale. Il ragioniere Riboni non arriva a
tempo a pagargli i debiti.
- Come state zia? - disse una voce dietro di noi.
- Oh sei tu? beato chi ti vede. Siam proprio diventate forestiere
del tutto, figliuola.
- Ho molto a fare, zia.
- Questa è una mezza mia figliuola - disse la signora Santina
volgendosi a me. - Giacomo le avrà parlato di Celestina.
- E come! - esclamai, aprendo tanto d'occhi su quella famosa
bellezza a cui l'amico aveva consacrato un altare perpetuo. Vidi una
giovinotta sui vent'anni vestita come una cameriera, con due
bellissimi occhi neri e grandi, col viso ovale e colorito delle
belle ragazze brianzuole, che spiccava nell'amabile contorno d'una
bianca cuffietta di rensa, foggiata alla bretone. Vicino alla
pallida bellezza preraffaellita della contessa Enrichetta, questa
solida ragazzona del popolo faceva pensare a una bella santa del
Rubens. Quel che vi poteva essere di meno classico nella sua
floridezza di forme compariva come ingentilito dal vestitino lindo e
chiaro e dallo studio della contessa, che sapeva estendere intorno a
sé un'atmosfera di saviezza e di composta eleganza.
Mi parve di scorgere che la fanciulla nel raffigurar Giacomo, che
stava parlando col conte, si facesse a un tratto smorta smorta e
trasalisse come spaventata. La contessa se ne avvide subito, tornò
verso di lei, si fece dare i libri di preghiera che essa aveva
recato con sé, e susurrandole in fretta un comando, a cui la ragazza
non osò opporsi la rimandò a casa. Tutto questo in un baleno, tanto
che Giacomo, che il conte aveva chiamato giudice in una questione
d'ortografia, non ebbe tempo di accorgersene.
- Dunque avete visto Giacomo? anche il Rigutini ha sbandito l'j dal
suo Vocabolario. D'ora innanzi non piú canteremo alleluja, ma
soltanto alleluia...
Don Lorenzo, oltre al far sentire colla voce qual sia la differenza
tra un j e un semplice i, volle disegnar le due lettere sul suolo
colla punta del bastone.
- Sicuro, caro Giacomo - continuò il bravo signore, mentre
rispondeva con un famigliare segno di mano alle scappellate dei
contadini che andavano raccogliendosi sul piazzale del santuario. -
che cosa dirà il boja, quando gli avranno applicata questa caudae
diminutio... - E stringendo gli occhietti fino a farli scomparire
del tutto nelle pieghe della pelle, il conte aspettò che Giacomo
assaporasse la malizia dell'osservazione, per continuare poi: - E
dovremo oltre questo avvertire con un decreto tutti i cani, perché
da oggi innanzi cessino d'abbajare come han sempre fatto fin qui.
Sarà appena tollerato che abba-i-no... che abba-i-no... da non
confondersi con abbaino - Ed esagerando con una specie di guaiolo il
verso d'una cagnetta, il conte, a cui stillavano già due piccole
lagrime dagli occhi, volle far sentire anche al buon popolo quanto
di serio vi sia in certe grandi e strombazzate riforme. E concluse:
- Diremo anche questo un prodotto del liberalismo moderno? non vi
pare piuttosto una minchioneria?
Giacomo assentiva con benevola indulgenza: ma il pà, che stava ad
ascoltare con rispetto e colla sua aria di fiera protesta, non
sapendo resistere alla voglia d'associarsi a un voto di biasimo
contro quel mondo birbone, rovinato dai liberaloni, entrò in mezzo
per dire:
- Sa che cosa farebbe bene all'Italia, sor conte?
- Sentiamo, sentiamo, caro Mauro... - sollecitò il conte, che amava
riferirsi al buon giudizio popolare.
- Sei mesi di cessato governo farebbero bene con un po' di bankaraus
e qualche forca qua e là, per far presto.
- O povero Petrarca, o povero Filicaja!... - esclamò ridendo il
conte, che vedeva ancora l'Italia (beato lui!) attraverso alle
canzoni e ai sonetti dei poeti classici. Ed era lí lí per citare un
verso quando il suono della campanella avvertí che la messa stava
per uscire. La compagnia si salutò e si divise, seguendo l'onda del
popolo che si affollava nell'atrio. La chiesa, non molto vasta, fu
presto piena dell'insolito concorso dei devoti, che approfittavano
della bella giornata per onorare la Madonna. Molti che non poterono
entrare si raccolsero sotto il portico, o andarono a sedere sui
muricciuoli del sagrato, fin dove poteva arrivare il borbottamento
frettoloso della messa di don Andrea, che aveva dovuto lasciare il
«Roccolo» in un momento impagabile. L'aria che da una settimana
pareva stagnante, rotta finalmente da un buon temporaletto di
montagna, mandava giú per la valle dell'Adda correnti fresche con
uno sterminio d'uccelli. Quella mattina si cominciava a vedere
finalmente qualche tordo; quindi la messa fu piú spiccia del solito.
Io e Giacomo ci mettemmo a sedere sulla gradinata, da dove la vista
s'apre sulla valle. E quando nella chiesa ebbero intonate le
litanie, cessata la ragione del raccoglimento, dissi, battendogli la
spalla:
- Mi congratulo col filosofo idealista. Abbiamo fatta la conoscenza
di Celestina.
- Dove?
- Qua presso. La signora ha dovuto rimandarla a casa.
- Ebbene?
- Ebbene, molto bene. Per un filosofo distratto è forse troppo
bella, ma tu la meriti, povero Giacomo.
- Aspetta, cavallino, che l'erba cresca... - disse con un sospiro.
- Non sarà sempre cosí, vedrai. La felicità non si compra a danaro.
Da quel che sento, il figlio di questi bravi signori va a comperarsi
la rovina co' suoi denari.
- È vero. Don Giacinto può essere definito il fallimento di tutte le
nostre massime educative. Cresciuto sotto gli occhi di una donna
santa e virtuosa, che lo raccomanda a Dio tutti i giorni nelle sue
preghiere, il caro giovanotto batte allegramente una brutta strada.
Un po' le donne, un po' lo sport, un po' il giuoco, a quest'ora ha
già dissipata la dote di venti ragazze da marito.
- E come spieghi il fenomeno?
- Che vuoi che ti dica? ai ricchi la virtú è piú difficile che a
noi. L'ozio, il rispetto umano, lo spirito d'imitazione, le
digestioni pesanti...
- Questo è del materialismo, caro mio.
- Come ci sono i malati di denutrizione, cosí ci sono gli esuberanti
e i pletorici. Il conte, immerso ne' suoi libri e nelle sue
iscrizioni non ha la forza di volere; e la contessa forse vuol
troppo, con troppo rigore e con troppo orgoglio. L'educazione se non
è un equilibrio di forze, è una macchina che stritola. Se la povera
donna si cruccia, n'ha di che. Essa ha provato varie volte a cambiar
aria al ragazzo: l'ha tenuto in collegio presso i gesuiti a
Ventimiglia, se l'è tenuto in casa sotto la guida d'un precettore
tedesco, suggerito dal cardinale Hohenlohe; ma il giovine, che è già
grande e grosso come tre filosofi, dice che mammà lo vuol far morir
tisico. Donna Cristina si compiace d'interrogarmi per vedere se
nella mia profondità pedagogica so dare un suggerimento: ma che
rimedi possiamo suggerire noi, poveri pedagoghi che viviamo di pane
e formaggio, a questi giovinotti che possono spendere venticinque
lire in una colazione? Le madri vorrebbero poter edificare la loro
casa sui figliuoli, e hanno ragione. Se questo orgoglio è naturale
in ogni donna, pensa la contessa! Quando si nominano i Magnenzio di
Villalta, e piú ancora quando si parla dei San Zeno, non solo in
questi paesi, ma a Cremona, a Milano, a Roma, è come nominare la
famiglia di Sant'Ambrogio. Il partito conservatore ha in questi nomi
i suoi stemmi piú illustri: in hoc signo vinces... Dispiace
veramente che un patrimonio cosí prezioso di buone condizioni vada
sperperato nelle mani delle ballerine; ma sa piú bene il suo
mestiere il diavolo che non tutti i moralisti presi in mazzo.
COMINCIANO I GUAI
Era mia intenzione di fermarmi alle Fornaci alcuni giorni, durante i
quali avrei potuto farmi una idea piú esatta delle condizioni in cui
si dibatteva il signor Mauro, che mostrò di aver fiducia ne' miei
consigli; se non che un improvviso telegramma da casa mi obbligò a
partire la mattina stessa del lunedí. Pregai Giacomo di tenermi
informato dell'andamento degli affari e partii, promettendo di
ritornare appena egli avesse creduto utile di servirsi dell'opera
mia. Non andò molto che l'amico mi scriveva questa lettera, che fu
il principio di una lunga via crucis di guai:
«Ieri ho avuto una lunga conferenza coll'avvocato Brognolico, e quel
che prevedevo pur troppo si verifica, anzi arriva troppo presto. Il
mio povero padre è ridotto al punto che dovrà entro l'anno
dichiarare il suo fallimento; e siccome l'azienda dei Lanzavecchia è
sempre stata condotta coi sistemi primitivi, senza i voluti registri
di commercio, cosí l'avvocato mi avverte che c'è pericolo che il
fallimento possa essere dichiarato doloso. Non oso domandare quel
che la legge riserva in questi casi ai colpevoli; ma sento che
intorno a me precipita la mia casa sulla bianca testa de' miei
poveri vecchi. Intanto mi domando quel che posso fare. Nulla di piú
malinconico d'una grande dottrina incapace. Tutto occupato a
edificare delle magnifiche costruzioni ideali, sento che non saprei
salvare un mattone da questa grande rovina che ci travolge. Alla
mamma non si può più nascondere la verità. I creditori, che
assediano di continuo il nostro uscio, s'incaricano essi di farle
capire, e non sempre nel modo piú cristiano, quel che mio padre con
uno sforzo sovrumano di energia e di dissimulazione ha sempre
cercato di nasconderle. La povera donna ora non fa che piangere, e
mi domanda con voce spezzata dai singhiozzi, se alla sua età sarà
costretta di stendere la mano. Battista, che non sa entrare, (per
sua fortuna) in certi dolori e che in questo momento non sente che
il bisogno di prender moglie, impreca e minaccia non so che cosa, se
non gli lasciano sposare la sua Fiorenza. Egli pretende la sua
parte, vuole andarsene a far casa da sé e non capisce che di casa
non ce n'è per nessuno. Anche la Lisa, che fu sempre una ragazza di
buon senso, non sa rassegnarsi a questa disgrazia, e la sua lingua
dice piú di quel che vorrebbe il suo cuore. Angiolino invece, che
nella sua semplicità fanciullesca crede d'aver diritto alla sua
parte di felicità, mi domanda con una segreta speranza se il
fallimento lo salverà dal servizio militare. Il povero vecchio è
diventato torbido e intrattabile. Per stordirsi ricorre piú che non
sia permesso alla sua tazzetta di vino, va da un avvocato all'altro,
minaccia cause e processi e torna spesso la sera come non fu mai
visto. La gente, che vorrebbe trovare in lui un uomo ragionevole e
accomodante, vedendo ch'egli non si lascia piú cogliere, prima di
procedere a misure estreme, vien da me, vuol sentire da me quel che
intendo di fare, nel riguardo dei creditori. Chi vanta un credito di
mille, chi di cinquecento, chi di cinquanta lire, chi si appoggia a
un'ipoteca, chi ha prestato roba, chi esige il pagamento di alcune
giornate di lavoro. A me vien sulla punta della lingua di rispondere
a tutti questi cari signori: - Io non so nulla, io ho sempre
studiata filosofia. - Che mi può suggerire in questi casi Platone? -
ma questi bravi signori vorrebbero almeno che io dichiarassi che
intendo assumere la mia parte di responsabilità. Nella loro
ignoranza nessuno ammette che io possa aver studiato tanto per
arrivare a capir nulla; e credono che operi con malizia, per
lavarmene le mani e avere un pretesto di rinnegare gli obblighi di
mio padre. Un uomo che si dichiara onesto, che ha ricevuto un gran
premio, che è nelle grazie di molti signori, dice questa buona
gente, non può sottrarsi senza vergogna a certe obbligazioni morali.
Un certo mugnaio di Lavello, uomo grosso e naturale, che si vanta di
non portar barbazzale per nessuno, l'altro dí, alzando la voce nella
mia stanza, e mettendo le sue manacce infarinate nelle mie bozze di
stampa, mi diceva: - Se il sor Giacomo trova i denari per stampare
le sue chiacchiere, deve trovarli anche per pagare le cambiali di
suo padre. La gloria, per sua regola, non la si fabbrica mica alle
spalle dei minchioni. - E come se queste verità non bastassero, con
un tremendo colpo della sua mano, abituata a sollevare i sacchi
della. farina, fece saltare il calamaio sul tavolino e sprizzare
macchie d'inchiostro sulle carte e sui muri.
«Non credere, Edoardo, che io mi diverta a colorire questi episodi,
per un cattivo gusto di far dello spirito sui nostri dolori. Oh, se
tu vedessi gli sforzi grotteschi della mia povera disinvoltura e
della mia povera dialettica, quando cerco di persuadere il mugnaio,
l'oste della Fraschetta, il carrettiere, il capomastro ad aver
pazienza, avresti compassione di me! Domani cercherò di rivedere
questo avvocato (che avrà anche lui il tornaconto, come un filosofo,
ad arruffare cose chiare), e procurerò di entrare nei particolari
tecnici e legali, che minacciano di far comparire ladro e intrigante
un povero galantuomo che ha sempre lavorato come un martire per
amore della sua famiglia. Cercherò anch'io di mettere la mano su
quel fascio di carte bollate in cui è scritta una storia e una
filosofia troppo vere per essere ideali. Non so quel che farò e quel
che saprò fare; ma sento che ormai la mia strada è questa che va tra
le cose, e che fu una grande sciocchezza d'aver battuto finora
quell'altra delle nuvole.
«Non so dove andrò ad attingere la forza necessaria per lottare
contro questa tempesta; non certo nei libri, che quasi non posso
vedere senza provare uno stringimento di stomaco. Se non fosse che
per il novembre devo licenziare questi quattro fogli di stampa, e
ritirare quei quattro quattrini del premio, avrei già rinchiuso
questi miei rimorsi in una cassa, e confinata la filosofia sul
tetto. Dicesti una volta che giova sempre avere una testa che pensa.
Ma, domando, a che cosa serve il pensare la sua miseria? Che Blitz,
il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?».
Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della
notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo
avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale
di Lecco, sull'istanza dei piú ostinati creditori, aveva fatto
dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e
accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli
solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il
governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e
di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere
in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso
aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi
forza, e piú ancora per prepararsi un coraggio fittizio che
l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato
lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche
tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare
cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo
d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può
scannarli, li mette in prigione.
Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone
come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un
respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo
del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che
scoccavano alla Madonna del Bosco. - Sette... otto... nove... nove e
mezzo... - contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il
cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lí nel
buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le
Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sí or no, a
seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore
stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. «Cani, cani, cani» diceva
mentalmente con forza; dopo tre generazioni di galantuomini, dopo
quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i
Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a
lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire
costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a
patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di
scongiurati italiani.
Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva
fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri.
Che libri?
I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: «Poveri, ma
onesti...» questo sí; ma era inutile cercar loro dei libri. -
Sarebbe bella, - disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso
il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di
luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, - sarebbe
bella che si dovesse, per far presto, andare in galera.
E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in
lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi
sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col
cappello. In quel camposanto lí vicino era sepolto Galdino
Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con
su scritto in parole di bronzo: «Negoziante probo ed onesto...».
Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio
vecchio con su scritto in parole, sbiadite: «Nicodemo Lanzavecchia
uomo operoso e integerrimo...». Sarebbe stata bella, gamba d'un
cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: «Mauro
Lanzavecchia, fallito come un governo»...!
Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la
valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore
che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non
sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi?
attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i
carabinieri ad arrestarlo? - O povero me! o me disperato per sempre!
che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti,
ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E
doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato
cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti,
coi fatti...
Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo
la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin
all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella
sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso
le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare
spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano
cadere sul banco.
Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e
cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso
agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la
solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano
idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una
partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due
o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal
palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce
cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze
camicie, lasciando ombre nere negli angoli piú segreti della stanza.
Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il piú grosso de'
suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era
uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in
considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza,
trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad
accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di
vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto.
Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una
promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli
arrivasse all'orecchio.
Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori
seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al
quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in piú d'un'occasione,
qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva
già di sentirne i commenti: - Come? (avrebbe detto il mugnaio) un
sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello
che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per
succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per
tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui?
non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero
colla profondità del suo immenso sapere?
Piú d'una volta e forse piú di quel che era necessario, il
fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque
zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo
di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di
Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla
dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla
Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché
leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in
intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito
sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto
che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantú, o qualche cosa di
piú rotondo ancora.
Nulla piú offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un
confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa
filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il
primo e il piú vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio
umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche
cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo
meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un
giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era
naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora
colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si
pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche
gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in
anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se
Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni.
Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla
mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e
forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini
che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non
l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò cosí
nella bottega portato da una volontà piú forte del suo orgoglio.
Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una
tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il
capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono
dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e,
sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito.
- Siete voi? - fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli
occhi. - Ebbene? che vi ha detto l'avvocato?
- La va male, Cecco... - disse il fornaciaio con voce coperta da un
pesante affanno.
- Cioè? - tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal
muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi
impiombati dal sonno.
- Cioè... - disse Mauro, che vedendo passare il piccolo
dell'osteria, gridò: - Tu, portami un mezzo litro del tuo
scongiurato meridionale. - Poi riprese sottovoce: - La va da cani,
Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa
maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire.
- Non vi conviene, Mauro - disse l'oste colla voce fredda con cui
soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla
a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa
- Voi non sapete quel che c'è in aria... - disse Mauro, che per
darsi un po' di forza riempí la tazzetta col vino che il ragazzo
mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: - Son
quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone
piú sincero del mio.
- È il vostro torto di lavorar troppo bene - osservò l'oste che
sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi
rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna.
- Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, - disse
Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la
tazzetta sul piatto.
- Non bisogna mai dirlo, Mauro... - saltò su dal banco del giuoco il
mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue
dieci carte sporche...
- Sí, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo... -
replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e
alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno
slancio d'amicizia il polso dell'oste: - Potete dire che i
Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre
Galdino, mio nonno Nicodemo...
- Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto
indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, -
soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua
bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva
anche coll'uva.
Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la
tazzetta sul banco:
- Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il
suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco.
- Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un
piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a
chiudere gli occhietti cenericci.
- Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San
Martino.
- Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita
particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna
cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie.
- Anch'io dovrò fare i miei conti.
- Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò
con un tono di rancore il fornaciaio.
- Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che
cosa volete che si faccia con niente?
- Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo
fallito, mi si può, parlando con poco rispetto...
L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar
troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta:
- Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è
entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza...
- Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a
raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta,
distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa
della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo
viso teso, liscio, immobile come un viso di legno.
- Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, -
seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato
il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che
gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto
vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato
veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi.
Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una
delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata
di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso
dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno
di meraviglia.
- Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del
vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi
piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di
bere a questo boccale.
Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono
il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro.
L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle
molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo
tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi
colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto
onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole;
ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí
scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno.
I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci,
dissero, parlando sommessamente tra loro:
- Pare che laggiú si guasti la parentela.
- È la tazzetta che suona - osservò il magnano.
- La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del
Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa
volta.
Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo
puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da
bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla
porta senza salutare nessuno.
Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver
detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero
bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano
cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio,
la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide
tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con
misurata intenzione la morale solenne della favola:
- Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane!
E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa
accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai
stampata sulle gazzette.
VI
IL FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA
Quando si trovò solo sulla strada buia, sparsa di sassi disuguali,
tra due spesse siepi, nella silenziosa e nera solitudine della
notte, il vino, che fin qui aveva sostenuti gli spiriti, lo
abbandonò come un cattivo amico, anzi gli si rivoltò contro
anch'esso come un creditore e congiurò colla disperazione a
sollevare i piú foschi fantasmi.
Mauro sentí le gambe rompersi sotto l'ampio peso del corpo, mentre
vedeva la strada rizzarsi e diventare una montagna insormontabile.
Dopo un lungo girare senza mèta attraverso i campi, dopo aver urtato
negli spigoli dei muricciuoli e nei paracarri che non sapeva vedere
nell'aria scura, avvisato e condotto dall'abbaiare dei cani, che si
svegliavano irritati al sonar del suo passo rotto e pesante, gli
riuscí d'orientarsi e di riconoscere nell'ombra della notte la linea
magra dei camini delle sue fornaci, che, uscendo esili e lunghi dai
bassi edifici, giganteggiavano nel vuoto.
Poco dopo sbucò nello spiazzo aperto, che sta intorno ai magazzini e
che mette nello scuro dei campi una gran macchia giallastra, su cui
in quel momento batteva il chiarore scialbo della luna. Queste
fornaci, questi magazzini pieni di roba erano il lavoro consolidato
dei Lanzavecchia, su cui domani si sarebbero stese le unghie rapaci
dei creditori, dell'esattore, del fisco. Dei mille e mille mattoni
tra cotti e crudi accumulati sotto le tettoie e sparsi sul terreno,
delle mille tegole, che avevano rinomanza per venti e trenta miglia
all'intorno, come le piú solide e oneste che uscissero dalle mani
d'un fabbricante, non un coccio apparteneva ai Lanzavecchia, che
avevano lavorato e sudato per il loro disonore e per la miseria.
La rovina era cominciata, secondo l'idea di Mauro, il giorno che,
col pretesto di fare l'Italia, gli italiani avevano tirato in paese
insieme ai calzoni rossi anche il mattone francese, a cui tenne
dietro la tegola quadra alla romana e tutte quest'altre diavolerie
di zinco e di lava del Vesuvio, che chiamano progresso, ma che
lascian piovere in casa. Poi venne la strada ferrata a dar l'ultimo
tracollo al commercio del burchiello, che sotto il cessato governo
portava il bel materiale fabbricato a Parè, a Olginate, a Brivio, a
Trezzo fino dentro il cuore di Milano, colla facilità dell'acqua che
va in giú, alimentando clientele che duravano da cent'anni e che
misero in piedi palazzi e chiese, che dureranno ancora quando sarà
scomparsa tutta questa roba marcia di gesso e di poltiglia con cui
s'è fatta l'Italia. Finalmente, a compimento dell'opera, venne fuori
la bella invenzione della ricchezza mobile, talché un povero
industriale si sentí in mezzo a tre forche. Non gli restava ora che
di appiccarsi a una quarta.
- Ombre di Nicodemo e di Galdino Lanzavecchia! - gridò il vecchio,
fermandosi sul piazzaletto e alzando il bastone verso la faccia
della luna, come se volesse fare uno scongiuro. - Uscite a vedere
come mi hanno tradito; venite anche voi a gridare: Viva l'Italia!
A questo schiamazzare d'un uomo che parlava ai morti tenne dietro il
gran silenzio della notte, nel quale tornò a farsi sentire il rumore
stridulo dell'Adda povera d'acqua.
- Voi sapete chi mi ha tradito: voi sapete chi mi vendicherà...
Col passo disuguale che gli faceva fare il vino, il vecchio fallito
giunse in vista della sua casa, che spiccava piú nitidamente colla
loggetta vestita di frasche nel tenue chiarore della luna. Tutte le
finestre verso la corte eran buie, tranne quella di Giacomo, che
dava sulla vignetta. Il filosofo vegliava sulle sue bozze di stampa.
Mentre di fuori un povero negoziante di materiali di fabbrica
piangeva sulla sua rovina, di dentro, nella stanza silenziosa del
filosofo, si preparavano i materiali per una grande costruzione
ideale, per il gran tempio dell'avvenire, nel quale si sarebbe
celebrato il connubio di pace tra l'uomo e la natura.
«L'uomo padrone della scienza» diceva uno dei cento foglietti «è il
vero dominatore della natura. La forza è nel pensiero, o per dir
meglio, la forza è il pensiero stesso».
«Se potessi persuadere il mugnaio di questa verità, potrei mandarlo
in pace con poca fatica» ripensò Giacomo, giocando colla penna sulle
parole stampate, alle quali avrebbe voluto aggiungere una nota: «E
se si dicesse invece che la forza è nella volontà?».
Questo conflitto tra un pensiero che sillogizza in poltrona e una
volontà che corre e s'adopera per la casa non gli si era mai
presentato cosí vivo, come dal giorno che suo padre gli aveva colle
lagrime agli occhi domandato cinquecento lire in prestito. Da quel
momento le parole stampate delle sue bozze, che contenevano prima
affermazioni di bronzo, cominciarono a sconnettersi e a ballare una
strana contraddanza sotto i suoi occhi stanchi dalle veglie e dallo
scarso lume della candela di sego. Una continua voglia lo tentava,
ed era di metter a piè di pagina molte note di mesta contraddizione,
che avrebbero forse accontentato Blitz e l'anima scettica ch'era
trasmigrata nella bestia; ma le note, oltre a diminuire il valore
giudicato della dissertazione, avrebbero finito coll'inghiottire il
libro e il filosofo in compagnia.
Non è mai utile complicare la verità, specialmente quando si ha
bisogno di far quattrini. Inoltre, se non vogliamo screditare la
scienza, non bisogna mai tagliare in erba il fieno del nostro
contradditore.
Giacomo, deponendo di tanto in tanto la penna, dava fuoco alla pipa
sulla fiamma della candela, tirava tre o quattro boccate di fumo,
col pensiero perduto in aria, dietro i fantasmi della meditazione,
mentre gli pareva di stare a sentire lo stormir delle foglie, scosse
dai soffi intermittenti del vento.
Riscontrava un testo greco di Aristotile, e come allo svoltare d'un
angolo di casa, s'imbatteva nella soave immagine dell'avvocato
Brognolico, in casa del quale doveva ritrovarsi al mattino per
addivenire col mugnaio e col signore della Rivalta a una transazione
o, quanto meno, a un respiro che permettesse a lui e a suo padre di
prendere cognizione dello stato delle cose.
Il mugnaio aveva qualche giorno prima fatta una brutta scena anche a
Battista sulla piazza d'Imbersago, e n'era nato un putiferio da non
dire. Battista, corto in dialettica, ma solido in altri argomenti,
minacciava di rispondere alla sua maniera, che non era la più
conciliante. Anche la Lisa s'era lasciata trascinare a un
pettegolezzo indecente colla Fiorenza sulla soglia dell'osteria,
dove le due ragazze avevano perduto un pezzo di lingua. Il bisogno
che fa gli uomini cattivi, fa brutte le donne. Bisognava impedire
che da un male limitato non nascessero pubblici scandali, aspre
responsabilità e fieri rimorsi; e a chi toccava di aver giudizio se
non si moveva il sapiente di casa? A che cosa serve la sapienza
stampata, se non vale almeno come cerotto su un dito tagliato?
Questi brutti pensieri venivano a mescolarsi e a sovrapporsi alle
argomentazioni della sua tesi, ne confondevano i sensi e i segni, ne
storcevano le intenzioni piú nobili, dando alle conclusioni del
filosofo idealista quasi un'intonazione di amara corbellatura.
Trovando a un certo punto citato in una nota Parmenide, egli, che
pure aveva scritto di suo pugno questo nome sulla carta, rimase lí
colla penna in aria quasi in procinto d'esclamare anche lui sul far
di don Abbondio: - Parmenide? chi era costui? un mugnaio? e che mi
può giovare Parmenide nei miei bisogni? che m'importa di lui? come
ho potuto perdere il mio tempo a occuparmi dei fatti suoi, mentre
l'oste della Fraschetta divorava il mio pane e l'usuraio della
Rivalta ipotecava la mia casa?
Sentendosi un poco opprimere da queste riflessioni aprí la finestra
in cerca d'aria e stette, appoggiato al davanzale, a strologare il
cielo e la luna. Le nubi mosse e sollevate dal soffio eguale e
sostenuto dell'aria andavano a poco a poco allargandosi e come
lacerandosi intorno al disco luminoso, di cui riflettevano i placidi
splendori con lucide fosforescenze metalliche. Dagli strappi, per
dir cosi, di quella fascia vagante di nebbia, quasi all'invito di
una silenziosa volontà, uscivano spazi aperti d'un sereno purissimo,
che parlava d'una pace alta e intangibile, di cui qualcuno mette nel
cuore umano il mesto desiderio.
Dalla vignetta immersa nell'oscurità uscivano bisbigli di foglie
scosse dal vento e fuggevoli fischi di scoiattoli che corrono su per
i pergolati.
Di care e lunghe memorie era popolata quella vignetta, cosí folta di
verde dov'egli era cresciuto fanciullo, dove aveva imparato ad amare
e a soffrire. Ogni angolo gli diceva qualche cosa di Celestina; ogni
foglia pareva bisbigliare di Celestina. Quante volte l'aveva portata
sulle spalle, quando non era che una bimba, all'ombra dei pergolati!
In quel frondoso frassino, che riempiva coll'ampio ombrello di
foglie lo sfondo del cielo, s'eran fabbricata una loro villetta
aerea, nascosta tra i rami, e vi avevano ingannato insieme molte ore
dei pomeriggi estivi, appollaiati come due tortore, in mezzo al
rumoroso stridore delle cicale. Cento volte avevano aperta una
botteguccia nelle vecchie botti della tinaia e vi avevano invitato i
ragazzetti del vicinato a comperar nòccioli di pesche, patate e
carote affettate, sacchetti di fagiolini, chicche e dolciumi rubati
dalle tasche della povera zia Marianna. Nel fienile sopra le stalle,
di cui vedeva sporgere nel chiarore della luna i ciuffi arruffati,
la piccina si era addormentata molte volte sulla sua spalla, prima
che lo zio prete mettesse in campo la questione della vocazione e
del posto gratuito nel Seminario vescovile.
E quante lagrime vergognose e segrete il povero pretino, tornando a
casa nelle vacanze, aveva versato nell'erba folta e nelle frasche
del grano turco, quando, non ben persuaso ancora della voce di Dio,
si faceva peccato e scrupolo d'ogni passo che egli movesse per
cercare la bambina, d'ogni parola allegra che gli scappasse dal
cuore ancora inconsapevole di quel che fosse amore! Seguirono poi i
giorni del combattimento, durante i quali l'anima sua fu come
dilaniata da misteriose apprensioni, da strazi paurosi che nessuno
seppe né leggere, né indovinare; ma le piante della vignetta
conoscevano tutta questa storia dell'amoroso contrasto e glie la
ripetevano ora con bisbigli di gioia. Vinta la gran battaglia,
restituito il collare del chierico allo zio prete, era tornato con
altre idee; la veste nera cedette il posto alla camicia rossa dei
garibaldino durante la guerra del sessantasei, e alla camicia del
soldato era successa una giubba un po' logora di professore di
grammatica. Perfino il buon Dio del modesto altarino di casa era
andato via via crescendo nella sua testa e nel suo cuore e cresceva
oggi ancora fino a travalicare i confini del conoscibile; tutto
s'era mutato fuori e dentro di lui; ma quell'amore no. Esso gli
parlava nel cuore colla salda sicurezza dell'innocenza.
Tante immagini, tante ombre di pensieri e di cose evanescenti,
uscendo dai pergolati, venivano a consolare la memoria del filosofo
e lo cullavano in una soave tenerezza... quando una voce aspra come
una sega rimbombò nell'aria:
- Giacomo Lanzavecchia, scrivi la sentenza di tuo padre.
Sporse il capo a cercar nella corte e riconobbe l'ombra del pà, che
contro il suo costume s'era attardato fuori di casa. Capí che il pà
aveva inaffiato un po' troppo i suoi fastidi.
- Dove siete? che fate lí? - gli gridò dalla finestra.
- Giacomo Lanzavecchia, ascolta la voce di tuo padre - tornò a
gridare il vecchio, che gesticolava come un attore tragico.
- Venite in casa.
- Prendi la penna del filosofo - seguitò l'altro, movendosi per la
corte come se recitasse veramente su un palcoscenico. - A tuo padre
non resta piú che la nuda terra. Tutto è perduto tranne l'onore. Gli
hanno portata via la casa, la terra, la roba, l'anima. La morte e
l'inferno ai tremendi vigliacchi!
Nel tono rauco con cui il vecchio pà imprecava contro il destino,
Giacomo vide tutto lo squarcio di quella pover'anima.
- State zitto, - gli disse - non svegliate la mamma; ora vengo io
dabbasso.
- Ohi, che vi ha preso stanotte, pà? questa volta non è Battistella
che dondola... - gridò un'altra voce dalla finestra presso il
granaio.
- Rispetta tuo padre, lasagnone - rimproverò Giacomo, che riconobbe
la voce di Battista.
- Tu, tu... - muggí il fratello con parola convulsa - tu fa il
professore a casa tua e quando avrai finito di mangiare il pane a...
a... a...
E lo sbattimento villano dell'impannata coprí il resto delle parole.
- Non avete vergogna, pà? - gridò anche la Lisa, mettendo fuori da
un finestrino una testa fasciata come un dito malato.
- Figliuoli, nessuna lega coi traditori. Un Lanzavecchia non si deve
vendere né per cento, né per duecento. Prendi la penna della
filosofia, Giacomo, e stampa anche questo: la morte e l'inferno ai
tremendi vigliacchi!
Il vecchio esaltato, afferrata colle due mani la catena che stava
legata alla corda del pozzo, in preda alla frenesia dell'animo
sconvolto, cominciò a battere sulla pietra colla violenza fanatica
d'un santo che flagella un demonio. E a ogni colpo ripeteva
disperatamente:
- Nessuna alleanza... la morte e l'inferno...
Blitz, che dormiva nella stalla, si risvegliò spaventato e cominciò
ad abbaiare dietro l'uscio.
In quel furioso esercizio del battere si sarebbe detto che il
vecchio fornaciaio cercasse uno sfogo alle sue forze compresse, alla
sua collera, alla sua sovraeccitazione; ma i figli, che sapevano
come di solito andavano a finire queste frenesie (Mauro aveva avuto
in sua vita qualche attacco epilettico), senza por tempo in mezzo,
scesero in fretta le scale, coi lumi in mano, e furono intorno al
disgraziato, che già colla bava alla bocca si rotolava nella polvere
in preda a spaventevoli convulsioni.
La povera Santina, che dormiva su brutti pensieri, saltò dal letto e
si fece incontro sulla scala, pallida e come estenuata nella sua
cuffia, invocando i nomi di Gesú, di Giuseppe e di Maria. Accorse
anche Angiolino a piedi nudi, e tutti insieme sollevarono il corpo
pesante del pà, che si dibatteva con stanchezza, Giacomo e Battista
sorreggendolo per le spalle e per le braccia, la Lisa e Angiolino
per le gambe, e, portatolo a gran fatica su per la stretta della
piccola scala, lo distesero sul letto. Caduto l'accesso epilettico,
il viso da infiammato e gonfio divenne subitamente bianco, floscio;
la bocca si irrigidí in un sorriso che restò fisso in una smorfia
sardonica e beffarda; il corpo divenne duro come un tronco. Gli
occhi gonfiati dalla congestione fecero capire che un gran male
scombussolava la vita; ma per quanti sforzi egli cercasse di fare,
le labbra non poterono mandar fuori che dei suoni rotti. Era
l'apoplessia.
Mauro rimase sei o sette giorni in quello stato, spegnendosi a poco
a poco senza parole, senza gemiti...
Il dottor Brandati, chiamato in fretta, tentò tutti i mezzi e fece
capire che soltanto un miracolo può risuscitare un morto. Per
Giacomo e per i suoi fu una settimana di ansiosa e tormentosa
agonia, durante la quale nessuno osò pensare ad altre cose che non
fosse l'assistenza al malato.
Quando Giacomo si accostava al letto, gli occhi del morente si
facevano piú teneri ed espressivi, come se cercassero di penetrare e
di parlare all'anima. Il figlio cercava di farsi interprete dei
pensieri del padre e, seguendo i suggerimenti di quegli sguardi
carezzevoli, andava dicendo:
- Sí, pà, voi avete sempre lavorato con onestà, con giustizia, con
timor di Dio, e Dio ve ne renderà merito. - Oppure: - Abbiate
pazienza, perdonate a chi vi ha fatto del male. Il vostro nome è
nelle nostre mani. Voi ci lasciate grandi e robusti, e non ci manca
la buona volontà...
Il vecchio moribondo si lasciava consolare da queste parole, che gli
venivano dal suo Giacomo. Gli occhi pieni di pianto pareva
rispondere: - Tu sei stato la mia consolazione, tu sarai la mia
gloria. Tu devi stampare in qualche libro la storia dei tradimenti
di cui fu vittima tuo padre.
Il signor curato, che conosceva da trent'anni la coscienza del
galantuomo, somministrò gli ultimi sacramenti e benedisse l'agonia.
Mauro Lanzavecchia cadde in letargo e morí tranquillo, la vigilia
stessa del giorno in cui la Gazzetta del Commercio stampava il suo
fallimento.
VII
ALL'OMBRA DELLE PIANTE
ALCUNI giorni dopo la morte del povero Mauro, il conte Lorenzo con
un biglietto pregava Giacomo Lanzavecchia di lasciarsi vedere in
un'ora tra la colazione e il pranzo, avendo a fargli una proposta di
grande importanza. Nella dolorosa circostanza della malattia e della
morte del vecchio fornaciaio, i signori del palazzo avevano
dimostrato alla famiglia una cosí gentile e pietosa sollecitudine
che Giacomo sentí il dovere e il bisogno di vederli, di
ringraziarli, e di udire nello stesso tempo una parola che non fosse
una volgare consolazione.
Mutò i vestiti, che in quei giorni di trambusto non si era quasi
tolti di dosso, e, detta una parola alla mamma, che rincantucciata
in cucina non faceva che piangere e sospirare, prese a salire
lentamente il ripido sentiero, che dalle Fornaci va al palazzo del
Ronchetto per la piú corta.
Quantunque fossimo oltre la metà di settembre, faceva ancora un bel
caldo: e dalla strada sassosa e dal muro del giardino riverberava
una vampa cosí ardente, che Giacomo provò un vero refrigerio quando,
valicata la soglia della cancellata, si trovò nel fitto delle belle
piante, nella dolce freschezza dell'ombra, per quei silenziosi viali
a lui noti che, come le ore dei signori disoccupati, non hanno mai
fretta di arrivare alla mèta.
Il contrasto tra il disordine, la disperazione, le angoscie della
sua povera casa in babilonia e l'ordine, la compostezza, la pace
elegante, che circondavano la dimora di questi signori, richiamò al
pensiero del filosofo l'osservazione alquanto vieta e volgare: che
il male e il bene non son distribuiti con molto giudizio sulla
terra. I suoi dolori non gli permisero questa volta d'arrivare fino
alla conclusione che anche le case dei ricchi possono essere
l'albergo di dolori inenarrabili. Quando ci duole un dito, tutti i
mali del mondo ci picchian dentro; e non solo ci sembra che il
nostro male vada a urtare in tutti gli spigoli, ma facciamo del
nostro dito malato il centro del dolore universale. Era naturale e
compatibile adunque che anche Giacomo portasse un po' d'invidia a
questa brava gente, a cui, oltre ai beni materiali della vita e al
fascino della ricchezza e del nome, non mancavano i meriti della
virtú, della rassegnazione che dà la fede, e i conforti che derivano
dalle buone opere; com'era naturale che venisse a cercare all'ombra
di questa felicità e di questa pace, un po' di riposo. Sentendo
scoccare le due e parendogli ancora troppo presto, pensò di mettersi
a sedere su una panchina che l'invitò presso un folto cespuglio di
oscuri evonimi, per dar tempo al conte di finire il solito
sonnellino, che aiutava mirabilmente a smaltire il peso della
colazione. Senza questo breve viaggetto ai campi Elisi, don Lorenzo,
che alla tavola soleva cercare volentieri le piccole compiacenze del
senso, non avrebbe potuto ritrovare il suo appetito fresco per l'ora
del pranzo, e una voluttà di meno, soleva dire, parodiando Sterne, è
un filo strappato alla già esile trama della vita.
Giacomo, girando gli occhi intorno nella fresca oscurità di quel
gran verde che lo circondava, sentí veramente quasi un senso di
freschezza insinuarsi e diffondersi nel suo spirito eccitato da
troppe violenze.
Il giardino, piantato dal conte vecchio secondo lo stile detto
inglese, che simula con arte felice la spontaneità della natura
alpestre, è ricco di macchie selvose che il tempo ha rese folte,
nasconde molti oscuri recessi, da cui escono anche nei piú grandi
calori quasi un continuo tremito di freschezza e un bisbiglio
continuo di uccelli. In mezzo alle macchie scure delle conifere, tra
cui luccicano con verde piú chiaro le magnolie e gli allori,
costeggiando l'orlo delle praterie aperte al sole, girano i viali
larghi, placidi, senza un ingombro, secondando le ondulate varietà
del clivo, ritorcendosi in sé stessi, intrecciandosi, diramandosi in
stradicciuole e in sentieruzzi quasi selvatici, che ti menano a
luoghi perduti, a grotte umide di segreti stillicidi, a finte
rovine, a segregate solitudini, ove dorme da cinquant'anni tra
l'edera e il muschio una gelida ninfa di sasso. Dove i viali si
incrociano, è bello vedere per diverse porte aprirsi di qua il gran
verde, piú in là un pezzo della valle coll'Adda, che striscia e
luccica in basso, altrove un fianco del palazzo, che domina colla
torricciuola imbandierata sul fondo del cielo, ora verso un
tempietto di marmo, che si specchia in un verdognolo stagno, ora
verso alcune creste del Resegone, che l'arte ha saputo tirar nella
cornice, o su un gruppo pittoresco d'alberi secolari, che,
mascherando il muro di cinta, dànno a chi passeggia l'illusione
d'una selva grandiosa, lontana da ogni consorzio, quali dovevano
esser le primitive selve che accoglievano gli uomini erranti.
Giacomo, come si è detto, conosceva tutti i segreti di questo
paradiso terrestre, ch'egli aveva cominciato a frequentare da
ragazzo ed era, in certa qual guisa, cresciuto con lui: talché
poteva considerarlo un poco come suo, per quel diritto di possesso
morale, che abbiamo su tutto ciò a cui è attaccata una parte della
nostra fanciullezza.
Quando viveva ancora la vecchia contessa, madre di don Lorenzo,
Giacomo era solito salir tutte le mattine a servir la messa, che si
celebrava nella cappella del palazzo. Strada facendo,
nell'attraversare il giardino, la sua festa era di andar per le
macchie, a ritrovare le traccie dei nidi degli usignuoli e dei
capineri, che in primavera facevano nei boschetti una orchestra. Fu
appunto per la sua docilità di carattere, per il suo raccoglimento
religioso, per il suo viso delicato sotto i riccioli spessi di un
color quasi d'oro, per la sua speciale devozione alla Madonna, che
donna Matilde, detta ancora oggi la contessa vecchia, formò l'idea
che si potesse cavare da Giacomino un buon ministro del Signore e
nello stesso tempo un buon cappellano per la casa. Se ne parlò a don
Angelo, che persuase Mauro a non lasciar scappare una cosí bella
occasione. Il pà, che aveva imparato dai suoi vecchi a ricevere
tutto quel che veniva dal Ronchetto come una benedizione, non seppe
dir di no: la mamma vide subito il vescovo nel suo figliuolo; e
Giacomo fu vestito da prete. Nelle vacanze tornò sempre a servir la
messa in palazzo, finché visse donna Matilde, e quando, morta
questa, cominciò a comandare donna Cristina, il chierichetto non
cessò d'essere considerato come un figliuolo della casa; anzi,
siccome don Giacinto cresceva un po' pigro e sventato, la contessina
pensò di servirsi di Giacomo per dargli un compagno buono, studioso,
che gli si imponesse colla serietà del carattere. Toccò dunque al
pretino l'incarico d'accompagnare il contino, non solo alla messa
tutte le mattine alla Madonna del Bosco, e di esercitarlo nel
leggere e nello scrivere, ma gli fu compagno nella caccia colla
civetta, lo seguiva al "Roccolo" di don Andrea, o nelle escursioni
ch'egli volesse fare nei dintorni. Allo spuntare dell'alba, tutte le
mattine di bel tempo, era lí sotto le finestre di don Giacinto a
tirare sassolini nei vetri, colle gabbiette e le canne del vischio
sulle spalle, finché il piccolo poltrone si risolveva a cacciar le
gambe dal letto. Uscivano insieme a correre nei prati umidi
dell'Adda, a tendere nei boschetti di nocciuoli insidie e trappole
ai passeri e ai fringuelli, finché la fame, che si risvegliava
presto negli stomachi digiuni, faceva levare i cartocci della
colazione. Molte volte il contino cedeva il suo pollo fritto e lo
spicchio del suo pasticcio per gustar la polenta fredda e il
caciolino del compagno; ma qualche altra volta l'umore
dell'eccellenzina non era molto trattabile. Per quanto Giacomo
avesse qualche anno di piú e vestisse da prete, i vizi e l'orgoglio
dei sangue si ribellavano non di rado agli ordini e alla dottrinetta
del pedagogo, che mammà mandava per far la spia; e piú d'una volta
all'ombra delle siepi di sambuco, e negli aridi fondi dei ghiaieti,
tra il nobile spavaldo e prepotente, e il giovine povero, che
sentiva fin d'allora la forza della sua aristocrazia morale, erano
corse amare parole e qualche cosa di più solido. Un giorno don
Giacinto, vedendo di non poter spuntarla, minacciò di ammazzare il
suo chierichetto con un tremendo coltellaccio, che aveva levato dal
cassetto della cucina; e da quel dí Giacomo non ne volle piú sapere.
L'uno fu messo in collegio presso i Gesuiti, l'altro partí per gli
studi di teologia, e non si videro piú, se non a brevi intervalli,
come due uomini che camminano in senso inverso, si voltano e si
rivedono di tanto in tanto sempre piú confusi e sempre piú
rimpiccioliti, finché l'uno non sa piú nulla dell'altro.
Giacomo, nel tiepido silenzio di quel caldo pomeriggio di settembre,
nel riandare col pensiero in modo saltuario e confuso a queste
memorie d'altri tempi, ricordava il giorno, in cui era venuto a
dichiarare a donna Cristina che la sua coscienza non gli permetteva
piú di vestir l'abito ecclesiastico. Fu una grande battaglia, la piú
terribile battaglia de' suoi vent'anni, di cui le piante del
giardino eran state non insensibili testimoni. Oh se avessero potuto
parlare, e dir quante lagrime egli avesse sparso nei dolorosi
istanti del suo combattimento, quando invocava inutilmente da Dio il
coraggio d'una risoluzione che avrebbe suscitata una tempesta! Quasi
vicino a toccare la mèta, dopo aver goduto per dodici anni i
benefici in una casa che aveva pagata sempre la sua pensione e
sollevata la sua famiglia da tutte le spese, dopo aver ridestate
molte speranze nei professori, nei compagni, nel cuore dei parenti,
che vedevano già in lui il difensore della chiesa, egli era arrivato
al punto scabroso di dover rinnegare tutte queste speranze e tutti
quei benefici. Il doloroso segreto non era ancora uscito dal suo
cuore, ma sentiva questa necessità crescere, giganteggiare,
sospingere la sua coscienza.
Per quanto rumorosa e aspra potesse essere la meraviglia della
gente, tuttavia qualunque rimprovero gli doveva sembrare piú
sopportabile di fronte al rimorso di commettere un tradimento
sull'altare di Dio. Dopo aver cercato inutilmente vicino a sé un
amico o un confidente discreto, che l'aiutasse a essere sincero, fu
quasi per un istintivo consiglio del cuore che si lasciò condurre a
confessare il suo tormento a donna Cristina. La scena gli era ancor
viva davanti agli occhi. La contessa l'aveva fatto chiamare per
consegnargli, secondo era sua abitudine, alcune piccole elemosine da
distribuire ai vecchi piú poveri. Era una domenica piovosa. Essa
portava ancora il lutto per la morte recente di donna Matilde. Gli
parlò di Giacinto, gli mostrò una bibbia illustrata del Doré, lo
pregò di scegliere alcuni versetti d'un salmo adatti per una
miniatura, e, mentre essa parlava e si moveva nella luce blanda
della finestra, il cuore di Giacomo batteva d'un'insolita
commozione. Colle lacrime agli occhi, egli cominciò a parlare: e la
buona signora lo lasciò dire, lo lasciò piangere un pezzo, lo
compatí, gli parlò da buona madre e prese sopra di sé l'impegno di
persuadere il conte, lo zio prete, i parenti. - Lei potrà far del
bene lo stesso e anche di piú, - gli aveva detto - e son persuasa
che i Magnenzio non avranno mai a pentirsi d'aver incoraggiato il
suo ingegno e la sua volontà.
Da quel giorno Giacomo aveva avuto per donna Cristina un sentimento
di illimitata gratitudine, quasi di venerazione, e avrebbe voluto
che si presentasse una grande occasione per dimostrarle che i
benefici di casa Magnenzio non erano caduti a nutrire un ingrato. A
lei aveva piú tardi confessato il suo amore e le sue idee per
Celestina, provando nel rivelare alla gentildonna il dolce segreto
del suo cuore il sollievo stesso che aveva provato qualche anno
prima a piangere davanti a lei.
Dolci memorie, che tornavano a consolarlo in questi nuovi frangenti
in cui era venuto a cadere! E fu per godere piú a lungo della
freschezza, dirò cosí, di questi pensieri che invece di procedere
pel viale di mezzo, che va diritto all'ingresso del palazzo, piegò
pel piccolo viale, detto dei carpini, per una lunga allea di queste
piante, che il gusto architettonico del vecchio conte Massimiliano
aveva fatto ritagliare a foggia di portici con arcate, disposte
intorno a un obelisco in una piazzuola deserta, che pareva preparata
per un minuetto di fate.
Quando fu giunto presso l'obelisco, s'imbatté in Celestina, che
usciva dal viale della serra con un gran mazzo di fiori freschi da
mettere in tavola. Appena essa vide il giovane, trasalí, cercò
sfuggirgli, ma non fu piú a tempo.
***
- Sei tu? - le disse lentamente Giacomo, senza quasi alzare gli
occhi - la povera mamma ha cercato piú volte di te.
- Povero zio...! - mormorò Celestina; e come se in quella
compassione cercasse un pretesto per liberarsi da una grande
sofferenza, che le riempiva il cuore di lagrime, portandosi
frettolosamente l'angolo del grembiale al viso, pianse in modo cosí
dirotto che mosse Giacomo a piangere e a confortarla.
- Tu gli volevi bene, lo so, e lui te ne ha sempre voluto a te come
una sua figliuola. Ma chi sa che egli non sia uscito dalle
tribolazioni...
- Oh sí, oh sí! - ripeté la ragazza senza levare il grembiale dagli
occhi, acconsentendo con forza.
- Tocca ora a noi aver del coraggio - disse Giacomo colla voce
insinuante e tenera, che gli usciva naturale, quando una forte
emozione agitava il suo spirito. E alzando una mano, volle asciugare
egli stesso col grembiale gli occhi della giovane, che voltò via il
volto e rimase come intimidita davanti a lui. - Tocca a noi, non è
vero Celestina? Quest'anno ero tornato con molte speranze. Credevo
proprio che sarebbe stato l'anno buono di coronare il nostro amore,
ma Dio non vuole: pazienza! Sarei un cattivo figliuolo, se pensassi
a me in questi momenti cosí dolorosi, in cui sento che resto solo
alla testa della mia povera famiglia. No, l'avvenire è troppo scuro
e prevedo che dovrò rinunciare a molte altre speranze.
Celestina fece uno sforzo per prendere la parola, ma, soffocata da
una grande angoscia, portò il palmo della mano alla gota e ve la
tenne con uno sforzo rigido e pesante, come se cercasse con
quell'atto di energia di sorreggere la testa. Un lampo di
disperazione balenò nel suo sguardo, ma Giacomo non se ne accorse.
Era uno de' suoi difetti d'andar troppo vagando nelle idee generali
anche quando la realtà lo menava in mezzo alle ortiche. Continuando
sempre con sommesso tono di dolcezza, mentre andava giocherellando
coi coralli della collana ch'essa aveva al collo, seguitò come se
parlasse a sé stesso:
- Non ho amato che te nella mia vita, lo sai, non potrei essere di
nessun'altra. Anche tu mi hai voluto bene e me ne vuoi, vero? - Egli
la interrogava col suo sguardo affettuoso, che penetrava nelle
radici del cuore. - No? non me ne vuoi piú? - insistette con un
sorriso carezzevole, passando leggermente la mano sui neri e lisci
capelli della ragazza.
- Sentite, Giacomo... - proruppe finalmente la fanciulla con una
voce lacerata da un dolore sordo e crudele. - È un pezzo che volevo
parlarvi di questa cosa, e forse è bene che ve ne parli ora per
sempre. Voi non dovete piú pensare a me.
- Perché io non devo piú pensare a te? - chiese senza rancore
Giacomo, che prevedeva questi nuovi scrupoli in un'anima delicata.
- Perché io non son degna di voi... - E prima ch'egli avesse tempo
di protestare, ritrovando nell'eccitazione del suo sentimento la
forza che nessuna autorità esterna avrebbe saputo darle, seguitò con
tono eguale, quasi freddo, ma convinto, senza togliere lo sguardo
dai fiori, che andava sbadatamente sfogliando con le dita: - Penso
che la Madonna vi abbia mandato oggi in un momento di dolore, perché
io trovi il coraggio di dirvi quel che devo dirvi. Forse è meglio
che questo vostro pensiero non si compia mai. Voi non siete piú
quello d'una volta.
- Perché «Frulin», io non sono piú quello d'una volta? - disse
Giacomo, evocando un piccolo soprannome che il pà, per far presto,
aveva inventato per lei quando era venuta in casa: e mise in questa
voce senza senso una tale dolcezza allegra e canzonatoria che
Celestina impallidí come se agonizzasse, un velo nero le offuscò gli
occhi, e fattasi a un tratto sdegnosa e dura:
- Ascoltate, Giacomo - gli disse aggrottando le ciglia. - Quando è
nata questa nostra affezione eravamo due ragazzi, e non si poteva
sapere dove si sarebbe finiti. Povero voi, poveretta io, ci siam
voluti bene senza capire cosa volesse dire volersi bene. Il tempo
non è passato allo stesso modo per noi due: io sono ancora la povera
ignorante di una volta, mentre voi avete fatta molta strada, e ne
dovrete fare molta ancora. Sento come tutti parlano di voi: avete
stampato anche dei libri, e ne stamperete ancora; ma per andare
avanti avete bisogno di essere libero, di non dover trascinare una
povera contadina, che sarà sempre per voi un peso morto. Se io
potessi essere la vostra serva... ma vostra moglie è un'altra
cosa... Avete bisogno di una ragazza che vi possa seguire e
capire... In questa buona casa vedete che non mi manca nulla: e poi,
se devo dirvi tutto, da qualche tempo sento una voce che mi chiama.
- Che cosa ti dice questa voce «Frulin»? - seguitò Giacomo, sempre
sul medesimo tono di chi non vuol pigliare le cose sul serio.
- Alcune monache cappuccine, che vengono spesso al palazzo per la
questua e che rimasero qualche volta a dormire, mi hanno parlato di
quel che soffrono le povere morette in Africa e vorrebbero che io
andassi con loro. Poiché non posso essere vostra, voglio essere di
Dio. Che cosa volete, Giacomo - continuò con un singulto, come se si
sforzasse di reprimere un'amarezza rigurgitante. - Mi pare di essere
già stata per voi una cattiva tentazione quel giorno che lasciaste
di studiare da prete, con molto dispiacere dei vostri, specialmente
dello zio prete, che dopo d'allora mi ha sempre chiamato un
diavolo...
Giacomo non poté nascondere un sorriso di compiacenza a questa
antica facezia dello zio prete, e avrebbe voluto cominciare a parlar
lui; ma la ragazza, trascinata dalla foga appassionata del suo
pensiero, non lo lasciò dire:
- Non voglio ora essere il vostro inferno, dopo essere stata la
vostra tentazione. Lasciatemi andare per il mio destino e voi andate
per il vostro. Troverete cento buone ragazze migliori di me, con
istruzione, con dote, che vi permetteranno di studiare con meno
stenti, che sapranno capire quello che scrivete, che vi faranno
onore in società...
Giunta a questo punto, come chi arriva sfinita dopo una gran corsa
sulla cima erta d'un monte, le mancò tutt'a un tratto la lena.
Un terribile impeto che, venendo dallo stomaco minacciò di
soffocarla, la fece andare indietro di qualche passo: ma la volontà
fu ancora piú forte del patimento. Non volendo piangere, si portò
alle labbra una cocca del grembiule, che prese a mordere, mentre
cercava intorno a sé cogli occhi se arrivava qualcuno a liberarla.
- Chi mi ha parlato già di queste monache cappuccine e di questa
voce che chiama? - prese a dire Giacomo con flemmatica bonomia: -
Credo la contessa, una volta: non ho capito ben con quale
intenzione, se non fu per mettere alla prova anche la mia vocazione
per te...
Da quel fino psicologo che credeva d'essere, Giacomo avrebbe voluto
aggiungere che queste titubanze e questi scrupoli nel suo «Frulin»
non solo non lo persuadevano, ma erano per lui una ragione di piú
per voler bene alla sua tentazione e al suo diavolo. Di donne dotte
ormai ne son piene le dispense; mentre una donna semplice e sincera
non c'è scienza che la possa fabbricare, se non la fabbrica la mamma
natura. E avrebbe voluto aggiungere, se fosse stato il caso fare una
lezione in quel sito, che quanto piú gli uomini sono analitici,
complicati, foderati di sapere, tanto piú cercano di riposare la
testa sul seno d'un amore semplice e naturale, che li aiuti a essere
semplici e naturali. I piú occulti misteri si svelano nelle anime
più ingenue, mentre gli spiriti superbi e raffazzonati non sentono
piú se non quel che il loro orgoglio permette di sentire. E all'uomo
moderno non mancherebbe che questa disgrazia per essere il piú
disgraziato degli animali, vale a dire, che, dopo aver guastato
molte cose belle per il capriccio di voler vedere come son fatte,
avesse a guastare anche l'amore, riducendolo a un dialogo tra un
filosofo e una donna cogli occhiali.
Questo, ripeto, avrebbe voluto dire Giacomo Lanzavecchia, a una
santarella piena di titubanze e di scrupoli inutili. Ma avrebbe
«Frulin» penetrato lo spirito della sua sottile psicologia? Si
limitò a castigarla con due schiaffetti, soggiungendo:
- Avremo tempo di parlar di queste faccende con piú comodo. Ora ho
troppe cose per la testa. È in casa la contessa?
Celestina accennò di sí col capo.
- Vorrei domandarle che ti lasciasse venire tre o quattro giorni
alle Fornaci a far compagnia alla povera mamma, che non ha piú la
forza di reggersi. Mentre io vado dal conte, dille che desidero
parlarle... e... e... (girando il braccio intorno alla vita della
ragazza, la trasse un poco a sé, premendo le labbra a lungo nel
fitto de' suoi capelli) e di' alle monache che il tuo moretto da
salvare l'hai trovato da un pezzo.
Giacomo se ne andò pel viale dei carpini, non volendo piú far
attendere il conte, e lasciò Celestina irrigidita in tutto il corpo,
cogli occhi aridi e fissi, col cuore inerte, indurita, come una
statua. Quando il giovane scomparve dietro la casa del fattore,
venendo a un tratto a mancare in lei la forza artificiale che
l'aveva sorretta finora, il suo corpo si sfasciò, e cadde sul
margine dell'erba, colla faccia rivolta alla terra, urlando nel
silenzio di quella verde solitudine:
- Madonna, Madonna, Madonna, fatemi morire!
VIII
IL VIL METALLO DI CARTA
In una buona iscrizione - disse il conte Lorenzo con classica
gravità - non solo è compenetrata la storia e la filosofia della
storia, ma c'è lo spirito stesso dell'umanità, che palpita nel
sasso. Sicuro che i sassi bisogna saperli scrivere e saperli
leggere, se no, di sassi n'è pieno il letto dell'Adda...
Don Lorenzo, che in mezzo alle piú gravi questioni sapeva con nativa
arguzia far sorridere anche le cose serie, si rallegrò egli stesso
all'idea dello sterminato numero di ciottoloni che l'Adda trascina
nel suo corso, più adatti per lapidare i guastamestieri che non per
celebrare le virtuose azioni degli uomini. Mosse due o tre passi
traballanti e molli nello spazio che stava tra lo scrittoio e la
massiccia libreria di mogano, aprí le imposte dei basamenti e mostrò
a Giacomo tutto il prezioso materiale della sua grande raccolta
d'iscrizioni sacre e profane, accumulate in una serie di
cinquantaquattro grosse cartelle, una bazzeccola di cinque o sei
mila foglietti scritti, che era peccato tanto il buttarli sul fuoco,
come il lasciarli in preda ai topi e alle tarme.
- E non sono qui tutte... A Cremona ne avrò raccolte a quest'ora
un'altra ventina di cartelle, che comprendono la serie delle
iscrizioni funerarie; ma prima che questa raccolta sia compiuta,
lallèla…- disse agitando le due mani floscie in aria, per far capire
che la strada era lunga.
Questa raccolta, comprendente la XXXVII serie, doveva radunare tutte
le iscrizioni dei cimiteri, delle cripte, non esclusi i cenotafi e
le erme votive, senza trascurarne una, anche dei piú remoti villaggi
di montagna, divise e suddivise per mandamenti, capoluoghi, comuni,
frazioni, in modo da formare nel loro complesso un «Novum Corpus
inscriptionum italicarum» pari a quello che il Mommsen fece per
l'epigrafia latina. Si trattava (e in questa sua aspirazione don
Lorenzo era veramente encomiabile) di prevenire il desiderio e la
curiosità dei posteri.
- Non è egli vero - diceva spesso - che, se Varrone avesse pensato a
raccogliere lui le iscrizioni del suo tempo, avrebbe risparmiato a
noi l'incomodo di cercarle? Sicuro che non è impresa da pigliarsi a
gabbo, e io ho questo mio cuore benedetto che mi travaglia e non mi
lascia sempre lavorare quando voglio. Ecco perché vi ho fatto
chiamare, caro Giacomo. Sapete quanta stima abbiam sempre avuta per
voi.
- La sua famiglia, signor conte, fu sempre troppo buona verso di me
- disse Giacomo con commozione sincera.
- Coi Lanzavecchia delle Fornaci siamo da un pezzo buoni vicini e
non c'è mai stata ombra di dissidio fra noi. Ha fatto male il povero
Mauro a morir cosí presto. Pareva il ritratto della salute, povero
omaccione! Per me è un brutto avviso, perché siam lí lí cogli anni,
e i cardinali, dicono a Roma, muoiono sempre a due per volta. Ci
pensavo anche stanotte a quel pover'uomo, e, se permette, vi farò
sentire quattro righe d'una iscrizione, che avrei preparato per la
sua croce.
- Il signor conte onora un galantuomo...
- Non solo questo, ma ho voluto darmi il gusto di riprodurre un
carattere. Non vorrei portar nottole ad Atene, e voi farete di quel
mio esercizio quel conto che vorrete; quel che importa è che
l'epigrafia non resti sempre nelle mani di questi benedetti curati,
che guasterebbero il Santissimo. Dopo il Giordani, che fu quel gran
maestro che sapete, non si vede piú una iscrizione tollerabile. Ma
parleremo con più agio anche di questo un'altra volta; ora desidero
sapere da voi che cosa si potrebbe fare di questo gran materiale di
quasi trentamila iscrizioni, fra lunghe e corte, che rappresentano
per me il lavoro paziente di trent'anni. Credete che valga la pena
di stamparle? la contessa dice di sí, e alle volte le donne hanno
piú di noi il senso fino della convenienza; ma se si stampano, le
esigenze scientifiche vorrebbero che si compilasse un indice e forse
meglio ancora due indici, uno per i nomi, l'altro per le cose... e,
se ce ne fosse un terzo in ordine cronologico, tanto meglio: ma voi
mi capite, Giacomo, che per far tre indici di trentamila iscrizioni,
lallèla, non basterebbero gli anni di Matusalem.
Il conte raggrinzò la faccia a un riso lungo e silenzioso, che gli
fece raccogliere in un ciuffo le grosse sopracciglia grigie
biancheggianti e colorí la sua bella faccia di galantuomo sotto il
berretto d'astracan, da cui scappavan due altri ciuffi di capelli
brizzolati irti come lesine.
Giacomo, messo nella necessità di dover dare una risposta cortese,
tenne un pezzo gli occhi fissi sulla superficie e sul volume di quel
muro di carta scritta, di cui, a parte le esagerazioni, riconosceva
il merito storico, e più ancora il merito morale di chi aveva voluto
con quell'opera di pazienza guadagnarsi il suo posto in paradiso.
- Sicuro - disse finalmente, fissando gli occhi ora sul conte, ora
sulle cartelle. - Sicuro che sarebbe un peccato non cavar da questo
tesoro un costrutto.
- Non pare anche a voi che un buon index nominum potrebbe portare un
bel contributo alla onomatologia italiana?
- Senza dubbio - riconobbe di buon grado Giacomo.
- Non è lavoro che si possa fare né in un anno né in due; ma non è
il tempo che manchi alla pazienza. Ne parlavo anche ieri sera colla
mia Cristina, che, coll'intuito pronto delle donne, mi ha detto:
Perché non ne parli al Lanzavecchia? egli potrebbe aiutarti. È
giovane, e diligente, e gli può far piacere di trovare
un’occupazione tranquilla che gli permetta di stare a casa sua.
S'intende che ci dovremmo intendere da buoni amici. Quel che vi dà,
per esempio, il collegio di Celana, ve lo potrei dare anch'io, per
tre, per quattro anni, fin che è necessario: e vi darò anche di piú,
quando si incominciasse la stampa del primo foglio, in proporzione
della fatica e dei meriti. Cosí avreste il vantaggio morale di
restare quest'inverno a casa vostra e di attendere anche alla vostra
famiglia. Di tanto in tanto potrei fare una scappatina per
consigliarmi con voi, e, quando si tornerà al Ronchetto per il
raccolto dei bozzoli, si potrà dar principio alla pubblicazione
d'una prima puntata. Che ve ne pare?
Prima che Giacomo avesse il tempo di metter fuori una risposta degna
di lui e del conte, una voce interna gli disse che questa proposta
era un'abile e delicata insidia della contessa, che voleva fargli un
beneficio senza umiliar il suo amor proprio: e nella schiettezza
della prima impressione provò verso la buona signora un nuovo
palpito di gratitudine. La contessa, che conosceva le angustie della
sua casa e le segrete aspirazioni del suo cuore, gli offriva con un
gentile artifizio un mezzo onorevole per provvedere degnamente alle
une e alle altre; e nello stesso tempo veniva a infondere uno
spirito di vita in un materiale sepolto, su cui si era logorata
inutilmente l'energia podagrosa del povero conte.
- La proposta che il signor conte mi fa - riprese a dire con un
tremito di contentezza - è di quelle che lusingano l'amor proprio
d'un uomo e anche, posso dire, la golosità d'uno studioso. Ma non so
se il còmpito sia fatto per le mie spalle.
- Non è il caso di citare il quid valeant humeri, caro Giacomo.
Duecento lire al mese, per due, per tre, per quattro anni, fin che
sarà necessario, fin che vi piacerà, è la mia proposta: e tocca a me
ringraziar voi, che mi cavate da questo sepolcro. È sempre stato il
mio sogno di lasciar qualche cosa, che mi ricordasse a' miei figli,
quando sarò fatto polvere di pomice. E poiché sento che vostro padre
vi ha lasciato in qualche imbarazzo, d'accordo con Cristina, non
solo vi prego d'accettare questa nostra proposta, ma speriamo che
non vorrete rifiutare fin d'ora una piccola anticipazione sul vostro
lavoro.
Nel dir queste parole il conte tirò fuori da un volume del
Forcellini, che aveva sulla scrivania, una grossa busta di carta
sigillata e si avanzò verso Giacomo, che, ritirandosi verso il muro,
cercava di schermirsi. Don Lorenzo lo spinse bel bello nell'angolo
tra la libreria e la stufa, e, sollevando il pesante dizionario,
andò ad appoggiarlo allo stomaco del giovane Lanzavecchia, mentre
seguitava a dire colla sua quasi infantile bonarietà:
- Non capite che è tutta una nostra furberia? se voi accettate
questo denaro, non ci scappate piú.
E senza aspettare una risposta, il conte insaccò la busta gonfia nel
taschino, dove Giacomo soleva nascondere la peppinetta.
- Se non volete accettare per voi, accettate per i bisogni della
vostra mamma. Io voglio che possiate dare a questo lavoro tutto il
vostro tempo, e tutto l'animo vostro; né dovete immaginarvi che vi
si voglia far l'elemosina. A chi volete che affidi questa enorme
fatica, se non siete voi, che da molti anni considero come un
figliuolo della casa? Non spererò mai che Giacinto abbia a
pubblicare le mie opere postume. Povero Giacintone! - Il conte
ritornava pian piano a ricollocare il primo volume del Forcellini
accanto al secondo, senza smettere di ripetere: - Povero Giacintone!
piú grande amico dei cavalli che dei libri. Avrei dovuto chiamarlo
alla greca, Filippo o Ippofilo... Mi ha scritto ieri una cartolina
da Roma tutta piena di parole tenere e senza errori di ortografia. È
a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa
pubblicazione, a cui intendo premettere un «Discorso preliminare
intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo», che mi sta
sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta...
Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in
quel mentre sull'uscio:
- La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di
passare un istante da lei.
- Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse
il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta
a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la
importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe
che avrei scritte per quel povero uomo... Voi sapete da
insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta
qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi
è mestier facile; ci arriva anche il sacrestano. Il punctum è di
saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di
mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul
marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni... e tanto meno quello
sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di
fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll’i corto. Ergo, come ce la
caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare:
meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo
ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà
un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii,
ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il
sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile
epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza...
Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella
quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un
lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito
dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli.
Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte
di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente,
quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di
commiserazione e di fedele amicizia.
- Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi
la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri
sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I
vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei
vecchi.
- Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí
profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta
che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e,
se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio
ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor
conte, ringrazio lei, donna Cristina... - E, non sapendo piú
continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi
suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra.
- Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare
il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di
compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non
è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua
attività.
La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se
ogni parola le cagionasse un tormento.
- E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un
occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a
far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui... - Il
conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena
d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del
filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio
militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente
alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti,
ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie...
Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di
idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre.
Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo
liscio, o con un caffè all'ovo, o con una tazza di cioccolata che
Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello
stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito
dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro.
Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta,
giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno,
rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della
contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola
senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione
insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel
libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per
mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base
della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don
Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso
un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non
aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto
ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle
«Georgiche». Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in
qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben
carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti,
sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione
degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà
di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala
all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la
difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole,
come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani.
Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull'«Annuario degli Agiati di
Rovereto», continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse,
che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato.
Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di
porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di
avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla
povera mamma.
- È impossibile... - scattò a dire la contessa colla istintiva
prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per
correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva
produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, -
soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei
fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di
Buttinigo, avremo gente a pranzo... insomma se me la lasciate...
- Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che
cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace
con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di
Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato,
la faccio cantare: Va là, villan... e mi pare di bere una tazza
d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! -
sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col
cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il
suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa
da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia,
lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non
vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore
cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni
degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano
loro...
Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno,
rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto
di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra
in una rigidezza piú severa che dolente.
Il conte che aveva la bocca buona, continuò:
- Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la
guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo
Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se
non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che
anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei
cappellini. Oggi «Sacré-Coeur», domani «Ravachol»...
Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che
aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua
e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di
scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non
escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello
scrivere ha avuto dei grossi torti.
- Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie
di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo
una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio
ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a
tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire... cioè non verrete a
dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo
vostro Socialismo.
- Non è mio, signor conte... - obbiettò sorridendo Giacomo.
- Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche
larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel
tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il
mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per
quell'angelo che suona il cembalo di là.
Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di
Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le
note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un
canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre,
diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri,
sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe
damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di
forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio
biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della
contessa e sormontato dallo stemma di casa.
Duemila lire!
Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira
dietro il «Roccolo» di don Andrea, non fece che pensare a questa
offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo
l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione
e gli accomodamenti della sua casa.
Duemila lire!
S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della
vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una
somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle
ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire
in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella
dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza
dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si
può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la
sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in
corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza.
Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne'
casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di
cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila
pagine d'un bel formato Le Monnier.
Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento,
chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere
un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di
fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: un anno di
paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva
supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E
faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di
libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare
inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso
tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito
intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da
far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo
collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio
d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un
rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore
vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo
per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa
un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea.
Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui
consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida
nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta
metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo
prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del
piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila
lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato
Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato
coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare
mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una
intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano
rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer
brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo
carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per
sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che
di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco
della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino
aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli
archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran
fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara
Celestina, addio... poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I
creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo
battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere,
venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino
stampato dei libri.
Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava
all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna
che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti
mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un
sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari;
tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di
pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il
soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu
non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di
superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta
anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in
altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla
quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un
atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri,
e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si
toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si
sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col
diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del
mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la
vicaria della Provvidenza in terra.
Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz, quando
riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran
dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli
occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata:
- Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il
cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli
batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto,
asinaccio!
IX
ANGOSCIE MATERNE
Donna Cristina giunse alla villa di donna Fulvia di Breno verso le
tre, come aveva scritto.
Quantunque donna Fulvia fosse di alcuni anni piú giovane, la loro
amicizia, che risaliva fino ai tempi del collegio, conservava tutta
la freschezza d'una simpatia d'anime sorelle. Entrambe erano state
educate dalle dame inglesi di Lodi, dove avevano lasciata una
memoria molto diversa, frutto del temperamento molto diverso del
loro carattere, che gli anni e la pratica della vita avevano forse
potuto modificare ma non cambiare. Quanto donna Cristina era
inclinata ai pensieri alti e alla compostezza della vita morale,
altrettanto la Breno amava prendere la vita da' suoi lati meno
tristi e meno didattici, spingendosi non di rado fin dove l'allegria
si confonde colla spensieratezza. Alta, bruna, asciutta, dal suo
viso magro, tutto profilo, e piú ancora dagli occhi di falco spirava
una tale noncuranza per le cose monotone di quaggiù che le stesse
afflizioni non osavano, sto per dire, accostarsi, quasi temessero di
non essere prese sul serio. Maritata a quello spirito freddo e
prudente di don Lodovico di Breno, che fu per molte legislature il
deputato indispensabile del suo collegio, aveva trovato nelle molte
relazioni politiche di suo marito e nel suo salotto di Roma l'acqua
chiara, che cercava il pesce per guazzare. Non aveva avuto figliuoli
e non se ne lamentava: e per quanto la cronaca dicesse che, tra una
legislatura e l'altra di suo marito, avesse trovato il tempo di
cedere a qualche tentazione, non aveva mai abusato né di sé stessa
né degli amici.
Pare che in certi momenti di contrizione le avesse giovato
l'assistenza della piú santa delle sue amiche, la quale, come soleva
fare in collegio amava esercitare sulla fantasia sbrigliata della
Fulvia un'azione correttiva, dolce e materna, che aveva sul
diavolino di casa di Breno un potere spirituale non privo di
fascino. E dall'altra parte un po' per simpatia, un po’ per forza di
contrasto, donna Cristina si lasciava volentieri trascinare a
cercare nella Fulvia un segno di quelle ribellioni di spirito e un
sapore di tutte le dissipazioni, che essa aveva severamente proibite
a sé stessa. Il diavolo ha il suo fascino anche lui sull'anima dei
santi. Ora si vedevano di rado, anche per riguardi politici. Per
quanto il di Breno fosse un cavouriano all'acqua santa, tuttavia
nella questione di Roma, quel suo accettare, senza una restrizione,
i cosí detti «fatti compiuti» non poteva essere il programma né dei
San Zeno, né di monsignor vescovo, che aspirava a far carriera, né
della clientela pia e clericale, che dava e riceveva forza da questi
nomi.
Questa differenza politica non impediva che le persone si stimassero
reciprocamente per le loro virtú e che le signore si scrivessero
spesso e si ritrovassero volontieri tutte le volte che una
circostanza rendeva il ritrovarsi necessario o piacevole.
La missione spirituale di donna Cristina sull'anima ribelle
dell'amica non era ancora finita, quando donna Fulvia (fu verso la
metà di settembre) ricevette una letterina di Cristina con queste
parole: «Ho bisogno del tuo consiglio e del tuo aiuto per una
tremenda disgrazia, che minaccia la mia povera famiglia. Verrò
giovedí verso le tre: procura di essere libera. Non lasciar capir
nulla a tuo marito di ciò che ti scrivo, e prega, prega per me».
«Che mai può essere accaduto?» continuò per due o tre giorni a
molinare nel suo capo donna Fulvía, che aveva sempre avuto bisogno
che pregassero gli altri per lei. E quantunque il sospetto corresse
subito a Giacinto, di cui si sapevano certe sue nuove e poco
gloriose imprese con una principessa romana, pure aspettò con
ansiosa incertezza e con viva trepidazione questa annunciata visita
di Cristina.
Giacinto non era a' suoi primi spropositi, e mai la madre aveva
scritto con tono cosí lugubre! Che don Lorenzo, quel gran traviato,
avesse fatto un torto a sua moglie? o che ci fosse ordine di
arrestarlo per sospetto d'anarchismo? Per fortuna don Lodovico da
una settimana era a Roma relatore di una commissione del catasto, e
quindi fu possibile mantenere il segreto cosí gelosamente imposto:
altrimenti sarebbe stato un chiedere troppo alle forze di una povera
donna.
Non c'è nulla che avvilisca tanto i fatti, quanto il non poter
parlare con chi si vuole e quando si vuole.
- Ebbene, che cosa è accaduto, madre santa? - esclamò, quando ebbe
fatta sedere la contessa nel suo gabinetto bianco ed ebbe chiusa la
doppia porta che metteva verso il salone. - Tu hai una faccia
malata, mia cara! Forse don Lorenzo...
Donna Cristina si affrettò a rispondere di no con un forte diniego
dei capo: ma non poté parlar subito, perche si sentiva la gola piena
di lagrime. Siccome era fuggita, si può dire, da casa sua per
cercare un rifugio, dove potesse liberamente dar corso a questa sua
opprimente passione, al primo sfogo ch'ella fece per parlare, ruppe
in un pianto cosí sfrenato che la povera Fulvia rimase fredda e come
allibita.
- Che cosa c'è? - domandò di nuovo con una voce che sentiva le
lagrime. E, afferrate le mani della desolata donna, se le tirò a sé,
se le pose sui ginocchi, aspettando in silenzio che quel gran fiume
di dolore traboccasse tutto. Quando l'amica poté ricuperare la
padronanza di sé, fu ancora la Fulvia che, insinuandosi, l'aiutò a
parlare: - È per Giacinto che piangi? C'è ancora qualche novità? non
è bastato farlo traslocare a Caserta? è ancora per colpa di quella
principessa maritata?
- Peggio, peggio, quanto di peggio si può immaginare - proruppe la
Magnenzio con una forza quasi di protesta.
- O Dio, s'egli fosse morto!...
- Peggio ancora! E doveva toccare proprio a me.
E, coprendosi il viso colle due mani, soggiunse:
- O Signore, voi sapete che io non ho mancato al mio dovere. Ah che
castigo, che castigo tremendo!
- Raccontami - sussurrò la di Breno, facendosi più vicina e girando
un braccio intorno alla vita della compagna. Dopo aver inghiottiti
amaramente i suoi singhiozzi, donna Cristina riprese a dire: - Sai
che ho in casa una povera ragazza, quella Celestina...
- Ho presente.
- Già fin da questa primavera, quando Giacinto fu a casa in licenza
per alcuni giorni, mi sono accorta che le usava qualche confidenza;
ma siccome la ragazza è onesta e ha il cuore occupato, non ho
creduto che ci fosse pericolo. Ma il mese scorso, quando Giacinto
venne a casa per le corse di Erba, credette di tormentarla ancora, e
non pensò, non pensò il disgraziato che ci perdeva tutti.
- Scusa, - fece la Fulvia un po' accigliata - fin dove devo pensare?
- Pensa tutto quel che di peggio può accadere.
- Tu dici che la ragazza è onesta...
- Sí. Una notte che tornò al Ronchetto alquanto alterato dalla
festa... me l'ha confessato lui... non sa, non si ricorda come sia
avvenuto... trovò aperta la stanza... la ragazza dormiva. Ah che
disonore per la mia casa! - tornò a gemere, fremendo con una
irritazione mal repressa, che inaspriva la sua voce in singhiozzi
rauchi e poderosi.
- Povera me! - balbettò donna Fulvia, che dal suo posto di
spettatrice poté abbracciare con uno sguardo tutte le conseguenze
che un passo falso di questa natura poteva trascinare con sé. - Non
era questo il momento, povera me... - E dopo un istante di
riflessione soggiunse lentamente: - L'hai saputo da lui?
- Entrò lui stesso la mattina nella mia stanza a confessarmi tutto,
in ginocchio, nella stretta del letto. Che vale il piangere e il
pentirsi, quando il male è senza rimedio? Se mi avesse cacciato un
coltello nel cuore, per me era lo stesso. Egli crede ancora che io
sia per trovare un accomodamento: ma che posso fare? c'è da
impazzire, vedi. Se quel pover'uomo, che ha già il cuore malato,
viene a conoscere questo scandalo, mi resta sul colpo. Un Magnenzio,
capisci, un nome come il nostro, che ha una tradizione secolare di
onestà! E i parenti? e mio zio monsignore? Se il popolo
s'impadronisce di questo scandalo, se i nostri nemici vogliono
servirsene come di un'arme per combattere noi e il partito ben
pensante, se monsignore viene a sapere... O Dio, io perdo la testa
solo a pensarci... - E come se veramente una convulsa vertigine la
rovesciasse, la povera contessa si lasciò andare colla testa sui
ginocchi di Fulvia e riprese a piangere in un modo contagioso.
- Certo che è grossa... - mormorò l'amica - e anche per la sua
carriera, se aveva un po' d'ambizione, non gli gioverà. E per
maggior disgrazia siamo alla vigilia delle elezioni generali, nelle
quali i partiti di questi nostri collegi combatteranno una fiera
battaglia. Di Breno dice che il governo massonico tende a spazzarci
via tutti quanti. Non era proprio il momento... - cosí andava
ripetendo donna Fulvia, come se parlasse a sé stessa, mentre il
pianto straziante della povera disperata strappava anche a lei le
lagrime dagli occhi. - Comunque, la calma è il primo rimedio. Non è
il primo caso e pur troppo non sarà nemmeno l'ultimo. La gioventú ha
i suoi inconvenienti. In casa nostra è accaduto, anni fa, qualche
cosa di simile; ma il povero papà con un poco di denaro ha messo
tutto a dormire. Vediamo, ha parenti questa tua cara innocentina?
- È orfana, ma ha qualche parente.
- Bisognerebbe sapere che gente è.
- È buona gente, incapace di approfittare di una sventura.
- Se si offrisse una dote alla ragazza?
- Fulvia, che cosa dici? ti pare?
- Già, il tuo Giacinto non può mica sposarla.
Donna Cristina, abbassando la testa, acconsentí con un sospiro.
- Nemmeno monsignor vescovo potrebbe pretendere tanto. E allora non
vi resta che di offrire un altro genere di risarcimento. Hai detto
che la ragazza aveva già il cuore impegnato con qualcuno? Non si
potrebbe persuadere questo qualcuno ad accettare una ventina di
mille lire? il povero papà nel caso di Costanza, se l'è cavata con
meno: perché, via, tu sei buona e fai bene a credere all'innocenza;
ma ritieni pure che in questi nostri paesi le ragazze, piú furbe del
diavolo, sanno rappresentare a meraviglia la parte di vittima. Alle
volte anche i parenti si mettono della partita e fan presto ad avere
buon giuoco in mano. No? non credi che sia possibile persuadere
Menelao a ripigliarsi la sua belle Helene? Che uomo è questo Renzo
Tramaglino? Un contadino? un operaio?
A queste domande cosí incalzanti e taglienti, donna Cristina
Magnenzio non seppe rispondere che con uno sguardo freddo e dolente,
in cui si leggeva tutta la grande desolazione del suo cuore. Alla
curiosità di Fulvia essa avrebbe dovuto opporre un nome, che non
osava pronunciare, come se temesse di evocare tra loro un terribile
giustiziere. Mai la bontà e la giustizia d'un uomo avevano parlato
con tanta forza alla sua coscienza! e come se provasse in sé stessa
l'offesa atroce che si recava all'assente, con un atto di nobile
risolutezza, protestò:
- No, questo è impossibile!
- E allora bisogna raccomandarsi alla ragazza e farsene, se è
possibile, una alleata. Se ti vuol bene, se non è una cattiva
leggerona, se sente il suo stato, capirà che non ha a guadagnar
nulla da uno scandalo. Procurate di allontanarla, di metterla per
qualche tempo in un sito sicuro e di lasciare a lei l'incarico di
persuadere il suo Tramaglino a voltarsi da un'altra parte. Questa
gente non sta poi a far della psicologia troppo sottile, come si
farebbe tra noi. Per loro tutte le donne son donne, e le ragazze
dicono che un papa val l'altro. Se vuoi posso aiutarti. La sorella
della mia maestra di piano è direttrice d'una Casa a Treviglio, una
specie di rifugio, che ricovera appunto questi peccati, dove c'è
anche un ospedale sotto la sorveglianza delle suore.
- Potrò io persuadere la povera creatura a rinunciare al suo ideale,
a lasciar la casa, a rinchiudersi in un ospizio? tu non sai la
battaglia che io combatto da un mese in qua. Sí, finora ho potuto
far tacere la ragazza colle carezze, colle promesse, colle
preghiere, con tutto ciò che soltanto il cuore d'una madre sa
trovare in queste disperate circostanze; ma vedo che l'impresa è piú
forte di me. Celestina oggi promette che non farà nulla, che non
dirà nulla, che andrà dove voglio io, che non penserà piú al suo
passato, che mi vuol bene, che accetta la volontà di Dio; ma non
arriva il domani e me la vedo tornar davanti tutta cambiata. Non
dorme quasi piú, non mangia quasi piú; di notte scende dal letto,
attraversa il corridoio e viene a piangere nella mia stanza, si
strappa i capelli, dice che il diavolo la batte con una catena...
- Taci! - pregò donna Fulvia, impallidendo, con voce spaventata,
rabbrividendo nelle spalle.
- Vedi, Fulvia, dove siamo? - domandò con lamento straziante la
povera contessa, battendo forte le ciglia e cercando di attaccarsi
alle mani dell'amica come se avesse avuto bisogno di chi la tenesse
su. - Vedi che cosa hanno fatto della tua povera Cristina? Il
Signore non mi ascolta piú, il Signore mi ha abbandonata.
- No, no, povero angelo, non dir cosi. - proruppe la di Breno,
compassionandola, e sorpresa in fondo all'animo di dover fare verso
una tal donna la parte di madre consolatrice. - Tu hai troppi
meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni
che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del
caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario,
assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i
nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un
pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la
lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il
governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la
crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime
elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze
dei vari partiti conservatori contro la falange abissina dei
sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti
quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a
difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io
ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale
arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo
Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige,
specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! -
aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un
mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno
messo di moda. On s'encanaille, ecco!
Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i
nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don
Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici
aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza
insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati
degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio
di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente
di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno,
che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera
alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno
a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di
Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.
X
UN PRANZO POCO ALLEGRO
Il compleanno della contessina cadeva ai venticinque di settembre, e
in quest'occasione i signori del Ronchetto solevano invitare le
autorità minori del paese e dei dintorni, come sarebbe a dire il
pretino rettore dei Santuario, il segretario Balsamino, il maestro
della banda e qualche parente. Giacomo, nella sua qualità di
professore campestre, come soleva definirsi, non poteva mancare.
Quest'anno avrebbe avuto una buona scusa per esimersi: ma donna
Enrichetta mostrò d'averne un cosí gran dispiacere ch'egli non osò
dir di no.
- Venite, Giacomo, un po' di distrazione non fa male - gli disse il
conte. - Saremo quasi in famiglia e potremo discorrere un poco delle
nostre faccende. Di quel mio Discorso preliminare mi sono venute
dieci paginette che non sono il diavolo: ma la materia mi cresce
nelle mani, tante sono le cose che si possono dire intorno ai doveri
della nobiltà nel presente tempo: voi potrete consigliarmi a
togliere il troppo e il vano.
Questo pranzo del compleanno di donna Enrichetta era, secondo
l'espressione del conte, una semplice messa piana. La gran messa
cantata coi rivestiti e con musica aveva luogo in agosto, il giorno
di San Lorenzo, coll'intervento del prevosto, del sindaco, del
dottore e del buon canonico Ostinelli di Corno, un amico fidato
della contessa, un po' romantico, un po' rosminiano, manzoniano
perduto, ma non privo di coltura e di finezza. I preti non
impedivano che anche il padrone di casa pontificasse, e l'una e
l'altra volta, sul testo, piú antico che sacro, del post mortem
nulla voluptas...
Giacomo, che dopo il nuovo beneficio si sentiva legato a questa cara
famiglia ancor piú di prima, e che per la contessina aveva il cuore
debole del padre protettore, nel mandarle un'edizioncina diamante di
Dante, l'accompagnò con un sonetto da lungo tempo promesso, che gli
uscí spontaneo in mezzo alle tribolazioni, come un fiore da un
mucchio di sassi.
Fu la cara bambina che gli venne incontro saltando sulla terrazza.
Quantunque non compisse in quel giorno che i quattordici anni, la
persona lunga e slanciata, la ricchezza fluente de' suoi capelli
d'oro, che portava appena raccolti in due nastri dietro le spalle,
la spigliatezza un po' nervosa di un temperamento eccitabile le
davan l'aria precoce d'una donnina.
Essa gli stese la mano e lo ringraziò del regalo, del sonetto,
d'esser venuto; ma Giacomo capí che c'era in aria un piccolo
temporale. La contessina aveva gli occhi rossi. Frequenti erano le
burrasche, un po' per colpa della fanciulla, che, come una foglia
sensitiva, s'irritava a ogni minimo tocco, un po' per colpa della
mamma, che del bene aveva un concetto troppo geometrico e metteva,
senza accorgersi, nel comando piú voce che non fosse necessaria.
La dolce e poetica pigrizia dell'età giovanile, che ama tanto sedere
all'ombra dei propri pensieri, era troppe volte e troppo bruscamente
disturbata dal rigido programma materno e dall'orario di ferro di
miss Haynes, un orario, che, visto a due passi dall'uscio, ove
l'inchiodavano quattro spilli, pareva la gratella del martirio che
mettono in mano a san Lorenzo. La messa alle sei, la colazione alle
sette, il francese alle otto, l'inglese alle nove, il piano alle
dieci, la seconda colazione e il passeggio dalle undici a un'ora, e
poi da capo il piano, il francese, l'inglese, un po' d'italiano, che
si riduceva a una lettura di storia greca e romana; e questo dal
lunedí al sabato, tranne qualche ora del giovedí consacrata alla
spiegazione del catechismo. La lezione di Giacomo non era segnata
nella gratella, ma aveva luogo quando la contessa poteva disporre
del suo tempo per assistervi; e piú che una lezione, era un vago
discorrere sulle bellezze dei poeti e sui caratteri generali
dell'arte.
Dante era il testo unico, da cui il maestro sapeva cavare gli
argomenti della sua conversazione, alla quale prendeva parte, per
sua istruzione e per amore alle idee, anche la contessa. Giacomo,
che aveva anche lui molti peccati di fantastica pigrizia sulla
coscienza, soleva intervenire coll'autorità del filosofo educatore
in queste non infrequenti disarmonie pedagogiche tra la figlia e la
madre, e, quando parlava lui, la ragione era sempre a vantaggio di
donna Enrichetta. - Creda pure, contessa, che l'orario è una dura
necessità, come ci vuole una scala per andar al piano di sopra; ma
non è escluso che un uccellino possa arrivare anche piú in alto
senza far la scala. I meriti del rosario non sono nei grani
infilati, ma nella spontaneità dell'anima che lo recita. Si faccia
pure un orario per la regola del convento, ma ricordiamoci che noi
accontenteremo la natura tutte le volte che c'ingegneremo di
violarlo.
Per miss Haynes, che, dopo essere stata maestra alla madre,
cominciava a invecchiare nelle consuetudini, queste idee del signor
Lanzavecchia eran semplicemente eresie d'uomo di mondo, che non
crede agli orari colla stessa facilità con cui non crede a qualche
cosa di piú sacro e di piú indiscutibile. Buona come un angelo,
finiva però col cedere anch'essa qualche volta, e lasciava che
Enrichetta svolazzasse in giardino in qualche ora destinata ai verbi
irregolari.
- Gli occhi rossi in un giorno come questo? è un po' troppo. Che
cosa è accaduto? - chiese il professore.
Enrichetta si contorse un poco, e lottando tra il bisogno di
piangere e l'orgoglio di non mostrarsi una sciocchina, raccontò che
mammà l'aveva poco prima allontanata dalla camera con una parola
cattiva.
- Non è la prima volta che usa con me questi modi. Immagina forse
che vada di sopra a far la spia. La spia di che? Vuol piú bene alla
sua Celestina che a me.
- Certe cose non si dicono e non si pensano nemmen per burla,
signorina.
- No, no, è cosí. Da un mese questa è diventata la casa dei misteri.
- Se anche ci fossero, è naturale che le ragazze non abbiano a
conoscere tutto. Ci sono i dispiaceri dei piccoli e quelli dei
grandi. Quando sarà mammina anche lei, vedrà che non si può sempre
essere di buon umore. Via, donna Enrichetta, ci tenga allegri, mi
faccia vedere i suoi regali.
Giacomo prese sotto il braccio quello della fanciulla e si fece
condurre da lei nel salottino di studio, dove su una tavola stavano
esposti i molti regali e i molti mazzi di fiori, che amiche e
parenti avevano mandato per la fausta circostanza.
Essa cominciò con voce piú consolata a farne la spiegazione. Il bel
vaso di Sèvres l'aveva spedito il nonno da Bergamo; la splendida
Madonna in miniatura era un regalo della zia monaca di Monza. C'era
un tagliacarte d'avorio della zia Adelasia e un libro della zia
Gesumina di Buttinigo. Il babbo aveva offerto alla sua Enrichetta il
«Lessico della infima e corrotta italianità»; la mamma una collana
di perle; miss Haynes un album inglese di ricami e d'iniziali; e
perfin Fabrizio, quel povero vecchio di Fabrizio, aveva voluto farsi
avanti con una scatoletta incrostata di conchigliette e di
lumachelle.
- Soltanto il mio illustrissimo fratello ufficiale non si è
ricordato della sua Enrichetta. Tutto occupato a conquistar
l'Africa...
- Che c'entra l'Africa?
- Non sa che vogliono mandarlo in Africa? Al babbo però non si deve
dire.
- A qualche cosa serve anche l'Africa - pensò in cuor suo Giacomo;
ma, non potendo parlare di queste cose alla fanciulla, si limitò a
domandare se la mamma era a parte di questo segreto.
- La mamma lo sa. Gliel'ha scritto il generale Piani, nostro
parente. Tra la mamma e il generale corre da qualche tempo un gran
carteggio, ma io non devo saper nulla. Io non conto per nulla in
questa casa.
- Sia buona, ecco la mamma... - fece Giacomo, vedendo entrare la
contessa.
Questa, nell'incontrarsi repentinamente con lui, ebbe ancora un
piccolo scatto nervoso, che cercò di reprimere, stendendogli la
mano, mentre gli diceva:
- Bravo, la ringrazio d'essere venuto... - Poi, volgendosi verso un
alto specchio, che occupava una parete, mettendosi le mani nei
capelli, come se avesse bisogno di accomodare uno spilione, continuò
con un tono di naturale noncuranza: - Celestina è un poco ammalata,
tanto che l'ho obbligata a mettersi in letto. Ieri ha voluto stirare
colle finestre chiuse, e s'è buscato un forte mal di testa con
qualche nausea di stomaco. Se può dormire, passerà tutto... - E,
mutando a un tratto il discorso, sorse a domandare senza voltarsi: -
Conosce, Giacomo, le mie cognate di Buttinigo?
- Credo di essermi trovato con loro un'altra volta.
- Sono a pranzo con noi. - E per l'inquieto bisogno, che sentiva, di
non rimanere troppo in una cosa sola, con altra voce chiamò: -
Enrichetta.
- Mammà - esclamò la fanciulla, correndo ansiosa verso di lei. La
contessa le ravviò il vestitino bianco e, carezzandola sui capelli,
le disse sottovoce: - Sai che non voglio essere disturbata senza
necessità.
- Scusa, mammà - disse la bambina, a cui gli occhi splendevano di
commozione.
- Accompagna il signor professore in sala e fa le presentazioni. -
Quando Giacomo e la fanciulla ebbero lasciato il salottino, donna
Cristina si strinse le tempie nelle mani, socchiuse gli occhi, e
pregò con un mormorio di affanno mortale: - Signore, sostenetemi!
Verso le sei, fu servito il pranzo nel severo salotto parato di
cuoio, che due grandi e massiccie credenziere intagliate nel grosso
stile del seicento arredavano su due lati. La tavola era splendente
di argenterie e di cristalli finissimi, sui quali si riverberava la
luce rubiconda del giorno, che moriva dietro la piccola pineta del
giardino. Fabrizio e un altro servitore piú giovine, nella sobria
livrea color tabacco coi paramani bianchi, servivano con precisione
in un raccoglimento quasi religioso, recando grandi piatti d'argento
cesellati colle iniziali e cogli stemmi delle due famiglie.
La contessa pareva aver ricuperata tutta la sua forza di spirito.
Seduta a capo della tavola, esposta al caldo bagliore del tramonto,
la sua bella testa di matrona ancor giovane spiccava sul fondo bruno
della parete, alleggerita, per dir cosí, dalla luce fuggente dei
brillanti, che popolavano i suoi capelli, dalla nebbia dei pizzi
candidissimi e da un pallore marmoreo del volto, soffuso con
insolita civetteria da un roseo velo di cipria. Indossava
elegantemente un vestito di piccolo velluto amaranto, col busto
eguale, sul quale ripiegavasi a guisa di collare un ampio risvolto
di pizzo di Fiandra. Al collo, unico ornamento, era un filare di
perle, una delle quali grossa quasi come una nocciuola, spiccava in
mezzo al color fulvo di quei famosi capelli, che formavano
l'ambizione di Celestina.
I giorni d'invito erano per la giovane cameriera giorni di palpiti e
di trepidazione. A Celestina la contessa rappresentava quanto di piú
bello, di piú elegante, di piú ideale possa prendere la figura di
una donna sulla terra; e se c'era pericolo che ella potesse soffrire
in qualche confronto con altre signore, le precauzioni, le cure, le
trepidazioni non avevano mai fine. La ragazza la faceva passare
tutta, filo per filo, dalla punta delle scarpe alla punta dei
capelli, e dopo averla aggiustata, ritoccata, adorata,
l'accompagnava fin sull'uscio della sala, stando dietro il battente
ad assaporare il trionfo, come se una parte di merito andasse a lei.
Questa volta la povera Celestina non aveva potuto accompagnare la
sua signora. Una piccola e fiera battaglia era stata combattuta tra
lor due nelle stanze superiori, dove miss Haynes, la vecchia
istitutrice, era rimasta di guardia per impedire che la ragazza
facesse uno sproposito. Donna Cristina, nella signorile
acconciatura, sorridendo agli invitati, si sforzava di sostenere la
conversazione colla consueta amabilità, provocando essa stessa i
discorsi, perché nessuno avesse a leggerle negli occhi il suo
affanno; ma se il corpo era in sala, il suo cuore era rimasto
confitto di fuori. Essa avrebbe voluto persuadere Celestina a
lasciare il Ronchetto quietamente, senza far scene, sotto un
pretesto, che si trova sempre; e assumeva sulla sua responsabilità
l'incarico di avvertirne Giacomo e di fargli parere questa partenza
come una cosa naturale e provvisoria. La stessa di Breno si era
offerta di ricevere la ragazza sotto la sua protezione, e, or sí or
no, la poverina ne pareva persuasa. Ma quanto piú si avvicinava il
fatale momento, non sapeva distaccarsi dalla contessa, che nella sua
tremenda disgrazia rappresentava l'unica àncora di salvezza,
l'ultima protezione, un testimonio della sua innocenza, un'amica,
una mamma. Nelle mani degli altri essa sarebbe diventata di nessuno,
o, quel che è peggio ancora, preda di tutti: e in questo timore,
come se sentisse di camminare verso un precipizio, impeti di fiera
ribellione succedevano a freddi propositi di rassegnazione, ripulse
selvaggie a miti acconsentimenti, lagrime sfrenate a lunghi silenzi
di morto stupore.
Piú d'una volta la contessa aveva dovuto trattenerla, stringerla
nelle braccia, baciarla sugli occhi, bagnarle il viso di lagrime,
supplicarla con parole umili e piccine, sussurrate nelle orecchie,
perché non avesse a gridar cosí forte, a non richiamare l'attenzione
della gente di casa; finché la Celestina, commossa da quel dolore
non meno grande del suo, debellata da quelle parole, che si
accordavano alle sue, rammollita da quelle lagrime, che si
mescolavano alle sue, prometteva di esser savia e paziente, di
lasciarsi condur via, di fare tutto quello che la signora contessa
le avesse detto di fare.
Con una di queste promesse, strappata all'ultimo momento e
ricompensata col dono d'un bel rosario di madreperla, donna Cristina
era discesa in mezzo a questi suoi familiari, dopo aver soffocato
con uno sforzo supremo della volontà le aspre inquietudini e le
eccitazioni nervose sotto un amabile e ridente contegno, come aveva
fatto sparire la traccia delle lagrime e delle notti mal dormite
sotto il velo roseo della polvere profumata.
Questa straziante, necessaria, insolita energia di dissimulazione,
la povera martire l'attingeva al pensiero che in essa era la
salvezza della sua casa, come il capitano valoroso sa che dal suo
contegno fermo e sicuro nel fitto della battagila può dipendere la
sorte della giornata campale.
Insieme ai padroni e alla padroncina di casa sedevano, come s'è
detto, intorno alla tavola il segretario Balsamino, il maestro della
banda, don Iginio, pretino giovane e delicato, e le due zie di
Buttinigo, sorelle di don Lorenzo, donna Adelasia e donna Gesumina,
contesse Magnenzio, due dame attempate, non prive di barba, tonde e
piccolette come due gomitoli, vestite tutte e due colla stessa
severità quasi monacale di seta nera; ma si capiva dai molti anelli
e dall'astuccio degli occhiali che si aveva a che fare con due dame
e non con due monache.
Erano sempre vissute zitelle, non credo per avversione al santo
matrimonio. Donna Adelasia aveva amato, sul tramonto della sua
giovinezza, un uomo di quarantacinque anni, che la voleva sposare;
ma il povero marchese Caccianino, proprio quindici giorni prima del
fausto avvenimento, cadde da cavallo e restò sul colpo. Da allora la
meno brutta delle Magnenzio, considerandosi come vedova, non fece
che coltivare le meste memorie.
Donna Gesumina, anima di bambina in un corpo poco sviluppato, era
invecchiata senz'accorgersi nella sua innocenza, vivendo un giorno
dopo l'altro per quasi sessant'anni, di amaretti, di caramelle di
gomma, di rosoli, di novene e di santi e pudibondi sgomenti per
tutto ciò che leggeva sui giornali o che sentiva raccontare intorno
agli oltraggi che si recano continuamente alla Chiesa e al cuore del
Sommo Pontefice.
Vivevano sole in quel loro casone di Buttinigo, ma non rifuggivano
dal mondo, al quale cercavano non mal volontieri gli argomenti di
scandalo e le occasioni per deplorare la decadenza dei buoni
costumi. Non insensibili al fasto e alle decorose tradizioni della
famiglia, portavano a spasso l'antica nobiltà in un carrozzone
foderato di stoffa color guscio di castagna, che aveva sulla
portiera i due terribili draghi colle fauci aperte, una diavoleria
araldica da far venire la tremarella alla Convenzione. A proposito
di questa spaventosa impresa un canonico Ildefonso Magnenzio aveva
scritta una dissertazione storica, pubblicata a Bergamo l'anno 1653,
nella quale si tira in ballo perfino Berengario I, per dimostrare
che Magnenzio deriva da magnar, corruzione di manducare, che in
certi incontri storici può essere anche sinonimo di divorare.
Comunque sia, quelle gran bocche aperte rappresentavano, per le due
dame e per il Rebecchino, loro cocchiere e factotum, una gloriosa
tradizione, alla quale era attaccato qualche milione di patrimonio,
che sarebbe andato a cadere in bocca a don Giacinto, unico erede
maschio di una prosapia quasi millenaria.
In quest'unico rampollo, com'è facile immaginare, le due vergini
dame riponevano le loro femminili e aristocratiche compiacenze,
amando in lui, non solo il passato illustre, che sarebbe rifiorito
in lui, ma tutti i figliuoli, che esse non avevano potuto avere.
Il giovinotto era bello, bianco di carnagione, coi baffetti biondi,
spigliato, spiritoso, amabile, non imminchionito nei libri come suo
padre, sapeva essere a suo tempo e luogo ardito e prepotente;
insomma le zie di Buttinigo vi trovavano tutti i sapori, lo
sovvenivano di nascosto di denaro, lo compassionavano come una
vittima di un sistema educativo irragionevole e, pur inchinandosi
alle intenzioni di donna Cristina loro cognata, si permettevano di
osservare sommessamente tra loro che i nobili non vengono al mondo
per istudiare la filosofia e per incretinire sulle lapidi, come
faceva il loro fratello antiquario. Giacinto capí presto, prima
ancora di mettere un pelo di barba, che le due buone zie di
Buttinigo eran da coltivare come due buone vigne. Con un tantino di
ipocrisia, che in francese si dice savoir faire, coll'esagerare i
suoi stessi sentimenti di buon credente, col fingere qualche
straordinaria mortificazione in quaresima, col racconto ameno di
tutte le storielle galanti che correvano negli aristocratici
salotti, il ragazzo, a furia di soddisfarne gli istinti materni e la
disoccupata curiosità, s'era fatto delle due zie due potenti
alleate, sempre pronte a dargli ragione, a difenderlo contro le
sofisticherie di mammà, a fornirgli sottomano i mezzi di pagarsi
qualche scappuccio.
Né la contessa poteva da parte sua contraddirle sempre, e per un
giusto riguardo a don Lorenzo, che sopra ogni cosa amava la pace e
l'armonia, e anche per un riguardo ai due draghi e all'annesso
patrimonio. Il giorno che, per isfuggire ai pedagoghi di mammà, il
bel giovinotto si presentò alle zie nella chiara divisa di Piacenza
cavalleria, cogli stivaloni alla scudiera, collo spadone al fianco,
coi kolbach di pelo sulla sua bella testa di biondo Apollo, per poco
le due zitelle non isvennero di consolazione. Lo fecero passeggiare
in su e in giú per il salone, vollero sentire il tin tin degli
sproni, sfoderarono esse stesse la terribile spada e gli regalarono
subito cento lire ciascuna per le sigarette. A turbare la gioia di
questo trionfo venne l'ordine del Ministero, che destinava il
giovane soldato a Roma; ma, consultatesi con quel brav'uomo del
prevosto di Trezzo, le due apostoliche zitelle cercarono di riparare
l'offesa involontaria che un Magnenzio recava al cuore del Santo
Padre, coll'incaricare lui stesso di versare cinquecento lire alla
cassa dell'Obolo di san Pietro. Giacinto ritirò da un chierico una
polizza per cinque lire, vi aggiunse di sua mano un paio di zeri, e
giocò le altre quattrocentonovantacinque al faraone. Il diavolo,
com'era dover suo, lo aiutò e lo fece vincere.
***
Don Lorenzo, da buon umanista, fece onore alla tavola, specialmente
a un manicaretto di pasta frolla imbottito di tartufi, che Orazio
non aveva potuto mettere in asclepiadei. Egli era in vena di
celiare, e per il gusto che gli dava ogni bella compagnia, e per
l'appetito, che per fortuna non guastava questa volta l'opera del
cuoco. Giacinto gli aveva scritta ancora una cartolina, mica male,
povero Ippofilo, tranne la smania di togliere l'acca alle voci dei
verbo avere, che l'hanno sempre avuta.
- Son novità di quei signori toscani, che si possono compatire in un
giovinotto; ma di questo passo non le pare, don Iginio, che si vada
diritti all'anarchia ortografica?
Il pretino timido, che stava attento a non commettere errori di
convenienza, si scosse, dètte una lavatina asciutta alle mani, le
aperse come se celebrasse all'altare, e, facendosi rosso in viso,
rispose:
- Sicuro, signor conte, l'acca ci vuole.
- Togli l'acca di qua, taglia di là la coda ai beneficj, a maleficj,
al boja, leva un t a Cattolico e a Catterina, che è come levare una
costola a una di queste signore... e poi che cosa resta
dell'italiano di Dante, del Petrarca e del Boccaccio? che ne pensa
il nostro egregio Balsamino a secretis...?
- Ecco, se mi permette, io le dirò, signor conte - rispose col
solito rustico coraggio il segretario comunale, che non dubitava mai
della forza delle sue arguzie d'uomo semplice: - Se permette, io per
me preferisco il suo vin di barolo, signor conte... - e lanciata la
bomba, rise molto, sperando che gli altri facessero lo stesso; ma un
freddo silenzio gli fece capire che questa volta la bomba gli era
scoppiata in mano.
Donna Adelasia, per aiutare il povero pretino, che pareva quasi
asfissiato dalla suggezione e dalla presenza delle signore, volle
sapere da lui che cosa fossero le quaranta proposizioni di Antonio
Rosmini, che il Papa aveva riprovate e messe all'indice come
ereticali. Il poverino, che, tutto occupato a confessare le donne,
non aveva tempo di leggere, dopo aver lavate con tre o quattro
fregatine nell'aria le sue piccole mani, se la cavò col dire:
- Vede, donna Adelasia? Il Rosmini è un panteista.
- Ho visto! - soggiunse col suo fare alquanto torbido la maggiore
delle due zitelle; e volgendosi a Fabrizio, che si avanzava coi
piatto, chiese collo stesso grado di curiosità:
- E questa che roba è?
- Questo è zampone di Modena, contessa - disse Fabrizio.
- C'è qualche altro, che pencola verso il panteismo - intonò il
conte colla bocca fatta morbida da una soave pasta di patate,
alzando un dito minaccioso verso Giacomo, che sedeva all'altro capo
della tavola, tra la contessa e donna Enrichetta.
- Dice a me, conte? - domandò Giacomo, fingendo di non capire.
- Noi sappiamo leggere fra le righe, Giovannino!...
- Piano, piano: lei mi fa una terribile accusa davanti al Santo
Uffizio - soggiunse Giacomo, ridendo e accennando coll'occhio a don
Iginio.
- Zitto là, sor filosofo: bene intendenti pauca. Solamente guardate
quel che fate, signori idealisti - aggiunse don Lorenzo coi pomelli
accesi, alzando il tono della canzone; poi, tenendo sollevato sulla
forchetta un boccone di quel ghiotto zampone di Modena, che aspetta
ancora il suo poeta, continuò: - Guardate, giovanotti, che a furia
di scassinare i principj, non vi manchi la terra sotto i piedi. I
tempi son grossi di arie cattive e una cattiva filosofia è sempre la
staffetta d'una cattiva repubblica, L'abbiam visto in Francia ai
tempi della Rivoluzione, quando sul posto d'ogni altare abbattuto il
buon popolo innalzò una ghigliottina. Che ne pensa la mia
dilettissima consorte, che oggi mi par piú malinconica del solito,
quantunque ciò non guasti la sua casta bellezza?
La contessa si scosse da' suoi pensieri e si sforzò di sorridere;
poi, volendo mostrare che prendeva parte ai discorsi dei convitati,
chiese al maestro della banda qualche notizia su un certo contrasto
nato tra la fabbriceria e il Consiglio comunale... a proposito d'un
funerale.
- La signora contessa sa che la nostra banda non ha opinioni
politiche - disse il maestro, un ex-tromba dell'esercito, a cui
faceva bene il vino di Piemonte. - La musica è un'arte, e l'arte
dev'essere superiore alle opinioni. Si trattava d'un reduce
garibaldino, e io domando se si poteva rifiutare di sonar l’inno di
Garibaldi.
- L'inno di Garibaldi in luogo sacro... - entrò a dire il conte
simulando un santissimo orrore per un cosí grosso sacrilegio. - Che
ne dice, don Iginio?
- Ecco... - provò a dire il pretino, facendosi rosso per lo sforzo -
poiché Sua Eminenza il nostro vescovo ha proibito ai parroci...
- Che cosa ha proibito? - gridò il maestro, che in questa benedetta
questione degli inni patriottici s'era piú volte asciugata la gola.
- Con qual diritto può proibire un vescovo la manifestazione d'un
sentimento patriottico?
- Fin che durerà questo dissidio... - s'arrischiò d'aggiungere il
pretino, sostenuto dalla coscienza del suo dovere.
- Ma mi faccia il piacere, don Iginio! - strepitò il maestro, con
gusto infinito del conte che si divertiva ad aizzarli l'un contro
l'altro parendogli di assistere all'epilogo dell'antica lotta delle
Investiture. - Se lei avesse visto il fuoco come l'abbiam visto noi
a San Martino, a Palestro, a Custoza, saprebbe che certi sentimenti
non si smorzano nemmeno con l'acqua santa...
- Questa è buona, Giovannino!. - approvò il conte, picchiando sulla
tavola il calice del suo vin bianco dolce; e, strizzando gli
occhietti verso Giacomo, stava per citare un verso di Orazio quando,
sul caldo frastuono della discussione dei piatti e delle posate,
risonò un grido acuto e spaventato, che parve un grido di donna, a
cui tenne dietro un forte sbattere di usci e un correre confuso di
gente.
- Che cosa c'è? misericordia! correte a vedere. Chi si è fatto male?
- confusamente esclamarono i convitati.
- Sapete che questi spaventi mi fan male, benedetto Iddio... -
balbettò il conte, che rimase lí colla forchetta in aria e col
boccone infilzato.
La contessa era subito scomparsa, ma rientrava poco dopo con
Fabrizio a dire che non c'era nulla di grave. La donna di guardaroba
era caduta sulla scala con una catinella in mano, ma tutto era
finito con molto spavento, e col danno della stoviglia.
- Meno male, ma, santo Iddio, state attenti a non procurarmi di
questi spaventi, che guastano la digestione. Sapete che son mezzo
malato e il cuore mi salta per niente. Par sempre la casa del
diavolo. Un po' di riguardo, per bacco! Mi versi un altro dito di
vino, maestro. Bevete tutti, fatemi coraggio.
Tutti bevettero, per obbedienza, alla salute del signor conte e alla
felicità di donna Enrichetta.
Donna Cristina, che, durante il pranzo, era stata continuamente col
cuore sollevato, al primo grido di quella disgraziata era scattata
in piedi, in preda a una violenza nervosa, era corsa di fuori, e
giunse appena in tempo ad arrestare sul pianerottolo Celestina, che
mezzo svestita, coi capelli in disordine sciolti sulle spalle, colla
faccia stravolta, si dibatteva nelle braccia di miss Haynes.
La contessa, col tono severo e autorevole che sapeva prendere quando
il caso richiedeva, l'afferrò per un braccio, la trasse con sé per
il corridoio buio della foresteria, la chiuse nella sua stanzetta,
dove Celestina s'inginocchiò:
- No, contessa, mi perdoni, - pregava - sarò buona. Mi pareva che
volesse pigliarmi.
- Chi? chi ti perseguita?
- Il diavolo.
- Tu non mi vuoi piú bene.
- Le voglio bene, signora. Lei è la mia mamma. Ma c'è proprio un
diavolo che mi tormenta.
- Sei malata, capisci? Senti come abbrucia questa povera testa.
Torna a letto. Non sai che ci farai morire, se non obbedisci?
- Giacomo è qui. Lasci che gli dica tutto.
- Tu non gli dirai nulla, perché io non lo permetterò. Guarda che so
essere anche cattiva. Ti farò chiudere in una stanza... Vieni,
invochiamo insieme la Madonna dei dolori...
Celestina, passata la crisi, dette in un pianto dirotto, si lasciò
collocare sul letto e promise di essere savia e obbediente. La
contessa chiuse l'uscio a chiave e lasciò miss Haynes in sentinella.
Tutto questo accadde nel minor tempo che occorre per raccontarlo, in
una specie di furiosa scaramuccia, a cui le due infelici creature
andavano da qualche tempo abituandosi. La contessa, non solo si
meravigliava di saper vincere e domare la sua vittima, ma una
meraviglia piú alta sorgeva nell'animo suo alla prova della sua
forza, che mai avrebbe immaginato di possederne tanta; una forza
morale e nervosa, che sapeva ardire e nascondersi, che, oltre a
insegnarle le astuzie del vincere e del resistere, le manteneva sul
viso quasi una maschera sorridente. E non eravamo che alle prime
scaramuccie d'una tremenda battaglia! Sarebbe bastata questa forza
il giorno che avesse dovuto affrontare il grosso del nemico? non
vedeva né il quando, né il dove questa battaglia si sarebbe
combattuta; ma, se si raccoglieva un istante, le pareva di sentire
non molto lontano un muggito d'una moltitudine di mali selvaggi, non
mai immaginati, davanti ai quali il morire, il morir subito, le
compariva una liberazione.
XI
ANCHE I BUONI SONO FURBI
In una lettera, scritta verso gli ultimi di settembre, Giacomo mi
discorreva ancora delle sue idee e delle sue speranze per
l'avvenire:
«Non ho osato respingere il beneficio, che mi offrirono questi miei
vecchi benefattori - scriveva - e non me ne pento. Intanto chi
procura all'amico l'occasione di essere utile gli procura uno dei
piú delicati piaceri, e io sento che il saper ben accogliere un
beneficio è un riconoscere nel miglior modo che la bontà esiste nel
mondo. Ma, lasciando queste sottigliezze che farebbero ridere, se le
dicessi, l'oste della Fraschetta, è certo che io ho potuto ottenere
una moratoria (dico giusto), placare i creditori piú feroci, destar
della fiducia in questo signore della Rivalta, che si è offerto di
mettere un puntello sotto il tetto di questa povera casa crollante.
Il povero pà dormirà meno male sotto la terra. Sento che questa è la
strada del dovere e procuro di batterla senza discussioni. La
necessità ha questo di buono, che non lascia tempo alle esitanze: o
correre o cadere. Questo signor Mangano della Rivalta di cui ti
parlo, e che io considero come la causa principale della nostra
rovina, è venuto a trovarmi con un viso umile e compunto, s'è
sprofondato in inchini e in giustificazioni, sforzandosi di
dimostrarmi che non aveva nessuna colpa nel disastro, che a mio
padre voleva un gran bene, che di me ha una stima immensa, che
soltanto le tristi circostanze hanno potuto congiurare contro un
galantuomo; e, per provarmi che la sua non è un'amicizia di sole
parole, mi offrí di ritirare lui tutti i crediti che gli altri
possano vantare verso di noi, e di unire le sue forze alle nostre
per continuare nell'azienda delle Fornaci, che, a parer suo,
potrebbero avere un grande avvenire, quando si rinnovassero i metodi
di produzione e ci fosse una buona testa direttiva.
«Che l'ex-impresario abbia a cercare anche questa volta il suo
vantaggio, è chiaro come il sole; ma, nel suo vantaggio, non si può
negare che non vi sia un utile e una sicurezza anche per noi. I miei
fratelli, se va quest'accordo, metterebbero le braccia, e l'ometto
della Rivalta il grande ingegno che Dio gli ha dato per far
quattrini. La casa resterebbe cosí assicurata a queste povere donne,
che, alla sola idea di andar raminghe per il mondo (e dove si
andrebbe?), si lascierebbero morire di spavento. Questo signor
Mangano trova che io non manco d'un certo bernoccolo per gli affari,
e da una settimana in qua mi ronza intorno, perché persuada la
contessa a cedergli un certo campo e una cascina, detta la
Colombera, in corrispondenza di alcune cambialette di don Giacinto
cadute nelle sue mani. È un tasto doloroso che dovrò toccare alla
contessa: ma non è la prima e non sarà l'ultima volta. Ed eccoti,
caro trapezio, come un filosofo idealista, quasi trascendentale, può
trasformarsi, senza ch'egli se ne accorga, in un mediatore di affari
e in un fabbricatore di tegole. Ovidio non ha prevista questa
metamorfosi». E finiva la lettera con questa notizia: «Celestina è
stata poco bene in questi giorni con una piccola minaccia di tifo,
che pare scongiurata. Essa ha trovato nella contessa una madre
amorosa, che me la farà guarire».
Giacomo era tanto lontano dall'immaginare il terribile disastro
della sua vita e dal supporre nella gente oscure intenzioni che non
esitò a trattare direttamente per incarico della contessa questa
faccenduola delle cambiali di don Giacinto, recandosi egli stesso
una bella mattina di ottobre a far visita al signorotto della
Rivalta.
L'edificio, che portava il nome di Rivalta, avrebbe quasi potuto
aspirare all'onore di palazzo, se non fosse stato il deplorevole
abbandono, in cui da cinquant'anni in qua lo avevano lasciato i
molti e cattivi padroni, che se l'erano barattato. Di fuori
conservava ancora le traccie e la fisionomia dello stile pesante del
seicento per il suo portone a grossi dadi di pietra, sovraccaricato
da un enorme mascherotto di sasso, e per due vecchie colonnette mal
sagomate messe davanti, che reggevano ancora qualche rugginoso pezzo
di catena; ma l'erba cresceva tra i ciottoli del grossolano
selciato, spuntava dalle screpolature delle sconnesse cornici, le
gelosie si sgretolavano nei loro vecchi telai, dopo aver lasciata
l'ultima vernice come una allumacatura lungo le pareti delle
muraglie, e le macchie s'incontravano, scendendo, coll'umidità che
saliva dalla corte, come sparse ombre di desolati fantasmi. Il
caseggiato signorile, dopo aver servito per alcuni anni ad uso di
filatoio, era caduto, in conseguenza d'un fallimento, nelle mani
rapaci di questo signor Ignazio, un ex-impresario teatrale,
intraprenditore di affari indecisi, sovventore riconosciuto di
denaro al prossimo, che tra le molte trappole aveva piantata qui la
famosa sega a vapore. La sega non lavorava piú per mancanza, diremo
cosí, di combustibile; ma il sottile affarista lavorava sempre anche
al buio, stendendo i suoi fili invisibili per un circuito di venti o
trenta miglia a tutti gl'ingenui, a tutti i discoli, a tutti gli
allucinati, a tutti i credenti e miscredenti della fortuna.
Mauro Lanzavecchia era stato uno degli ingenui. Siccome questo
signor Ignazio, ricco ormai del suo, era oggi molto meno bisognoso
di far affari, aveva sugli altri suoi pari il vantaggio di poter
aspettare le buone occasioni, le quali non si maritano che agli
uomini pazienti. E ciò spiega come molti buoni figliuoli di famiglie
oneste lo preferissero agli altri esosi speculatori di mestiere, che
non mirano che a guadagnar presto. Don Giacinto l'aveva, per
esempio, sempre trovato un uomo ragionevole, e in certe occasioni
quasi generoso. La stessa educazione dell'uomo, che aveva molto
viaggiato e trattata la compagnia variopinta degli artisti, oltre a
dargli il tratto civile e corretto, non gli permetteva di mostrarsi
sordidamente avido e taccagno, come si mostrano gli strozzini di
seconda qualità. Dacché cominciava a invecchiare e a schiudere la
mente, come soleva dire, ai casti pensieri della tomba, il suo primo
pensiero non era tanto di far quattrino da quattrino, quanto di
collocare onestamente la sua Norma a una persona onesta, che facesse
onore al suo denaro. Un galantuomo è anche lui un buon capitale nel
mondo, quando sia ben impiegato; e nessuno sa meglio apprezzare la
rendita che fruttano le modeste virtú di un uomo onesto, quanto
colui che si è trovato qualche volta nelle condizioni di non poter
esserlo. Questo pensiero non era estraneo al desiderio, che lo
spingeva ad accostarsi al giovine Lanzavecchia, a mostrarglisi
ragionevole, docile, transigente, migliore della sua fama, disposto
ad accogliere una buona proposta, a rendere un buon servizio, a
riparare, se pareva necessario, un torto o una ingiustizia, a
rimetterci del suo, piuttosto che passare agli occhi del sor Giacomo
come un aguzzino bramoso del sangue altrui. E in questo suo
desiderio era tanto piú lodevole in quanto che, a sentirlo, avrebbe
potuto maritare la sua Norma a fior di banchieri ricchi sfondati e,
se avesse voluto, farne una contessa o una marchesa. Duecento mila
lire pronte e il resto a babbo morto, col tempo che fa, possono
indorare le vecchie corone, che, senza lo splendore del metallo,
nessuno le vuole piú nemmeno per insegna d'osteria. Invece, se
Giacomo Lanzavecchia si fosse fatto avanti col fallimento in una
mano e il suo diploma nell'altra, l'amoroso padre l'avrebbe
preferito a un principe, non una volta, ma quante volte il
carattere, l'intelligenza, il sapere, il nome superano i titoli
oziosi.
Giacomo andò alla Rivalta col denaro e coll'autorizzazione di
ritirare le cambiali, che don Giacinto aveva rilasciate a favore di
alcuni suoi compagni di studio. Dal piazzaletto della vecchia villa
si dominava un gran tratto della valle e del corso dell'Adda. Il
Ronchetto col suo fastoso palazzo biancheggiava nel verde folto del
giardino; piú sotto era il Santuario; e piú in basso ancora le
Fornaci, con due vecchi camini lunghi e affumicati, colla vecchia
casa dal tetto bistorto, dai pioventi cascanti anneriti dal tempo,
coi riquadri dei mattoni rossi, che spiccavano sugli spazi
giallognoli esposti al sole dove gli operai lavorano a modellare la
terra nelle forme, all'ombra di un graticcio di foglie secche.
Dall'alto si poteva scorgere anche un tratto del muricciuolo, che
chiude il camposanto.
Giacomo si soffermò un istante a riassumere, con un'occhiata
pensosa, la storia della sua povera casa, e provò un senso quasi
d'orgoglio davanti alla riflessione che la filosofia, usata bene,
può servire a qualche cosa. Se i creditori non erano piombati come
uno stormo di avvoltoi sulla sua casa, se i suoi fratelli avevano
lavoro e sua madre un letto e un boccone di pane, il merito stavolta
era stato dei mangialibri. La stima lungamente coltivata aveva
fruttato il credito; e il credito aveva disarmata l'avarizia. «Anche
i buoni son furbi» - finí col conchiudere in cuor suo, mentre
coll'occhio andava a cercare tra le sessanta finestre di casa
Magnenzio una certa finestra verso ponente, a cui soleva mandare le
sue giaculatorie. Era la stanza di Celestina. La trovò, l'ultima
sopra le serre, vi si fermò un istante, e, ricordando che «Frulin»
era malata, un senso di oscura tristezza passò come una nuvola
nell'animo suo. Un grande abbaiamento di cani lo fece uscire dai
suoi pensieri. Si mosse e andò a battere al portone chiuso.
Al rimbombo, che rispose di dentro, si raddoppiò lo sguaiato
abbaiamento, in mezzo a cui risonò la voce poco armoniosa d'una
donna, che sgridava le bestie, inviandole all'inferno.
Il catenaccio interno cigolò un pezzo negli anelli, si aprí uno
sportello, e comparve la figura poco pulita d'una vecchia serva,
che, colle maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, dava maledizioni
con un padellino a quattro o cinque botoli grassi, ringhiosi che si
avanzavano.
- È lei, sor Giacomo? venga avanti.
- C'è il signor Ignazio? - domandò Giacomo alla donna, nella quale
riconobbe una certa Serafina, che aveva servito molto tempo in
palazzo. Si voleva che l'avessero mandata via per poca fedeltà. Sui
passi della donna, attraversò una corte d'apparenza signorile, ma
forse d'aria ancor più umida e tetra che non fosse di fuori.
- Sora Norma - chiamò la serva.
Una bella voce di contralto rispose con un gorgheggio:
- Chi mi chiama?
Ed ecco subito dopo comparire sull'uscio della sala una florida
ragazza, dal portamento soldatesco, coi capelli scomposti sopra un
giubboncello rosso fiammante ornato di alamari d'oro come una divisa
ungherese, che si teneva in braccio una cagnolina appena nata, colla
tenerezza con cui si porterebbe una bimba a battezzare. Gli occhi
grandi e neri come quelli delle famose odalische ebbero un lampo di
gioia. Tirandosi accosto l'uscio, senza però nascondere la bella e
arruffata testa di zingara, la signorina Norma si scusò di non
essere presentabile, e pregò il signor Lanzavecchia di passare nello
studio di papà.
Il signor Ignazio, con indosso una vestaglia da camera a fiorami
rossi su fondo giallo, con un berretto da cavallerizzo in una mano,
stese l'altra mano al caro visitatore, si sprofondò in cerimonie,
che avevano un non so che di frettoloso e di agitato, e, chiesto
perdono per il gran disordine, fece sedere Giacomo in uno stanzino
pieno di vecchi mobili, di quadri, di suppellettili preziose, che
gli davano l'aspetto d'una bottega di rigattiere.
L'ex-impresario, magro, secco, nervoso, col viso volpino di certi
uomini d'affari, si mostrò d'una cortesia infinita, profondendosi in
complimenti, che il suo accento triestino rendeva ancora piú
morbidi. Quando Giacomo fece l'atto di levare il portafogli di
tasca, non volle assolutamente né ricevere, né vedere il denaro:
- Dica alla signora contessa che non intendo far speculazioni sulla
inesperienza di un giovinotto allegro. Don Giacinto ha firmato per
gli altri, ed è giusto che gli usi qualche riguardo; io sono pronto
a rinnovare questi piccoli effetti, che possono valere molto meno di
quel che dicono. Spero invece che la signora contessa vorrà
accontentare quel mio modesto desiderio che lei sa, caro signor
Giacomo, e vorrà cedermi quel pezzo di campo della Colombera a cui
faccio la corte da un pezzo. Questa Rivalta è un cimitero, come
vede, e il mio sogno è di finire i miei giorni al sole. Lei deve
assolutamente aiutarmi in questa faccenda.
- Casa Magnenzio non usa a vendere e non so come potrò persuadere la
contessa...
- Lei può molto, ora, lo sappiamo; e sappiamo anche che può chiedere
quel che vuole a quei signori.
- Sono un magro mediatore - tornò a dire il buon uomo.
- Lei è piú filosofo di tutti, mi lasci dire, e noi dobbiamo fare
della strada insieme. Ora le presenterò mia figlia... - E,
dirizzandosi coi suo passetto scivolante verso l'uscio, chiamò due o
tre volte: - Norma, vieni un po’ qua. - E poi gridò verso la cucina:
- Porta il caffè, Serafina... - E poiché Norma si faceva alquanto
aspettare, egli tornò a sedersi davanti al giovine, pose
confidenzialmente le mani ossute e lunghe sui ginocchi di lui, e,
dopo aver battuto tre o quattro colpetti confidenziali, passò la
mano sul filo di due baffetti sottili, tinti e tirati aguzzi come
punteruoli: - Che piacere che provo, caro professore, di stringere
con lei un po' d'amicizia. Io non sono né un letterato, né un
protettore di letterati, ma so giudicare gli uomini e li peso per il
loro valore. Lei è un uomo, che andrà molto avanti, e per la strada
maestra. Noi poveri affaristi, che siamo costretti a rimestare negli
stracci, non sempre le mani vanno dove si vorrebbe. La scienza
invece è una cosa astratta e pulita; non solo, ma la scienza oggi è
la sola e genuina aristocrazia possibile di fronte a questi contini
e marchesini, che non valgono piú della porcellana rotta. Il mondo,
oggi, è di chi pensa e di chi lavora. Vieni, Norma - disse,
alzandosi di nuovo, andando incontro alla figlia, che entrava col
vassoio del caffè. - Conosci il professor Lanzavecchia? è un
filosofo, che è stato anche garibaldino. La penna e la spada, ecco
uno stemma che mi piace.
Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva
dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè,
ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in
piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri
e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo
giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello.
- Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchi -
esclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza
nelle dita la gota rubiconda della ragazza - e, siccome non ho che
lei al mondo, posso dire che questa è la mia vita. Essa è nata in
America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa?
Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è
morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il
mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di
dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i
palcoscenici colle gonnelle.
- Sposerò un principe russo - uscí a dire la bella creatura con tono
lieto e scioccherello.
- Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai
dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo
padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma.
Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo,
sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele,
con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi,
alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire:
- Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a
definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa
desidera che il conte non ne sappia nulla...
- So rispettare tutte le delicatezze - disse il padrone di casa con
un fare umile umile. - Io spero che il signor Giacomo vorrà
favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di là una piccola raccolta di
monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa
distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che
anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me
lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento.
Norma, accompagna il signor professore...
E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro
vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che
la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle
medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e
sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che
sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla
signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che
mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di
saper anch'essi apprezzare la filosofia.
Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al
sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola
troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio
volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che
Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un
fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al
loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal
uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive
speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza
spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei
due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo
alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che
splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo
del paradiso.
XII
LE DUE DAME DI BUTTINIGO
Da Caserta intanto seguitavano ad arrivare lettere afflitte e
commoventi di Giacinto a mammà, nelle quali il giovane non cessava
dal confessarsi colpevole, pentito, spaventato, inorridito della sua
cattiva azione, in ansia continua, in preda ai piú acerbi rimorsi;
egli sperava sempre che la buona mammà avrebbe saputo trovare
qualche onesta riparazione, che lo salvasse dal rendere i conti e da
uno scandalo. Se mammà lo trovava questo rimedio, egli prometteva di
metter giudizio davvero, di non toccar piú una carta, di non veder
piú un bicchiere, di lasciare le cattive compagnie, di abbandonare
anche la carriera militare, se era necessario, per darsi tutto a una
vita di raccoglimento e di studio. E finí col suggerire il nome
delle buone zie di Buttinigo, che piú di tutti dovevano sentir
compassione di lui, e che avrebbero saputo procurargli i mezzi di
spegnere il fuoco, prima che appiccasse l'incendio alla casa.
Le buone risposte si facevano invece molto aspettare. La contessa
esitava a mettere altre persone a parte di un segreto, che già si
conosceva da troppi. Oltre a miss Haynes e a Fabrizio, dei quali non
avrebbe potuto far senza, essa aveva già dovuto parlarne a Fulvia di
Breno e lasciare che questa ne parlasse a suo marito. Per un
segreto, che essa avrebbe voluto seppellire cento braccia sotto la
terra, eran già troppo quattro persone condannate a tacere. Dal
parlarne alle pie cognate di Buttinigo la tratteneva, oltre al
naturale sentimento di confusione e di rispetto, un piú amaro
risentimento verso sé stessa, sto per dire, un senso di orgoglio e
di dispetto, quasi sdegnasse della sua sventura, non solo il
rimprovero, ma la stessa compassione di quelle illustri ragazzone.
Donna Adelasia e donna Gesumina, che avevano sempre biasimato il
sistema rigido e autoritario con cui la loro nobile cognata credeva
di ben educare un discendente di casa Magnenzio, non avrebbero
saputo, non dico rallegrarsi, che proprio non era del caso, ma
trattenersi dal vantarsi d'aver avuto ragione. Il risultato parlava
chiaro. Il latino, il greco, il tedesco, l'inglese, la storia e la
geografia e tutta la quintessenza del sapere voluta introdurre per
forza in un corpo vivo, come si schiacciano i volumi in uno scaffale
stretto, non avevano impedito che Giacinto scivolasse sulla prima
buccia di cocomero. Per una madre, che si teneva in continue
corrispondenze pedagogiche col canonico Ostinelli, da una parte, e
col signor Lanzavecchia, dall'altra, e che consultava perfin dei
libri inglesi, via, il risultato non poteva essere piú desolante.
Donna Cristina, piú di ogni cosa al mondo, temeva le grandi ragioni
delle anime piccine; e nella sua superiorità morale le temeva senza
aver la forza di disprezzarle. Avrebbe potuto alla sua volta
rimproverare le pie dame di aver voluto con arti e seduzioni segrete
togliere autorità e rispetto all'opera educativa della madre; ma che
le giovava ormai il discutere sopra le ragioni e sopra le
responsabilità? il castigo c'era, e grande e terribile per tutti.
Quando Giacinto seppe che donna Fulvia di Breno era interessata a
fargli del bene, le scrisse una lunga lettera piena di suppliche e
di tenerezze. L'antica amicizia, che legava donna Fulvia a mammà,
aveva abituato il giovine conte a considerare la di Breno come una
persona della famiglia, alla quale si possono fare le confidenze,
che a una madre e a una sorella non si fanno: la chiamava, per
vezzo, la zietta, e si voleva che avesse avuto per lei una poetica
scalmana negli anni della prima fioritura giovanile, quando gli
occhi del ragazzo cercano nella donna un'esperienza matura e non
barcollante.
«Dica a mammà» le scriveva «che è interesse suo e interesse di tutto
il casato di non dare a questo fatto, fin troppo naturale,
un'importanza maggiore di quella che ha. Dal momento che non posso
sposarla, una cameriera, tanto fa che mi risparmi le noie d'un
processo e dei possibili ricatti. Se non bastano quattro, dia otto,
dia dieci, paghi fin dove è necessario, e mi salvi dalle scomuniche
dello zio monsignore, pel quale io non sono già in troppo odore di
santità. Se tarda troppo, ci sarà chi avrà tutto l'interesse a
speculare su questo momento d'oblio, e ne uscirà uno chiarivari da
teatro diurno. C'è a Bergamo un giornalucolo radico-massonico tre
volte fallito, che mi darebbe volentieri in pasto alle belve per
rifarsi d'una certa disdetta, che gli ho inflitta l'anno scorso,
quando ci fui di guarnigione un mese. Si figuri con che gusto questi
va-nu-pieds piglian le occasioni per far guerra al nobilume e al
clericalume! Quindi piú presto si taglia, piú presto si provvede
anche alla gloria di Dio. Dica e ripeta a mammà che, se mi tirano in
una seccatura, se mi obbligano, puta caso, come dice il canonico
Ostinelli, a lasciare il servizio, vado in Africa e non mi lascio
piú vedere, come un esploratore qualunque».
Donna Fulvia rispondeva, sempre in nome di mammà, che lo scoglio
pericoloso era la paura di un certo cugino, che vantava dei diritti
sulla ragazza. E Giacinto, di rimando:
«Credo di ricordarmi questo cugino, e, se la memoria non m'inganna,
non mi pare uomo da amare gli scandali. Non so fin dove si possa
arrivare con lui, perché da un pezzo l'ho perduto di vista; ma, se
il signor Lanzavecchia è ancora quel buon figliuolo che mangiava i
miei pasticci ai tempi della nonna, non può essere né un
mangiapreti, né un fanatico divoratore di aristocratici. Non ha egli
studiato coi frutti d'un nostro beneficio ecclesiastico? non ha
rosicchiato per molti anni il nostro pane? Se è vero che vuol bene
alla ragazza che gusto deve avere di metterla in piazza? dica di me
quel che mi merito; non sarei lontano dall'offrirgli delle scuse e
anche delle soddisfazioni; si badi soltanto a non fare di lui un
terribile alleato dei nostri nemici. Insomma, levatemi da queste
angustie, che mi fanno patire le pene dell'inferno. In certi momenti
mi prende una tale disperazione e un tale orrore di me che, se non
fosse la fede del soprannaturale, mi farei saltare le cervella con
un colpo di pistola».
Eran queste frasaccie, che non lasciavano dormire mammà. Nei San
Zeno non era sconosciuta questa tendenza a esaltarsi e a ricorrere a
rimedi disperati. Essa per la prima si risentiva di questa
disposizione di razza in certi momenti, in cui le pareva che il
sangue le facesse scoppiare la testa, che il cuore le saltasse fuori
dal petto, che la terra le mancasse sotto ai piedi, che cento
fantasmi la inseguissero. La sua stessa incapacità a scegliere un
piano di battaglia era forse un'altra prova di un temperamento che
si lasciava eccitare troppo presto e si logorava in dolorose
incertezze. Ogni rumore era diventato per lei una cagione di
sgomento, talché bastava che vedesse spuntare dal viale il Camillo
della posta colla sacca delle lettere, per provare un tuffo del
sangue, un angustioso rammollimento del suo povero cuore.
Finalmente una mattina (verso la metà di ottobre), parendole che
ogni risoluzione fosse migliore di quell'atroce agonia, ordinò la
carrozza e andò a trovare le due sante di Buttinigo.
Era una giornata piovigginosa con sparso nell'aria un primo brivido
invernale.
Infossata nell'angolo della carrozza, cogli occhi fissi al
finestrino, passò in mezzo alle case, davanti alle siepi, lungo i
filari dei gelsi, all'orlo delle vaste e brune campagne già umide di
guazza, senza veder nulla, tranne il suo dolore, che, come spina
velenosa, trafiggeva la sua vita.
Dopo quasi un'ora e mezzo di viaggio per le strade malinconiche e
fangose, che correvano verso la pianura, la carrozza voltò nel lungo
viale di robinie, che mena alla villa delle due contesse.
Queste abitavano nell'antichissima casa, che le aveva viste nascere
e che probabilmente, se Dio teneva conto dei loro meriti, le avrebbe
viste morire. In quel loro palazzone senza architettura, dai muri
lividi, dalle cento persiane chiuse, color brodo, passavano le loro
giornate d'estate e d'inverno in una beata agiatezza, rallegrando la
vita con modeste opere di beneficenza, coi pettegolezzi del
villaggio e delle anticamere, col tarocco e colle tazze di
camomilla.
Vestivano sempre in modo eguale come due mosche, con antica eleganza
e con quel decoro che non escludeva i pizzi, gli anelli, i
braccialetti, e, nelle giornate calde, perfino un po' di
trasparenza, che lasciava vedere la carnagione bianca e ben
conservata delle loro braccia e delle spalle rotondette. Per diritto
di patronato esercitavano una tal quale supremazia sulle quattro
monache dette della Noce, che un Magnenzio dei secolo XVII aveva
dotate coll'obbligo di soccorrere dieci orfanelle. Queste pie
religiose, che, dopo il Signore e la Madonna e i Santi, veneravano
donna Adelasia e donna Gesumina quasi come il Papa, sentivano
l'obbligo di coscienza di tenerle regolarmente informate, non solo
di tutte le indulgenze che vanno attaccate alle vigilie, ai tridui e
alle novene, ma anche del bene e del male che si diceva di tutti i
preti per un circuito di dieci miglia all’intorno. L’arca santa,
cioè il carrozzone foderato di stoffa color castagna colle frangie
bianche, dondolante sulle ampie molle, coi passamani guarniti di
fiocchi, coi terribili draghi azzuffantisi sulle portiere, usciva ab
ímmemorabili due volte per settimana, tempo permettendo, ogni
martedí e ogni sabato, affidato alla prudenza di Rebecchino,
invecchiato anche lui come una castagna secca nella livrea, che gli
faceva un guscio troppo largo. Al martedí uscivano dalla parte del
bosco, facevano una piccola sosta alla Madonnina, dove scendevano a
salutare Maria Santissima, comperavano dodici biscotti freschi alla
bottega del Caminada, e col trotto sempre uguale dei due pesanti
cavalli ritornavano a casa dalla parte del molino. Al sabato la
carrozza usciva dalla parte del molino e allora i biscotti li
comperavano prima di salutare Maria Santissima.
Donna Gesumina, nella sua vecchia innocenza molto ben conservata,
riconosceva volentieri nella sorella maggiore, che era stata
fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, l'autorità
d'interloquire in molte cose delicate, che sfuggono all'inesperienza
d'una zitella; e per parte sua, donna Adelasia, mentre si sentiva
lusingata da questa affezione rispettosa e sottomessa, parlando
della vecchia ragazza, usava un tono di dolce compatimento, come si
fa coi bimbi che hanno bisogno di protezione. Quantunque facessero
la vita in comune, si alzassero alla stessa ora, bevessero e
mangiassero insieme nello stesso salotto e discutessero insieme col
Rebecchino su quel che si aveva a preparare in occasione degli
inviti straordinari, pure era tale la deferenza di donna Gesumina
per donna Adelasia che, senza accorgersi, vedeva, pensava e parlava
colla volontà della sorella; fin al punto che, se questa sentivasi
la bocca amara o una trafitta in una gamba, pareva anche a lei
d'aver la bocca amara e la gamba indolenzita. Questa fusione di due
anime e di due corpi, consolidata da cinquant'anni di vita comune,
era diventata cosí intima e omogenea che le due vite non facevano
piú che un metallo solo, il quale, toccato, dava un suono solo,
perché le vibrazioni dell'una non potevano essere che le vibrazioni
dell'altra. Non era possibile, per esempio, che una cioccolata
avesse fatto peso all'una e non all'altra; o che l'una sentisse il
bisogno di prendere due dita di magnesia calcinata, senza che questo
bisogno non ci fosse anche dall'altra parte. Se non oggi, avrebbe
fatto bene domani.
Le due signore stavano nel gran salone a pian terreno verso la
corte, che serve di galleria ai ritratti degli illustri antenati,
dove passavano gran parte delle loro tranquille giornate. Donna
Gesumina, per rompere la tetraggine del tempo, ripeteva sul
pianoforte le vecchie variazioni sul «Carnevale di Venezia», ch'era
stato il suo piccolo trionfo all'Accademia finale nel Collegio delle
dame inglesi, la bellezza di quarant'anni fa; quando donna Adelasia
che ricamava a un telaio presso la vetriata, sorse improvvisamente a
dire:
- Guarda un po', Gesumina, chi arriva con questo tempo.
La carrozza di donna Cristina entrava in quel momento nel cortile
sotto una pioggia fitta.
Le due dame, che non aspettavano anima viva in un giorno come
quello, quando ebbero riconosciuto nella signora elegante, che
discendeva, la bella figura della loro cognata, mandarono una
esclamazione sola:
- Che cosa può essere accaduto?
E ancora piú si sgomentarono quando, dal passo incerto, dal pallore,
dall'affanno con cui la contessa entrò in sala, capirono che qualche
cosa di grosso era nell'aria.
- Donna Cristina, con questo tempo? non è mica successa una
disgrazia...
Donna Adelasia invitò la parente a prendere posto nell'angolo a
destra, dove essa soleva ricevere il lunedí e il mercoledí. Donna
Gesumina riceveva ogni giovedí nell'angolo a sinistra. Le piccole
differenze d'opinione e di metodo potevano far nascere delle
diffidenze, ma scomparivano nel gran rispetto che le due dame
avevano per la virtú di donna Cristina di San Zeno, nipote d'un
vescovo, una delle piú specchiate signore della buona nobiltà; e
quand'anche maggiori e piú crude fossero state le loro diffidenze,
sarebbero scomparse allo stesso modo nel cerimoniale largo e
ospitale, con cui le vecchie dame continuavano le tradizioni della
casa con quel bel decoro che va cedendo il posto, pur troppo, a un
borghesismo senza elevatezza e quasi senza dignità.
Le tre signore, dopo aver ben osservato che le porte fossero chiuse,
rimasero una mezz'ora in vivo e segreto colloquio. Quando la
contessa ebbe esposto il caso, che l'aveva condotta a Buttinigo, con
quella delicatezza di parole che il rispetto a sé stessa e alla
religione delle parenti esigeva, tornò a piangere cosí amaramente da
far temere una crisi di nervi. Donna Adelasia afferrò subito la
gravità della disgrazia e sospirò una breve orazione; e, dopo aver
congiunte le mani due o tre volte in atto di scongiuro, vedendo che
la contessa era in procinto di perdere le forze, si mosse, levò
colle mani tremanti da uno stipo intarsiato la boccetta dell'acqua
di cedro, ne riempí tre bicchierini di cristallo, e insistette
perché ne bevesse anche la Gesumina.
- O Madonna beata, e ci sarebbe forse già il carro davanti ai buoi?
- chiese la maggiore delle due sorelle.
Donna Gesumina, che nella sua semplicità di spirito non poteva
entrare in tutta la gravità di questi buoi e di questo carro,
volendo con una frase interrompere quel pianto nervoso, che le
straziava il cuore, provò a dire:
- Non si potrebbe intanto far fare una bella novena alla Madonna?
- Taci, taci - rimproverò con fare tra il burbero e il
compassionevole la sorella maggiore, accompagnando le parole con un
gesto che pareva dire:
- Ci vuol altro che novene adesso!
Gesumina capí che non era il suo posto, e si ritirò in disparte per
permettere alle due dame di parlar piú liberamente.
- Se Giacinto fosse un servitore - riprese donna Adelasia,
interpretando il lungo silenzio della contessa come una confessione
- se fosse il figlio d'un fattore, o che so io? un esercente, un
professionista, il suo dovere, anche davanti alla nostra santa
religione, sarebbe di sposare la ragazza, coûte qui coûte.-. Chi è
causa del suo mal pianga sé stesso, ha detto Metastasio; ma nella
sua condizione sociale il caso è piú difficile: un conte non può
mica sposare una cameriera.
- Sicuro, Madonna benedetta! - fece dal suo cantuccio donna
Gesumina, che cominciava a capire qualche cosa.
- Noi abbiamo dei doveri non solo verso i vivi, ma anche verso i
morti e verso quelli che verranno. Per la colpa d'un povero ragazzo,
che sarà stato tirato nelle tentazioni, non si possono sacrificare
le tradizioni e il decoro di due antichissime famiglie. Non si
scherza! Che cosa dirà monsignor vescovo e nostra cugina monaca...?
- Che ora voglion nominare superiora! - completò Gesumina, che
pareva un'anima smarrita nello spazio vuoto del salone.
- Ci sono doveri e doveri, non è vero, donna Cristina? - insinuò
donna Adelasia.
- Ho io mancato al dovere di madre? - uscí a dire con appassionata
tristezza la contessa, a cui la parola dovere risvegliò quasi
nell'animo un acerbo risentimento. - Fu appunto per educare mio
figlio a sentimenti elevati di virtú e di dignità che ho combattuto
tutta la vita. La nobiltà ha i suoi doveri, sí, donna Adelasia; ma
nessun dovere si compie bene, se manca la forza morale e
l'educazione della mente. Se qualche volta ho potuto sembrare
rigorosa verso questo disgraziato, era per tentare di sottrarlo con
tutte le mie forze alla decadenza fatale che ci perseguita e al
contagio degli oziosi suoi pari. Sono stata troppo superba e Dio mi
ha castigata.
Il tono doloroso, non privo di dignità, col quale donna Cristina
pronunciò queste parole, sgomentò non poco le due vecchie zitelle,
che, incapaci di entrare colle loro piccole cuffie in un concetto
superiore, si affrettarono a chiedere mille perdoni, dimostrando che
ci doveva essere stato qualche malinteso nelle parole.
- Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo
dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto...
- Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre,
stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia.
I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa,
bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché
nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un
dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il
disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che
avrebbero potuto disinteressarsi del povero ragazzo e danneggiare
col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva
che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla
casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e
occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente,
sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in
prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un
certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della
Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare
di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo
martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove
sarebbero andate colla carrozza a prenderla.
E rimasero in quest'accordo.
XIII
DUE POVERE ANIME
La vita della povera Celestina, dopo l'impensata tempesta, in cui
era naufragata la sua felicità e la sua innocenza, si sarebbe potuta
somigliare alla continuazione d'un inquieto, interminabile sogno.
Quello sforzo che la sua coscienza aveva fatto la notte fatale per
afferrare la realtà del suo patimento, per liberarsi dall'incubo,
dai lacci della sonnolenza, durava ancora e, perdurando, si
trasformava in uno spasimo morale, in cui si sentiva avviluppata
come in una rete tagliente.
Un senso di doloroso stupore intorpidiva i suoi movimenti e la
rendeva più che sonnambula, cieca e sorda davanti alle cose e alle
persone che la circondavano. Se non che di tratto in tratto un
pensiero piú vivo, guizzando come un lampo sinistro nell'oscurità
degli altri, rischiarava momentaneamente tutto l'orrore dell'abisso
in cui l'avevano gettata, e allora erano gridi strazianti, che
uscivano dalle tenebre del suo cuore a invocare aiuto e
misericordia.
In questo stato l'aveva trovata la contessa quella mattina che,
uscendo dalla sua stanza dopo la confessione di Giacinto, era corsa,
prima ancora che albeggiasse, a cercarla nella sua cameretta; e ve
la trovò coi ginocchi a terra, quasi svenuta, colla testa sepolta
nelle coltri, colle mani intirizzite dentro i capelli. Solamente la
carità, la tenerezza, le lagrime, le supplicazioni, le promesse e le
lusinghe della povera signora poterono ridestarla dal profondo
terrore e salvarla da un repentino impeto di disperazione, che in
quel primo momento la spinse verso la finestra.
A poco a poco la sua riflessione, guidata da una mente piú forte
della sua a giudicare del suo stato, la paura di uno scandalo
pubblico, la vergogna di sé stessa, lo stordimento stesso di tutti i
suoi sensi, giovarono a trattenerla per qualche tempo in un riserbo,
che diede tempo alla contessa di preparare le prime difese. Nelle
braccia della povera signora, colla testa appoggiata al suo petto,
nel quale versò fiumi di lagrime, sentí a poco a poco venir meno
molti istinti di ribellione. Molti gridi morirono sotto la pressione
d'una mano leggiera, ch'essa era solita baciare con amore. La povera
servetta sentí troppe volte battere vicino al suo un altro cuore, il
cuore della madre, non meno agitato e spaventato del suo, e non ebbe
la forza d'imprecare, di maledire, di chiedere vendetta. Si lasciò
intenerire, ricadendo, come per desiderio di riposo, in un
assopimento, che non arrivava fino a uno stato di dimenticanza.
Allora ciò che era accaduto non le pareva piú accaduto; sottentrava
una tenue illusione che il sogno affannoso potesse da un momento
all'altro rompersi e finire; mostravasi la Celestina naturale degli
altri giorni, e poteva nella sua intera illusione illudere gli
altri. Seguendo l'incanto d'una dolce ipotesi, pensava non essere
possibile che in casa di cosí bravi e buoni signori avessero potuto
farle un cosí gran male. Perché l'avrebbero ingannata e presa dentro
a una rete? la contessa non era quella santa e cara signora che essa
venerava come la Madonna? e donna Enrichetta non aveva dell'angelo
perfino il profilo? e quel buon conte, cosí alla mano e cosí
popolare, poteva essere complice di un tanto delitto? era dunque
proprio vero che avessero abusato cosí slealmente della sua buona
fede?
Tra queste consolazioni, che essa spremeva dal suo pensiero e che
somministrava a sè stessa come un calmante, che dà un minuto di
sonno e di oblio, per un subitaneo ritorno di sovraeccitazioni
fisiche, si risvegliavano le acri sensazioni del supplizio. Nella
brutale rivelazione di un mistero, che nessun amore aveva abbellito,
che nessuna benedizione aveva santificato, ma nel quale essa era
piombata come dal buio della notte in un braciere ardente, tutta la
sua vita era rimasta sconvolta e disorganizzata. Un tal disastro
avrebbe potuto essere l'agonia d'ogni altra creatura, ma per lei,
per lei che amava un altro uomo...
Non poteva fermarsi un attimo sul pensiero di Giacomo, né udir
pronunziare il suo nome, né prevederne il sopraggiungere, senza
sentire tutto il suo sangue andare dal cuore alla testa e dalla
testa al cuore come un torrente di fuoco. L'impulso era di correre
da lui e dirgli tutto, subito: ma gli avrebbe piantato un coltello
nel cuore. Avrebbe egli creduto alla sua innocenza? non era meglio
seppellirsi viva piuttosto che andargli davanti cosí indegna? A
questo suo povero Giacomo essa si sentiva legata da un'antica
promessa, che non aveva mai avuto bisogno di essere pronunciata.
Quando avesse cominciato il suo cuore ad appartenergli non avrebbe
saputo dire. Forse era sempre stato suo.
Raccolta bambinella in casa dello zio Mauro, era cresciuta con
Giacomo, accanto a Giacomo, all'ombra sua, quasi sui suoi ginocchi,
come una piccola rosa innestata sul tronco d'una quercia. La casa,
l'aia, la vignetta, la loggetta erano stati il loro regno comune per
tutto il tempo che Giacomo stette presso i suoi. A lei non era parso
di perderlo nemmeno quando tutti le dicevano, scherzando, che lui
sarebbe diventato un vescovo. Nessuno meno di lei si era
meravigliata quando, buttata la veste nera alle ortiche, Giacomo
ricomparve ancora libero della sua volontà. Tutto questo era nel
giro naturale delle cose. - Per me - gli disse quel giorno che le
tornò davanti non piú prete - per me tu saresti sempre stato il mio
padrone e io la tua serva.
Essa aveva allora poco piú di quattordici anni; ma quando, qualche
anno dopo, scoppiò la guerra, e il cugino partí con Garibaldi, oh!
allora aveva cominciato a capire che l'amore è un patimento. Durante
tutto il tempo della disgraziata campagna, furono per lei giorni e
notti d'angoscie inesprimibili. Il suo cuore sentí tutte le
fucilate, che potevano uccidere il suo povero Giacomo. Finalmente
egli scrisse che sarebbe ritornato, e ritornò veramente, piú bello
nella bella camicia rossa del garibaldino, che non fosse stato mai,
col viso abbronzato, colla barba cosí lunga, che non osò piú dargli
del tu. Non poté piú guardarlo senza arrossire, fuggiva davanti a
lui per una inesplicabile paura; le fucilate continuarono nel suo
cuore anche a guerra finita; e nel parlargli col «voi» metteva in
questo pronome nuovo un sentimento nuovo di rispetto e di
venerazione, come se cercasse di sostenere in una parola piú larga e
piú sostenuta la gran gioia che traboccava da tutte le parti. Che un
giorno dovessero sposarsi era cosa tacitamente ammessa da loro e da
tutti quelli che li conoscevano. Tutto si riduceva a una questione
di tempo e di circostanze. Che cosa importava che fosse oggi o
domani? Giacomo riprese a studiare nei libri latini, e qualcuno
assicurava che avrebbe col tempo dato alle stampe qualche cosa di
bello; ma allora non passò nemmeno per la mente a «Frulin» che il
latino potesse guastare l'amore. Anche i sapienti hanno bisogno, e
forse piú degli altri, che qualcheduno voglia loro del bene. Cosí
erano passati gli anni in una dolce aspettativa, fino al giorno che
Giacomo le consigliò di entrare al servizio della contessa per
sollevare lo zio Mauro e per mettere in disparte un po' di corredo.
Egli sperava in un certo premio, pel quale lavorava sempre. Un anno
ancora di pazienza, e poi chi sa? Aveva diciott'anni, quando la
contessa la condusse nel Cremonese; e anche nella nuova casa non
tardò ad acquistare la benevolenza di tutti. Il cuor contento, pieno
di speranza, dava alla sua soda bellezza di ragazzona campagnuola
un'affascinante espressione di giovialità. Al vecchio conte faceva
allegria soltanto a vederla passare col secchiello dell'acqua o col
cesto della biancheria. Non abituata ai salamelecchi e al
cerimoniale compassato dei signori, che hanno molto tempo vuoto da
riempire, quel suo andar per le lisce, quel suo parlar brianzuolo
cosí pronto, cosí gustoso di proverbi, con cui sapeva difendersi
tanto dagli adoratori platonici in guanti come dalle tenerezze
troppo espansive dei servitori, aveva servito a rallegrare una casa
che a molti pareva fin troppo imbottita di dottrina cristiana e di
filologia. Donna Cristina, volendo raccogliere questa bellezza
troppo vistosa, finí col dare l'ultimo tocco di pennello a un bel
lavoro della natura: e fu appunto questa bellezza cosí fiorente,
resa affascinante dal grembiulino e dalla cuffietta alla normanna,
che colpí in pieno la fragilità di don Giacinto.
Aveva cominciato anche lui, durante una breve licenza d'inverno, a
corteggiarla con qualche elegante facezia; ma chi bada a quel che
dicono i signori, quando vogliono canzonare una povera ragazza? Una
volta però essa minacciò il giovine di dire tutto alla contessa, se
non la lasciava stare; e per fortuna il signorino fu richiamato al
reggimento. Venute le vacanze d'autunno, don Giacinto tornò due o
tre volte all'assalto; ma di nuovo essa lo pregò di non dare questo
dispiacere alla signora. Fu durante il tempo delle corse d'estate,
verso la fine d'agosto, che tornato improvvisamente al Ronchetto,
dopo il celebre trionfo di Messalina, che gli aveva fatto tracannare
una quantità enorme di sciampagna, fu in un momento di vertigine e
di esaltazione sensuale che il suo cattivo genio lo condusse a
varcare, nel silenzio istigatore della notte, una soglia, che
avrebbe dovuto, per il bene suo, della sua mamma, della sua casa,
sprofondargli sotto ai piedi. La ragazza, snervata dal sonno della
sua età, si trovò nel male, prima che avesse tempo di aprire gli
occhi.
Eran quasi passati due mesi da quell'ora terribile, due mesi, in cui
due povere donne, avvicinate dallo stesso dolore, come possono
soffrire due cuori trafitti dalla stessa spada, vedevano avvicinarsi
ora per ora, minuto per minuto, il giorno che avrebbero dovuto
chiamar Giacomo a giudice di un delitto. Questa fatalità si poteva
con cento artifici nascondere e ritardare, ma i giorni passavano,
passavano le notti insonni, e crescevano le responsabilità insieme
agli spaventi.
Donna Cristina, che temeva la solitudine de' suoi pensieri, chiamava
spesso di notte la ragazza nella sua camera (il conte per riguardo
al suo cuore dormiva abbasso accanto allo studio), e vegliando con
lei, pregando insieme colle quattro mani legate dallo stesso
rosario, cogli occhi fissi nell'immagine dell'Addolorata, cercavano
di prepararsi ad affrontare il terrore della loro situazione.
Nell'ardore di quel tormento, che le consumava, scomparivano le
differenze sociali; nel proprio dolore ciascuna sentiva l'altra, si
compassionavano come sorelle e si eccitavano a vicenda con isquisite
suggestioni. La raffinatezza di questa cura, mentre esauriva le
forze dell'infermiera non era tale da infondere coraggio e quiete
nella malata. Al contrario, i momenti di inquietudine nervosa si
facevan piú frequenti, piú spesse tornavano le allucinazioni, le
visioni, i terrori fatui, che facevan balzare la ragazza dal letto e
trasalire la contessa nel mezzo de' suoi sogni torbidi e posticci.
Durante certe notti, in cui la povera vittima non poteva chiudere
occhio, toccava alla contessa scendere, tre, fin quattro volte, dal
letto, attraversare il piccolo corridoio, che divideva la sua stanza
da quella della ragazza, inginocchiarsi ai piedi dell'altro letto,
pregare la sofferente di non piangere piú, di non farsi sentire da
Enrichetta, che dormiva poco lontano, la carezzava, le sussurrava
orazioni e paroline di pace, la segnava colla croce, le metteva sul
petto un crocifisso o vecchie reliquie benedette, finché la
stanchezza e il cloralio tornassero ad assopirla.
Qualche altra volta, entrando nella stanzetta, trovava la
disgraziata seduta sul letto, colle mani morte sui ginocchi,
immobile come la statua della meditazione, insensibile al freddo,
sorda alla voce di chi la chiamava, con tutte le facoltà concentrate
e ipnotizzate in una sola idea, che si condensava nell'oscurità: che
cosa doveva dire al suo Giacomo?
Di mano in mano che si avvicinava il tempo di tornare a Cremona
(ritorno che avveniva sempre nell'estate di San Martino), la
contessa, che vedeva la necessità di prendere una deliberazione,
cominciò a parlare alla ragazza di queste sue buone parenti di
Buttinigo, che l'avrebbero ricevuta volentieri. «Il luogo è quasi un
convento, quieto come una chiesa, fuori dagli occhi del mondo. Nella
compagnia delle buone signore, due vere sante, e nella vicinanza
delle monache della Noce, avrebbe trovata la forza e la pazienza di
sopportare la sua disgrazia, insieme ai balsami della religione e
della carità. Cosí toglieva alla gente ogni occasione di sussurro, e
dava a lei più libertà di preparare l'animo di Giacomo a ricevere il
terribile colpo. Del bene se ne può fare dappertutto e in ogni
stato: e se il Signore teneva conto del suo grande sacrificio,
doveva un giorno rimunerarla con qualche grazia particolare.
Qualunque fossero i suoi bisogni e i suoi desideri, avrebbe sempre
trovato in lei una madre amorosa e riconoscente». E per dimostrarle
che la sua compassione non era fatta di sole parole, le regalò e le
mise al collo una preziosa crocetta di lapislazzuli, che una sua
amica aveva portato da Lourdes: l'obbligò ad accettare una somma di
denaro per far fronte ai bisogni e per accontentare qualche
capriccio.
Con questo minuto lavoro di antiveggenze, di ingegnose astuzie, di
raffinatezze femminili, che alla povera signora, non abituata agli
artifici della simulazione, costavano notti intere di pensieri e di
spasimi, le riusci di ridurre a poco a poco l'animo incolto e non
indocile di Celestina, se non alla rassegnazione passiva, a
considerare almeno il suo stato con meno tremito, con minore
ribellione di spirito. Tutto il fascino, che una maggiore educazione
di spirito, la forza della mente e gli splendori incantevoli della
ricchezza possono esercitare su una natura primitiva, incapace di
troppo lunghe resistenze, fu messo in opera dalla madre spaventata,
colla rapida e sgomentata destrezza che c'insegna e fuggire da un
pericolo incalzante; arrivò fino a far tacere, fino a respingere
qualche rimorso, che il delicato senso della rettitudine naturale e
della carità andava sollevando. In questa tremenda battaglia donna
Cristina Magnenzio sapeva d'aver in giuoco la vita e l'onore de'
suoi figli; e senza aver mai letto i consigli del Machiavelli, piú
che ai modi del vincere badava a vincere presto.
La ragazza agli ultimi di ottobre, nella sua integra ignoranza, non
sospettava ancora quel che non era piú un dubbio per l'esperienza
della madre: per evitare che questa nuova coscienza le nascesse in
casa, prima che l'intimo mistero si annunciasse con qualche moto, la
signora si affrettò a sfruttare tutti i buoni propositi e le ultime
debolezze della vittima.
Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e
indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa
della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa
partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai
di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che
sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe
loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa
centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco,
che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga,
dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a
lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare.
Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe
mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che
restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita
perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta.
- Addio, povero Giacomo... - fece la misera, con voce rotta, ma
senza piangere.
- Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che
hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il
Signore ti ricompenserà... - Cosí cercò di consolarla la contessa
con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore
angustia.
Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del
riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver
risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada
provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro
le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea
delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica
distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si
facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non
interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono
borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle
quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il
rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di
lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale,
inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada
bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che
suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che
la menassero, come si dice, a perdersi.
«Addio, povero Giacomo...» ripeteva in cuor suo a lontani
intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tutto quello
che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se
al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo
delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le
Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse
scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma
che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto
contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla
lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia
sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti.
Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto
alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né
lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non
poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan
fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere
per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con
impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di
questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli
uomini, al suo Giacomo, al suo angelo...
Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo
di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la
contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero
sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare
quel che non poteva piú essere.
- Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? -
balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano
della signora.
- Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza.
- E gli dica che cerchi di perdonare anche lui... - soggiunse la
poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza.
Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio
a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle
sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima
vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori
dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per
non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva
fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e
ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano
ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo
contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con
quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva
parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso
le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere
frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le
coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e
al petto.
Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto
erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla
vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la
portiera.
- Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è?
- Donna Adelasia aspetta in chiesa.
La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono
nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con
frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a
molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un
segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella.
Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le
quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e
lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un
carro in corsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran
voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo?
che cosa dicevano queste voci lamentose?
La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal
sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una
mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la
signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella,
accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna
Cristina le disse piano:
- Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia.
Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia
nel Signore...
Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del
vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la
supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e
quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire
che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col
braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una
preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il
vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò
sul banco.
Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della
chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col
guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il
Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa.
L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli
occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una
stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime
cristallizzate.
XIV
LE PRIME SCARAMUCCE D'UNA GRANDE BATTAGLIA
Giacomo, dopo aver messo un po' di pace in casa e un po' d'ordine
negli affari, aveva da qualche tempo ripigliata la correzione del
suo libro sull'Idealismo, al quale stava per aggiungere una lunga
nota sulla virtú educativa del dolore, suggeritagli dalle malinconie
delle ultime esperienze. Facile a trovare nella ricchezza e
nell'indulgenza del suo cuore la giustificazione di quel che è, si
lasciava di nuovo dolcemente trascinare a un concetto roseo della
vita, persuaso sempre piú che gli uomini, anche quelli che passan
per malvagi, sono cattivi piú per la loro insufficienza a
comprendere il bene che non per cattiva disposizione o per un odio
dichiarato alla giustizia. Il dolore viene sempre a tempo, quando
gli errori e gl'inganni nostri son maturi, maestro di logica morale,
onesto giudice liquidatore nel gran fallimento delle nostre
presunzioni. «Soffrire è conoscere, e conoscere è perdonare. La
filosofia senza la dolorosa esperienza potrà essere un bel cartone,
non sarà mai il libro della vita».
Questi concetti scaturivano ancora spontanei dalla sua penna, mentre
il sole nitido delle ultime giornate di ottobre entrava a illuminare
la stanzuccia del filosofo, che di tempo in tempo si moveva a
cercare l'ispirazione e gli elementi del pensiero a due boccate di
peppinetta, o andava a consultare Blitz, che sonnecchiava al sole
sulla loggetta. Molte brighe l'aspettavano dentro e fuori
dell'uscio, ma non disperava di saper col tempo e colla pazienza
dipanare la matassa. Col signore della Rivalta, che si era fatto
raccoglitore unico di tutti i crediti del fallimento, aveva
concretato un affitto di sei anni, dietro il corrispettivo d'un
proporzionale pagamento d'interessi. Ma Battista, che avrebbe dovuto
prendere la direzione dell'azienda, indispettito di non poter
sposare la Fiorenza, giurava che non avrebbe piú toccato un mattone.
Era difficile anche per un filosofo pacifico come Giacomo far
entrare in quel testone, che i tempi non erano piú quelli di prima,
che bisognava fare di necessità virtú, rassegnarsi a lavorare per
conto degli altri, e ringraziar Dio, se lasciava un tetto per
dormire al coperto e un pezzo di pane tutti i giorni. Battista,
coll'ostinazione delle teste dure, che vedono in tutto ciò che non
capiscono una mancanza di rispetto alla loro ignoranza (e in questa
fissazione poteva vantare un bel numero di compagni anche tra coloro
che sanno leggere e scrivere), andava ripetendo che Giacomo, il
sapientone, non era un asino, perché mirava a stringere tutto nelle
sue mani per far la parte del leone; perché, dopo aver sempre
vissuto alle spalle della famiglia, senza mai sporcarsi le mani
colla terra, ora la moglie voleva prendersela lui e far lavorare gli
altri a mantenerla. A questi patti egli non ci stava. Gli dessero la
sua parte, ed egli se ne sarebbe andato fuori dei piedi. E per
quanto Giacomo si martoriasse a dimostrargli coi registri alla mano
che di parte da dividere non ce n'era piú per nessuno, Battista
opponeva sempre quel sorriso tra il fatuo e il sarcastico, che vuol
dire: «A me non la si dà a bere!». Parlava anche lui di voler
ricorrere agli avvocati, e intanto andava a cercarli tra i villani i
suoi avvocati, tra i barcaiuoli della riva, tra i fannulloni
dell'osteria.
Avendo una volta riscosso a insaputa di Giacomo, un vecchio credito
da un cliente di Merate, si tenne le cento lire per sé, e, vestito
coi panni della festa, passò il lunedí sulla soglia della Fraschetta
a biscantare coi soldati coscritti e a dir peste dei filosofi
intriganti. Tornò a casa col grugno torvo, col proposito violento,
coll'occhio acceso dal vin cattivo, e, picchiando de' grandi colpi
sulla tavola, cominciò a gridare che voleva veder la carta, cioè il
testamento del pà, perché era nel suo diritto di prender moglie,
come tutti gli altri, voleva andar fuori di casa e lavorare per
conto suo; e mille altre cose voleva, che Giacomo non gli poteva
dare in nessuna maniera. E quando questi, perduta la pazienza, gli
disse una volta che, se voleva proprio andarsene, la porta era
aperta, fu come dar fuoco a una bomba. Ferito nel suo diritto,
acciecato dall'odio, Battista, dopo aver teso il pugno in aria, si
scagliò sul fratello, urlando come un disperato:
- Ah, per te e per la tua smorfia i denari ci sono, brutto
mangialibri: aspetta cane... - Ma la Lisa, che aveva ormai fatto
l'orecchio a questa musica, si cacciò in mezzo e, menando le lunghe
braccia simili a due manichi di scopa, che giocassero di scherma,
alzò la voce stridula come un vecchio telaio, lasciando cadere un
tal diluvio di parole che i due uomini non ci sentirono piú. Stordí
l'ubbriacone, gli innaspò la vista con quelle sue mani che non
finivano mai, lo spinse fuori dell'uscio, che chiuse con fracasso,
facendo tremare la casa dai fondamenti; e voltasi verso Giacomo,
fece capire anche a lui ch'era tempo di finirla.
La povera mamma che ci poteva fare? Seduta nel cantuccio del camino,
non aveva gli occhi che per piangere e la voce che per sospirare.
Dopo la scomparsa del suo Mauro, che in quarant'anni di matrimonio
le aveva levata ogni energia di pensare a qualche cosa la quale non
fosse già stata pensata e comandata, ora rimaneva lí, come un
orologio, a cui sia stato tolto il meccanismo, che puoi ancora far
andare col dito; ma da sé, l'indice fermo sopra un'ora, non si
moverebbe in cent'anni. Dal dí che la discordia era entrata nella
sua casa insieme alla miseria, essa non aspettava che d'essere
mandata via da un momento all'altro dai creditori. In ogni faccia
nuova, che comparisse sull'uscio, credeva di vedere un esattore, o
un usciere, o un nemico, che venisse a portar via l'ultima sedia; e
non ci voleva che la parola autorevole di Giacomo per persuaderla a
non lasciarsi morire di tristezza.
Ad onta di tutte queste tribolazioni, Giacomo non disperava di
vincere la dura partita. Se quel bestione di Battista non voleva piú
lavorare, avrebbe lavorato lui in suo luogo. À la guerre comme à la
guerre. Il dirigere una fornace e il far cuocere dei tegoli non è
poi un mestiere piú arduo che l'inventare una spiegazione probabile
del mondo. Qualcuno aveva già riconosciuto in lui il bernoccolo
degli affari, e veramente, senza ch'egli osasse insuperbire per
questo, sentiva che a far meno male di chi fa peggio non occorre un
genio particolare. L'ingegno serve in ogni cosa, tranne qualche
volta che a far dei libri. Col lume della retta osservazione, col
provvedere a tempo, coll'ordine nelle piccole cose, che sono i
mattoni delle grandi, in men d'un mese poté raddrizzare il
baraccone, che suo padre aveva lasciato molto sconquassato.
Pacificato il mugnaio del Lavello, ritirata una ricevuta definitiva
dall'oste della Fraschetta (e in questi bisogni il denaro anticipato
dai suoi benefattori del Ronchetto fu una vera provvidenza),
accontentato qualche altro creditore più inquieto, egli aveva visto
ritornare a poco a poco gli antichi clienti e i carri carichi di
materiale passare e ripassare davanti alla casa, come ne' tempi
migliori. Dove egli avesse potuto trovare tanto credito e tanto
denaro era per tutti un mistero. La gente sa benissimo che la
scienza e la filosofia non hanno mai fatto farina; anzi coi libri si
lavora sempre a perdita. Fu l'oste della Fraschetta il primo a
scoprire l'arcano che il denaro veniva dal palazzo. Il sottocuoco
l'aveva saputo da altri, o aveva visto, o, quel ch'è lo stesso,
aveva creduto di vedere. V’era chi, tra il dire e il non dire,
lasciava capire qualche cosa di piú, come se la Celestina, quella
furbona, c'entrasse; tanto che Giacomo in questa faccenda aveva
tutto quel che voleva avere. Per qualche altro, all'incontro, che si
credeva non meno bene informato, Giacomo Lanzavecchia aveva stretta
una lega con quel bel mobile della Rivalta, che sarebbe stato
felicissimo di dargli la Norma in moglie. Si arrivò fino a far
credere che Giacomo fosse l'amante della bella contessa, e allora,
si capisce, si fa presto a pagare i debiti...
Il nostro filosofo era troppo occupato nelle cose vere per andar
dietro alle verosimili, con cui si fabbrica la storia del mondo. Non
pensava nemmeno che la gente potesse occuparsi de' fatti suoi. Se
gli affari camminavano, il merito in parte l'attribuiva a sé, in
parte alla fiducia che ispirava la sua onestà e il suo buon volere.
Lasciò dunque che Battista andasse in cerca dei suoi avvocati,
collocò Angiolino alla direzione delle fornaci, ritenendo per sé
l'amministrazione, e scrisse allo zio prete a Celana che per il
nuovo anno scolastico credeva piú utile rinunciare al posto del
collegio per attendere all'azienda. Tutte le mattine si recava egli
stesso sul lavoro, incoraggiava i vecchi operai, nei quali trovò
buone disposizioni d'animo e i conforti dell'esperienza. Se il caso
richiedeva, non si faceva scrupolo di mettersi egli stesso in
maniche di camicia e di dare una mano a caricare un centinaio di
mattoni, coi piedi nella polvere, colla polvere nella gola. Una
volta che un ronzino stentò a levar le ruote d'un carro dai solchi,
l'autore dell'Idealismo dell'avvenire non si vergognò di attaccarsi
alle stanghe e di gridare anche lui uh uh, per indurre nell'animale
quel grado di emozione volitiva, per cui non era bastata la frusta.
- Lei, sor Giacom, se mi lascia dire, - osservò un giorno il
Manetta, il piú vecchio dei lavoranti - lei fa fin troppo dopo tutto
quel che ha studiato. Si guasterà la scrittura.
Questa povera gente, che aveva visto da vicino il pericolo di
restare senza pane, in un paese dove ai bisogni della disoccupazione
non si provvede sempre facilmente, dimostrava verso el sor Giacom
una stima e un'affezione particolare, come merita chi ci salva dagli
stenti e dalla fame. La povera gente non va a cercare da che parte
le caschi il pane, né chi l'abbia cotto: el sor Giacom aveva fatto
il miracolo di far rivivere le fornaci; viva la faccia del sor
Giacom!
Una sera dei primi di novembre, Giacomo incontrò presso la strada di
Sabbione il signor Ignazio della Rivalta, che, venendogli incontro
tutto cerimonioso, gli disse:
- Ho parlato col ragioniere Riboni, e forse non siamo lontani
dall'intenderci intorno a quel fondo della Colombera; ma anche il
Riboni dice che una sua parola, signor Giacomo, alla contessa
potrebbe rendere la cosa come fatta.
- Una mia parola... - chiese Giacomo meravigliato.
- Il Riboni sa che la contessa a lei non dice mai di no.
- Via, è un po' troppo! - soggiunse, respingendo scherzosamente
questa graziosa malignità.
- Eh! lei è piú filosofo di quel che pare, - ribadí l'ometto della
Rivalta, stringendolo amorosamente sui fianchi e guardandolo
sottecchi con cipiglio compunto: - lei sa spennacchiare le suo
galline senza farle strillare. Coraggio: s'intende che, se l'affare
si fa, ognuno avrà la sua provvigione. Se poi si persuadesse quel
buon uomo del conte a sbarazzarmi la casa da quei vecchi imperatori
romani, son disposto a dare al mediatore il venti per cento sul
prezzo.
- Oh che mi piglia per un sensale costui? - ruminò tra sé il figlio
di Mauro Lanzavecchia - e che cosa pensa, quando dice ch'io so
spennacchiare le mie galline? - Ma forse avrebbe dimenticate anche
queste parole se, tornando qualche giorno dopo da Brivio, non si
fosse trovato faccia a faccia con Brandati, il dottore, che scendeva
dall'aver visto un malato alla cascina Bruschetta.
Con Brandati erano stati compagni all'Università di Pavia, per
quanto possono essere compagni due studenti di facoltà diverse, uno
dei quali ami, piú che i libri, il fiasco e la compagnia allegra.
Giovine di temperamento robusto e gran mangiatore al cospetto della
terra, più che a logorarsi sui cadaveri, il Brandati aveva portato
da Padova, sua patria, un grande amore per le donne e per le brighe
politiche in favore della repubblica, ch'egli intendeva come
un'istituzione, in cui si avesse a venir spesso alle mani, finché
non fosse schiacciato l'ultimo cappello a cilindro. Bonario e tenero
di cuore come una donna, passata la sbornia repubblicana, aveva
messa molt'acqua nel suo vino, e ottenuta una laurea a Macerata,
cercava colla diligenza, colla carità, con una intuizione naturale,
di supplire alle lacune della scienza; anzi ai contadini era
simpatico, e gli volevano bene, non tanto per il suo sapere, quanto
per l'arte ingegnosa con cui sapeva farne senza.
Appena il dottore vide venir Lanzavecchia, fece un movimento, come
se cercasse una scappatoia a destra o a sinistra; ma, essendo la
stradetta chiusa tra due muricciuoli e senza uscita, venne avanti e
finse d'avere una gran premura di andare a casa. Camminando nel
fossatello di scolo lungo il muro, - Buona sera! - disse brevemente,
mentre toccava col dito la tesa del cappello.
- Buona sera, sorr... - rispose Giacomo, strascinando l'erre e
voltandosi a seguire coll'occhio l'illustrissimo, che mostrava quasi
schifo a salutarlo, e stava per tirar dritto anche lui, quando sentí
una forza, che lo condusse indietro. Raggiunse il Brandati poco
distante dal cimitero, lo fermò, gli domandò a bruciapelo.
- Ti ho fatto qualche cosa io a te?
- Se tu hai fatto qualche cosa a me? - chiese alla sua volta il
giovinotto grasso, per non saper lí per lí che cosa rispondere. - A
me tu non mi hai fatto proprio niente, mio caro punto e virgola! -
Era questo un vecchio nomignolo, con cui i compagni allegri
dell'Università solevano mettere in burla la dialettica a
distinzioni e a sospensioni del filosofo delle Fornaci.
- E allora che cos'è questo sussiego?
- Che sussiego! ognuno va per la sua strada, o bella!
- Che cosa t'impedisce di salutarmi?
- T'ho salutato. Del resto, ognuno ha il suo modo di vedere.
- E che c'entra qui il modo di vedere? - riprese il Lanzavecchia
sotto una fiammata di collera, pigliando l'amico per una orecchietta
del bavero. Brandati nicchiò e cercò con un piccolo sforzo di
liberarsi, ma Giacomo, afferrata anche l'altra orecchietta, lo tenne
lí prigioniero, dicendogli con una certa solennità: - O parlerai,
bambino, o dirò che sei un vigliacco; e allora ti tratterò da
vigliacco, ve'...
- Aseo! - esclamò il rotondo padovano, che parve quasi contento
d'esser cosí forzato a parlare. - Poiché tu mi tieni pel bavero, te
digo subito che la gente te giudica mal.
- Siamo dei poveri falliti; e, cavallo magro tutte le mosche son
sue.
- Son certe tue amicizie coi... cosi... che fan parlare la gente, -
spiegò il Brandati con quella maniera propria dei veneti, che
ridurrebbero a un coso anche lo Spirito Santo.
- Forse vuoi dire i miei rapporti con quel signore lassú, della
Rivalta? ma egli oggi è il nostro padrone.
- Non questo soltanto...
- E allora... - insistette Giacomo su un tono di collera sorda.
- Bada, vecio, io non credo niente ai... cos... voglio dire a tute
le ciàcole, che vengon fuori dalla bocca dei marsupiali, ma capisco
che alle volte la apparenze dànno il mànego alle supposizioni. Lo
dicevo anche ieri sera a Brognòlico: Lanzavecchia è sempre stato un
po' timido, un po' troppo punto e virgola, troppo amico dei cosi...
dei preti e dei signori (mi te parlo franco); ma da questo al dire
ch'egli vende il suo onore e la sua filosofia per qualche biglietto
da mille, o fiol d'un can...
- Chi? Brognòlico ha detto che io...? - interruppe vivamente
Giacomo, sentendo venir meno le furie agitatrici all'immagine gonfia
e arruffata dell'avvocato Brognòlico che per venti lire avrebbe
venduta l'anima in fette. - E tu credi a questi merli? - disse al
Brandati, tirandogli un pezzo la folta barba nera.
- Che gli dicevo? quando un uomo è stato una volta col... coso...
con Garibaldi, come ci sei stato tu a Bezzecca, non sa nemmeno che
cosa siano certe vigliaccherie. Son le apparenze...
- Quali apparenze, se si può sapere?
- È vero che hai ricevuto dei denari da questi signori del
Ronchetto?
- È vero: ma non potrò onestamente restituirli?
- Allora non è vero che il... coso... come si chiama
quell'ufficialetto? il contino possa essere l'amante di tua cugina,
ahn!
Il Brandati pronunciò in fretta quest'ultime parole, come se volesse
farle scomparire nella barba, e, quando si accorse che l'amico le
pigliava bene, senza offendersi, sentendosi sollevato, infilò il
braccio nel suo e lo rimorchiò un tratto di strada, parlandogli
coll'animo sciolto:
- Non dicono forse che tu sei l'amante della contessa? Non ci
sarebbe niente di male, fiol d'un can, se ti piacesse un bel pezzo
di aristocrazia come questa: le beghine amano con fervore,
specialmente se hanno il coso... il marito un po' vecchiotto; ma un
conto è coltivare il genere, un altro conto è far degli affari.
Giacomo Lanzavecchia può prendere denaro anche dal diavolo, dicevo
anche ieri sera in farmacia, ma non sarà mai denaro che puzza. Lo
conosco da un pezzo, razza d'ippopotami che siete tutti quanti! Non
hai idea che lingue ha questo paese! Ma io ti aiuterò a frustare
questi rinoceronti, se mi dai il segnale di incominciare. È un pezzo
che mi sentivo qui in gola il prurito di parlartene, ma temevo
sempre di seccarti in mezzo alle altre tribolazioni. Ma ora che mi
hai preso per il bavero, caro punto e virgola, e che mi autorizzi a
parlare, vieni qualche sera alla Fraschetta, quando c'è il mugnaio
colla solita compagnia del magnano, del maestro della banda e degli
altri, e ci penso io a farti rendere giustizia. Quattro cappiotti
dati a tempo fanno piú bene di tutta la politica di Aristotile...
Il Brandati che si sentiva ancora nelle vene il fuoco di quei
bollori giovanili che l'avevano spinto a litigare colle guardie di
questura e a sfidare i lavandai del Ticino, fece scorrere le mani
sulle maniche, come se volesse incominciar subito.
- Non è il caso di dar troppa importanza alle ciarle degli imbecilli
- disse Giacomo con voce velata, soffermandosi e liberando
lentamente il braccio da quello dell'amico; - però, se non sarà
all'osteria, sarà bene rivederci, Brandati.
- Quando vuoi...
- Oggi è tardi... grazie... addio... - soggiunse con una crescente
inquietudine, allontanandosi in fretta, come se cercasse di uscire
da una situazione imbarazzante. Istigato, quasi a suo dispetto, da
una violenza interiore, che gli faceva alzare il pugno in aria,
ripeté due o tre volte: - Selvaggi! razza di malandrini! - Fatti
venti o trenta passi, si fermò e si voltò di nuovo a cercare il
Brandati, pentendosi di averlo lasciato scappare troppo presto; ma
l'amico era già scomparso nell'oscurità della strada. Ad un tratto
il filosofo disse: - Che stupido! e che mi deve importare di quel
che pensi de' fatti miei il mugnaio, il magnano, l'oste, l'avvocato,
quando so quel che pensa la mia coscienza? - E come se fosse da
questa riflessione persuaso abbastanza, riprese a camminare,
sforzandosi di dare a' suoi discorsi interni un procedimento di
filosofia naturale, quasi di commento ermeneutico al testo antico
della umana imbecillità: - Ecco come si fa la storia! - diceva. - Io
l'amante della contessa, Giacinto il drudo di Celestina, i denari il
compenso delle rassegnazioni. E tutto questo a due passi dalle cose!
Figuriamoci quel che dev'essere la storia di Ninive e di Roma.
Povera Semiramide! povero Narsete! Ora mi spiego anche i discorsi di
questo mio futuro suocero della Rivalta e l'immagine elegante delle
galline, ch'io so spennacchiare con tanta politica. E c'è anche chi
pretende di sapere che la contessa non dice mai di no a un amico
della mia forza; ah porci baroni! Dunque se la gente mi fa grandi
scappellate, non è certo per rispetto alla filosofia: ma la gente
pensa che un uomo il quale paga i suoi debiti con tanta disinvoltura
e che giuoca cosí abilmente sulla rassegnazione, è piú rispettabile
d'una zecca.
Giacomo a questi insulti, ch'egli procacciava a sé stesso, quasi per
un fanatico piacere di confutarli, ora opponeva un sorriso acerbo di
canzonatura, ora un corruccio di fiera collera, che lo faceva
inavvertitamente correre per la strada deserta già immersa
nell'ombra umida del crepuscolo. Non volendo portare in casa la sua
inquietudine e dar motivo a sé e alle donne di provocar domande
inutili e fastidiose, invece di svoltar subito verso le Fornaci,
appena fu al luogo detto Sasso del Pin, continuò per il viottolo
selciato, che monta dolcemente al «Roccolo» di don Andrea, entrò nel
bosco artificiale di cerri, di carpini e di ginepro, che fanno del
sito quasi un verde castello fortificato; e quando si trovò nel
mezzo del tortuoso labirinto presso la capannuccia di legno, che
serve di ricovero al cacciatore, sedette sul rozzo panchetto e
lasciò che il suo cuore un po' grosso riposasse dal palpitare
scomposto che avevano suscitato le parole del Brandati.
Un mesto raccoglimento regnava nel boschetto già logoro e spoglio di
molte frasche, che ingiallivano marcie sul terreno, mentre tra i
rami chiari entrava l'ultima vampa dell'incendio d'oro, che si
spegneva dietro la curva dei colli. Il cielo era sereno, con pochi
fiocchi di nuvole porporine immobili nell'azzurro, fresco e ancor
ridente in quella bella sera di novembre. Intorno a lui era un
cinguettare rumoroso d'una plebaglia di passeri, che, partito il
nemico, consideravano il «Roccolo» come la loro casa, e civettavano
con plebea insolenza, là dove gli illustri loro compagni avevano
lasciata la vita nelle ragne e perfin sulle canne del vischio.
Ebbene! che dovere hanno i vivi di morire per i morti? - dicevano i
passerotti. - La vita è forza che incalza la forza, è il giorno che
succede alla notte. La lotta non cessa mai su questo campo, ora
aperta, ora insidiosa; dove non arriva la spada, arrivano la
calunnia e la maldicenza, che son le ragne dissimulate della morte.
Che può fare la creatura contro questa fatalità della legge? - Egli
poteva rispondere che l'uomo si sottrae all'invidia dei vili come
l'aquila sfugge alle trappole, volando molto in alto. Ciarlino pure
gli stolti; la maldicenza è un brutto animale vorace, che finisce
sempre col mangiare sé stesso.
Non volendo farsi troppo aspettare a cena, prese un sentieruzzo da
capra, che piomba quasi diritto sulle Fornaci, e in quattro salti fu
a casa. La Lisa, che stava inginocchiata davanti al camino, intenta
a preparare la solita minestra, senza voltare il viso dal fuoco gli
disse:
- C'è stato Fabrizio con una lettera della contessa per te.
- Dov'è questa lettera?
- Lí, sull'armadio.
Giacomo ruppe la busta, che buttò nel fuoco, e al lume maggiore
della fiamma, che si sollevò, lesse queste quattro righe:
«L'avverto che oggi ho lasciata Celestina presso alcune nostre
parenti, che mi avevano chiesta una ragazza brava nei lavori. Ho
pensato che le potesse far bene di restare in campagna, mentre noi
ci prepariamo a tornare in Cremona. Venga domani verso le due; ho
bisogno di prendere qualche decisione per quest'inverno».
XV
LA CICOGNA SULL'ARMADIO
Giacomo rimase un pezzo immobile davanti al camino, cogli occhi
fissi alla fiamma, che scoppiettava sotto la pentola. In ogni altra
disposizione di spirito un biglietto cosí semplice non avrebbe
lasciata traccia; ma questa volta ogni piú piccola scossa faceva
fremere una corda troppo tesa.
Fu per sottrarsi al pericolo di credere troppo alle suggestioni dei
cattivi pensieri e anche per rompere l'oscurità dell'aria, che
pareva anch'essa piena di brutti sospetti, che accese colle sue mani
la lucernetta a petrolio posta sul camino e la collocò a uno dei
capi della tavola, dov'era già steso il tovagliolo della cena.
La Lisa, sempre un po' aspra e angolosa nelle sue brusche
sollecitudini di massaia, in quattro movimenti, bruschi come il suo
carattere, mise in tavola i piatti, i bicchieri, le posate, il
fiasco del vino, levò da un cesto, che tolse dalla credenza, quattro
pani, che batté sulla tavola con quattro colpi pesanti come se non
fossero pane da mangiare, ma bombe, e, senza mai schiudere quella
sua bocca da merluzzo in collera, tornò a inginocchiarsi davanti al
camino e a rimestare nel calderotto. Era un giorno di luna cattiva.
Si capiva subito dal grembiale allacciato storto e dalle lische, che
scappavano dai denti delle forcelle come un'imbottitura di crine da
un cuscino mal cucito.
- Battista non si è lasciato vedere quest'oggi? - chiese Giacomo,
quando fu seduto al posto del povero pà in capo alla tavola.
- S'è lasciato vedere, ma ubbriaco come un animale. Io non so chi
gli paga il vino che beve.
- E ora dov'è?
- S'è arrampicato sul fienile e dorme al fresco. Farebbe meglio a
buttarsi nell'Adda.
La Lisa posò il calderotto ancor bollente sopra un tagliere di legno
a un angolo della tavola, e, dando col mestolo l'ultima rimestata,
sollevò un nuvolo di fumo, che l'avvolse fin sopra i capelli e le
diede l'aspetto di una pitonessa in collera, in atto di provocare
una qualche diavoleria.
- La mamma come sta oggi?
- Se mangiasse di piú e bevesse un bicchier di vino, sarebbe più in
forze. Per quel che si guadagna a risparmiare il quattrino...
Mentre parlava, la ragazza lunga finí di riempire di minestra le
quattro scodelle, che pose sui piatti e distribuí colla solita buona
grazia, che pareva le uscisse dai gomiti. Dai vent'anni in poi ne
aveva scodellata della minestra su quell'angolo di tavola! e,
proprio, ne aveva ricavato un bel compenso. Se prima poteva sperare
ancora che un cane la sposasse, almeno per amore de' suoi quattro
soldi di dote, ora che il fallimento aveva inghiottito fin l'ultimo
quattrino, chi voleva pensare a lei? Cosí, dopo aver fatto per tanti
anni la serva per attaccamento alla sua casa, ora per confortino non
le restava che di servire per forza in una casa ch'era roba di tutti
e di nessuno, in mezzo a gente che si voleva bene come cani e gatti,
ai fianchi d'una povera donna, che non si contentava piú di nulla,
esposta alle violenze brutali di Battista, che pretendeva di
comandare non meno di chicchessia, sotto la soggezione di Giacomo,
che s'imponeva di piú quanto meno si faceva sentire.
E il bel risultato! sarebbe stato di vedere tra qualche mese entrare
in casa madamisella Celestina, fresca come una rosa, padrona
assoluta di tutto e di tutti, dopo essere stata a carico della
famiglia per tutti gli anni del bisogno; ma a madamisella lei la
serva non l'avrebbe fatta. «Quando madamisella entrerà da una parte,
io uscirò dall'altra. Se lo zio prete mi piglierà, bene quidem; se
non mi vorrà pigliare, andrò a servire qualche vecchio curato di
montagna; ma da madamisella non mi lascerò comandare. Nostro padre
col voler dare il suo pane e la sua pietanza a tutti i pitocchi
della strada si è ridotto a morire fallito e a lasciare i figliuoli
sull'assa. È la vecchia storia che chi lavora ha una camicia, chi
non lavora ne ha due».
La Lisa non aveva mai veduto di buon occhio la presenza di Celestina
in casa per quel senso d'invidia che fa parere tolto a sé tutto ciò
che vien dato agli altri. Piú giovane, piú fresca, di carattere
dolce e festoso, l'orfanella era cresciuta in quella casa, come una
pianta rigogliosa, che fa uggia a un umile e spinoso cespuglio.
La persecuzione della Lisa sarebbe stata insopportabile, se, oltre
al temperamento molle e poco suscettivo, la Celestina non si fosse
fatta scudo della benevolenza degli zii e della protezione
autorevole di Giacomo. Quando poi i tempi incominciarono a diventare
difficili, fu Giacomo stesso che consigliò la ragazza a cercare,
come si dice, un servizio e a mettersi in grado di guadagnarsi la
sua vita; ma l'idea che madamisella, uscita dalla porta, avesse a
rientrare dalla finestra, bastava a irritare le lische e i gomiti
della Lisa.
- Che cosa ha detto Fabrizio? - tornò a domandare Giacomo, senza
levare gli occhi dal biglietto, che aveva buttato sulla tavola. -
Non ha parlato di Celestina?.
- Che cosa doveva dire?- brontolò la sorella, movendosi dal camino
verso la corte, dove versò il fondo sciacquato del calderotto nel
trogoletto delle galline. - Quando si è degnata madamisella di far
sapere che è viva? qui si potrebbe morir tutti come cani, ma ora,
che non c'è piú da stare allegri, madamisella non sa piú nemmeno che
ci siano le Fornaci.
- Tu sei sempre stata cosí dura con lei! - osservò timidamente
Giacomo, al quale non era sfuggito, per dir il vero, questa insolita
freddezza di Celestina nei giorni della sventura. Quasi non
ricordava d'averla veduta ai funerali del povero pà.
- La gente si giudica nelle occasioni - seguitò il gendarme in
gonnella, attraversando in fretta la cucina per collocare le sedie
intorno alla tavola. - Tu hai sempre avuto nel cuore quella bellezza
e non vedi che le bellezze; ma io dirò sempre che, quando si è
mangiato il pane di una casa, non si deve fare come i gatti...
E, avviandosi verso l'uscio della scala, lanciò la sua voce di
pavone nel vano chiamando:
- O ma', venite a mangiare la minestra.
La vecchia Santina, rimpicciolita e tozza dentro il suo scialletto
di lutto, uscí dall'ombra e venne con passo malinconico a sedersi al
suo posto. La Lisa le pose davanti la scodella, le riempí il
bicchiere, le collocò sui ginocchi il tovagliolo, rimproverandola
con affetto rauco:
- Mangiate dunque. Credete che si possa vivere a forza di biascicare
corone? Già, non lo potete risuscitare quel benedetto uomo, che in
fondo sta meglio lui di tutti noi. Mangiate e fate coraggio anche
agli altri.
E con un lampo dell'occhio mostrò alla donna il contegno stanco e
pensieroso di Giacomo, che, colle braccia appoggiate alla tavola,
andava rimestando col cucchiale nel riso con nessuna voglia di
mangiare.
- O Angiolin... - chiamò di nuovo la Lisa, facendosi sull'uscio
della corte, mandando nell'aria il suo grido di pavone selvatico. Il
ragazzotto non si lasciò chiamare due volte. Preceduto da Blitz, che
scrollò in casa il freddo e l'odor della nebbia, Angiolino entrò nel
suo succinto vestito di lavoratore, che lasciava scoperta la pelle
bianca del petto, e due braccia non ancora mature. Egli prese di
sulla tavola la piú capace delle scodelle, quella in cui la Lisa
aveva piantato il cucchiale, come si pianta una vanga in una terra
lavorata, e andò a sedersi sulla cassapanca accanto al camino.
Blitz, dopo aver cercato inutilmente d'avere una buona grazia da
Giacomo, andò anche lui ad asciugarsi il pelo al fuoco.
- Piove? - domandò la Lisa, togliendo da una vecchia cassa un gran
fascio di rami secchi, che buttò sulle braci. Dopo un gran fumare
oscuro, la fiamma si alzò luminosa e grossa in mille lingue.
- Non ti ho predicato stamattina che avessi a metterti il
giubboncino di lana? - rimproverò la Lisa, alzando il mestolo della
minestra sulla testa dell'Angiolino, come se volesse dargli una
mazzolata. - Tu non sarai contento fin che non avrai pigliata una
bella bronchite. Ce n'è tanta d'allegria in questa casa!
- Credi ch'io fabbrichi i sorbetti alle Fornaci? - osservò
Angiolino, mettendo in vista i suoi bei denti sani e girando gli
occhi chiari e ridarelli. Seduto ritto su quella cassapanca di
vecchio noce levigato (molti poveri morti vi si erano strofinati
appresso), sotto i bagliori d'oro della fiamma, il giovinetto pareva
un san Giovannino, che predica, tranne la buona voglia con cui prese
a scavare nella scodella. Il suo appetito si risentiva delle prime
frustate di freddo che soffia il Resegone per la valle dell'Adda.
Giacomo si lasciò distrarre a contemplare la snella persona del
ragazzo, ch'egli amava con protezione paterna. Poi gli disse:
- La Lisa ha ragione: non siamo piú nel mese di luglio.
- E Battista dov'è? - domandò la mamma, svegliandosi dalla sua
dolorosa sonnolenza e girando gli occhi per cercarlo intorno alla
solita tavola. - Sapete, ho poco tempo da stare al mondo, e vorrei
vedervi riuniti d'amore e d'accordo. Se potete contentarlo in
qualche cosa quel figliuolo, lui lavora volentieri. Che colpa ha
lui, se il Signore non gli ha dato molto talento?
Giacomo sentí tutta la sagacia di un rimprovero cosí semplice, e,
senza alzar gli occhi, posò e lasciò un pezzo una mano sulla mano
fredda e rattrappita della mamma. Il cuore deve sempre avere una
ragione di piú sopra quelle degli avvocati. Non disse nulla Giacomo,
ma la mamma capí quel segno e si sforzò di trangugiare il suo mezzo
bicchiere di vino.
La fiamma grande del camino riempiva tutta la stanza di una luce
colorita e mobile, che faceva ballare le ombre delle sedie su per le
pareti e sul palco affumicato, evocando dagli angoli piú riposti,
dove non arrivava mai la luce del sole, i vecchi arnesi dimenticati
da cinquant'anni, su cui Giacomo fin da ragazzetto soleva far molte
fantasie e mille congetture. Dall'alto dell'armadio, per esempio, in
mezzo a una rovina di oscure suppellettili fuori d'uso, tra cui uno
sgangherato arcolaio apriva le sue braccia come un immenso
pipistrello, spuntava il becco e il lungo collo d'una cicogna
impagliata, che il nonno Galdino aveva ammazzata collo schioppo sul
tetto della prima fornace. Intorno a questo raro uccellaccio, che
non si vede mai nei nostri paesi, correvano in casa molte storie,
che il pà soleva raccontare agli amici e ai figliuoli, davanti a
quello stesso camino, dove si erano scaldate le ossa tre generazioni
dei Lanzavecchia; talché nella fantasia affettuosa di Giacomo la
cicogna dell'armadio stava quasi ad esprimere il buon genio della
casa, l'amore che si sacrifica per l'amore, la creatura alata, che
si getta nelle fiamme dell'incendio per salvare le creature deboli,
che non possono volare...
Se egli avesse potuto ricondurre di nuovo la sua povera e sconnessa
famiglia a godere qualche giorno di contentezza intorno al vecchio
camino, a questo camino che nella costituzione delle cose nuove e
nella rovina di molte cose vecchie è una delle poche pietre
immobili, che puntano sulla roccia stessa della natura, ben avrebbe
potuto paragonarsi alla cicogna che salva i figli dalle fiamme. Il
continuare una buona tradizione di onestà e di lavoro è già una
filosofia, che non ha bisogno d'essere scritta, molto migliore di
quella, che va attaccando ragnatele tra il possibile e il probabile.
L'ideale, che un giorno potesse raccontare anche lui a' suoi figli
la storia della cicogna nella dolce vicinanza di Celestina, ben
valeva quell'altro ideale, ch'egli stava fabbricando
coll'inchiostro. Chi sa, chi sa che non giovi anche per l'avvenire
il ravvivare la fiamma del camino domestico col buttarvi dentro un
po' di libri?
Il pensiero di Celestina in mezzo a questi vaghi pensieri, ch'egli
contemplava nella ridda dell'ombre scomposte, lo ricondusse a
rileggere il biglietto della contessa: e, all'idea che la ragazza
fosse stata mandata lontano cosí improvvisamente (il biglietto non
diceva nemmeno dove e presso chi), provò una torbida tristezza.
Volendo cercare una ragione o una parola, che calmasse il suo cuore,
chiese alla mamma:
- Celestina non vi ha mandato a dir nulla?
- Speravo bene che si lasciasse vedere uno di questi giorni, - disse
colla voce sonnolenta la donna.
- Fu un po' malata - soggiunse Giacomo per giustificarla.
- Ho paura che madamisella sia malata qui... - scappò detto ancora
alla Lisa, che non cessò troppo presto dal picchiare coll'indice un
poco piú su del grembiale, dove essa supponeva d'avere il cuore.
Giacomo questa volta se ne offese. Buttò il cucchiale sulla tavola
con atto dispettoso, si alzò corrucciato, accese alla fiamma del
camino una candela, e, senza dir verbo, infilò l'uscio della scala,
lasciando dietro di sé un silenzio pieno di dolore e di sconforto...
- E mo' sei contenta?... - prese a gemere la mamma. - Quando
imparerai a moderare quella tua lingua? Ognuno ha i suoi difetti e
non tocca a te a mortificare Giacomo in questi momenti. Se domani ci
manca il suo aiuto, chi ci dà da mangiare? - Cosí la vecchia, che
però non riuscí a commuovere Lisa, la quale non si era mai pentita
in vita sua d'essersi levato un peso dallo stomaco.
Giacomo, tirandosi dietro gli usci, si chiuse nella sua stanzuccia
squallida ed esposta ai colpi del vento. Dopo aver collocato il
candelliere di legno sul fascio delle scritture e delle stampe, che
riempivano come una montagna il tavolino, cercò di sollevarsi, come
sapeva fare qualche volta, con un moto d'energia mentale, nelle pure
astrazioni del pensiero, in quel mondo superiore, dove i rumori
della terra non arrivano, dove certamente non poteva arrivare il
rumore irritante delle zoccolette di sua sorella. Ma ogni sforzo per
entrare nel giro delle cose scritte e per scaldarsi in un pensiero
generale gli riuscí vano. Il suo spirito, come un'acqua in cui una
frotta di ragazzi avessero gettato dei sassi, non aveva piú la
limpidezza necessaria per riflettere l'immagine delle cose. I suoi
nervi vibravano troppo. E fuori e in casa gli pareva di vedere tutta
una congiura contro la sua pace e contro la povera Celestina. Non
solamente le sue intenzioni erano interpretate al rovescio, ma si
sarebbe detto che il suo medesimo affetto per la giovine le portasse
sfortuna. Ripensando all'ultima volta che l'aveva vista e alle
ultime parole dette da lei, gli sonò nel cuore un discorso assai
triste, come se Celestina fosse persuasa per la prima volta che la
loro affezione non poteva piú durare. E questa improvvisa partenza
per luoghi ignoti chi assicurava che non fosse un primo passo per
rompere un legame apportatore di cattiva fortuna? S'era parlato una
volta d'una vocazione d'andar monaca; e anche la contessa in qualche
occasione aveva lasciato sfuggire parole misteriose di questo
genere. E nemmeno quest'ultimo biglietto (ch'egli rileggeva per la
quarta volta) spiegava bene una partenza che aveva tutta l'apparenza
di una fuga. Già la gente, prima ancora che egli fosse avvertito del
fatto, credeva di spiegarlo alla sua maniera...
Pensava, avvicinava supposizioni e sospetti, tenendo gli occhi fissi
alla fiamma della candela. Una inquietudine spinosa, che gli entrò
in corpo, un'afa calda, che gli accese la testa, l'obbligò a cercare
una distrazione e una soffiata di refrigerio all'aria umida della
notte. Aprí la finestra.
Una pioggerella mormorava sui pergolati immersi nella scura quiete
della notte. Una tristezza desolante, la tristezza forse delle cose
che sono, usciva dall'oscurità di quel fogliame depresso, quasi
avvilito dalla pioggia, che cominciava a correre e a gorgogliare nei
canali. Il cielo era chiuso.
Non vedendo ove fissare il pensiero, chiuse con rumore la finestra,
e con un atto risoluto del volere, tornò al tavolino a metter le
mani sulle bozze di stampa, incoraggiando mentalmente il suo spirito
titubante. Non era la prima volta che il suo temperamento
delicatamente nervoso e cauto soffriva di spauracchi vani, che un
raggio di sole o una parola amica solevano dissipare come per
incanto. Poiché si conosceva, amava dominare sé stesso, come se il
pensiero di un altro Giacomo lo guardasse dall'alto. Dalla contessa
voleva andare coll'animo sereno, sgombro, quasi purificato da tutte
le chiazze di fango, che vi avevano gettato i pettegolezzi della
gente. Il suo affetto per Celestina non era bastato a salvar lui e
una signora degnissima di tanto rispetto, dai pettegolezzi e dalle
maligne supposizioni degli ubbriachi... Non si diceva, tra le altre
cose, ch'egli era l'amante della contessa? Egli doveva colla sua
schiettezza dissipare queste voci.
Coll'occhio fisso al lucignolo, che si allungava nella fiamma,
avrebbe voluto percorrere gli spazi liberi della dottrina; ma
l'animo invece andava a intricarsi con una specie di malsana energia
in mezzo ai viluppi della vita piccina, quasi per un gusto fanatico
di tormentarsi. Tratto tratto si scoteva dalla sua fissazione,
ripassava colla penna bagnata sulle parole stampate, che avevano
avuto un gran senso una volta, e ora non l'avevano piú, o ne
mettevano fuori uno tutto diverso, che sonava quasi come una
canzonatura. In un certo punto, dove il libro parlava della
solidarietà, trovava d'avere scritta questa sentenza: «L'esperienza
ci dimostra che un sentimento attivo di pietà lega gli uomini tra
loro. È questa pietà che forma il profumo speciale dell'anima umana.
Essa è quanto di piú divino si agita in noi».
Non poté trattenere un sorriso di compassione verso sé stesso nel
rileggere queste grandi parole:
«Va, va, minchione, a cercare il profumo dell'anima all'avvocato
Brognòlico, all'ex impresario della Rivalta, all'oste della
Fraschetta, al mugnaio del Lavello, a questa cara mia sorella, che
taglierebbe il ferro colla lingua, a quell'asinaccio ubbriaco, che
dorme sul fienile...»
L'immagine di Battista, evocata in coda a questa nobile processione
di anime, gli richiamò alla mente una promessa, che aveva fatto in
cuor suo poco fa a tavola alla mamma. Se l'asinaccio restava a
dormire sul fienile aperto ai quattro venti, in una notte cosí
fredda, c'era pericolo di trovarlo morto intirizzito. Questo
pensiero cacciò via tutti gli altri. Si mosse, prese il lume e
spinse l'uscio; ma rifletté che a persuadere Battista a scendere dal
fienile, se lui non voleva, non sarebbero bastati i sette savi
dell'antica Grecia; né egli da solo era uomo da prenderselo in
ispalla e portarlo fuori. Tornò indietro, tolse dal letto un
coltrone di lana, che la mamma aveva aggiunto alle coperte a difesa
dei primi freddi, se lo buttò in ispalla, come una toga, e passando
sulla punta de' piedi davanti agli usci delle donne, scese in
cucina.
La casa era tutta chiusa e quieta. Aprí adagino l'uscio dell'orto,
attraversò il cortile della scuderia, tirandosi sotto la gronda per
difendersi dalla pioggia che batteva sulle pietre, e giunto ai piedi
del fienile, provò a chiamare:
- Battista!
Nessuno dette segno di vita. Allora provò a salire la scala a piuoli
ch'era lí, appoggiata al muro, e quando fu in cima, facendo schermo
della mano alla fiamma contro i buffi del vento, cercò di mandar la
luce nell'interno del fienile. Vide Battista raggomitolato nel
fieno, immerso nel sonno più profondo. Con precauzione agganciò il
lume a una trave e, passeggiando nel fieno secco e cedevole che
parve animarsi di mille scintilluzze, s'inoltrò sotto le ruvide
travi del tetto fin dove russava colla bocca aperta il suo tenero
fratello. Appressò col piede alcune zolle al corpo, in modo da
fargli un po' sponda e buttò sull'addormentato il coltrone.
- Che il vino ti mandi un bel sogno - mormorò nel tornare indietro.
E stava per rimettere il piede sulla scala, quando un non so che di
bianco, una carta, caduta in mezzo allo strame, richiamò la sua
attenzione. Si abbassò e raccolse una lettera, che portava
l'indirizzo dell'egregio avvocato Genesio Brognòlico. La lettera era
aperta, di vecchia data, già consumata e impregnata d'un forte odore
di pipa.
Quando Giacomo fu di nuovo disceso sotto il portichetto, non
credette di commettere un'indiscrezione, se volle conoscere in quali
mani era caduto Battista e con quali armi intendevano di fargli
guerra i signori avvocati. Chi scriveva al Brognòlico era l'avvocato
Brescianella di Merate, che in poche righe d'una scrittura
ingrossata dalla polvere sparsavi sopra diceva all'egregio collega:
«Caro amico, se credi che il Lanzavecchia Giacomo possa pagare,
sarebbe meglio trattar direttamente con lui. Questo tuo raccomandato
mi pare un salame. Se l'altro non ama scandali, come mi dici
nell'ultima tua, tanto meglio; verrà piú presto a una transazione.
Ma intanto chi paga le spese e le anticipazioni?...»
- Ecco il profumo delle anime! - disse Giacomo, accostando il
delicato biglietto al naso, quasi per aspirarne l'essenza. Come mai
questa lettera fosse rimasta a fermentare nella giacca di Battista
non si poteva spiegare, se non immaginando che l'avvocato di Merate
si fosse servito di lui come di procaccio, e che, colla diffidenza
propria dei poveri di spirito, Battista, prima di consegnarla,
avesse mostrato il foglio a qualche compare capace di decifrarlo.
Comunque fosse andata la cosa, si vedeva qua sotto un altro intrigo
di quel democraticone di Brognòlico, che, non volendo dichiarar
guerra aperta a un amico troppo vicino, lo faceva, col sistema dei
francesi, combattere nelle colonie.
- Che cosa intende dire colla frase: se l'altro non ama gli
scandali? E perché devo accettare una transazione? e con quali fondi
dovrò pagare questi bravi signori, che mi fanno l'onore di occuparsi
de' fatti miei?
Queste frasi disse fra sé e ripeté piú volte, soffermandosi sugli
scalini, mentre ritornava nella sua stanza; ma non trovò che valesse
la pena di andare in collera.
- Ne parleremo domattina... - conchiuse tra sé, e, messosi a letto,
cercò d'afferrare il sonno; ma non fece che voltarsi e rivoltarsi
nelle coltri, adirandosi con sé stesso, che non sapeva con un atto
di volontà superiore liberarsi dai continui pensieri. Finalmente sul
far dell'avemaria, rotto dalla fatica mentale, si appisolò in un
sonno, che continuò in una cieca sofferenza. Quando saltò dal letto
la mattina, prima ancora d'infilare la giacca e d'accendere
peppinetta, sedette al tavolino, prese di primo impeto la penna in
mano, e, senza aspettare i consigli della solita prudenza, colla
furia di un Bonaparte, che segna sul tamburo un bollettino di
guerra, scrisse d'un fiato:
«Le restituisco, signor avvocato, una lettera che Le appartiene, e
colgo l'occasione per dirle che i Lanzavecchia non hanno denari, né
per coprire gli scandali, né per comperare coscienze d'avvocati. Le
auguro che i sentimenti di liberalismo democratico, di cui Ella fa
insegna alla bottega, abbiano a suggerirle un maggior rispetto, se
non per la dignità altrui, almeno per il titolo che porta. Con
immensa compassione mi sottoscrivo.
prof. Giacomo Lanzavecchia.»
Chiuse le due lettere in una busta gialla come la rabbia e mandò a
chiamare un ragazzetto della fornace.
- Porta subito all'avvocato, sai? quel pallone gonfio che sta in
piazza sopra la drogheria. Corri, Paolino! - E, fregandosi le mani,
come se avesse vinto un terno: - Cosí, cosí... - andava ripetendo,
mentre passeggiava in preda a un'insolita spavalderia, - cosí
impareranno a conoscermi, e se il sor avvocato vorrà il resto,
glielo sapremo dare, senza bisogno di carte bollate e di
anticipazioni. Glielo daremo tutto in una volta. Forse son miserie e
pettegolezzi indegni d'un filosofo; ma anche ai filosofi dànno noia
le ragnatele. Un buon colpo di scopa di tanto in tanto fa bene alla
casa.
XVI
LA GRANDE BATTAGLIA
Per tutta la mattina si agitò e si tenne vivo in questi pensieri di
ribellione, che gli mettevano indosso una forza fin troppo calda ed
esasperata. Cercò di distrarsi in cento occupazioncelle materiali
per far venire l'ora d'andare dalla contessa. Qualunque fosse per
essere lo scopo e l'intonazione del colloquio, aspettava e nello
stesso tempo gli pareva di temere quest'incontro, molto piú che,
senza metterla a parte di indegni pettegolezzi, doveva pur provocare
da lei qualche provvedimento, che collocasse Celestina al coperto
d'ogni mormorazione. Forse era prudenza togliere la fanciulla dalla
casa di quei signori, e tenersela vicina per dar qualche
soddisfazione ai maldicenti. Dopo la morte del povero pà, egli aveva
assunto verso la povera ragazza dei doveri maggiori, quasi di padre
e di tutore; e per quanto la nuova risoluzione potesse dispiacere a
donna Cristina, egli non poteva assolutamente lasciare esposta una
debole creatura alle calunnie del mondo.
Parendogli che il tempo passasse troppo adagio in mezzo a questi
pensieri e a questi dibattiti, per distrarsi con qualche operazione
un po' complicata trasse dalla rimessa l'antica timonella e si pose
all'opera faticosa di ripulirne le ruote, di liberarne l'ossatura
dalla ruggine e dal fango, lavò, strofinò con una spugna, dipinse
con un pennello i cerchioni, i mozzi, le cigne, versò dell'olio
nelle addolorate giunture della logora carcassa, in cui pareva
riassunta, come in una immagine visibile e sconnessa, la storia
della sua famiglia, e quando finalmente sentí sonare le tre al
campanile, salí in camera a vestirsi. Nell'uscir di casa s'imbatté
nella mamma, che tornava dall'orto con una gallinetta nel grembiale
e disse: - Vado dalla contessa a sentir di Celestina; torno
subito...
- Dio benedica quei signori, se posson fare del bene a lei e a te...
- soggiunse la Santina, spingendo l'uscio della casa, mentre Giacomo
si avviava lesto per la strada del Ronchetto. Ai piedi della salita,
s'incontrò nel ragazzetto, che aveva portata la lettera
all'avvocato.
- Gliel'hai consegnata a lui, Paolino?
- Sí, stava bevendo il caffè!
- Bravo Paolino, to' - e mise nelle mani del ragazzo un soldone. -
Io gli ho mandato a tempo lo zucchero - soggiunse ridendo,
rallegrandosi con sé, mentre varcava il cancello del giardino.
Nel risalire pel noto viale dei carpini, già seminato di foglie
umide e morte, già coperto della melanconia dell'autunno, provò un
presentimento inesplicabile di sgomento, come se qualche cosa si
offuscasse, si distaccasse e morisse anche in lui. Mai aveva sentito
con tanta pietà la tristezza dell'autunno morente e delle foglie che
cadono! Sul punto di raggiungere la soglia della casa, tutti i
pensieri della sera prima e della notte mal dormita si affollarono
nel suo capo in un miscuglio confuso, che fece un breve intoppo alla
sua fermezza. Un velo di nebbia scese ad oscurargli gli occhi; ma fu
un'impressione momentanea, da cui uscí animosamente. Nel passare
davanti alla finestra della biblioteca, vide al di là dei rami
squallidi della glicina la figura vagolante di don Lorenzo, che
vestito della sua zimarra rossa, col berrettino d'astracan in testa,
frugava tra le carte e i libri; e, per una successione ruvida e
scortese di idee, gli sonò nell'orecchio una frase volgare del
Brandati a proposito dei mariti vecchi e del fervore delle beghine.
Fabrizio, che stava di sentinella sotto l'atrio dell'ingresso, gli
venne incontro col suo passo umile e strisciante, gli fe' un cenno
colla mano, lo tirò in disparte:
- La signora contessa - disse sottovoce - prega il signor Giacomo di
andare di sopra. È alquanto indisposta e le sale son cosí fredde...
Il vecchio servitore, andò avanti, precedendo Giacomo, non per lo
scalone, ma per una piccola scala secondaria, che riusciva, dopo due
pianerottoli, in un andito semibuio, da dove partivano due lunghi
corridoi sul far d'un convento. Per quanto pratico della casa,
Giacomo non si ricordava d'esser passato mai da questa parte, che
era la meno bene esposta e la piú lontana dalle stanze abitate. Nei
tempi andati vi alloggiavano i pellegrini e i frati di passaggio,
tanto che al quartiere era rimasto il nome di Cappuccina.
- Si accomodi - disse il servitore, spingendo un uscio dissimulato
nel muro; e introdusse Giacomo in un salotto addobbato con fredda
eleganza, secondo lo stile detto imperiale, con mobili bianchi e
freddi, carichi d'ornamenti d'oro, che spiccavano sul verde cavolo
delle stoffe di cui eran coperte le pareti e le sedie.
Giacomo, quando si trovò solo co' suoi pensieri, cercò di occuparsi
delle cose. La finestra, spoglia affatto d'ogni genere di tende,
dava immediatamente sul frascame ombroso d'una grande magnolia, che
riverberava il suo verde umido e lucente nell'aria verde di quel
salottino, già smorto di colori bassi e squallidi. Sul caminetto di
marmo gelido e liscio dominava in un composto raccoglimento il
gruppo rimpicciolito delle Grazie del Canova, in mezzo a due tripodi
pure di bronzo, imitazione del greco antico. Un basso canapè rasente
una parete, a sponde rigide, con piedi di bronzo, freddo e liscio
anch'esso come un letto di marmo, era il principale mobile della
stanza, tra due seggioloni irrigiditi nello stesso stile, che da
cinquant'anni forse non aspettavano piú nessuno. Freddo era il
silenzio stesso dell'ora in quell'angolo di tramontana, che aveva
fama di umido e di poco sano.
Rimasto solo, Giacomo si abbandonò alla timida emozione, che viene
da tutto ciò che non si capisce. Perché questo ricevimento
clandestino? Che la contessa avesse veramente qualche brutta notizia
a dargli?
Fermo nel mezzo della stanza, colla mano appoggiata alla spalliera
d'una seggiola, che pareva un piccolo trono, seguí il fruscio lento
delle scarpe di feltro di Fabrizio, che gli era parso preoccupato,
sentí battere a un uscio, raccolse l'onda morta d'una voce che
usciva dalle stanze interne; e Dio sa perché i polsi e il cuore
cominciarono a battere dolorosamente.
Sentendo che l'insulsa emozione montava quasi a soffocarlo, mosse
qualche passo e si curvò a osservare in uno stipo una piccola
raccolta di monete classiche. Non vide la contessa, quando entrò, ma
ne sentí la presenza.
- Contessa - disse, volgendosi verso di lei: e rimase quasi
atterrito alla vista del pallore terreo, all'espressione spaventata
del suo sguardo. Sentendosi veramente un poco febbricitante, la
signora non era discesa dal letto che per venire a questo colloquio,
che non poteva piú essere ritardato. La sua persona, avvolta in una
vestaglia floscia di flanella, spiccava sul fondo verdognolo delle
pareti, come una statua nelle pieghe pesanti del marmo. E qualche
cosa di veramente marmoreo era pure nella trasparenza del volto
dimagrato e raffinato dall'insonnie, dalla febbre, dall'angoscia
morale. Giacomo che non la vedeva da quindici giorni, fu quasi per
dubitare che fosse lei.
- Scusi se la ricevo cosí - essa cominciò a dire, accennando alla
semplicità del suo vestire.
- Contessa, che cosa è accaduto? - chiese il giovane Lanzavecchia,
prevenendola.
- O Giacomo, o il nostro povero Giacomol - riprese la signora con un
tono quasi delirante, coprendosi il volto colle due mani e
rimpicciolendosi davanti a lui.
- Che cosa? - fece egli, andandole incontro con impeto e
arrestandosi davanti alla persona, che tremava tutta: - Che cosa? -
ripeté dopo un momento con voce torbida e mancante.
La contessa, come se si sciogliesse a un tratto da un'orrida rete di
ferro, scosse la testa, alzò il viso, posò le mani sulle spalle del
giovine, mosse le labbra sotto lo sforzo vano di voler parlare, non
potè, le forze l'abbandonarono e, come un corpo che si sfascia,
cadde sui ginocchi.
- Contessa, che cosa c'è? - ripeté quasi per forza d'inerzia il
giovine, vacillando un poco egli stesso, mentre una visione
terribile, spaventevole come la morte, balenava nella oscurità della
sua mente.
- Una grande, una irreparabile disgrazia per me, per lei, povero
Giacomo, per tutti - confessò singhiozzando la signora, cercando di
farsi ancora piú poca nella sua umiliazione.
- Si alzi, signora... - balbettò Giacomo tutto smarrito: e poiché
essa non dava segno di volersi muovere, egli, mettendole
rispettosamente una mano sotto il braccio, cercò di sollevarla; ma
la poveretta, prostrandosi ancor di piú in una specie di sfinimento
fisico, sino a toccare la terra colla fronte: - Punite me,
schiacciate me... - singhiozzò di nuovo con voce rotta e
agonizzante.
Giacomo ebbe per via occulta la chiara rivelazione di tutta la
verità, della crudele verità, che già aveva brutalmente bussato al
suo uscio.
- Celestina? - domandò con una collera violenta ed aggressiva: né
mai interrogazione alcuna fu piú piena della sua risposta. Si
sarebbe detto che egli interrogasse non per avvicinare, ma per
respingere la mostruosa verità, che lo assaliva da tutte le parti.
- Calpestatemi! - sospirò la povera madre.
- Celestina?! - riprese dopo un cupo silenzio, cercando di
trattenere la voce - no, non è vero, non è possibile. Noi
c'inganniamo a vicenda. Non può esser vero quel che va dicendo la
gente. Non mi faccia soffrire cosí. Si alzi, signora, sono un uomo,
so portare ogni male. Si alzi, mi usi questa carità, dica che io
m'inganno.
Mentre andava cosí parlando, col cuore ghermito come dentro una mano
di ferro, poté sollevare donna Cristina dalla sua posizione
umiliante, e, sorreggendola in un momento in cui parve che le forze
stessero per abbandonarla, la condusse a sedere sul canapè: e nella
coraggiosa dimestichezza degli istanti supremi, quando non restano
che le anime nude a soffrire, le afferrò le mani, che essa si era
portate al viso, gliele distaccò con forza, per cercare la fatale
risposta nel fondo degli occhi. Essa sostenne un brevissimo istante
il suo sguardo investigatore e tagliente: poi, cedendo avvilita,
chiuse lentamente gli occhi in una dolorosa agonia. Fu allora che,
riassumendo in un nome la formidabile tragedia: - Giacinto? - chiese
lui, e strinse nelle sue irritate le piccole mani della contessa,
che gemette di dolore. Essa rialzò gli occhi e li fissò con lento e
pauroso stupore in viso al giovine, che l'ammaliava co' suoi. Fu un
momento di tragico incanto. Giacomo vide balenare nelle pupille
della madre una luce di spasimo immenso, che si spense in una
piccola lagrima di supplicazione. - Ah Dio! - gemette: e,
distaccandosi inorridito, la respinse cosí brutalmente che la misera
donna cadde per la violenza dell'urto col viso sui cuscini, dove non
trattenne piú nessuna voce di pianto. Il gran momento preveduto,
ritardato, temuto e invocato con raccapriccio e con ansioso
desiderio, era venuto; ora essa lasciava che tutti i dolori
passassero sopra di lei. Si sarebbe detto che tutta la sua vita di
donna, di madre, di cristiana, si rompesse sotto la frenesia di quel
pianto, che stemperava l'anima, che non voleva riposo.
E Giacomo? era per lui una tenebra fitta, un rumor sordo sotto i
piedi come di terremoto, un senso acre e un peso di piombo in tutta
la sua oscura esistenza.
A questo fiotto di dolori, di terrori, a questo precipizio
improvviso di mali, non resse: e si lasciò cadere pesantemente nella
vicina sedia, a cui si aggrappò, còlto da un tremito, da una fisica
incapacità di reagire. A poco a poco, passata la prima tumultuosa
tempesta, quando gli spiriti cominciarono a calmarsi, si trovarono
l'uno in faccia all'altra, sfiniti, come due miseri flagellati.
Fu allora che Giacomo, seguendo la violenza del pensiero, si alzò, e
agitando le mani con un movimento di spasimo, con parole che gli
uscirono velate e scialbe, come se venissero da un uomo sepolto, -
Signora! - disse - non posso piú resistere. Qualunque sia la mia
disgrazia... aspetto prima di sera una sua lettera... Farò di tutto,
perché entro domani le sia restituito il prezzo del disonore...
Non aveva egli ancor finito di parlare che donna Cristina, scattando
per una trafitta interiore, sostenuta dalla forza prodigiosa, che la
natura femminile attinge da inesauribili profondità, gli pose una
mano sulla bocca. Poi colle due mani, che ardevano di febbre, gli
strinse la testa, e lasciando sgorgare dal sentimento mite e forte
le parole come volevano venire, nel tono confidenziale, che aveva
usato con lui quando era un giovinetto, senza la freddezza del
pronome signorile: - No, Giacomo, non dite queste brutte parole... -
seguitò amaramente - merito ogni oltraggio, non questo. Nessuno
crederà mai che noi vogliamo comperare il vostro perdono... Non
maledite a questo modo una povera madre. È la mia casa che rovina
sulla mia testa, guardate! Il conte non sa ancor nulla, non immagina
nemmeno quel che ci fa piangere, ma sarà un gran colpo il giorno che
non gli si potrà piú nascondere la verità. Pensate, son la madre di
Enrichetta, della vostra Enrichetta, che non deve sapere come si
soffre e perché si soffre a questo modo. Se potessi dare tutto il
mio sangue, perché non fosse avvenuto quel che è avvenuto, fino
all'ultima goccia, Gesú lo sa se ne farei il sacrificio. Nemmeno il
vostro dolore, Giacomo, è uguale al mio... no, no, nemmeno il vostro
dolore!
Nulla c'è di piú sacro sulla terra quanto un'angoscia di madre. Il
giovine, che avrebbe voluto riprendere il suo risentimento e
stringere in una parola d'esecrazione tutti i pensieri d'odio che
gli tumultuavano nel cuore, si sentí, se non disarmato, molto
impedito ne' suoi movimenti di violenza da queste parole.
Perché avrebbe infierito contro una donna, contro una madre, che si
era già umiliata piú di quanto a un cuore generoso piace di veder
umiliato un nemico?
Questo momento di esitanza bastò alla contessa per impadronirsi
della fortezza di lui, perché pare dimostrato che, dove contrasta
per un qualunque motivo un uomo con una donna, l'uomo perde sempre,
se non vince subito. Giacomo, a cui non era ignota la storia della
povera signora, che conosceva quanto avesse combattuto per sostenere
l'ideale della sua casa, non seppe respingere con un atto di
reazione brutale la seduzione dolente di questa voce, di queste
lacrime, di questi occhi supplichevoli, di questa percossa bellezza,
a cui le mani del dolore davano una cosí nobile e appassionata
scompostezza. Come poteva dimenticare a un tratto che in questa casa
era, si può dire, cresciuto come un figliuolo, e che a questa gente
era in gran parte debitore della sua ricchezza morale?
Sentendo in quest'urto di pensiero le piú forti risoluzioni venir
meno, si avvilí del tutto. Una leggera vertigine lo colse, cominciò
a tremare in tutto il corpo, l'occhio si coprí d'ombre per un
istante rimase ignoto a sé, forse svenuto. Un vivo senso di
freschezza alla fronte e un forte profumo lo svegliò. Donna
Cristina, mentre sorreggeva la testa, passava un finissimo
fazzoletto inzuppato un'acuta essenza sulla fronte, sussurrando
parole, ch'egli non riusciva ad afferrare, come avviene qualche
volta nei sogni. A poco poco, riconobbe il salottino, che gli parve
immerso in un'acqua verdognola, come se ei sognasse veramente in un
fondo di mare; riconobbe la contessa, che, seduta davanti, gli
raccontava con brividi di febbre la tristissima storia d'una colpa.
Celestina era innocente e il voler incrudelire contro di lei sarebbe
stato peggio che calpestare una vittima. Ogni atto di severità, ogni
parola acerba di rimprovero, lo stesso abbandono silenzioso sarebbe
stato da parte di Giacomo un colpo mortale per la povera creatura. -
Il male è grande - seguitava a ripetere la voce, che egli stentava
ad afferrare, come appunto capita nei sogni - ma da ogni male si può
ricavare una redenzione. Vendicatevi, dice il diritto volgare;
perdonate, dice la legge del Signore. Una vendetta contro di noi è
una cosa assai facile: ma voi esporreste Celestina al giudizio della
gente. Non imploro per me e meno ancora per il disgraziato, che ci
ha precipitati in questo abisso: ma, prima di lanciare una pietra,
si pensi a quanti cuori ne andrebbero spezzati. Forse che Dio non ci
perdonerebbe, se gli chiedessimo grazia con queste lacrime?
Celestina per il momento è al riparo di ogni scandalo, e quanto si
potrà umanamente riparare sarà riparato.
- Non si risuscita un uomo ucciso... - interruppe Giacomo, stendendo
i pugni verso la terra, come se provocasse una maledizione: - Dio,
Dio, è il disonore, è il ridicolo, è la morte: avete sputato
sull'innocenza d'una povera creatura, sulla mia dignità, sulla mia
virtú, sul nostro amore...
- No, no, Giacomo - supplicò la contessa.
- No, no, no - proruppe egli piú forte, alzandosi, in preda a un
singhiozzare nervoso. E poiché la contessa cercava con un'ultima
insistenza di afferrargli la mano, egli se la cacciò con un gesto
disperato dentro i capelli, e premendo con spasimo, la fronte
corrugata: - Questo è l'inferno, - disse - questa è la maledizione
di Dio! Ma, Dio santo, qualcuno pagherà!... - E si mosse per uscire,
dopo aver preso di sulla sedia il cappello.
Donna Cristina fece un ultimo sforzo. Stese le braccia verso di lui,
mormorando con una scossa dolente del capo:
- Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene - e pose la mano sulla
chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse cosí.
- Qualcuno pagherà col sangue - ruggí l'uomo ferito, mentre cercava
di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme
che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito
oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscí a
precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana
tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di
nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia
del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco
di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e
sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada
comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie piú basse e
piú fitte, sempre nella direzione del fiume. Cosí una fiera ferita
cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma
teme, arrestandosi, di sentire piú vivo il suo dolore. Seguendo la
stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi
aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate,
dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni,
egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di
dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza,
minacciava di soffocarlo.
La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti
improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi,
quantunque il caso gli paresse cosí inverosimile da far pensare
piuttosto a un delirio angoscioso e crudele.
Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando,
era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma
quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto,
egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era piú
in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da
un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera
follia che luccicavano nel suo cervello.
I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza!
I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite!
Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto!
A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di
un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh
distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva
cercato l'uomo morale e non trovava che la belva!
Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo?
come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato?
Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare
sé stesso da questa schiavitú? Se egli avesse potuto fare un gran
rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare
sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi
da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche
dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per
far ridere un Brognòlico.
Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se
agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta
mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro
desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero.
Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno
assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri
innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di
mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non
accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva
dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico?
A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri,
l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce
immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una
corona di spine e una finale fischiata?
Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un
vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume,
trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era
sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista,
si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere
strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú
lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore.
Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico
spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve
che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e
verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla
bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne.
Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che,
scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al
fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto
el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.
PARTE SECONDA
I
I PADRI E I FIGLI
Don Lorenzo si sarebbe lasciato tagliare una gamba piuttosto che
introdurre, come sappiamo, in una epigrafe la parola fornaciaio, una
parolaccia che fa rima con merciaio, formicaio, letamaio; ma,
d'altra parte, non sapeva capacitarsi come il canonico Ostinelli, a
cui aveva mandata per un'ultima approvazione l'iscrizione sul povero
Mauro, trovasse a ridire sulla voce laterizio, che non è poi un
latinismo della Valle Brembana! C'è o non c'è in Plinio? Non che
egli fosse contento in tutto e da per tutto delle quattro righe, che
aveva consacrato al buon vicino delle Fornaci; c'era anche per lui
in quell'iscrizione qualche cosa che non finiva di finirgli. Là dove
diceva, per esempio: «A Mauro Lanzavecchia dell'arte laterizia
maestro industre» quell'estro, ustre, dava al suo orecchio un certo
suono di banda campestre, che urtava la tromba d'Eustachio. Si
sarebbe potuto girare la locuzione e di dire in altro modo: «Qui i
resti mortali posano di Mauro Lanzavecchia che nell'arte calcaria fu
per dieci lustri operoso maestro»
- È vero che le sue ultime tegole non hanno impedito l'anno scorso
che si bagnasse tutto il nostro frumento; ma. questo non si può dire
in epigrafe. Mauro era veramente un buon diavolo, un po' rumoroso,
operoso e rumoroso maestro...
Il conte, che si rallegrava facilmente e volontieri in questa valle
di lagrime, purché il cuoco non gli guastasse un piatto, rideva
tutto solo nel suo studio luminoso, parlava con sé stesso, movendosi
in mezzo ai libri, come il pesce si muove nell'acqua chiara e
trasparente del fiume in cui è nato, cercando che la stanza fosse né
troppo calda, né troppo fredda, ascoltando il suo stomaco, litigando
spesso per lettera con quel benedetto canonico Ostinelli, un
manzoniano spiritato, che trovava (bontà e coraggio suo) fiori di
lingua perfino nei «Promessi Sposi».
In fondo non era malcontento che la non grave malattia della
contessa gli offrisse una ragione sufficiente per rimanere senza
inquietudini eccessive un paio di settimane di piú al suo Ronchetto,
al suo Tusculo. La regola ormai secolare di casa Magnenzio voleva
che non si restasse in campagna mai piú tardi del San Martino, vale
a dire non mai dopo la riscossione degli affitti e l'aggiustamento
dei conti coi mezzadri. Cogli ultimi di novembre dunque la famiglia
doveva ritornare regolarmente a Cremona nel gran carrozzone della
nebbia, cosí detto, perché pareva agli abitanti della contrada che
con esso viaggiasse l'inverno. Don Lorenzo non s'era mai potuto
abituare a quella diavoleria scatenata del vapore, e preferiva andar
nella sua carrozza e co' suoi cavalli, che si possono fermare quando
si crede. Siccome per la stessa legge fisica e filosofica delle
cose, quando non c'è una ragione piú forte che spinga a far diverso,
la necessità naturale vuole che si continui a far quel che si è
sempre fatto, cosí non era accaduto mai, nei cinquantanove anni
dacché don Lorenzo era venuto al mondo, ch'egli vedesse la neve
cadere sulle piante del Ronchetto. Grazie alla piccola febbre
reumatica di Cristina, che aveva permesso di fare uno strappo alle
abitudini, gli era stato concesso anche questo nuovo spettacolo di
una bella nevicata sulle piante del giardino, e se lo godeva tutto,
stando dietro le doppie vetriate della finestra, coi piedi nelle
pantofole di pelo, con in testa un berrettone cosacco, che faceva
comparire piú grossa la testa e piú piccina e piú pallida la sua
buona faccia di arguto pedante. Meno d'una volta ora sentiva il
desiderio di tornare in città. Quantunque vivesse nel suo guscio
come una lumaca e non amasse mescolarsi nelle beghe amministrative e
politiche, fino a rifiutare l'onore di essere fabbriciere del duomo,
tuttavia non poteva impedire che il rumore delle agitazioni
cittadine, dei conciliaboli politici, delle lotte elettorali non
arrivasse qualche volta fin sulla sua tavola insieme al formaggio e
agli amaretti.
Da qualche tempo, in seguito a un'attiva propaganda repubblicana e
anticlericale, andavano díffondendosi nel cremonese, specialmente
nel basso popolo, le idee del piú scamiciato socialismo, per non
dire dell'anarchia addirittura, che avrebbero trascinata la società
agli eccessi del famoso Terrore, quando si segavano le teste come
gambi di trifoglio.
Quantunque don Lorenzo non arrivasse fino al punto di veder in
pericolo la sua cucuzza, si capisce tuttavia che un uomo pauroso
come lui sedesse mal volentieri sulla mina e sognasse l'idillio di
ritirarsi un bel giorno al Ronchetto a rileggere il suo Guicciardini
e le prose del suo Giordani, l'ultimo degli scrittori veramente
italiani. Ora che Giacomo Lanzavecchia aveva accettato di metter le
mani nelle sue schede epigrafiche e gli toglieva il fastidio della
fatica materiale, il conte sognava di lasciare a' suoi figli un
monumento storico, che testimoniasse ai posteri come equalmente un
certo conte Lorenzo Magnenzio di Villalta, del decimonono secolo,
non fosse un merlo del tutto. E come una leccornia, si riserbava
l'unica e dolce fatica di premettere il suo gran «Discorso
preliminare sugli Uffizj della Nobiltà del presente tempo», che
doveva essere il suo testamento morale e stilistico, al quale
pensava già con una specie di febbre indosso. La vecchia
aristocrazia italiana, specie quella del secolo scorso, della quale
egli si sentiva moralmente contemporaneo, aveva lasciata una
gloriosa tradizione di coltura, di amore agli studi, di buon gusto
nelle lettere e nelle arti, come dimostrano i nomi dei Verri, di un
Beccaria, di un Alfieri, di un conte Gozzi, di un marchese
Spolverini, l'autore di quel gioiello didascalico intitolato la
«Coltivazione del riso»... Oggi invece, - diceva qualche volta con
un senso di rammarico a pestar tutti i nostri nobili insieme in un
mortaio, non cavate il sugo per condire un sonetto. Le vecchie e
illustri biblioteche sono in bocca ai sorci o nelle mani dei
rigattieri; i preziosi archivi se li mangiano le tarme; le raccolte
dei quadri di valore se li portano via i sarti e i dentisti
arricchiti; e cosí il basso popolo si abitua a non stimarci più, ci
considera come nati solamente fruges consumere, aspettando il
momento di portarsi via colla forza quel che non abbiamo ancora
perduto colla pigrizia. Brutti tempi! ma ne vedremo di piú brutti: e
quando diremo «mea culpa, mea maxima culpa», non ci sarà piú nessuno
dei nostri in grado di dettare sul nostro sepolcro una iscrizione
passabile... - Queste erano le idee, dirò cosí, in camicia, che
dovevano entrare vestite e decorate nel gran «Discorso preliminare»
pel quale andava facendo spogli di lingua dal Davanzati, dal
Machiavelli e dall'aureo libretto della «Vita civile» del Palmieri;
e passeggiando nelle sue pantofole, mentre risaliva col pensiero
alla grandezza politica dell'aristocrazia romana e veneta, gli
pareva di diventar grande anche lui e di sentirsi lo stomaco
riscaldato da un sentimento nuovo di coraggio e di magnanimità che
lo faceva digerire piú bene.
Non meno felice del babbo fu donna Enrichetta per questa ritardata
partenza. Per lei Cremona era una specie di monastero, senza nemmeno
la distrazione del coro. Vecchie dame austere, reverendi sacerdoti,
antichi amici, affumicati come i ritratti dell'anticamera, formavano
l'unico diversivo delle sue eterne giornate piene d'inglese, di
aritmetica, di musica tedesca, di orazioni. Qui al Ronchetto le era
concessa piú libertà di svolazzare per il giardino, di scendere in
compagnia di qualche buona ragazza a visitare le sue vecchie malate
nei cascinali circostanti o a copiare dal vero un gruppo di piante,
senza quella fodera inglese di miss Haynes, o di pregare sola nella
chiesa del Santuario, da dove l'occhio scorreva nella valle
dell'Adda coperta di neve. La malattia di mammà e qualche cosa
d'insolito, che non osava indagare, rendevano la vigilanza meno
rigida: quindi quel trovarsi a un tratto libera da ogni reticolato
d'orario prestabilito, le fecero parere quei venti giorni di freddo
dicembre una vera e mai provata vacanza. E cercò di goderseli
leggendo e scrivendo a lungo, improvvisando grandi poemi in prosa
sulla natura bianca, sui morti che sognano al camposanto, sui genii
del molino, sul fumo che esala dagli umili tuguri verso il cielo, su
un mondo non ancora esplorato di sentimenti, d'impressioni, di
fantasie poetiche, che, prima di partire, voleva dedicare al suo
professore sotto il titolo di «Foglie cadenti».
Un giorno, tornando dalla messa, sentí da una vecchietta della
cascina Colombera, che il signor Giacomo era stato trovato come
morto in un luogo detto la Cava presso il fiume, e, portato a casa,
dibattevasi da una settimana tra la vita e la morte. Questa notizia
colpí il cuore della ragazza come una pugnalata. Di mano in mano che
dalle Fornaci arrivavano cattive notizie, sentiva crescere le
lagrime negli occhi. Fece accendere una lampada all'altare della
Madonna e distribuí ad alcune povere donne gli ultimi avanzi del suo
privato peculio, perché pregassero secondo la sua intenzione. Se
mammà avesse permesso, sarebbe discesa tutti i giorni alle Fornaci a
chieder notizie; non potendo farlo, cercava cogli occhi i neri
fumaioli nel candore della neve e dalla sua finestra stava molto
tempo immobile e pensierosa a ripetere mentalmente degli auguri.
Quando il dottore assicurò che la congestione cerebrale era vinta e
che il signor Giacomo si metteva in via di sicura guarigione, donna
Enrichetta, come se anche il suo cuore uscisse da una grande
malattia, aggiunse molte pagine alle «Foglie cadenti». Una finiva
con queste parole:
«Come ti chiami, o fiorellino, che dalla candida e sterile neve
sbocci, portando il saluto della terra? Sei tu il fiore della vita,
o sei il fiore della speranza, che nessun gelo può spegnere? O
modesto fiore dell'elleboro, va fino a lui e portagli il saluto
della vita e della speranza. Possa, allo sciogliersi di questa neve,
apparire la terra seminata di violette. Già presento il profumo che
inebria l'anima».
Pensieri ben diversi passavano intanto nell'animo di suo fratello,
il bel tenente di cavalleria. La contessa giudicava male suo figlio,
quando scriveva in una lettera alla Breno: «La gioventú è egoista.
Egli crede che col denaro oggi si arrivi dappertutto e dorme
nell'illusione, in cui vissero i suoi antenati, che mezzo mondo sia
stato creato da Dio a servizio e a divertimento dell'altro mezzo».
No, Giacinto non arrivava fino all'orgoglioso concetto di creder sé
qualche cosa di superiore e di privilegiato, a cui gli umili
dovessero inginocchiarsi. Questa idea spagnolesca di sé stesso non
poteva essere nell'indole allegra, cordiale, espansiva, leggerona
del giovine, che amava semplicemente il vivere allegro, interrotto,
e odiava come la morte le cose difficili e noiose.
Bellissimo, ben costituito e pieno di tutte le sue forze vitali,
soltanto una ferrea volontà e una solida tempera di carattere
avrebbero saputo salvarlo dagli istinti prepotenti e dalle
tentazioni cosí numerose, cosí seducenti per i giovinotti ricchi,
molto in vista, molto cercati e pei quali la vita galante è quasi un
obbligo sociale; ma su questo argomento egli soleva ripetere una
facezia, che non mancava d'una certa ingegnosità filosofica: - Per
fabbricar la volontà ci vuol la volontà, e non è colpa mia, se il
buon Dio non mi ha data questa materia prima.
Avrebbero potuto salvarlo le tradizioni austere della casa,
l'affetto de' suoi parenti e l'azione moderatrice della religione;
ma le tradizioni di casa Magnenzio, per quanto donna Cristina si
sforzasse di tenerle su, s'erano già troppo illanguidite nella
bonaria incapacità dei padri; l'affetto non era in armonia colle
idee; e la religione non passava la pelle. Quel buon uomo del conte,
allevato in un guscio d'uovo nei tempi della Ristorazione, quando
s'è creduto di poter rompere le corna al diavolo a colpi di rosario,
da uomo cosí amico della sua pace, pur di non turbarla questa pace,
pur di non sentir gridare, metteva sottoterra i cocci delle cose
rotte e ci metteva su una pietra. La mamma, alla quale era mancata
nella sua vita di donna la rivelazione di quell'affetto, che
sorregge nel tempo stesso che si abbandona, metteva forse nella sua
educazione troppi sforzi spirituali, troppe idee estranee alla
natura delle cose, credendo in buona. fede che il volere possa
sostituire il sentimento. In quanto alla religione, è vero che
Giacinto si sentiva e si confessava buon cristiano cattolico e
osservante; è vero che non senza rimorso trasgrediva ai precetti
della Chiesa; è vero che, vivendo in compagnia di amici nobili e
ricchi, pei quali la religione, cosí come sta, non è l'ultima delle
difese sociali, era tratto a considerare con rispetto e con
benevolenza tutto ciò che si riferiva allo spirito e al meccanismo
della Chiesa; ma gli pareva di aver fatto abbastanza, quando aveva
pagato il suo tributo alla pratica obbligatoria.
Farsi veder alla messa, specialmente in campagna, mangiar di magro
il venerdí in faccia alla servitù, comunicarsi a Pasqua e a Natale,
rispettar qualche vigilia, non celiar mai sulle convinzioni...
Andiamo, via!... per un giovinotto, che portava una spada, era piú
di quel che si potesse domandare. Queste quattro pratiche non
eccessivamente complicate, in cui è riassunto in certo qual modo il
pensiero della Santa Chiesa, lo sbarazzavano dall'obbligo di pensare
al resto, cioè, a Dio, all'immortalità e a tutte quell'altre
tribolazioni, che logorano la coscienza degli spiriti filosofici.
Anzi, come uno scolaro che, sbarazzati in fretta i quattro lavorucci
di scuola la sera del sabato, si piglia tutta la santa festa per
spassarsela, cosí don Giacinto, una volta eseguite le quattro
pratiche tradizionali, sentiva d'aver una maggior libertà di
movimento per tutto il resto.
Di contro a questi argini posticci vennero a urtare le onde
minacciose delle passioni e delle seduzioni mondane nella compagnia
allegra di giovani corrotti e di ragazze disinvolte, nelle lusinghe
dei balli e dei teatri, dove anche le signore oneste fanno di tutto
per piacere in quel che hanno di piú bello e di meno morale. Tutto
stimola i sensi di un giovine di vent'anni, tutto parla al suo
essere fisico in questi ritrovi, in cui la donna è specchio alla
vanità dell'uomo; ed e facile che la donna cosí detta onesta, riesca
anche piú pericolosa delle altre, se le piglia il ghiribizzo di
giocare coll'inesperienza d'un giovane non spento del tutto. Questo
fu appunto il caso di Giacinto colla famosa principessa romana, che
lo fece soffrire sulla corda fin dove un giovane come lui era capace
di soffrire, e gli tolse quest'ultimo sentimento di rispetto, che il
maschio conserva anche in mezzo alla sua decadenza per la piú
fragile delle creature.
Celestina ne pagò le spese. Ma, per arrivare fin qui, era necessario
che il vino gli togliesse il sentimento di rispetto che ogni uomo,
anche il piú tristo, nutre per sé.
Nelle accese giornate di corsa, nell'ebbrezza di un trionfo,
nell'espansione d'una riunione di caccia, ora all'ombra di una
tribuna, ora nella frescura d'un bosco selvaggio, dove anche la piú
gentile signora cerca a un bicchier di sciampagna il grido selvaggio
dell'amazzone, Giacinto aveva presa l'abitudine di bere,
senz'accorgersi, due volte, tre volte piú della sua sete,
deliziandosi nel ritrovare tra i fumi della vaga ebbrezza una
dolcezza di cose misteriose, che parevano scendere a lui da un mondo
ideale. Il vino dà spesso anche agli imbecilli l'idea delle cose
grandi, per le quali non son nati: e cosí accadeva che don Giacinto
vedesse attraverso al lucente tremolio del cristallo la bellezza e
la perfezione di quel misterioso ed eroico gentiluomo che era in
lui, che Dio aveva mandato in terra a riassumere la secolare
tradizione di casa Magnenzio, per consegnarla nobile e pura a
un'altra serie di illustri discendenti. Peccando d'intemperanza,
egli sacrificava all'ideale. Il male era questo: che passata la
sbornia. non restavano della dolce poesia che i conti da pagare!
«Naturam expelles furca...» ha detto un poeta latino, Orazio, salvo
errore, in un verso che Giacinto sapeva citare a mezzo nella fiducia
che gli altri sapessero il resto. Tutta la sua erudizione classica
si arrestava a quella furca... ma credeva di saperne abbastanza per
tirare anche Orazio dalla sua.
Del resto che male c'è, se a ventidue anni un ragazzo si sente
giovine? Un uomo, che può spendere diecimila lire all'anno senza
sconcertare i bilanci del suo ragioniere; che col tempo avrebbe
raccolta la bellezza di tre patrimoni, non solamente non era nato
per portare gli occhiali, ma non poteva capacitarsi come mammà si
ostinasse a voler cavare da lui un assessore comunale, o un
fabbriciere, o un segretario di opere pie. Era lo stesso come voler
cavare da un cavallo da sella un professore di greco. Vedendo che
mammà non sapeva risolver nulla, e che alle sue insistenti lettere
non rispondeva piú che inconcludenti querimonie, chiesto un congedo
di alcuni giorni, capitò a Milano, dopo aver scritto un biglietto a
donna Fulvia, che aveva in ogni circostanza mostrato per lui delle
tenerezze materne.
Donna Fulvia, che era appena entrata nel suo elegante quartiere
d'inverno, lo invitò a colazione. Prima di andare da lei, il bel
giovane si lasciò vedere al circolo degli ufficiali; quindi in
compagnia di Pierino Scala fece una passeggiata nelle sale
dell'Unione, dove si raccoglie la sera il bello e il buono
dell'aristocrazia maschile di Milano.
Capí, dalle accoglienze e dai discorsi degli amici, che la sua
avventura campestre non era ancora uscita dalle siepi e dall'ombra,
e si consolò come un capitano, che sente di arrivare prima del
nemico in una buona posizione.
Donna Fulvia lo accolse colla espansione gioviale che fa di lei una
delle piú ridenti signore di Milano. A colazione si parlò di tutto
un po' delle corse di Roma, della bella principessa di Cerere, che
doveva venir sposa nel prossimo carnevale con uno dei piú amabili
gentlemen della società lombarda. Don Lodovico di Breno, uomo di non
troppe parole, ma fino come una lesina, intavolò una discussione
semipolitica sull'espansione italiana in Africa, ch'egli riteneva, a
quei tempi, la cagione principale del nostro disagio economico; ma
Giacinto, che non per nulla portava una divisa coi bottoni
d'argento, gli dimostrò, tenendo la forchetta in aria, che
l’avvenire del paese era là, al lago Tsana. I popoli vecchi, diceva,
non hanno che da guadagnare nella fusione coi popoli nuovi; e in
quanto all'Italia, noblesse oblige, era il caso di dire. Quando si è
stati una volta i padroni del mondo, non si può senza vergogna
rinunciare alla propria missione civilizzatrice. Per conto suo, se
mammà non avesse avuto dei pregiudizi, avrebbe domandato subito
d'essere mandato a combattere ras Alula.
- Sí, sí, ma intanto... - brontolò il conte, abbassando la sua testa
precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela
di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa,
in cui entrava, non so come, il principe di Galles - intanto noi
roviniamo la nostra agricoltura.
- Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete
un partito vecchio, senza ideali.
La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle
caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando
il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria
dell'esercito.
- Noi non ti lasceremo partire, Giacinto - soggiunse la contessa,
che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza
trasparente; - noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i
nostri figliuoli.
- In quanto a' tuoi figliuoli - brontolò il conte, ridendo nel
piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro
pollo inglese - non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli.
Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di
mammà, che rimbeccò con spirito:
- La colpa è della tua politica moderata.
Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e,
balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse:
- Te la sei meritata questa volta, Vico.
- Tu, taci - ribatté il conte, minacciando il giovane col dito - ne
sappiamo di belle della tua politica liberale.
Giacinto arrossí, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa
fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel
salottino.
- Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione
provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano.
Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi
confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino.
Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia
giudizio.
Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza
per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e,
raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli
occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole.
Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando
il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrí
una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave:
- Ebbene? devo fare una predica?
- Sono cosí pentito, cara contessa, - rispose il giovine, voltando
la sigaretta fra le dita - che potrei già scrivere un quaresimale.
- La povera mammà è desolata.
- È desolata, ma non sa trovare un rimedio.
- Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno
scandalo?
- Ha parlato con questo signor cugino, sí o no?
- Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il
risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un
po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna.
Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di cosí gravi
circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro.
Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando
saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle
cameriere. Ma come è potuto accadere?
- Come... come... - balbettò con una spallata chinandosi ad
accendere la sigaretta alla fiamma del camino. - È cosí facile
immaginare, Dio buono...
- Diremo che è stata anche questa una passione africana, - disse col
suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla
poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle
scarpette gli alari dorati. - È almeno bella questa Lucia del
Ronchetto?
- Non mi tormenti, via! - replicò egli, non senza una certa
scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la
sigaretta nel fuoco.
- Povero Giacinto, mi piace di vederti cosí contrito e umiliato.
Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma
lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il
male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa
faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno
per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho
dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato
subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per
contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri
interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni
amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici
s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta
la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni
amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito
moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica
africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che
cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo
dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, cosí un sasso,
una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi
quindi se Víco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che
tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche
fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e,
se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe
che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito
di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di
tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che
sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza
scapito una sfida da lui e portare cosí la controversia sul terreno
cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa
via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di
trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se
non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche
che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe
aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello
limiterebbe la questione personale e obbligherebbe piú tardi le due
parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di
Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche,
non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà
si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla
canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto
per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto
figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua
ragazzata?
Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un
bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna,
passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola,
del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani
infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava
come oppresso sotto il peso della sua responsabilità.
- Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto
papà... - Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella
voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente
raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui,
l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già
solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e
l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato.
- O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! -
riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono
piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da
quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a
soggiungere: - Io non dico che tu non possa trovare qualche altro
rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il
mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo
zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che
monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate,
mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle
dai giornali, quando non c'è piú tempo di far nulla. Nella sua alta
posizione egli è piú di noi in grado di misurare il pericolo e anche
di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e
intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa
piangendo il suo peccato.
- Andrò a farmi ammazzare in Africa - borbottò tra il rustico e lo
spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la
sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della
forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con
tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere
spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si
potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la
chiave, non si potesse sfondare l'uscio?
- Per Dio! - disse ingrossando la voce per far comparire piú rauca
la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il
salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi
la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i
bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise cosí
malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe, che
la rovesciò e le ruppe il naso. - Che cosa si vuole, per Dio? che mi
tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia
cameriera?
- Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi
pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa
con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a
parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che
nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il
diavolo non sia poi cosí brutto come ce lo immaginiamo. Non andar
poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo.
Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una
chicchera e l'offrí al giovine, stando in piedi sotto la grande
specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con
nitido splendore.
Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad
argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono
col ridere come due ragazzi.
II
TRA IL DEPUTATO E IL VESCOVO
Giacinto accettò la proposta di donna Fulvia e incaricò il conte
Lodovico di Breno della delicata ambasciata a monsignor vescovo. Se
questa volta non lo salvava Santa Madre Chiesa, era inutile far dei
conti con quel briccone di diavolo, che, dopo averlo tirato in
molle, lo lasciava morire affogato.
Mentre don Lodovico pensava al modo di aver un abboccamento con
monsignore di San Zeno, che non aveva l'onore di conoscere di
persona, sentí dire dal canonico Murari che il degno prelato era
venuto a Milano ospite per alcuni giorni dei padri barnabiti di
Sant'Alessandro. Non tardò a procurarsi una lettera di
presentazione, non volendo perdere una cosí bella occasione, mentre
perorava la causa d'un libertino, di tastare il terreno sul
programma che il partito intransigente stava preparando per le
prossime elezioni amministrative.
Già da qualche tempo i vari partiti conservatori, di fronte alle
fortunate audacie della progresseria radico-massonico-socialista,
sentivano la necessità d'un segreto concentramento di forze, in
virtú del quale i sentimenti piú liberali avrebbero dovuto abdicare
a molte speranze e cedere un pezzo di superbia ai clericali, che,
avendo un programma piú stretto e piú determinato, eran piú sicuri
di vincere. Era sonata l'ora in cui i liberali della destra pura
dovevano sostituire alla speranza la rassegnazione, al bene il meno
male: ma non tutti sapevano acconciarsi al fatale destino, che
travolge i partiti che non sanno rinnovarsi. Di Breno era uno di
quelli che piú mordevano il freno e giurava che lui a Canossa non
sarebbe andato mai. Cavouriano indurito, che sulla formola di
«libera Chiesa in libero Stato» si sarebbe lasciato inchiodare vivo,
era persuaso che con questo programma storico si poteva far molta
strada ancora nella via del progresso e della libertà, non solo, ma
che l'aristocrazia intelligente, piú che all'ombra del baldacchino,
doveva prendere il suo posto all'ombra di questa bandiera, che era
sventolata da Novara a Roma. Ma i preti, non contenti di far la
parte del leone nella distribuzione delle cariche amministrative e
nella rappresentanza delle Opere pie, pretendevano di mettere
all'uscio addirittura il vecchio e nobile partito che aveva fatto
l'Italia e, se era possibile, di seppellirlo non ancor morto del
tutto nel sudario di Roma intangibile.
Fiutando il vento infido, anche in vista d'una non lontana elezione
politica, che avrebbe scosse le basi del suo vecchio Collegio,
sapendo che questo monsignor di San Zeno aveva un po' la natura
degli antichi arcivescovi, che andavano in battaglia colla croce in
una mano e la spada nell'altra, immaginò che lo scappuccio di
Giacinto potesse tornargli comodo, se non altro per rendere sua
Eminenza meno rigido e meno restrittivo. Non c'è economia piú astuta
di quella che insegna a trar profitto dai peccati degli altri: e il
nostro don Lodovico, senza essere un genio, ci aveva questo talento
nella zucca pelata.
Sua Eminenza, appena ebbe ricevuta la lettera dell'onorevole
deputato, gli fece sapere che sarebbe stato lieto di conoscere
personalmente un gentiluomo, che conosceva cosí bene di fama. E il
conte fu puntuale al convegno.
Introdotto da un giovine prete grande e robusto come un gendarme in
un salotto della fabbriceria, fu amabilmente e decorosamente
ricevuto da monsignore. Questi era ancora una bell'asta d'uomo, di
solida e fresca senilità, di carni ancor morbide e quasi
biancheggianti sul severo paonazzo della mozzetta, che egli sapeva
portare con signorile eleganza.
Quantunque non schivasse col rigore dei principî le occasioni per
farsi dei meriti presso la Curia romana e presso il partito piú
intransigente che domina la Chiesa, pure nei rapporti sociali
rivelava un uso non mai interrotto di aristocratiche abitudini e un
galateo di tolleranza, che una certa prelatura di piú recente
fabbrica non può né conservare, né inventare. Se avesse dovuto
crearsi uno stemma morale a insegna dell'episcopio, al posto del
santo, che decorava le torri della famiglia, monsignore avrebbe
scritto il motto: «Mano di ferro in guanto di velluto...», essendo
egli persuaso che il primo segno di forza è nel rispetto che si usa
all'avversario. La trivialità non è che una secrezione velenosa di
animali inferiori.
Di fronte alla persona larga e paludata del prelato, il povero
conte, già cosí magro e cosí poco nei panni, con quel suo passo
breve e come dimezzato, con quegli occhietti miopi di formica
affogati nelle lenti dell'occhialetto, con quella testa a foggia di
mellone, faceva la figura, non d'un legislatore, ma a dir molto d'un
fabbriciere, o quasi d'un sollecitatore d'elemosine.
Monsignore, per quanto fiutasse da lontano il motivo di questa
visita, volle per una strategia diplomatica mostrarsi esagerato nei
complimenti. Se questi signori liberali, scassinati nelle loro basi,
venivano al tempio col capo coperto di cenere, curvi sotto il peso
di tutti gli errori commessi in sedici anni di cattiva politica
ecclesiastica, piú che il gridare: «Vade retro, Satana...» era il
caso di ammorbidir loro la contrizione e di mettere un cuscino di
velluto sotto i loro ginocchi.
- Ringrazio il signor conte di questa bella visita... - disse il
vescovo, che, sorridendo in tutte le pieghe della sua faccia morbida
e pastosa, soggiunse poi con arguzia: - Per quanto traviato,
l'onorevole di Breno non è per noi un Innominato...
- Invece io sono venuto a cercare il mio Federico Borromeo... - fu
pronto a ribattere il conte, che in queste battagliuccie
diplomatiche era un piccolo Machiavelli in guanti inglesi. E non
volendo perdere il vantaggio di parlare per il primo, vantaggio che
serve a dare, se non il motivo, almeno la battuta della musica,
continuò subito: - Avrei dovuto venir prima a compiere il mio dovere
verso monsignore e non qui in casa altrui...
- I nostri doveri sono i nostri piaceri - declamò monsignore,
premendo un istante sul largo petto la mano ossuta del conte nella
sua piú nutrita, ingemmata del ceruleo topazio.
I due illustri personaggi, davanti a un vasto camino, dove ardeva
silenziosamente un gran tronco, sedettero in due seggioloni a
spalliera ritta, coi bracci imbottiti di cuoio, sotto lo sguardo un
po' fiero di un santo dipinto, dalla lunga barba nera, credo San
Paolo, che reggeva colla sinistra un gran libro squinternato e colla
destra si appoggiava a un lungo spadone. Cornice, quadro,
seggioloni, e i pochi mobili massicci, che arredavano l'area della
vasta sala in cui fluttuava un filo di odor d'incenso e di cera
bruciata, ebbero per gli occhi del conte l'aspetto stanco e
addormentato delle cose che non si muovono mai, come certi principi
che non sentono gl'impulsi del tempo.
- Prima d'ogni altra cosa mi dica come sta la signora contessa -
riprese monsignore con un tatto gentile d'uomo, che sa il vivere del
mondo.
- Molto bene, grazie, monsignore. Essa mi ha incaricato di
presentarle il suo ossequio - rispose il conte, sapendo di dire
un'amabile bugia.
- Conosco donna Fulvia dalle unghie tenerelle. Non fu essa educata
nel collegio delle Dame inglesi?
- Appunto, Eminenza.
- Non era compagna di mia nipote Cristina?
- Precisamente.
- L'ho confessata piú volte quand'ero vicario da quelle parti. Ha
figliuoli, n'è vero?
- Dio non ha voluto contentarla - confessò confusamente colle
orecchie un po' calde il conte, fissando lo sguardo nel fuoco.
- Pazienza! Si può essere sempre di vantaggio all'umano consorzio -
si affrettò alla sua volta a correggere monsignore, che, per quanto
esperto e navigato, non aveva forse finito d'imparare.
- Io sono venuto, Eminenza, per due motivi - ripigliò subito il
conte per uscir presto da quel discorso impacciato. - Il primo
motivo è, dirò cosí di ragione pubblica; l'altro molto piú delicato,
tocca molto da vicino la persona e la famiglia di vostra Eminenza.
Cominciamo dal primo. Presto avremo le nostre elezioni
amministrative, che preludieranno alle grandi elezioni politiche di
questa prossima primavera...
- Sicuro! - disse la voce baritonale del prelato che, ripercossa
dalla vólta, lasciò indietro un silenzio un po' lungo pieno di
difficili sottintesi.
Il conte vedendo che il nemico non rispondeva alla prima cannonata,
fece un passo avanti:
- Io so che vostra Eminenza è un capitano che non dorme sugli
allori.
- Dica spine, dica spine, signor conte.
- Se è permesso a un bandito qualche indiscrezione, vorrei chiedere
a monsignore quali sono le sue intenzioni per la prossima battaglia.
- Non ho nessuna difficoltà a dir quel che è. Il nostro partito
questa volta farà da sé.
- Cioè porterà nomi suoi, escludendo quelli degli alleati...
- Salvo una o due eccezioni.
- A tutto vantaggio degli avversari comuni.
- L’urna deciderà.
Il dialogo seguiva serrato col passo d'un esercito che si concentra.
Il conte masticò una goccia di saliva, e alzando una mano quasi per
invocare indulgenza:
- Ecco! - fece - se vostra Eminenza mi assolve, io credo che il
partito, al quale Ella consacra la sua nobile attività, si lasci un
po' troppo presto acciecare dalla buona fortuna e voglia mangiare,
come si dice, il fieno in erba.
- A noi non importa tanto il vincere quanto il purificarci, - fu
pronto a ribattere monsignore, ingrossando la voce. - Oggi troppa
zizzania è mescolata al buon frumento, e io son persuaso che, come
in natura, cosí nella vita morale nessuna idea può nascere da ibridi
connubi... - E nel finire questa bella frase, la voce, come se
sentisse l'impulso dell'interna convinzione e dell'indole
battagliera dell'uomo, cominciò a prendere una solennità pastorale.
Il conte, che intese subito il latino della sacrestia, tentennò un
poco la piccola testa aguzza, si fregò le ginocchia, masticò ancora
una goccia di saliva, per finir di concludere:
- Prego vostra Eminenza di credere ch'io non parlo per me, perché
ormai della vita politica son piú le amarezze che le dolcezze che
vado continuamente ingoiando, e il mio sogno è di ritirarmi in
campagna a coltivare i miei cavoli. Ma la mia vecchia esperienza mi
dice che il partito clericale, con questa sua intransigenza, fa un
buco nell'acqua: provvederà forse a qualche piccola ambizione
locale, ma perde di vista il bene supremo della patria e della
religione...
- Conte, conte, conte..- scattò monsignore, facendosi rosso e caldo
in viso, quantunque si sforzasse di smorzare l'improvviso
risentimento sotto un sorriso, che non riusciva ad essere allegro. -
Vorrà concedere, signor conte, all'ultimo dei ministri di Dio di
saper intendere che cosa sia il bene supremo della patria e della
religione, tanto quanto lo può intendere un seguace delle idee
liberali. Non è colla diuturna guerra alle istituzioni
ecclesiastiche, alle mense vescovili, agli ordini rnonastici, non è
coll'obbligare al servizio militare i giovani chierici,
condannandoli all'obbrobrio delle caserme, non è colla confisca
delle mani morte, non è coll'ignorare o col fingere d'ignorare che
ci sia una coscienza religiosa nel paese, non è coll'oltraggiare
l'istituzione stessa del cattolicismo nella persona del suo Capo,
non è con questi mezzi che i nostri avversari di ieri hanno
provveduto al bene della patria. Peggio non potranno fare i nostri
avversari di domani, se l'urna sarà repubblicana o socialista.
Cristo ha detto: «se la tua destra ti è cagione di scandalo,
tagliala», e noi tagliamo, caro conte, cioè noi separiamo la causa
nostra da tutti coloro che considerano, per esempio, il pontificato
romano, non come una gloria e come una futura salvezza, ma come una
vergogna della patria. È duro di dover ferire dei cari amici, ma
l'intransigenza e la coerenza, è la forza dei principii, e per noi è
la verità. L'Apostolo delle genti, che ci sta guardando da questa
cornice - e monsignore indicò colla mano la fiera figura del santo
dalla lunga barba nera - ci ha insegnato a combattere per Cristo. Il
simbolo della pace è la spada.
Il conte si guardò bene dall'interrompere una eloquenza, che
sgorgava cosí calda e sonora, ma, fingendo un atto remissivo di
rassegnazione, con voce umile riprese a dire:
- Perdoni, Eminenza, se nella foga del dire mi è uscita qualche
parola, che possa essere sonata male al suo orecchio. «Iliacos intra
muros peccatur et extra», e la storia ci giudicherà tutti a tempo
opportuno. Ora, per non farle perdere il suo tempo cosí prezioso
dirò subito dell'altro motivo, che mi ha persuaso a chiederle questo
abboccamento. Qui non è piú il deputato che parla ma parla
l’ambasciatore: mi sia lecito dunque invocare il diritto delle
genti, che riconosceva sacra e inviolabile la persona del feciale.
Chi mi manda, come vostra Eminenza può vedere da questo biglietto, è
don Giacinto Magnenzio, il figlio di donna Cristina.
- Notus in Judea.. Che cosa vuole l'elegante ufficialetto? la mia
benedizione?
- Vuole... vuole... veramente non saprei come dire. Se parlassi a un
uomo di mondo, potrei invocare il detto classico: Homo sum et nihil
humani a me alienum puto... - Il conte si rallegrò in cuor suo
d'aver infilato cosí felicemente e in cosí breve tempo le due belle
citazioni latine, e lasciò capire che la riverenza verso il ministro
di Dio lo rendeva un poco imbarazzato e perplesso.
- Cioè? ha fatto degli altri debiti? è vero che giuoca? quella
povera Cristina ha avuto la sua croce in questo ragazzo.
- È un ragazzo un po' vivo e, girando per il mondo, si sa, le
occasioni son molte. Anche sant'Agostino ha fatto le sue in
gioventú.
- Lei, conte, sarebbe un eccellente avvocato per la mia
canonizzazione. - Monsignore rise con tutta la sua bella voce per
dissipare con un gran frastuono quel po' di amaro e brusco che
poteva essere rimasto nell'aria. Poi seguitò: - Parli, parli, il
sacerdote è abituato a compatire le debolezze umane. Che cosa vuole
questo signor Argante?
- C'è che ha conosciuta una ragazza - disse il conte, scivolando
sulle parole.
- Cioè? - fece il vescovo, corrugando le grosse sopracciglia
- E... ci sono conseguenze...
- Oh...! - uscí con un suono secco il prelato.
- Una ragazza di bassa estrazione, una figlia del popolo...
- Asino, imbecille! - tuonò questa volta monsignore, lasciando
cadere sul braccio della poltrona un gran colpo di mano. E si volse
a interrogare collo sguardo corrucciato. E il conte sempre
umilmente, come se confessasse dei peccati suoi, continuò: - Suo
padre non lo sa e non lo deve sapere, povero uomo. La contessa non
fa che piangere.
- Peggio per lui e peggio per lei! - soggiunse, battendo un altro
colpo sdegnoso colla mano chiusa: poi, alzandosi in tutta la maestà
del suo portamento patriarcale: - Dica a don Giacinto - sentenziò
gravemente - che ad altre cure, ad altri bisogni è consacrata la
dignità del vescovo.
- Monsignore, non respinga le lagrime di un peccatore, - supplicò
nuovamente don Lodovico di Breno, che pregustava già il saporino del
suo piccolo trionfo.
- Chi è causa del suo mal pianga sé stesso - ribadí il vescovo
duramente, rimettendosi lentamente a sedere.
- Io credo invece che il caso questa volta meriti una speciale
considerazione. La ragazza non è sconosciuta dalle nostre parti e,
se i parenti vogliono sollevare un clamoroso scandalo, e mettere in
qualche imbarazzo anche vostra Eminenza, avranno buon giuoco in
mano. I nostri avversari... pardon... - corresse con un saltuccio di
malizia birichina - dirò meglio gli avversari di vostra Eminenza non
aspettano che un pretesto per dare una grande battaglia, che
quest'anno sarà, da quel che so, non contrastata nemmeno dal
Ministero, che vuol vincerla ad ogni costo. Ora è evidente che non
Giacinto solo ne andrà di mezzo, ma ne andranno di mezzo i
Magnenzio, i San Zeno, i di Breno, vale a dire tutti i piú bei nomi
del Collegio, le colonne del partito onesto, che non so come
potranno resistere ai colpi dei giornali avversari. Uno scandalo di
questo genere, quando sia ben manipolato, fa una grande impressione
sulle masse, è un turbine, che scompagina tutte le baracche della
fiera. Mi par già di leggere quel che si stamperà in grossi
caratteri sui giornali piú scalmanati di Milano o di Roma: «I fasti
dei Catoni», «I diritti feudali...», «La moralità dei predicatori di
morale», «Il nipote d'un vescovo...». Aggiunga, Eminenza, -
continuava quel birbonaccio di conte colla compostezza di chi mette
a posto un prezioso mosaico - aggiunga che la ragazza era fidanzata
a un giovanotto di là, un ex garibaldino, un arrabbiato libero
pensatore, una mezza testa filosofica, tutt'amicizia, pare, coi
capoccia della framassoneria, che stampa dei libri, e che saprà fare
di questo scandalo un buon sgabello per andare in su. «Rebus sic
stantibus», io non so se a vostra Eminenza convenga proprio
lavarsene le mani...
- Quel che mi dice, caro conte, è veramente brutto - balbettò
monsignore, abbassando la testa, coll'abbandono d'un uomo stanco,
mentre col fazzoletto si asciugava la pallida fronte. - Perché non
mi hanno scritto subito?
- Prima non si sapeva, poi si è creduto che il male fosse minore di
quel che è... Si è sperato sempre in qualche atto di riparazione… ma
è una desolazione, creda, per la povera contessa. Se lei non
interviene, monsignore, colla sua autorevole benevolenza, è una
rovina per tutti...
- E come posso io impedire ai nostri nemici di usare di un loro
diritto di guerra...?
- Ecco! - riprese colla sua vocetta meticolosa l'ometto avveduto -
conosco un poco questi nostri nemici, perché li vedo piú da
vicino... Dove non può arrivare la mano consacrata dei vescovo,
potrebbe arrivare la mano... scomunicata... del deputato... (Il
conte, per togliere ogni sapore ingrato alla facezia, cercò colla
sua la mano paffutella dell'alleato, che rispose con una stretta
lunga e cordiale). - Non solo conosco molti di questi avversari, ma
so anche quel che costano. Quando poi lasciassi capire al
sottoprefetto che una guerra di scandali non sarebbe gradita alla
Corte, Gadda é un uomo da far tacere anche le oche del Campidoglio.
Ma perché io possa essere forte con Gadda, bisogna che mi senta
sicuro nelle mie scarpe, ovverosia che vostra Eminenza mi dica fin
dove posso andare col suo nome e col suo appoggio...
- Ho capito! - disse monsignore, chinando la testa: e per un istante
le due piccole potenze rimasero in silenzio in una grave
contemplazione del fuoco. Quindi come due corrieri che, giunti da
strade diverse a un crocicchio, si preparano a far insieme il resto
della strada, continuarono a discorrere un pezzo, in un colloquio
piú sciolto e familiare, da buoni amici, che provvedono a guardarsi
dai ladri. Il deputato promise di veder subito il sottoprefetto: il
vescovo avrebbe fatto chiamare il curato del sito; se la ragazza era
già nelle buone mani delle contesse di Buttinigo, non sarebbe stato
difficile farla viaggiare anche piú lontano; non restava che uno
scoglio: il fidanzato, questo ex garibaldino.
- Come si chiama questo giovane? - chiese il prelato.
- Giacomo Lanzavecchia - disse il conte, dopo aver consultato un
piccolo taccuino. - 1 suoi hanno una fornace e un deposito di tegole
non molto lontano dal Ronchetto.
Monsignore prese nota dei nomi, dei siti, delle circostanze, e
promise di scrivere al piú presto le notizie delle sue
investigazioni.
Il conte posò le labbra sul ceruleo topazio e venne via in fretta
col suo passetto dimezzato, desideroso di veder Giacinto, prima che
partisse per Roma. Lo trovò che passeggiava martoriandosi i piccoli
baffi, in preda ad una nervosa inquietudine, sotto l'atrio del
teatro alla Scala. Infilò il suo braccio in quello del giovine e,
rimorchiandolo verso il caffè Cova, andarono a sedersi a un tavolino
d'angolo nella sala grande del ristorante, dov'era tutto preparato
per la colazione.
- Coraggio, le cose si mettono bene. Credo di aver vinto, non una,
ma due cause, la tua e la mia. È proprio il caso di ripetere col
salmista: «Felix culpa...!» e, tracannato un bel bicchiere d'acqua
per spegnere l'arsura interna che lo rodeva, disse al cameriere, che
aspettava gli ordini, ritto, impalato nella sua linda falda nera,
coll'aria anche lui d'un solenne diplomatico: - Il tenente beve
Lafitte... e in quanto al resto ci mettiamo nelle tue mani, Biagio.
Oggi pago io, s'intende, per diritto d'anzianità... - E dopo aver
ripulita due volte la bocca col tovagliolo, don Lodovico, che
sentiva d'aver guadagnata la sua giornata, datasi una fregatina di
mani, soggiunse: - Peccato non essere un Paolo Ferrari, che avrei
l'argomento per una magnifica scena diplomatica. Avessi sentito con
che tono alto aveva cominciato: «Vorrà concedere, signor conte,
all'ultimo dei ministri di Dio di saper intendere che cosa sia il
bene supremo della patria e della religione. A noi non importa tanto
il vincere quanto il purificarsi...». Ma poi il sant'uomo scese da
cavallo, ammorbidí la voce, sbarrò tanto d'occhi a sentire come suo
nipote santifichi le feste, e per farla corta, s'incaricò di far
chiamare il prete della parrocchia e mi ha dato un specie di carta
bianca per tutte le autorità eretiche e scismatiche. Per questa
volta, - continuò con nervosa garrulità l'onorevole di Breno, mentre
col tovagliolo finiva di compiere la pulizia delle posate e dei
bicchieri - per questa volta anche il diavolo avrà la sua parte. E a
rivederci alle elezioni generali! Non resta ora che di mettere a
posto quel povero pretendente, che tu hai servito un po' troppo
ladramente, turpe seduttore di ragazze oneste... Che porcheria mi
dai per cominciare? - chiese, interrompendosi e volgendosi al
cameriere, che metteva in tavola un piatto di cibi freddi.
- Huîtres à l'huile, signor conte.
III
SORELLE NEL DOLORE
Celestina, una volta che fu persuasa d'accettare con rassegnazione
la sua sorte, trovò nel palazzo delle due vecchie contesse un asilo
quieto e sicuro. Già fin dai primi giorni la confortò il sentirsi
segregata in un sito dove non era conosciuta da nessuno, lontana da
quella maledetta casa, ogni angolo della quale le ricordava un segno
della sua disgrazia, fuori dagli occhi di Giacomo, ch'essa aveva
ragione di temere come un giudice implacabile.
Le due vecchie dame, che non avevano mai avuto per le mani una
matassa piú ingarbugliata, e che nella protezione della fanciulla
sentivano di carezzare i peccati del loro Giacinto, fecero di tutto
per trattarla bene, le assegnarono la piú bella stanza della
guardaroba, che dava sull'aperta campagna; e, per giustificare agli
occhi della gente la presenza di questa fanciulla in casa, dissero
alle altre donne e al Rebecchino che l'avevano domandata in prestito
alla contessa per la sua abilità nel ricamare. Avvicinandosi il
centenario della Madonna della Noce, volevano finire il bel
padiglione, un lavoro di pazienza, minutissimo, per il quale non
bastavano le sole loro mani e i loro poveri occhi. Questa Celestina,
oltre a essere brava di mano, aveva bisogno di rimettersi anche di
una malattia, di cui recava le traccie sul viso, mentre a Cremona
l'aria non è cosí buona. Con queste ed altre abili bugiette,
riuscirono a rendere naturale non solo la sua presenza a Buttinigo,
ma a giustificare anche una certa quale predilezione, di cui
facevano segno la povera orfanella.
Fecero portare nella sua stanza il telaio col bellissimo lembo
ricamato a imitazione d'un arazzo, offerto dalle monache Preziosine
di Monza. Tra due alti margini di corone di spine intrecciate e
ricorrenti si svolgevano i profili simbolici della Passione di
Cristo, i calici, i flagelli, i chiodi, la croce a punto ribattuto
di seta cruda, collegati un oggetto coll'altro dalle iniziali di
Maria Santissima, a punto rincrunato d'oro, sopra un fondo di raso
color cielo perso, che mandava fosforescenze di madreperla.
Donna Adelasia, che per essere stata fidanzata tre mesi al povero
marchese Caccianino, si sentiva nella condizione non solo di
conoscere, ma anche di poter discorrere dei piccoli misteri della
vita, le aveva tenuto fin dai primi giorni un gran discorso per
raccomandarle la prudenza, la rassegnazione, il santo ritiro:
- Qui - le disse - devi considerarti come in un convento. Non ti
mancherà nulla, ma non devi offrir motivo ai discorsi della gente.
Quando una povera ragazza ha avuto la disgrazia di perdere il fiore
della santa purità, non può avere che un conforto: la religione.
Quando capitano certe disgrazie, com'è capitata a te, povera
pecorella, la gente non crede mai che sia senza colpa. E allora
diventa uno scandalo il solo farsi vedere. Negli esercizi della
pietà potrai trovare la tua redenzione e anche la pace del cuore.
Col tempo non ti mancheranno le occasioni per acquistarti dei
meriti, potrai consacrarti al servizio dei poveri e degli infermi in
qualche ospedale e trarre dalla tua stessa disgrazia i piú preziosi
frutti spirituali. Ho letto che una grande peccatrice di Parigi,
tocca dalla grazia, dopo tutta una vita di perdizione, si era data
all'esercizio delle buone opere con tanto fervore che tutti la
chiamavano la madre dei poverelli e morí quasi in odore di santità.
Questo non per dire che tu sia una donna cattiva, povera pecora, ma
per dimostrarti che si può sempre in ogni condizione ottenere i doni
della divina misericordia.
A queste raccomandazioni, che la carita sincera e la trepidazione
paurosa di uno scandalo inaudito suggerivano allo spirito stretto
della pia dama, Celestina non sapeva opporre che un attonito
sílenzio, come chi teme di offendere col voler capire piú di quel
che permette la sua ignoranza. Non sempre sapeva entrare col
pensiero nello spirito delle cose che sentiva dire, non sempre osava
rispondere a interrogazioni che contenevano curiosità oscure o mal
represse, miste a bizzarrie di desideri invecchiati o morti
insoddisfatti; ma cedeva volontieri alla seduzione carezzevole della
benevolenza e della protezione di queste buone signore, che avevano
nelle mani la sua vita. Come un'edera molle e rigogliosa, che si
attacca e si stende sopra un vecchio muro cadente, nel suo abbandono
e nella sua incapacità si sentí appoggiata a questa protezione, si
adattò al mite e ombroso ambiente, mise volontieri le mani in un
lavoro, che parlava già da sé stesso di sacri dolori e di eterne
consolazioni. Le crisi divennero meno frequenti, perfino un'ombra di
colore riapparí sulla pallidezza del suo volto lavato da troppe
lagrime, si abbandonò alle pratiche della pietà, che per gli spiriti
umili e bisognosi tengono il posto delle persuasioni che non si
possono procacciare; accettò di buon grado tutte le medagliette e
tutte le coroncine, che mandava il convento e che le sante dame
facevano venire apposta per lei da Lourdes o da Loreto, piccoli
segni di quella forza di fede, che è piú facile canzonare che non
sia il farne senza.
Cosí passò tutto il novembre.
Dopo una nevicata, che rallegrò le feste di Sant'Ambrogio e che
lasciò le campagne belle bianche, il dicembre seguí eccezionalmente
dolce. Il piú bel sole si diffondeva nella stanza dove le pie
signore tenevano un vecchio altarino colla statua dell'Addolorata
sotto un tempietto di fiori di carta. Donna Gesumina che era
bravissima nei lavori pei quali ci vogliono manine di piuma, veniva
spesso a trovarla, sedeva con lei davanti al telaio, ordiva il
tessuto nuovo, dava qualche suggerimento per il resto. Se il punto
era alquanto cruccioso o troppo pigro per sostenere la pazienza, la
buona signora intonava sotto voce le litanie su una cantilena facile
e girante come un arcolaio, tale da aiutare senza sconvolgerlo il
filo del lavoro. Celestina in quella vocina di monaca digiuna faceva
entrare a intervalli la bella nota media della sua voce, con cui
soleva sostenere le litanie al Santuario, e si lasciava cullare cosí
in una dolce dormiveglia piena di oblio.
Nelle nature sane pare che anche i dolori perdano del loro veleno e
finiscano coll'essere assorbiti, come sono assorbiti dalle sane
costituzioni i contagi che persistono. Un secondo dolore non fa piú
soffrire come un primo, come se i tristi pensieri, a furia di
passare, facessero nell'anima un solco sempre piú inclinato e largo.
Come il montanaro si abitua a portare sulle spalle i più grossi
carichi e non si sente ben equilibrato sulle gambe, se non quando ha
tutto il suo solito peso addosso, cosí si oserebbe quasi dire che la
natura dia alle costituzioni robuste, non guaste dalla troppa
filosofia, l'abitudine di portare una certa quantità di patimenti.
Questo può spiegare come nel rifiorire della pace anche il fisico
della ragazza, aiutato da forze spontanee piú potenti della volontà,
ricominciasse a fiorire. Nel benessere di tutto il corpo essa
provava non rari istanti di ristoro e di nervosa ebbrezza, non priva
di godimenti, come capita nei dolci istanti di buona convalescenza.
Anima semplice e primitiva, priva di raffinatezze intellettuali,
incapace di uscire o di allontanarsi troppo dal momento presente,
bastava che l'idea dolorosa fosse momentaneamente assente, perché
tutte le altre idee, quasi ancora fanciullesche, godessero di una
specie di vacanza. A vederla in certi istanti, uno avrebbe detto che
la sua disgrazia era piú grande di quel ch'ella fosse in grado di
soffrirne. Pensava qualche volta: - Poiché era diventata cosí
indegna, non per colpa sua, Giacomo avrebbe imparato a dimenticarla.
Forse era per lui una fortuna. Giacomo aveva camminato troppo avanti
sulla strada del sapere, perché potesse contentarsi di voler bene a
una povera ragazza come lei. Se la terribile disgrazia doveva
fruttare a qualcuno, in mezzo al male era un bene che fruttasse
almeno a lui la libertà, e qualche compenso. La contessa aveva
promesso che, fin dove un male si può riparare a denaro, Giacomo
doveva far conto sugli aiuti della sua casa. Alla famiglia dello zio
Mauro non sarebbe mancato piú nulla. Ebbene (seguitava a riflettere,
offrendo a sé stessa, non senza qualche orgoglio, questa
consolazione), se la mia disgrazia salva questa povera gente dai
bisogni e dai creditori, se mette Giacomo nella condizione di poter
continuare nella sua carriera e di farsi col tempo un grande onore,
perché devo disperarmi? Certo avrei voluto restituire in un altro
modo il bene che ho ricevuto; ma poichè Dio ha voluto cosí, sia
fatta la sua volontà.
Ma non sempre questa rassegnazione parlava cosí forte. Improvvise
curiosità intervenivano a interrogarla: «Che cosa avrà detto di me?
crederà proprio ch'io sia stata innocente? perché non è venuto
ancora a vedermi? perché non mi scrive? gli avranno detta la verità?
sa dove sono e in mano di chi?» In questi incalzanti quesiti, a cui
non era in grado di dare nessuna risposta e che andava ripetendo a
sé stessa con una ostinazione piena di rancore e di compianto,
tornava a provare le vecchie ansietà, la sua mente cadeva in paure
profonde; agitazioni nuove, accompagnate da una febbrile impazienza,
non la lasciavano piú ferma sulla sedia.
La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva
non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente
ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse
a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non
aver saputo respingere con piú violenza le cortesie del giovine
conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne
parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza
della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla.
In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando
nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del
rimorso fin nel fiore dell'innocenza.
In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della
viva luce del dí sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua
stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia
tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile,
cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta
di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava
ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere piú che morta,
sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi:
- Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto
della tua Celestina.
- Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno.di
qualche speciale benedizione? - disse un giorno donna Gesumina alla
sorella. - Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di
servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e
ignoranti per tirarle al male.
- Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa
scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da sè. Sono i fenomeni
del suo stato.
Cosí disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica.
- Basta, basta... tu sei piú in grado di me di saper giudicare -
rispose, umiliandosi, la piú giovine delle due vecchie zitelle; e
non tornò piú sull'argomento.
Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di
donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A
Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato
del colloquio avuto con Giacomo:
«Per quanto il colpo sia stato grande» scriveva la contessa «egli mi
ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costí, se
un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto.
La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende
unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile
obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue
benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione.
Io faccio pregare sempre per te.»
Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire
invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel
suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia:
«Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho
paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo
carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio
ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile.
Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi
di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa piú che cosa
pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non
si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale,
che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza
qualche apprensione. Nel mio egoismo non so piú che cosa augurare a
me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai
saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande
battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le
sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli
gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona
coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla
quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la
pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter
morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra
da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità,
nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta,
benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio,
che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la
vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io
sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho
finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non
posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa
spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è
lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí
almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno
una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare
questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di
questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che
espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai
ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive
piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non
immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa
sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi
sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di
questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà,
stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso
al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri
parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi
che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo
errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza.»
IV
SOGNI E COSE VERE
- In quanto a questo, signor Giacomo, c'intenderemo con comodo.
Norma non aspettava che una parola. Dillo tu se non è vero. - Il
signore della Rivalta, sollevando una mano curva e lunga verso sua
figlia, sorrideva, movendo le mascelle di can segugio, mentre la
bella Norma dagli occhi di odalisca, appoggiata mollemente allo
stipite dell'uscio, lasciava cadere piccolissimi baci sulla cucuzza
della cagnolina.
L'ex impresario mise l'un sull'altro venti logori biglietti rossi da
cento lire, dopo di che soggiunse:
- Ora, caro signor Giacomo, non le resta che di firmare queste due
righe.
Giacomo si affaticò inutilmente per chiarire gli sgorbi, che l'amico
protettore gli mise davanti. L'aria della stanza cominciava a
diventare cenericcia. Dopo aver esitato un gran pezzo, non senza
provare in tutto il corpo un inesprimibile senso di cascaggine e
come un dolore sonnolento, che serpeggiava nelle ossa, firmò e buttò
via la penna con un atto di ribrezzo. Il sacrificio era fatto! Per
riscattare la sua dignità, per salvare e sostenere il suo ideale
morale, era venuto alla Rivalta a cercar questo denaro all'amico
usuraio; ma sentiva che, firmando la carta, si vendeva anima e corpo
al suo creditore ed alla sua bella zingara, che lo dominava
coll'occhio della civetta. Ma domani avrebbe potuto dire ai signori
del Ronchetto: «Ecco il vostro denaro; ora posso difendermi; ora
comincia la mia vendetta, o signori!». Avrebbe voluto prendere il
denaro e andarsene da quella casa: ma si aspettava un caffè, un
caffè che non era mai servito. Al di là della soglia, oltre l'uscio
della cucina, vedeva passare e ripassare infagottata in una
gonnella, color dell'acqua sporca, la Serafina, la serva ladra, che,
nicchiandogli cogli occhi loschi, gli voleva far capire che la bella
ragazza era innamorata morta di lui... - Ah! finalmente aprí davvero
gli occhi, e vide che era un altro sogno, o qualche cosa di ancor
piú irrazionale, di piú manchevole di un sogno. Da immagine in
immagine la sua povera testa, divorata dalle fiamme della febbre,
passava attraverso un mondo d'idee posticcie, dal quale usciva per
improvvisi sbalzi nervosi, per ricadere nella realtà, per uscire poi
di nuovo a raggirarsi in tetri labirinti, in mezzo a concetti logici
frammentari, che avevano già fatto parte della sua ragione, ma che
ora rivedeva come i frantumi sparsi in terra d'un vetriata dipinta.
Questo pensiero che alla Rivalta avrebbe potuto trovare il denaro
del suo riscatto gli era venuto per vie ignote in mezzo a mille
altri suggerimenti nelle due ore che, uscito dal colloquio della
contessa, era andato vagolando, come un'anima ossessa, per il
ghiaieto del fiume. Ora la febbre non faceva che dar corpo e colore
a una fragile ipotesi. E cosí si mescolavano gli spauracchi alle piú
dolci visioni; cosí si alternavano i giorni torbidi alle notti di
profondo assopimento. Al sesto giorno di febbre, il dottor Brandati
cominciò a notare un certo sostegno nelle forze: poi vide il male
ritirarsi a poco a poco in una forma placida e indefinita, in parte
divorato dalle sue stesse fiamme, in parte vinto dalla natura sana e
robusta del soggetto.
- Se fossimo in agosto, direi quasi che è un colpo di sole, -
rispose una volta alla contessa che lo interrogava sull'andamento
della malattia - ma credo che in fondo sia una malattia filosofica:
Giacomo fa lavorare troppo il cervello, ed il padrone di casa si fa
pagare i danni e le spese.
In mezzo ai sogni assurdi e contorti della febbre, che versavano
nell'anima inerte dell'infermo una tenebrosa tristezza, e che
duravano penosi fino a produrgli l'angoscia e il singhiozzo,
guizzavano brevi immagini chiare festevoli, tenui memorie di momenti
veramente vissuti, come se passeggiasse tra le sue speranze, o in
mezzo a dolci presentimenti, che lo facevano parlare e ridere forte.
Una volta immaginò di essere nel gran giardino della villa, tutto
pieno di sole, colle belle piante nereggianti mosse dal vento
meridiano. Nei pratelli erano molte farfalle e molti fiori tra
l'erbe alte che ondeggiavano al soffio caldo. Per un viale ombroso e
fresco donna Enrichetta scendeva, nel suo vestitino rosa, tenendo un
libro in mano; e a lui pareva di andarle dietro con passini
leggieri, che gli davan l'illusione del volare; e quando era molto
presso, mettendole le mani sugli occhi, la teneva cosí prigioniera.
Mentre aspettava che la giovinetta rispondesse col suo riso vivo e
molle, al sentir le mani umide e calde, al gemito singhiozzante che
a lei sfuggiva di bocca, si avvedeva con umile e profonda pietà di
stringere nelle mani per un inesplicabile inganno la testa di donna
Cristina.
Fu sotto il palpito doloroso di questa visione che una volta balzò
sul letto.
Riconobbe la sua stanza, il suo letto, la finestra socchiusa e, in
un angolo, il tavolino con su accatastati i libri e le carte alla
rinfusa. Non c'era nessuno in quel momento nella camera. Vedendo sul
tavolino da notte i bicchieri e i barattoli delle medicine, capí
ch’egli era malato, malato d'un gran male alla testa, e che il suo
svegliarsi era simile all'uscire da un sepolcro. Facendo leva col
braccio vinse la stanchezza del corpo, alzò il capo, che gli pesava
come se fosse cerchiato di ferro; lasciò che la coscienza nel
ritornare gli riportasse a poco a poco il nome delle cose e il senso
della realtà. Alla vista della bottiglia dell'acqua stese la mano e
bevette avidamente per spegnere la fiera arsura. Poi si lasciò
ricadere in un pesante abbandono. Cominciò a ricordare in nube che
un gran dolore gli era passato vicino e gli aveva, piú che il corpo,
infranta l'anima. Chiuse gli occhi e lottò un pezzo con sé stesso
per raccogliere le idee rimaste come disperse, al di là della
coscienza; sentendo sonare le ore al campanile della chiesa quella
sensazione d’ambascia, in cui si era trovato al momento di andare al
colloquio colla contessa, si ridestò sotto l'impulso di quel
rintocco di campana; la verità gli apparve in tutta la sua brutale
crudeltà in un improvviso spiraglio di luce.
Che cosa era avvenuto di lui dopo quel colloquio? che cosa avevano
fatto di Celestina? perché non lo avevano lasciato morire?
Un brivido diaccio corse e si mescolò agli ardori della febbre
seguendo l'onda di questi pensieri che tornavano; nella sua estrema
debolezza fisica non seppe respingere un urto di grosse emozioni,
abbandonò il capo sul cuscino e pianse a voce alta.
Mentre ancora le lagrime colavano pei solchi, si aprí l'uscio ed
entrò la mamma.
Al veder la coltre in disordine e il malato cogli occhi aperti, la
buona donna si accostò frettolosamente al letto.
- O Giacomo, o mio povero Giacomo, sei sveglio? come ti senti?
benedetto mio figliuolo, non sai che cosa ti è capitato e dove ti
hanno trovato? Però ti pare di sentirti un po' meglio? piglia una
goccia di brodo. Il dottore ci raccomanda di sostenerti le forze. Se
non vuoi il brodo, c'è qui una lagrima di marsala. L'ha mandato per
te apposta di quel vecchio la contessa. Giacomo con un gesto
risoluto allontanò il bicchierino che la vecchietta voleva
accostargli alle labbra; e si oscurò in volto, come se avesse visto
il veleno.
- Sai che c'è stato anche don Angelo, il tuo zio prete? Ha sentito a
Bergamo ch'eri cosí malato ed è venuto apposta per vederti. Tornerà
quando starai piú bene.
Per molti giorni non fece che star rannicchiato nel letto, testa
sprofondata nei cuscini, cogli occhi chiusi, in uno stato di pesante
annientamento, non desiderando che il sonno, l'oscurità, la
dimenticanza di sé stesso. Come un fanciullo pauroso, che non osa
passar da un uscio per non isvegliare un grosso cane accovacciato
noto per la sua ferocia, cosí egli non osava moversi per paura di
risvegliare la sua riflessione. A certi mali non c'è che un rimedio
efficace: il non pensarvi. Ma piú raffinerai la ragione e la
coscienza, piú avrai affilati in te stesso gli strumenti della tua
tortura, quando la mano spietata del dolore ti lancierà contro te
stesso. E Giacomo non potè impedire che la forza inesorabile della
natura lo portasse nuovamente al supplizio, quel giorno che cominciò
a star meglio. Quasi per ritardare di un'ora la necessità di
occuparsi di sé, volle vedere qualcuno de' suoi, e, fatto chiamare
Angiolino, lo interrogò sull'andamento degli affari.
Il ragazzo, col viso duro, piú oscuro del solito e con una
intonazione fredda d'uomo irritato, si fece a riferire minutamente.
Erano state consegnate seicento tegole al Legnani di Cernusco. La
chiesa di Pagnano aveva mandato a prendere altri quattrocento
mattoni di pavimento. La Lisa aveva incassato cinquanta lire a saldo
del conto Lavelli di Brivio... - E restava lí come oppresso da un
cattivo pensiero.
- E Battista? - chiese Giacomo, che, per paura di sé, andava in
cerca degli altri.
- Battista non parla piú di andare in America. S'è rimesso a
lavorare.
Anche la Lisa, quando seppe che Giacomo cominciava a riconoscere
qualcuno, volle far la sua visita. Si sentiva qualche rimorso per
via di quella benedetta linguaccia e non aspettava che il momento di
farsi perdonare, quantunque, a esser giusti, i fatti avessero data
ragione a lei e non a lui. Per quanto male avesse potuto dire di
madamisella, cento lingue come la sua non sarebbero bastate, pensava
la Lisa, a dir tutto il male che madamisella si meritava. Che fosse
una leggerona si sapeva: ma in casa Lanzavecchia non si osavano
nemmeno immaginare certe vergogne! Il Signore questa volta aveva
voluto bene al povero Giacomo col fermarlo a tempo sull'orlo del
precipizio. Se madamisella avesse portato in casa certe abitudini...
uh spavento! uh ludibrio! - La Lisa entrò nella stanza del malato
colla sua andatura angolosa e rigida, avvolta come una vecchia
ombrella nei vestiti flosci e cascanti, che avevano tutti i colori
dell'acqua piovana: e, accostatasi con passi contati al letto, disse
al malato-.
- È vero che ti senti meglio finalmente? - e non seppe togliere a
quel finalmente un certo tono d'impazienza, in cui si sentiva il
buon cuore litigare col dispetto.
- Sai che ci hai spaventati bell'e bene? Se ti sentivi cosi male
perché non parlare a tempo? Sempre cosí voialtri uomini.
Rimproverate a noi donne di parlar troppo dei nostri mali ma neanche
il tacer troppo, come fate voi, non è un bel sistema. Covare i mali
e non pensare a curarli che quando non se ne può piú, è proprio come
andare dallo speziale a comperare la febbre. Ma pazienza, e sia
lodata la Madonna! - soggiunse senza intenerirsi troppo su questa
devota giaculatoria, perché in cuor suo sentiva per un razionale
istinto che, quando la Madonna vuol proprio bene a un povero
cristiano, ha tutti i mezzi di risparmiarglieli addirittura certi
dolori.
Nello sforzo che la ragazza magra faceva per contenersi umilmente
davanti al letto del malato e per dare alle sue parole un senso di
mansuetudine, i gomiti le uscivano acuti e irritati dai fianchi, la
sua testa spettinata s'irrigidiva nella luce cruda della finestra.
- Adesso cerca almeno di guarir presto, perché tu sei piú necessario
di prima a questa povera casa senza tetto. Questa povera donna -
soggiunse indicando la mamma, che rientrava colla tazzetta del brodo
- non è piú quella di prima e non parla che di morire. Io dico che
per morire moriremo tutti, quando sarà la nostra ora, e non c’è
bisogno di mandare su un'istanza; ma il Signore dice: «Aiutati che
ti aiuterò». Cerchiamo di dimenticare le cose passate e amen. Anche
tu, Giacomo, devi farti una ragione, perché tutto il male non vien
per nuocere, se dobbiamo credere a quel che è venuto a dire lo zio
prete.
- Che cosa è venuto a dire? - domandò con aria stanca il malato.
- Ha detto che tornerà e parlerà con piú comodo - fu pronta a
interrompere la mamma, lanciando una viva occhiata di rimprovero
alla figliuola. - Ora pensa a guarire, che è l'importante: al resto
penseremo poi. Le some si aggiustano per via.
- C'è stata due o tre volte la signora contessina colla sua maestra
a domandare tue notizie - disse Angiolino che capí la necessità di
sviare un discorso difficile.
- Ti va? - chiese la mamma, incoraggiando il malato a prendere il
brodo, mentre lo aiutava a mettersi un cuscino dietro la schiena. -
È tutto brodo di cappone.
- Lo si doveva mangiare per Natale, - disse la sorella - ma è sempre
buono quel che arriva a tempo. Per Natale metto in collegio un bel
tacchino, se avremo voglia di mangiarlo. Intanto io son del parere
che tu abbia a vendere allo stracciaiuolo tutta questa filosofia,
che ti guasta lo stomaco. - La Lisa indicò i libri e le carte
ammucchiate sul tavolino, facendo colle due mani il segno di chi
spazzola l'aria. - Già, credi pure, il mondo non lo si rappezza piú
nemmeno con la carta stampata e una buona digestione vale una
dozzina di belle massime. Quando c'è la salute, a che cosa serve la
spezieria?
- Tu gli fai la testa grossa cosí - rimproverò la mamma.
- Badate a tener nota esatta di tutto quello che spendete per me...
- disse Giacomo, rannuvolandosi in volto, con uno sforzo doloroso,
che gli fece la fronte umida di sudore.
- Non parlar di conti, adesso, - riprese la mamma - e non pigliarti
pensiero per noi. Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci
può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui.
- L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la
Lisa.
- Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci
vuol bene.
Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con
Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava,
raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la
nuca.
- Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare
tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla
memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso.
La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli
degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva
sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della
favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo
fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere
un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua
antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina
rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo
Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a
qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona
senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo
orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il
suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni
ci saltavano dentro.
Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il
padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da
cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e
venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi,
incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una
mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a
lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose
con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar
della coda.
- Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo,
come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo
prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra
povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú
brutte.
Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse
dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del
cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto,
mandava un gemito come d'anima sofferente.
Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava
crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la
vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e
tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di
estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre:
l'infermo stringeva i pugni sotto le coperte, o si metteva a sedere
sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema
battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e
grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile
conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura!
All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella
sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma
semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica
della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece
era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai
ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú
grande incapacità!
Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí
immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non
vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto.
Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli
sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa
d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a
battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano
i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava
insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore,
per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni,
per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo
esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei
tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e
della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua
antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva
pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con
bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere
il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi,
farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il
vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel
suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza
nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul
bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza.
A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era
trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione
morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua
mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui,
come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e
le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica
argomentazione alle rodomontate del sentimento. «Un assassinio? una
strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un
delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima
tua! Forse che il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere
una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico
Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un
drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i
lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una
vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico
il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari
le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita
spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno
insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli».
Ma che poteva fare dunque per quella poverina?
All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un
nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze
della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce
malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con
cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto
questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa
rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale,
di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le
dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto
di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e
sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio.
Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede
all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli
adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto
insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e
che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e
del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava
piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava
la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo:
perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti
nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti
beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla
giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O
Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi
signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole
e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto
l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra
sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si
compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú
coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un
povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla
luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della
prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito
ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di
quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove
giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie
traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso,
simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco.
Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino
recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in
luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio
prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in
un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi
della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste
del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche,
di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga
illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una
processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una
musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando
Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla
testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta
raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum
gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso
irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione.
Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico
frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle
ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e
fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano
ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e
partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di
un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene
perduto?
V
FINIS PHILOSOPHIAE
Il dottore, vedendo che la stanza del malato non aveva fuoco, gli
consigliò di cercare un rifugio piú riparato nella vicina camera
dello zio prete, dove si poteva accendere il caminetto.
Imbacuccato nel gran tabarro a cinque mantelline del povero pà, il
nostro malato passò i primi giorni della sua faticosa convalescenza
sprofondato nel seggiolone dello zio prete, colle gambe fasciate
nello scialle di sposa della mamma, provando nella sua sfinitezza e
nel tiepore morbido della cameretta il pigro piacere di sentir la
vita rinascere e di contemplare in una vuota estasi i grossi fiocchi
di neve cadere sui tetti già bianchi dei casolari contigui e sui
fracidi pergolati. Appoggiava la testa allo schienale alto del
seggiolone, sul fondo bruno del quale la sua faccia, resa piú
sottile e nobile dalla malattia, spiccava in una delicata
bianchezza, e rimaneva cosí lunghe ore cogli occhi perduti nella
festa luminosa della fiamma, in cui si agita in modo cosí vario e
cosí bello lo spirito sottile della vita.
Una mattina pregò la mamma di mettergli accanto sur un tavolino
tutte le carte stampate e manoscritte, che formavano il materiale
del suo libro.
- Non aver troppa fretta di metter le mani in queste tue cartaccie,
- gli disse la mamma - prima hai bisogno di guarire. Libro piú,
libro meno, il mondo va innanzi lo stesso.
- Non ho che a fare una piccola correzione... - rispose Giacomo con
un malinconico sorriso.
La mamma lo contentò. Gli portò nel grembiale quel gran fascio di
carte, che lo spavento di quei di casa aveva scompaginate, e,
vedendo che il figliuolo stava bene e non aveva bisogno di nulla,
soggiunse:
- Oggi è festa, e son tre domeniche che non sento una messa. Posso
andare?
- Andate pure, mamma; per ora non mi manca nulla.
- To', vien Blitz a tenerti compagnia - disse la donna nell'uscire.
Il cane venne anche lui a sedersi al fuoco e, appoggiando la grossa
testa alle gambe del padrone, lasciò che questi si attaccasse
famigliarmente alle sue orecchie.
Nevicava con forza lenta e silenziosa. Erano usciti tutti, e non uno
zitto si sentiva per la casa. Se tendeva l'orecchio ad ascoltare,
pareva a Giacomo di sentire nella delicatezza della sua debolezza la
solennità della grande inerzia che teneva la campagna e come se quel
gran freddo invernale entrasse a stringere e a irrigidire la sua
speranza, appoggiò la testa pesante alla mano e si carezzò
dolorosamente la fronte. Era solo nella povera casa di suo padre,
ch'egli non aveva piú la forza di sorreggere.
- Blitz - chiamò con un lento singhiozzo. Il cane sollevò gli occhi
umidi e stette ad aspettare che il padrone gli dicesse una buona
parola.
- Sta attento, Blitz, come va a finire l'ideale...
Il cane riaprí gli occhi davanti a una luce piú viva, che si alzò
nel caminetto. A mazzetti, a mazzetti, Giacomo seguitò a gettare sul
fuoco il manoscritto e i fogli di stampa, fin che rimasero immersi
nella brace d'oro in un misero pugnetto di carte carbonizzate.
Tratto tratto, sotto i contorcimenti dei margini, uscivano in una
traccia sanguigna le righe e perfin le parole dov'era passata, dove
aveva palpitato l'anima del filosofo. Esitando il vento, che
scendeva dalla canna, a scomporre e a rapire le povere spoglie,
Giacomo nel furore con cui un suicida si pianta un coltello nelle
carni vive, urtò colla pala quell'inerte mucchio di vani pensieri,
che svolazzando in una fuga sgominata, si dispersero per la nera
gola.
- Finis philosophiae - mormorò con grave accoramento, chiudendo gli
occhi e appoggiando la testa affaticata al palmo della mano. Di che
cosa avrebbe vissuto domani? Per rompere con un atto materiale la
cupa misantropia, che minacciava di soffocarlo, provò a muoversi,
uscí appoggiandosi alla parete sulla loggetta, da dove l'occhio
correva sui campi aperti e sui tetti delle fornaci; posò lo sguardo
sulle suppellettili e sulle cento cose, che il tempo e l'uso della
vita avevano radunato nel portico e che nell'aria livida
dell'inverno gli parlavano con un senso d'infinita tristezza.
Sentendosi abbastanza sicuro sulle gambe, provò a scendere le scale,
e quando fu abbasso, nella cucina, si accostò al camino, dove
bolliva sommessamente un caldano, e sedette nella poltrona di legno
del pà, che era stata la poltrona dei vecchi, sempre davanti a quel
medesimo camino dalle panchette logorate, dagli alari consunti,
dagli oscuri ripostigli, che contenevano le cose dei morti. Ogni
generazione vi aveva dimenticato qualche cosa, chi una pipa, chi una
scatola di fiammiferi, chi una tabacchiera, chi una moneta, chi un
cartoccio di tabacco, chi un libro da messa o un rosario, o un
bastone, o un falcetto; e si sa che ogni cosa lasciata indietro ha
dentro di sè un poco dell'anima di chi è partito, come resta il
calore della vita per breve tempo anche dopo che la vita ha cessato
di battere nel corpo. Molta cenere era stata portata via e dispersa
dal giorno che davanti alla pietra scolpita del camino era stata
accesa la prima fiamma; e ogni cenere morta contiene un pugno delle
nostre speranze! Ma nessuno de' suoi era stato avvilito e
amareggiato come avevano avvilito e amareggiato il filosofo di casa,
il grand'uomo, che intorno a quell'affumicato edificio di casa sua
aveva creduto d'innalzare un tempio ideale ricco di pietre preziose.
Non era passato un mese dal dí che aveva sognato di far sedere
Celestina al suo fianco, lí davanti a quel camino, e di rinnovare
con lei nella casa dei Lanzavecchia un nuovo patto; ma intanto
ch'egli costruiva i sogni suoi nella cenere, c'era chi faceva di lei
e dell'onore di tutti e due il piú orribile strazio. No, no, nessuno
dei vecchi padri era passato per queste verghe; nessuno avrebbe
saputo immaginare per sé una simile ignominia. Questi era riservata
al discendente filosofo, al raffinato analizzatore della vita,
perché avesse con comodo a scriverne un bel libro. Questo gli
andavano ripetendo con ironico aspetto le sedie, le casse, gli
utensili accostati al muro, la polverosa cicogna, che alzava il
collo di mezzo ai trespoli consunti sull'armadio, questo gli
suggeriva ogni altra apparenza, a cui l'occhio, l'abitudine, la
memoria avvessero attaccato un po' della sua vita. Che stava egli a
tener in conto questa sua miserabile esistenza senza bene, senza
coraggio e senza rassegnazione? L'odio, che gli stillava dal cuore,
non faceva che corrodere come un acre veleno le sue viscere, senza
infondergli l'ardimento d'una vendetta o di una qualunque azione
vigorosa, che giovasse alla sua dignità. Il suo posto nel mondo non
poteva essere che un oscuro nascondiglio, come si riserva agli
arnesi scassinati; e allora che giovava il vivere?
Ancora una volta si mosse e girò intorno alla tavola, non potendo
star fermo su questi aculei; ma nell'alzare gli occhi, un cupo
pensiero si fermò sullo schioppo da caccia a due canne, attaccato
per la bandoliera lungo il muro sulla cappa del camino. Era un
vecchio schioppo di buona fabbrica bresciana d'un calibro solido e
pesante, che nelle mani del pà non aveva mai sbagliato un colpo.
Giacomo osservò che uno dei cani aveva la capsula, segno che c'era
dentro una carica. Con un braccio appoggiato alla sponda della
tavola, a cui cercava di reggere il corpo affievolito, si domandò
con terrore se il caso ha i suoi suggerimenti, socchiuse gli occhi,
volò con l'immaginazione a quel che poteva essere di lui al di là
d'un gesto fatale. Un gran picchio di cuore gli fece sentire il
rombo della schioppettata e si rimirò disteso col petto squarciato
attraverso la pietra del camino. Cedendo al fiero invito, montò
sopra una sedia, distaccò il fucile, alzò il cane sulla capsula...
girò gli occhi intorno... Proprio in quell'istante presero a suonare
le campane del Sanctus della messa.
- Povera donna...! - mormorò: e buttò la capsula nella cenere. La
notte, ebbe un breve ritorno di febbre; tanto che il dottore gli
consigliò, anche in vista della brutta stagione, di restare a letto
qualche giorno di piú.
VI
I CONSIGLI DELL'ESPERIENZA
Don Angelo Lanzavecchia, incaricato da monsignore di trovare a
questa dolorosa avventura una risoluzione che accomodasse senza
scandalo le parti offese e che nello stesso tempo fosse di
soddisfazione alla giustizia, tornò alle Fornaci verso la metà di
dicembre per avviare con Giacomo un discorso semplice e pratico,
ispirato alle necessità e ai freddi consigli dell'esperienza.
Il vecchio prete, che era un uomo di fondo ruvidotto e campagnuolo,
colla trascuranza propria di chi sa che a questo mondo, voltala e
rivoltala, una cosa val l'altra, convinto per la lunga pratica della
vita che, a tirarla troppo, si rompe anche la corda del pozzo,
espose con naturale bonomia tutte le ragioni, per le quali, a parer
suo, non si doveva respingere la mano, che i signori del Ronchetto
stendevano a chiedere perdono e ad offrire una buona riparazione.
- A far degli scandali si fa presto, - disse il vecchio uomo, che
colla persona colossale e tarchiata riempiva tutta l'aria di un
uscio - ma io ho sempre visto che gli scandali non sono che il
teatrino dei gonzi. Chi butta in aria il fango se lo butta
facilmente in viso. Quel giovinastro seduttore non me lo puoi
ammazzare, perché si ammazzano le galline e non i cristiani: e poi,
quando pure ti fossi abbeverato di sangue, non puoi fare che non sia
avvenuto quel che è avvenuto. Non te la puoi pigliare colla
poverina, che non ha nessuna colpa. La contessa, che avrebbe tutto
l'interesse ad accusarla e a farla passare per una civetta, vedi
invece che la difende a spada tratta e mette la sua innocenza fuori
di discussione. Non ti resta dunque che di pigliartela con te
stesso; bravo, ma tu sei il meno colpevole, avendo sempre nelle tue
azioni operato con buona intenzione e con sincerità. Se l'ammazzare
è un mestiere da beccaio, l'ammazzarsi è da asino. A chi gioverebbe
una tragedia? a te no, a Celestina nemmeno, meno ancora a tua madre
e alla tua casa: tutt'al piú servirebbe a far sapere anche a chi non
lo sa che ti hanno fatto un gran torto. Sicuro che fu un gran torto!
e capisco come tu possa averne la testa malata: ma, lasciando stare
che anche a nostro Signore ne hanno fatto dei torti, e grossi, io,
se dovessi scegliere, vorrei sempre essere tra coloro che li
ricevono i torti e non tra coloro che li fanno. Il mondo fu sempre e
sarà sempre pieno di trappole e di dolori. In qualche modo bisogna
che anche il male si manifesti. Oggi è una grossa flussione, domani
è un tremendo mal di denti, dopodomani è una ladreria, che ti fanno
patire, o un'ingiuria, o una coltellata che ti dànno nella schiena:
è inutile! il diavolo c'è e vorrà sempre metter le corna nelle
faccende del mondo. Che possiamo e dobbiamo fare noi cristiani di
fronte a questa dichiarazione di guerra? Darla vinta a berlicche?
Rinunciare alla battaglia per paura delle botte? Il diavolo lo si
piglia per le corna e gli si dice: Io sono piú forte di te! Alle tue
cornate non c'è nulla che piú resista come un buon cuscino imbottito
di pazienza. E lo sai meglio di me tu, che hai letto i classici; e
sai quel che dice Virgilio, che non era un coglione: «Durate et
vosmet rebus servate secundis...» - Qui il vecchio prete tirò una
presa dalla scatola d'osso, poi continuò: - Stando cosí le cose, non
vedo che un mezzo possibile per uscire da questo ginepraio. Chinar
la testa alla volontà di Dio e lasciare che il tempo faccia maturare
il sacrificio. Tu non puoi, qualunque sia il tuo modo di vedere,
abbandonare Celestina in mano agli altri, non puoi chiuderle l'uscio
in faccia, come se fosse una donna perduta, non puoi spingerla sulla
brutta strada, come purtroppo capita a queste povere figliuole senza
protezione. E se la disperazione le andasse alla testa? e se in un
momento di pazzia commettesse uno sproposito? Non v'è bisogno
d'avere studiato per capire certe necessità. Non puoi nemmeno far
cadere il castigo delle colpe altrui su tua madre, su tua sorella,
sulla tua casa, a cui oggi sei piú necessario di prima. L'amore
sarà, anzi deve essere una bella cosa, dal momento che Dio lo mette
nel cuore degli uomini; ma il mondo non lo si mantiene soltanto
coll'amore. Ci deve essere anche il dovere per fodera. E non si
abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di
dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi
crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di
me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole
in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in
pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver
da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel
minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non
meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse,
stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del
nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú
poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si
dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a
vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú
inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche
buon secolo prima che si inventasse d'attaccare il picciuolo alle
ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che
tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. -
E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si
offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a
tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare.
Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia
fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti
troverai contento di non aver impedita la pace.
Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un
senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose?
Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della
filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere
le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò
la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.
VII
UN MAZZETTO DI LETTERE
Donna Fulvia di Breno a Giacinto
Milano, 15 dicembre.
Dunque siamo sulla buona strada. Monsignore non ha perduto il suo
tempo e forse la patria è salva. Riservandosi di regolare la parte,
diremo cosí, canonica della questione, Monsignore, che ha fiutato il
pericolo in aria, ha fatto chiamare subito il parroco del sito. Da
prete in prete, si scoprí che un Lanzavecchia è vicedirettore d'un
collegio vescovile e fu chiamato anche lui ad audiendum verbum
-(excusez le latin) - e a lui il vescovo ordinò tutto quel che un
vescovo può ordinare in una circostanza come questa. Don Abbondío
andò al castello dell'Innominato, voglio dire cercò i parenti della
povera innocentina (glissons, n'appuyons pas), mise innanzi la
parola autorevole del vescovo e qualche altro argomento piú
persuasivo. Tanto fece insomma questo nuovo Boccadoro che a
quest'ora il tuo peccato mortale ha reso o sta per rendere a quei
disgraziati come un doppio raccolto di bozzoli. «El tempesta mai a
dagn de tucc..». dicono i nostri contadini, che hanno anche loro una
filosofia degna di essere stampata. Pare che anche don Abbondio avrà
il suo compenso, appena resterà vacante un posto di canonico in
duomo. Lodovico, che mi ha dato queste preziose notizie, è aux
anges, perché ha potuto scongiurare un diabolico complotto clericale
contro il nostro partito e consolidare la sua base elettorale presso
questi buoni curati, che, se fossero trattati un po' meglio dal
governo, sarebbero in fondo una nostra forza. Lodovico dice che il
partito moderato ha sempre esagerato sulla sua politica
ecclesiastica e che fu una grande insipienza l'aver disgustato il
basso clero. Vedo che dovrò anch'io regalare almeno una lampada
all'altare della Madonna della Noce, quantunque abbia il cattivo
gusto di lasciarsi vestir cosí male.
Revenons à nos moutons. La ragazza, che fu tenuta finora sotto la
protezione di quelle due farfalle angeliche delle tue zie di
Buttinigo, sarà per raccomandazione del vescovo inviata a un
ospedaletto di suore, fuori della diocesi, dove troverà nei conforti
della religione e della carità quel coraggio di cui, poverina, avrà
presto bisogno. O iniqui peccatori! Vedete di quali tristi
conseguenze siete cagione? e potete ancora andar saccheggiando come
i lanzichenecchi le fragili virtú e le riposte dovizie della
bellezza? Scherzi a parte, Giacinto; se vuoi proprio bene alla tua
povera mammà, come vuoi far credere, non star piú colle mani in
mano. Prendi una bella penna e scrivi un letterone coi fiocchi, in
cui ti mostri riconoscente di tutto quel che ha fatto per te, e
chiedile perdono di tutto quel che le hai fatto soffrire. E prometti
di lasciarti guidare da' suoi consigli. Quando si ha una mamma santa
e di talento come hai la fortuna di possedere, la strada della virtú
è già segnata. E colla medesima penna scrivi allo zio Monsignore
un'altra lettera piena di lagrime, che cominci colle parole:
«umilmente prostrato a' suoi piedi...» e finisca colla promessa che
gli fai di piangere tutta la vita questo tuo giovanile traviamento.
Non ti pesi troppo di riempire tre o quattro facciate, che non mai
fatica letteraria sarà piú ricompensata. L'esperienza la si deve
pagare a proprie spese: ma tu saresti indegno del nome che porti, se
da questa esperienza non ricavassi qualche insegnamento e non ne
uscissi colla nausea per tutto ciò che è volgare e poco pulito.
L'aristocratie c'est de la politesse. Perdona ad una vecchia amica
la predica: ma questa volta te la sei meritata.
La tua quasi zietta Fulvia.
Il conte Lorenzo a Giacomo Lanzavecchia
Cremona, 15 dicembre.
Caro Giacomo,
Son dovuto partire dal nostro Ronchetto senza prima salutarvi,
com'era desiderio mio vivissimo: ma il rigor del verno e questo
cuore, che da qualche tempo mi travaglia non poco, mi hanno impedito
di scendere a salutarvi alle Fornaci. Sento tuttavolta che andate
via via, per quanto di lento passo, riacquistando la sanità, la
quale, secondo che parve a tutte le filosofie del mondo, è il
miglior dono di natura. Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite
nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti
difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe,
cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar
posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le
forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di
quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte
della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio
delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei
che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi
occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice
il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o
d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali,
trascura oggidí quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e
autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei
nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si
mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione
dire in quel «Discorso preliminare», che premetterò alla raccolta
delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio
in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva
dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto
genitore. «Brevis esse laboro, obscurus fio», posso dire con Orazio:
ma nulla è piú tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato
di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni.
Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di
piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale
e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del
canonico Ostinelli a cui sono cosí care le cianciafruscole
manzoniane. Abbiatemi per vostro.
Lorenzo Magnenzio di Villalta.
Giacomo a Celestina
Fornaci, 15 dicembre.
Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto
malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia
povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le
tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non
mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me
stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e
le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te
e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua
disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del
sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se
anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo
che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante
della tua virtú e del tuo affetto?
Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu
lasciati giudicare da me. Sí, Celestina, il tuo cuore, la tua vita,
la tua virtú sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il
tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo
nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtú, e questo
colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo
guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo
e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costí, vorrei
metterti le mani sulla testa per rendere piú forte questa
benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo
rinfranchi. Immagino tutto quello di piú spaventoso agiterà i tuoi
giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la
religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e
terribili. Ebbene, non pensar piú a nulla, non dir piú una parola,
non far piú un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti
par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita
non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e
l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e
per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti
dimostrarmelo di piú, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei
consigli.
Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a
insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno
bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno.
Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a'
miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me,
impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non
possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che
l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna
assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può
essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a
queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è
la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di piú, se non
mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu
sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano
molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega
l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è
presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra
che ci abbia abbandonati.
Il tuo Giacomo.
Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il
nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto
rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur
forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della
terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli
stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo
di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere
irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato
di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione
non conosce.
Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase
qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera,
che egli considerò quasi come il suo testamento morale: «Mio zio -
le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da
me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi
di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera
esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi
opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre,
che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune
sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi
pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come
ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò
morto del tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le
parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi
uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me
stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano
dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia
testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di
perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri
quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di
atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo
crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di
connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un
vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella
convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non
potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile
intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene.
Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi
dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa
medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove
mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir
subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di
usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per
il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di
questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio
risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a
sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un
fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei
pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che
resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma...».
- E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il
presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto
dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che
comprende tutte le altre.
VIII
ENTRA IN SCENA LA DEMOCRAZIA
Una mattina, qualche giorno avanti le feste di Natale, don Lorenzo,
con indosso la veste rossa di flanella, che Fabrizio aveva avuto
cura di riscaldare alla stufa, stava scrivendo nel suo studio a
Cremona alla luce d'una lucerna, che faceva lume a una giornata
nebbiosa, piovigginosa, triste come la politica.
In giro sulle quattro pareti luccicavano quattro massicci scaffali
di mogano, con modanature di bronzo dorato, pieni di bei volumi
legati in pelle colle intestazioni d'oro: e sopra ciascun scaffale
era un busto di bronzo scuro, rappresentante uno dei quattro nostri
grandi poeti. Un'iscrizione d'oro in lettere greche maiuscole
correva lungo la cornice dei quattro armadi, racchiudendo una
sentenza, che don Lorenzo spiegava volentieri, traducendo: «I libri
essere medicina dell'anima.»
In uno degli scaffali il conte teneva la raccolta dei classici
greci, latini e italiani, coi lessici e colle opere fondamentali di
consultazione. La sua filologia però non andava piú in là del sapore
dolce che hanno in sé i libri della bella antichità classica; anzi,
egli non aveva mai potuto comprendere la fissazione di certi nuovi
cosí detti filologi, che sputano il fiore per il gusto di masticare
delle amare radici. In un altro armadio dominavano gli storici, ma
intendiamoci, i buoni, quelli cioè che hanno saputo vestir di
broccato la verità, scrivere con dignità, con magniloquenza romana,
non questi raccoglitori di notiziole e di quisquilie, che,
sull'esempio dei tedeschi confondono l'istoria, magistra vitae,
colla nota del bucato o colla spesa del cuoco. La sua raccolta
cominciava dunque con Ricordano Malispini e scendeva fino al Botta,
al Colletta e all'Amari. Non potendo sopportare le traduzioni mal
fatte, e non sapendo leggere il tedesco, non aveva del Mommsen che
qualche dissertazione latina, quel che bastava per fargli dir corna
di un uomo, che ha rovesciata la Storia romana e negato agli
italiani il senso della poesia lirica. Che fortuna, diceva su questo
proposito, che fortuna che certe corbellerie sian dette in tedesco!
In un riparto separato il buon classicista teneva sotto chiave i
buoni novellatori del trecento e del cinquecento e anche qualche
birbonata del Casti e del Porta, ch’egli poteva leggere e gustare
colla superiore licenza ecclesiastica, ridendo volentieri coi pochi
amici del suo tempo e del suo gusto alle facezie grassoccie sí, ma
sane, dei nostri buoni padri. Non voleva però che Giacinto mettesse
le mani, nemmen per isbaglio, in questi fiori del giardino di
Armida, perché ogni età ha i suoi pericoli. Il buon padre non
immaginava nemmeno che venissero da Parigi dei profumi ben piú
pericolosi.
Da alcuni giorni, dopo che le stanze furono ordinate e dopo che
furono messi i tappeti in terra, il conte, nel tepore di quindici
gradi costanti, andava riordinando gli elementi del suo «Discorso
preliminare», di cui qualche periodo non da buttar via cominciava a
correre sulla carta. Era per provare la rotondità delle frasi, che
di tanto in tanto lo scrittore aveva bisogno di leggere a voce alta
uno de' suoi foglietti, su cui la scrittura grossa ed obliqua
correva come altrettante note musicali:
«Parlare a' giorni nostri degli uffici della nobiltà potrà forse
parere a taluno pressoché opera vana, per non dire ridevole, tanto
oggi gli uomini si affaticano a non stimare se non quel che in oro
si traduce o che dell'oro abbia le fallaci apparenze. Che giovano
(dice la gente al vil guadagno intesa), che giovano gli emblemi e le
larve d'una polverosa nobiltà, condannata a un perpetuo esilio dal
consorzio civile, buona, non dico a reggere, ma solamente a far
gemere le meste rovine degli aviti palagi...?»
- Fabrizio, mi pare un po' troppo caldo qua dentro - interruppe il
conte, che cominciava a infiammarsi nel fervore delle sue frasi
cadenzate. - Forse è meglio che tu mi dia la veste verde, che
riscalda meno.
Di queste vesti foderate di flanella ce n'erano quattro come i
quattro poeti, di peso e di imbottitura diversa, che Fabrizio doveva
far indossare a norma del termometro e del barometro giudiziosamente
combinati insieme. Veste verde significava quasi sempre depressione
atmosferica, aria morta e soffocante, pioggia imminente. Indossata
la nuova zimarra, il conte riprese la sua lettura, sollevando un
viso, che la luce della lucerna circondava di gloria.
«Ciò non di meno pare a me che all'umano consorzio le virtú del
passato non giovin meno di quel che giovin le forze del presente,
non essendo, a parer mio, null'altro il presente momento che la
somma risultante di tutte le forze antecedenti. E stando cosí la
condizion delle cose, nessun ordine è piú indicato a conservare
intatta e venerata la tradizion del passato di quel che sia l'ordine
della nobiltà, che dei tempi trascorsi conserva, dirò cosí, le
pietre piú preziose e le già intrecciate corone. Che se l'antico ha
potuto suscitare, al volger del passato secolo, contro l'instituto
gentilizio la reazion popolare, non fu giusto che insieme alle colpe
andasse travolta la tradizione, avvegnaché...»
- Fabrizio, portami il brodo liscio stamattina, e di' al cuoco che
quella sua lingua di manzo era troppo grassa. Mi pare di sentirmela
ancora in bocca.
Don Lorenzo si mosse per consultare un passo dei «Discorsi» del
Machiavelli, dove si parla del dominio dei pochi: e pochi istanti
dopo, Fabrizio entrava colla posta del mattina, raccolta in un
vassoio d'argento. C'era il solito «Bollettino dell'Istituto
Veneto», quello dell'«Istituto Lombardo» colle prime comunicazioni
del Lattes sull'italianità degli Etruschi, un argomento che
stuzzicava la sua curiosità e insieme il suo orgoglio nazionale
contro quei signori della Sprea, che ti farebbero tedesco anche il
bel tempo. C'era la «Perseveranza» di Milano, detta donna Paola,
della quale divideva or sí, or no, le opinioni. Se come umanista non
aveva ripugnanza ad accettare anche le idee di Lucrezio Caro, che
egli traduceva di nascosto per un certo gusto del difficile; se nel
campo libero della filosofia indipendente non gli facevan paura né
gli atomi di Epicuro, né i vortici del Cartesio, né la pluralità dei
Mondi del Leibnizio; in politica, era, secondo il suo modo di
vedere, un altro paio di pantofole. Come cittadino, come Magnenzio,
come padre di famiglia, era di opinione che una buona messa e un
buon rosario valgono, per la felicità dei popoli, piú che tutta la
scienza della famosa Enciclopedia.
- S'è visto il bel risultato della dea Ragione applicata al governo
dei popoli. O l'utopia di Platone, o la ghigliottina a vapore. Quel
che piú importa ai popoli è di star bene e di vivere in pace.
Siccome però per pace intendeva specialmente la sua, cosí il buon
uomo era tratto facilmente a giudicare le teoriche sociali un po'
troppo colla bocca dello stomaco. Questa pace benedetta se la faceva
seder vicina tutte le volte che poteva chiudersi nel suo studio, in
un angolo della casa, dove non arrivava mai nessun rumore della
strada, tranne il rintocco delle ore del vicino convento dei
cappuccini. E per amore di questa pace, ai libri dei vivi preferiva
quelli dei morti, perché sulle guerre dei morti son già cresciuti
gli ulivi o son scaramuccie già messe in musica: mentre queste
controversie politiche, sociali, economiche, parlamentari,
amministrative, anche quando si fanno per otium philosophiae,
lasciano sempre la bocca impastata come una lingua di manzo non ben
sgrassata.
Don Lorenzo, dopo aver crollata la testa su un articolo
d'intonazione rosminiana, che la «Perseveranza» riportava in difesa
delle quaranta proposizioni quasi ereticali del filosofo roveretano
(tutte beghe che sconnettono la fede), prese dal piatto una
letteraccia mal piegata, che puzzava di pipa lontano un miglio, con
sopra una scritturaccia, che pareva dipinta colla scopa, e
voltandola e rivoltandola nelle mani
- Chi è questo Gioppino che scrive L'orenzo coll'apostrofo? -
brontolò un pezzo, squadrando con un certo sospetto la lettera, che
pareva suggellata coll’unto. - Vien da Calusco? Chi può scrivere da
Calusco? Dov'è questo Calusco? - All'avvicinarsi delle feste di
Natale ne arrivavano molte di queste lettere di poveri supplicanti
bisognosi di qualche sussidio e di solito il conte le passava a
Fabrizio, perche se l’intendesse col ragioniere Riboni e cercassero
con prudenza di liberarlo dalle mosche e dagli scrupoli. Ma era la
prima volta che Gioppino osava scrivere L'orenzo con l'apostrofo. -
Birbonaccio, aspetta che t'insegnerò io l'ortografia. Aspetta me,
aspetta me... - E strofinando le babbuccie morbide di panno sul pelo
del tappeto, il conte, che da vecchio ammiratore dei Sacchetti e del
Lasca aveva il gusto delle facezie mordaci, girò intorno allo
scrittoio, sedette sui tre cuscini della poltrona e afferrò la penna
per far scoppiare quell'epigramma, che gli faceva gli occhi piccini
e il naso crespo. - «Se lor con l'or confondi...» avrebbe voluto
cominciare; e, per richiamare la rima, corse coll'occhio alla firma
del supplicante, una firma che pareva uno scorpione schiacciato
sotto una pagina di altri scorpioni... veri scorpioni, corpo di
Bacco! pieni di veleno. La lettera correva in questi termini:
Ill'ustrissimo Sigor Cote,
Se L'ei non fa trovare per s’abato a mezzanote L'ire tremila al
l'uogo detto S'asso del Pin presso il Roccolo noi metteremo in
piassa il gran segreto con suo disonore di L'ei e di tutta la
famiglia. Non parli con ness'uno si no guaja.
Galiasso...
Un cane, a cui sia dato a mordere un ferro rovente avvolto in una
polpetta, non lascerebbe cascare il boccone con piú dolore e
raccapriccio di quel che il conte lasciò cadere il foglio di mano.
In cinquant'anni e più, cioè dal dí che i suoi occhi correvano
sull'alfabeto, non aveva mai letto quattro righe piú spropositate e
piú spaventose. Altro che Gioppino! Chi poteva essere questo
bardassa di Calusco? e di che segreto andava spropositando? disonore
di chi e di che?
Quando Fabrizio entrò colla scodella del brodo si spaventò nel
vedere il volto del padrone piú smorto della carta.
- Che cosa è accaduto, signor conte? si sente male? - gli domandò,
fermandosi in mezzo alla stanza.
- Sto bene, sto benone, sto d'incanto... - rispose il conte, facendo
saltare quel brutto foglio da una mano all'altra. - Quando si bevono
di questi brodetti a stomaco digiuno, un uomo non può che sentirsi
bene. Guarda un po' quel che mi scrivono. Non badare all'ortografia,
ma cerca di penetrare nel concetto. Una delizia, vedrai, un
sorbetto. Conosci tu questo signor Galiasso? C'è dalle nostre parti
qualcuno che porta questo bel nome?
- Non ho mai sentito che ci sia nessuno che si chiami cosí. -disse
il vecchio Fabrizio, mentre correva cogli occhi sulla lettera,
fingendo nel viso meno sorpresa e meno turbamento di quel che
veramente provasse in cuor suo. Segreto aiutante della contessa in
questa segreta congiura diretta a nascondere al conte una dolorosa e
pericolosa verità, questa improvvisa minaccia di ricatto non poteva
che confondere i piani di guerra e dare al cuore mezzo malato del
suo padrone una scossa dolorosa.
- Non ci deve badare, signor conte - prese a dire il fedele
servitore, mostrando indifferenza. - Asini e malviventi ce ne saran
sempre, e, siccome sanno che lei è buono e amico della pace, credono
forse di spaventarla.
- Grazie tante. Minaccia di mettere in piazza un gran segreto. Che
segreto c'è da mettere in piazza? E non si contenta mica di poco il
sor Galiasso riverito; ma domanda solamente tre mila lire. Catteri!
tre mila lire non sono un quattrino e in che modo le domanda il sor
Galiasso!...
Il conte, che aveva già la bocca impastata, per via di quella
sciagurata lingua di bue, se la sentí diventar piena di una saliva
salata. Ballando sulla poltrona, si lamentò con voce quasi
piagnucolosa:
- C'è da perdere la fame per quindici giorni.
- Non si spaventi, le dico, non dia importanza. Son cose che a loro
signori càpitano tutti i giorni.
- Nossignore, a me non è mai capitato. Quando un uomo non fa male a
nessuno, ha diritto che gli altri non faccian male a lui...
- Guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaian!
Essi tentano il colpo. Se va, dicono, è segno che la cosa ha le
gambe. Ma qualche volta son loro che ci lasciano le gambe e la coda.
- Chi conosci tu a Calusco? non hai sentito che ci sia qualcheduno
dalle nostre parti che ci voglia male?
- Le pare? una casa come la sua?
- Non son piú quei tempi, non son piú quei tempi... Dacché si son
formate queste società segrete operaie, dacché si va seminando
l'odio tra le classi, è una disgrazia nascere nei nostri panni.
Anche l'elemosina sembra un'ingiuria adesso, e i Galiassi, che oggi
scrivono queste letterine, domani metteranno la dinamite sotto il
portone.
- Oh caro signor conte, lei corre troppo... interruppe Fabrizio,
ridendo...
- Ti dico che si precipita. Tu non hai sentito a dir nulla, n'è
vero? In questa casa tu sei piú vecchio di me e devi volermi bene.
- Lo domanda, signor conte?
- Non sospetti che possa essere quel servo di stalla, che abbiamo
licenziato tre anni fa...?
- Or fa un anno che è andato in America.
- Ma dall'America si ritorna - disse sospirando il buon uomo, che
all'idea d'un viaggio in America si sentiva venir le vertigini. -
Dall'America si ritorna: e poi si lascia sempre a casa qualcuno...
- Conosco questa gente, stia sicuro. Solamente sarà prudenza non dir
nulla di questa lettera, né alla contessa né alla contessina...
- Sicuro, sicuro! le donne si lasciano facilmente impressionare.
Anzi bisognerà stare attenti che non facciano loro qualche brutto
scherzo nella strada... Ahimè, si precipita! È una cosa che dobbiamo
trattare fra te, me e il Riboni... Dovresti chiamarlo, se c'è...
- Tornerà stasera. Ora beva il suo brodo e non ci pensi.
- Portalo via, non mi va giú - disse restituendo la scodella, con
una mesta espressione di abbattimento. - Guasterei anche quella poca
colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta
quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si
precipita!
- Non ci pensi piú. Vedrò io il signor Riboni - disse Fabrizio,
facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di
servizio.
- Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un
povero affamato.
- Se lei comincia a dare, non si salva piú. Queste lettere è meglio
fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore.
- Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio
gendarmi in casa. Ve lo comando! - gridò, alzandosi quanto era lunga
la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul
«Dizionario dei sinonimi». - Non voglio intrighi, deposizioni,
arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei
mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! - Mai la paura
d'un uomo aveva parlato con piú coraggio. Fabrizio finse acconciarsi
e disse:
- Come vuole, signor conte... Del resto, creda pure, che quando non
si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per
la stufa.
- E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non
voglio pettegolezzi... Come si semina si raccoglie! – brontolò
parlando con sé stesso - Per certa gente è già una grande colpa il
nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi
nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita...
Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e
corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita
in tempo di questa nuova minaccia.
Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di
Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava
appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità,
in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva
commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava
preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non
rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli
sarebbe stato cosí facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore
della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di
speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di
bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio,
e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in
compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e
dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei
sentimenti piú sacri.
«Io non so scrivere» gli diceva «e mi manca l'arte di esprimere
tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra
lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque
di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi
frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato
un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi
materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito
il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei
comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non
potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi
spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a
darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima
con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano
miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che
può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno
l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo
d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili
l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è cosí gran
male che non possa essere superato da una piú grande speranza. I
mali vengono piú dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli
uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima
della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto
qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin
là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti,
cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità
della natura umana ingrandita in voi.
«Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a
nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che,
senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite
dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che
la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso
una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate
gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte
le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che
in fondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la
vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che
abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il
vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro
sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli
della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo
che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le
vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi
sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono
piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero
combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di
fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi
ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun
privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver
molto sofferto...» A questo punto era arrivata e stava quasi per
chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice
improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa
dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un
passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che
aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva
di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto.
Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato
di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava
all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere
scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il
lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto.
- Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera:
cercherò di parlare col Prefetto... Non parlatene con nessuno... Ah
mio Dio, non abbiamo finito!
IX
UNA VISITA INASPETTATA
Seguirono due o tre giorni di agitazione, pieni di sinistri
presentimenti, di reciproci inganni, in cui ciascuno dovette fingere
di ignorare quel che era scritto a ciascuno sul viso. Don Lorenzo,
per quanti sforzi acrobatici facesse fare alla sua tremante volontà,
per quanto sferzasse un coraggio che non era mai stato, non che
esercitato, nemmeno preso in considerazione, non poteva nascondere a
Cristina, alla figliuola, a quei di casa il grande sgomento, come si
nasconde un librettucciaccio proibito. A colazione, a pranzo, non
gli riusciva quasi d'assaggiar nulla, o tutt'al piú, se si sforzava
di inghiottire una mezza fetta di galantina, o una gamba di pollo,
se le sentiva lí inchiodate sullo stomaco come un errore
d'ortografia. Molto meno si poteva pretendere ch'egli si distraesse
nei giri de' suoi periodi... Altro che «Discorso preliminare»! altro
che «la tradizion del passato»! Vipere e scorpioni, minaccie,
ricatti per il momento; domani sarebbero state bombe e pugnali.
Non potendo pigliarsela con Galiasso, si sfogava a brontolare o
perché la stanza era fredda, o perché il brodo era lungo, o perché
Giacinto non scriveva mai, o perché l'Istituto veneto gli aveva
lasciato scappare tre errori di stampa; e, messo sulla strada delle
malinconie, cadeva a parlare delle teorie sovversive, che
distruggono ogni sentimento di religione e di rispetto. La figura
torbida di Galiasso, ch'egli s'immaginava con un ceffo di bravaccio,
cieco d'un occhio, per tre o quattro giorni entrò a frastornare le
sue occupazioni e i suoi stessi pensieri, sia ch'egli pigliasse in
mano un libro od un giornale, sia che arzigogolasse colla penna nei
complicati incisi del suo «Discorso preliminare», sia che parlasse
con quei di casa o coi pochi amici che venivano a fargli passare la
sera. In mezzo ai discorsi e alle distrazioni non cessava mai dentro
di lui il lungo monologo contro i tempi e contro le idee sovversive:
aggrottava le ciglia, i gesti gli scappavano involontariamente, e,
inconsapevolmente, faceva sentire a sé stesso il ritornello, che non
cessava di martellargli il cuore: «Si precipita».
La contessa, per non essere obbligata a chiedere e a dare delle
spiegazioni incresciose, fingeva di non accorgersi di questi suoi
patimenti, e questa sua noncuranza riusciva di maggior pena al
povero conte, che nelle tribolazioni amava d'essere consolato e
amorosamente contraddetto. Dopo aver ruminato un pezzo nel suo
segreto, pensò che Giacomo Lanzavecchia poteva essergli di qualche
aiuto, essendo il luogo detto il Sasso del Pin, indicato da
Galiasso, poco lontano dalle Fornaci, sulla stradetta che mena al
"Roccolo" di Don Andrea. Colse il momento, che la contessa e la
figliuola erano fuori ad assistere a una pia conferenza del santo
Cenacolo (un'altra francioseria introdotta da poco tempo dai
gesuiti), si chiuse nello studio, fece accendere la lucernetta, che
anche di pieno dí aiutava a rischiarare il nesso delle idee, si
raccolse, passò due volte la mano sulla fronte per rimuovere le
ultime titubanze, che facevano sempre di lui l'uomo piú indeciso del
mondo, prese una faccia oscura, severa, d'uomo oltraggiato, che
conosce i doveri suoi e cominciò a scrivere: «Carissimo Giacomo,
deve esistere in cotesti paesi un cotal nominato Galiasso o
Galeazzo, persona veramente dedita a cattivi maneggi, non saprei
dire se piú bisognosa o perversa, la quale mi ha in questi giorni
trasmessa una lettera, vero oltraggio ortografico, con cui vien
chiedendo una non misera somma a mo' di minaccia o di ricatto.
Comeché io possa...»
- Signor conte - disse Fabrizio entrando col suo passo soffocato: -
questo signore ha una lettera di presentazione per la signora
contessa, ma siccome non può fermarsi a Cremona che poco tempo,
domanda il permesso di dir una parola al signor conte...
Il conte accostò il biglietto, che Fabrizio gli offrí, al lume della
lucerna e lesse il nome dell'avvocato Genesio Brognòlico.
- Brognòlico! - ripeté, rimpicciolendo gli occhi come chi cerca di
fissarsi in qualche cosa, che vede e non vede. - Non è quel nostro
radicalone rosso di là, che insieme al farmacista ha fondata la
Società operaia?
- Precisamente, quel pancione. Dice che ha una lettera del signor
conte di Breno.
Don Lorenzo, a cui balenò subito l'idea che questa visita
inaspettata potesse avere qualche relazione col fatto del famigerato
Galiasso, parendogli che convenisse abbondare nelle cerimonie e, ove
fosse opportuno, farsi dell'avvocato radicale un difensore, ordinò
che entrasse. Si mosse anche lui, girò due poltrone in modo che
l'una guardasse l'altra, collocò la lucernetta sulla sponda della
scrivania in cima a un muro di libri e movendo incontro al suo
avversario politico e amministrativo, con tutto quel buon garbo, che
non si spende mai tanto volentieri come quando si tratta d'un
avversario:
- Qual buon vento, - esclamò - signor avvocato, a Cremona?...
Un uomo fatto a guisa di un pallone aereostatico, a cui fossero
state attaccate due gambe, e sul quale fosse stata messa una testa
arruffata, riempí tutto il vano dell'uscio. Gli occhi eran nascosti
da un paio di lenti affumicate, che mettevano due macchie scure e
fisse nello scompiglio d'una zazzera e d'una barba
bianco-sporco-rossiccia. Vestito di panno oscuro, colle mani
insaccate in due otri di pelle, colla grossa catena d'oro,
risplendente sull'equatore di quel globo, che viaggiava come un
galleggiante, l'avvocato Brognòlico salutò il conte con un inchino
alla rovescia, che gli fece cacciare indietro la testa leonina e
sporgere una protuberanza, che non avrebbe mai potuto piegarsi
diversamente.
- Perdonerà Eccellenza, se non potendo disporre che di poco tempo,
tra una corsa e l'altra, oso interrompere i suoi preziosi studi.
Vengo a nome dell'onorevole di Breno, che ha visto il Sottoprefetto
e che mi ha dato questa lettera aperta, per la signora contessa.
- Caro avvocato, si accomodi - disse don Lorenzo, al quale non
capitava troppo spesso l'onore di sentirsi chiamare Eccellenza. E
mentre l'altro scendeva a poco a poco a riempire lo spazio vuoto del
seggiolone, il conte corse, brontolando, sulla lettera aperta di don
Lodovico di Breno, che sonava in questi precisi termini:
«Gentilissima signora contessa,
«Ho sudato tre camicie e un farsetto a persuadere questi signori del
Vessillo democratico a non sollevare un putiferio. C'eran già le
mine cariche e non mancava la voglia di farle saltare. Però, a furia
di reciproche concessioni, ci siamo accordati in un non intervento.
La direzione del Vessillo incarica l'egregio avvocato Brognòlico di
liquidare in via amichevole la parte materiale in un compenso
corrispondente ai danni, che questa neutralità porta al giornale. E
veramente è giusto riconoscere che questi signori si mostrarono
discreti e ragionevoli, quando si pensa all'autorità che uno
scandalo di questa natura avrebbe dato a tutto il partito. Direi
quindi di transigere fin dove si può. Fulvia ha scritto a Giacinto,
dandogli notizie di queste pratiche...»
A questo punto don Lorenzo non ci vide piú. Il suo turbamento però
non gli impedí di ritrovare l'egregio avvocato Brognòlico, che
pareva addormentato nella poltrona.
- Credo di capire qualche cosa... non tutto però... In che cosa
posso servirla, avvocato? - disse, mettendosi anche lui a sedere,
con un fare timido e trepidante, sull'orlo della sua poltrona.
- L'onorevole di Breno ha avuto la bontà di leggermi questa lettera
e siam perfettamente d'accordo. Aggiungerò che ieri ho veduto anche
Monsignor vescovo. - L'avvocato credeva che per farsi capire
bastasse accennare a questi nomi, senza bisogno di scendere a troppi
ingrati particolari.
- Come sta Monsignore?- chiese ingenuamente il conte.
- Anche Sua Eminenza pienamente d'accordo coll'onorevole di Breno...
- Hanno fatta la pace?
L’avvocato, a questa domanda cosí fuori d'intonazione, rimase un po'
perplesso, come accade spesso ai furbi, quando si trovano al
cospetto d'una cosa troppo semplice, che si dipana da sé. Si sforzò
di rispondere che l'aspetto di Monsignore gli era parso buono; poi
soggiunse subito per venir presto all'argomento della visita:
- Stamattina ho parlato con Ferrazzi.
- Ferrazzi... - fece il conte, corrugando la fronte e cercando, con
uno sguardo interno, se nel magazzino delle cose viste c'era un nome
cosi... - Quale? il canonico Ferrazzi, che ha scritto qualche cosa
sulla basilica di San Pietro in Oro?
- No, no, Ferrazzi, il direttore del Vessillo... - ribatté
l’avvocato con una certa forza impaziente per far capire al conte
ch'era informatissimo d'ogni cosa e che con lui si poteva discorrere
liberamente. - Ho parlato con Ferrazzi in seguito al colloquio avuto
coll'onorevole di Breno e con Monsignore, e gli ho dimostrato che,
in ultima analisi, gli conveniva accettare un accordo, perché in
queste guerricciuole di scandali e di personalità non ci si
guadagna, né da una parte nè dall'altra. Egli voleva sostenere che
in momenti di lotte elettorali un partito non può buttar via nemmeno
una cartuccia senza defezionare la bandiera...
Il conte, che seguiva con un viso fermo ed attonito questo
preambolo, sempre nella speranza che da una parte o dall'altra
avesse a saltar fuori il famoso Galiasso, non poté a meno di
inarcare un poco le ciglia a questo mostruoso defezionare la
bandiera, che puzzava di gergo giornalistico lontano un miglio.
L’avvocato non se ne accorse, ma, volendo venir presto a una
perorazione, che gli permettesse di concludere e di partire colla
corsa delle tre e mezzo tirò avanti:
- Ferrazzi mi dimostrò che molte spese eran già fatte, che si era
dovuto dare dei contrordini ai corrispondenti e ai reporters,
modificare tutto il piano generale, perché, se prima l'onorevole di
Breno, che si poteva sperare combattuto dai clericali, aveva i piedi
d’argilla, ora li ha di bronzo; permodoché – (l'avvocato caricò di
voce questo suo avverbio favorito) - una campagna contro di lui
sarebbe per il nostro partito un mezzo disastro, per cui, tutto
sommato, faressimo, come si dice, un buco nell'acqua.
Il conte, che non respirava nemmeno, sempre in attesa di veder
sbucare Galiasso, e che aveva inghiottito in pace il reporter, non
poté non protestare con un addolorato batter di ciglia contro questo
barbino faressimo, che sconnetteva le piú legittime coniugazioni. Ma
l'amico, migliore della sua grammatica, tirava via come un violino:
- Ad onta di tutto questo, anzi in forza di tutto questo, è naturale
che i miei amici del Vessillo non possino digerire questa sconfitta,
come se fosse un uovo fresco; poiché si deve perdere, dicono,
facciamo strage dei Filistei... - Brognòlico cercò di ammorbidire
questa minaccia biblica, accompagnandola con una risata bonaria e
con un colpetto di mano leggiero leggiero, che lasciò cadere su un
ginocchio del conte. – È naturale, vede adunque Eccellenza, che que'
miei amici scapestrati si servino di quel segreto che hanno in mano,
come di una fiche de consolation.
- Amici scapestrati? - disse in cuor suo il conte. - Dunque Galiasso
non è che il capo dei ladri.
- Il signor conte è troppo amico della pace per star a guardare un
quattrino di piú o di meno.
- Scusi, avvocato... - interruppe con uno sforzo penoso il conte. -
Sa lei quel che mi hanno scritto?
- So tutto e son venuto apposta a Cremona per accomodare questa
faccenda.
- Conosce anche questo Galiasso?
- Chi sia non so, ma conosco benissimo la famiglia Lanzavecchia, so
dov'è la ragazza.
- Crede lei dunque che con un centinaio di lire una volta tanto si
possano persuadere questi signori scapestrati a...
- Io credo, signor conte, che ella non abbia un senso troppo esatto
della gravità della situazione - osservò con forzata benevolenza il
mediatore della pace. - Se Ferrazzi dichiara la guerra, è un uomo
che sa tener bene la penna in mano.
- Oh sí, me ne sono accorto... - scoppiò a dire buffonchiando il
conte, che aveva sotto gli occhi il famoso L'orenzo.
Brognòlico a questi sgambetti, a questa diplomatica impassibilità
del conte, dubitò per un momento o di essere arrivato troppo tardi,
cioè a cose già accomodate, o di avere a che fare con un politicone
raffinato, e che sapeva rappresentare a meraviglia la sua parte di
gonzo. La sua grande furberia gl'impediva d'immaginare il caso d'un
uomo, che di furberia non ne aveva né punto, né poco. Temendo
rimetterci anche le spese del viaggio, si affrettò a sparare tutte
le batterie di guerra, nella speranza d’intimorire col rumore quelli
che non poteva ferire colla mitraglia.
- Senta, Eccellenza, - riprese, attaccandosi colle due mani alle
spranghe degli occhiali - a parte la questione personale, creda pure
che se Ferrazzi... o altri... – (e tenendo la mano sollevata in aria
aspettò un istante per dar tempo al conte di capire quel che egli
credeva che l'altro fingesse, per una politica sopraffina, di non
capire) - se Ferrazzi... o altri mettesse alla luce questa storia,
sarebbe una vera degringolade per tutto il partito cosí detto ben
pensante. La tensione dei partiti del nostro Collegio è tale che
basta una goccia d'acqua a far traboccare un mare d'inchiostro. Se
lor signori non trovano il modo di appianare la cosa sulla modesta
base concordata dall'onorevole di Breno e da Monsignor di San Zeno,
garantisco che questa primavera portiamo un deputato radicale
massonico a Montecitorio. Uno scandalo in casa Magnenzio,
compromettendo i piú bei nomi dell'aristocrazia, farà perdere
vent'anni di lavoro al partito clericale. Noi abbiamo le nostre
Società operaie fortemente organizzate, e, se tre o quattro giornali
vogliono divertirsi, lo scandalo Magnenzio, San Zeno, Lanzavecchia,
abilmente lanciato, in quindici giorni fa il giro di tutta Italia.
Siccome sono amico politico non solo di Ferrazzi, ma ho qualche
relazione all'Estrema, so quel che si può fare, quando c'è
l'interesse di fare. D'altra parte, ho molta stima per l'onorabilità
e la rispettabilità della sua casa, caro signor conte; conosco anche
il signor Giacomo Lanzavecchia e so che uomo è; finalmente son uomo
anch'io, so capire e compatire questi peccati di gioventú; anzi, è
il caso di dire: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.
Ma la politica non ha viscere di pietà; quando ha fame divora, se
non altro, anche i suoi figli. Permodoché, tutto sommato, vale a
dire, tenuto conto degli interessi morali da una parte, degli
interessi pubblici dall'altra, io credo che, in ultima analisi, noi
dovressimo proprio venire a una soluzione pacifica. Ci vuol
pazienza, caro conte, il mondo va pigliato com'è. Pensi che nel
grosso del pubblico non c'è nulla che faccia tanta impressione come
un romanzetto galante tra un elegante della jeunesse dorée e una
povera ragazza del popolo. Le figlie del popolo, che servono ai
piaceri dei ricchi, è un tema non ancora sfruttato, molto piú in
questo caso, in cui c'è modo di battere insieme al blasone anche
l'eroismo d'un ufficiale di cavalleria, che, mentre gli altri vanno
a farsi ammazzare in Africa, resta a casa ad abbracciare e sedurre
le cameriere... Perdoni, don Lorenzo, se oso dare al cuore d'un
padre queste crudeli trafitte; ma è bene che ella abbia sott'occhio
tutto quel che si può dire e tutto quel che domani potressimo
stampare. Qualora, invece, si cercasse di accomodare lo strappo
inter nos, senza bisogno di testimoni e di reciproche scritture, né
venti, né venticinque mila lire devono parere una somma esorbitante.
A questa lunga e corrente esposizione dell'avvocato Brognòlico, don
Lorenzo, tenendo le mani appoggiate ai ginocchi e gli occhi immobili
nel volto del suo interlocutore, prestò un'attenzione che andò di
sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia, di curiosità in
curiosità, di paura in paura come proverebbe un villano ignorante
davanti ai prodigi diabolici d'un abile prestigiatore. Partito col
desiderio di conoscere chi fosse il famigerato Galiasso, prima trovò
che il brigante era un giornalista, poi che il giornalista era
d'accordo col deputato, il quale, non capiva bene in qual modo, se
l'intendeva col vescovo per minacciare qualche cosa di grosso, non a
lui, pover'uomo, ma a qualcuno de' suoi, che aveva abbracciata una
cameriera. E quel ch'era piú bello ancora, le tremila lire di
Galiasso diventavano, strada facendo, ventimila, venticinquemila...
Nello sforzo che egli faceva dentro di sé per entrare nello spirito
di questo strano racconto, in cui vedeva, peggio che nelle
Metamorfosi d'Ovidio, un brigante trasformarsi in un narciso e un
framassone in una mitria, tutte le rughe del volto confluirono sulla
sua fronte, le grosse ciglia bianche formarono come un cespuglio
spinoso sopra il naso, la sua carnagione andò oscurandosi come sotto
una nuvola, che passasse davanti al globo della lucerna. E di mano
in mano che l'avvocato andava pesando il pro ed il contro,
riferendosi con certezza a fatti che erano ignoti a uno di loro, il
povero conte si sentí inondare da una fredda paura, da un febbrile
sgomento, che gli tolse la capacità di rispondere.
Quando il Brognòlico cessò di parlare, don Lorenzo rimase lí colle
mani sui ginocchi, gli occhi attenti ad aspettare il resto della
curiosa storia. Vedendo che l'avvocato non aveva piú nulla a dire e
che ora toccava a lui, proprio a lui, di parlare, alzò lentamente
una mano, che tenne sollevata un pezzo in aria, mosse le labbra
entro una frase sconnessa, in cui passò ancora una volta il nome di
Galiasso, e, allungato il braccio tremante fino a toccare il bottone
del campanello, a Fabrizio che comparve sull'uscio, chiese:
- È tornata la signora contessa?
- Sí, signor conte.
- Digli che l'aspetto qui.
Nel breve intervallo che rimasero ancor soli, l'avvocato, che stava
studiando l'effetto della sua proposta sulla cera appannata del
conte, interpretando il suo silenzio come un freddo e disdegnoso
risentimento, cercò di raddolcire la sua proposta, dicendo che non
si sarebbe mai fatta una questione di numeri, che, con un po' di
deferenza dalle due parti, si sarebbero facilmente messi d'accordo.
Donna Cristina era appena tornata dalla conferenza, quando Fabrizio
venne ad avvisarla che il conte aveva bisogno di parlarle. Al nome
dell'avvocato Brognòlico, ch’essa conosceva come un suo nemico nato,
vale a dire quanto un giacobino deve essere nemico di un
aristocratico, indovinò quel che poteva essere accaduto. Fabrizio
non osò disingannarla. Si può immaginare che cuore fosse il suo,
quando con passo rotto, con una pesante spossatezza di tutto il
corpo, entrò nello studio del conte
- Guarda un po’, Cristina, se sai spiegare questo biglietto del
deputato di Breno - Il conte, in piedi dietro la scrivania, indicò
col tagliacarte d'avorio l’avvocato, che all'entrare della contessa
si era tirato in piedi anche lui e stava in attitudine rispettosa: -
Presento il signor avvocato Galeazzi: voglio dire Ferrazzi...
- Brognòlíco - corresse l'altro; il quale, volendo in poche parole
far capire alla signora lo scopo e l'importanza del suo mandato, si
affrettò di soggiungere: - Signora contessa, vengo a nome di
Monsignor vescovo.
Il conte, sempre in balía d'un tremito convulso, toccando ora un
libro, ora un calamaio, ora una penna, come se cercasse con questi
contatti materiali di scaricare una corrente di elettricità,
agitando il tagliacarte in aria, domandò volgendosi alla contessa:
- Devi tu qualche cosa a Monsignore? ti sei forse impegnata in
qualche obbligazione politica? chi è che abbraccia le cameriere in
casa mia? Si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che
si búggera in questa casa? mi scrivono lettere minacciose, vengono
in casa mia a farmi delle proposte disonoranti, mi oltraggiano in
ciò che mi resta di piú nobile, e non mi è dato nemmeno sapere a chi
devo dir grazie. E che c'entrano i giornali coi fatti miei? Io non
li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi
posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha
avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di
Villalta? - Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il
tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. -
Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei
popolo servono ai piaceri dei padroni...
La contessa, non potendo piú sostenersi sulle gambe, si lasciò
cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia.
Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre piú acceso in
viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor piú candidi i
capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della
scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato
all'Ateneo di Bergamo il suo «Discorso preliminare»:
- Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla
presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei
il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo
dica pure a chi l'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi,
non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono
dire con Dante: la vostra miseria non mi tange...
E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata
l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto
colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato,
nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che,
sorreggendolo, gl'impedí di cadere. La contessa gettò un grido
spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche
l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada
verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu
adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore,
sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite,
che parevano invocare un po’ di carità, un po' di compassione. Agli
squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes,
che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte
cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in
disparte l'avvocato, definí con lui in un discorso concitato e
positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un
biglietto per il ragioniere Riboni.
- Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato
causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor
conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente... - Ma
la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire.
Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due
anticamere, uscí sullo scalone, si fece indicare da un servo lo
studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i
suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti
a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in
parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la
sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli,
avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza:
«La miglior politica non è quella che corre, bensí quella che arriva
a tempo».
X
CELESTINA VA IN CERCA DI GIACOMO
Dal giorno del suo arrivo a Buttinigo eran passati quindici giorni,
senza che Celestina ricevesse notizie di Giacomo, e cominciava a
pensare ch'egli l'avesse dimenticata, dopo averla sprezzata e
maledetta; ma poteva anche essere malato, morente di dolore. In
questo stato di crudele incertezza non poteva durar piú. Capiva che
le signore, oltre a carpirle le lettere e a tenerla rinchiusa come
una prigioniera, cominciavano a inventare pretesti per mandarla
ancora piú lontano, in mano d'altra gente, come si fa quando si vuol
perdere una persona. Era necessario che vedesse Giacomo. Anche a
costo d'essere battuta e respinta da lui, voleva buttarsi a' suoi
piedi, fargli sentire come l'avevano sorpresa, tradita,
martirizzata; e poi non le sarebbe importato nulla di morire su una
strada, in mezzo ad una campagna; ma non l'avrebbero sepolta viva in
un ospizio, dopo averla trascinata all’ultima disperazione.
Quantunque a questo nuovo tranello sentisse quasi una lama fredda
passare in mezzo al cuore, pure un sentimento quasi d'indignazione
le impedí di avvilirsi e di piangere. Simulò un contegno freddo,
rassegnato; alle carezzevoli dimostrazioni di donna Adelasia non
oppose che un silenzio umile e rispettoso; ma l'idea di cercare uno
scampo con una fuga s'impossessò con tanta forza del suo spirito che
per alcuni giorni non seppe pensare ad altro, come se quest'idea
avviluppasse ogni altro sentimento e rendesse sterile ogni altra
considerazione.
Si può aggiungere che in questa nuova speranza e nello sforzo
mentale di preparare i mezzi per deludere la vigilanza delle sue
carceriere, il suo cuore, provò quasi un senso di riposo e di
distrazione da ogni altro dolore, una specie di esaltazione
fantastica, che scosse il suo spirito inoperoso e stanco.
Nei giorni che precedettero le feste di Natale si mostrò alacre,
docile, volonterosa; ma nel segreto del suo animo andava preparando
i mezzi della fuga, cosa facile in una casa aperta come quella in
cui l'avevan collocata, non custodita che dalla buona fede di chi
l'abitava e dal rispetto dei vicini. Le pie signore nella loro
timida debolezza non pensavan nemmeno che una ragazza potesse uscir
sola e mettersi sola per una strada; molto meno questo dubbio poteva
entrare nell'animo del Rebecchino e delle altre persone di servizio,
che non conoscevano i segreti motivi di questa schiavitú. Essa
avrebbe potuto uscir dalla porta ed incamminarsi per un sentiero in
qualunque momento, tanto di giorno come di notte; il coraggio solo
di saperlo fare avrebbe levato alle signore ogni voglia di
inseguirla. Dopo aver scartato molti progetti, si fermò in uno, che
piú d'ogni altro le si presentò sicuro. Ogni martedí sul far della
mezzanotte soleva uscire dalla corte rustica il cosí detto
cavallante della casa, soprannominato il Pasqua, col carro della
roba che le signore e altri proprietari del paese mandavano a Monza
ed a Milano ai loro amici e corrispondenti. Piú volte Celestina era
stata svegliata dal rumore grosso del carro rotolante sul selciato
del cortile e dallo scalpitare del mulo nel gran silenzio della
notte. Sentiva lo sgangherato portone dell'orto cigolare sui
cardini, poi un gran sbattere. Vagolava per un istante un lume
nell'aria, il rauco brontolío delle ruote perdevasi a poco a poco
nella lontananza, e tutto tornava in silenzio... Il pensiero che
essa avrebbe potuto fuggir da questa parte, in un'ora in cui tutti
dormivano, col vantaggio d'aver molte ore per sè, prima che alcuno
si accorgesse della sua scomparsa, si impose come il piú naturale, e
non stette a cercare altre vie. Sapeva che il Rebecchino era solito
attaccare la chiave dell'uscio che mette nel cortile a un chiodo
infisso nel battente. Non si trattava dunque che di scendere al
primo rumore, aprir l'uscio, mettersi in coda al carro, protetta
dall'oscurità, e svoltar subito per la strada opposta a quella che
il Pasqua soleva far battere alla bestia. Ma non parendole ancora un
giuoco abbastanza sicuro, pensò di cercare anche un pretesto per
allontanare i sospetti e per ingannare il vecchio cavallante. Fece
un grosso involto con un fazzoletto, in cui mise alcune sue vesti e
una scatola, strinse i gruppi del fagotto, che nascose sotto il
letto, e si preparò ad aspettare la sera. Fu una giornata eterna
quel benedetto martedí! Donna Gesumina venne una volta a leggerle
una lunga Enciclica papale intorno alla santificazione della festa:
poi le raccontò quel che a Milano un Comitato di pie signore
intendeva di fare per imporre ai negozianti e ai rivenditori
l'obbligo del riposo festivo. Celestina l'ascoltò benevolmente e
lasciò che la signora mettesse anche il suo nome in una lunga lista,
che monsignor Vicario doveva trasmettere a Roma. Queste pie
preoccupazioni, accostate al grande e affannoso pensiero che le
faceva il cuore duro e pieno di dolori, non potevano aver nemmeno la
forza di irritarla; ma servirono invece ad accorciare il tempo,
interminabile dell'aspettativa. Piú tardi venne di sopra anche
Menico, il figlio del Pasqua, con in braccio un gran fascio di rami
d'edera e di lauro fresco, con cui le due signore solevano ogni
anno, nella settimana di Natale, costruire il presepio nel vano d'un
armadio. Celestina fu lieta di poter aiutare la vecchia Costanza a
levare da una cesta, a sciogliere dai loro involucri di carta, a
nettar dalla polvere i pastori di terra cotta, le statue del
Bambino, della Madonna, il bue, l'asinello, che facevano di quel
presepio una delle poche meraviglie di Buttinigo.
- Quest'anno aggiungeremo anche un molino mobile, vedrai - disse
donna Gesumina. - Le monache della Noce non hanno un presepio piú
bello. La vigilia vengono qui tutte le ragazzine e i bambini del
paese colle loro mamme; e si dànno tre noci e una mela a ciascuno;
ma prima si cantano le litanie.
Un fuggevole senso di pentimento, un mezzo rimorso, venne una volta
a indebolire le sue disposizioni. La sua scomparsa non poteva che
turbare queste sante feste dell'innocenza e della pace, e procurare
alle povere signore un grandissimo spavento. Se invece avesse
mandato i suoi progetti a qualche giorno dopo le feste? Ma rifletté
che piú tardi non sarebbe stata sicura di trovare Giacomo a casa.
Poteva ella passare il giorno di Natale come una prigioniera in casa
altrui, senza aver nessuna notizia de' suoi, nella cupa tristezza di
chi si sente abbandonata?
Dopo aver risposto, come gli altri giorni, al rosario della servitù
nella grande cucina, verso le nove e mezzo accompagnò di sopra
donn'Adelasia, portò l'acqua nella camera di donna Gesumina, dette e
ricevette la buona notte, ridiscese in cucina a provvedersi d'un
mazzetto di zolfanelli, si assicurò che la chiave dell'uscio fosse
attaccata al suo chiodo. Finalmente, quando le parve che tutti
fossero ritirati nelle loro stanze, calzò le scarpe di vitello sopra
un paio di calze pulite, indossò un giubbetto di lana e il vestito
piú pesante della festa, intascò la corona del rosario, il suo
libretto di preghiere, una collana di granata e il borsellino con
tutto il denaro regalato dalla contessa, si ravviò i capelli, si
affaccendò piú che non abbisognasse a mettere in bell'ordine il
letto, le sedie, il telaio dei ricami, il cestello delle sete e dei
gomitoli, in modo che le signore avessero a ritrovare tutto a posto.
Quando ebbe finito, sentí sonar le undici. Aveva ancora un'ora da
aspettare. Spense il lume, s'inginocchiò a fianco del letto, si
dispose a raccogliere la mente in qualche preghiera: ma l'anima non
suggeriva nulla, come se la coscienza fosse già partita. Rimase però
sempre in ginocchio, colla testa sprofondata nelle coltri in atto di
pregare, perché il Signore e la Madonna vedessero il suo stato e
l'aiutassero in questo passo. E intanto cercava di riandare nella
mente la traccia della strada che avrebbe dovuto battere per
arrivare alle Fornaci. Fino alla Madonnina della Noce la conduceva
la solita strada del molino; al di là passa la grossa strada
provinciale, nè poteva sbagliare se camminava sempre verso i monti.
Rifacendo i conti a memoria, calcolò che, se la carrozza della
contessa aveva impiegato meno di due ore a venire dal Ronchetto alla
Madonnina, questo voleva dire che, partendo a mezzanotte e
camminando sempre, lei avrebbe potuto essere alle Fornaci sul far
del giorno. Se anche non ci fosse stato Giacomo, la zia Santina non
l'avrebbe lasciata morir di freddo sulla strada, no povera zia, cosí
buona! E forse anche la Lisa non avrebbe avuto il coraggio
d'incrudelire contro una disgraziata. Le stesse bruscherie gelose
della invidiosa cugina sarebbero state quasi una musica per le sue
orecchie, quando avesse potuto ríposare nel pensiero d'essere nella
casa de' suoi parenti. Del resto, facessero pur di lei quel conto,
che si può fare di una poveretta senza meriti e senza diritti; la
tenessero pure in casa come l'ultima delle serve, avrebbe lavorato
per tutti, senza piú alzare gli occhi in faccia a nessuno; ma non
dovevano permettere che queste signore la facessero chiudere in un
ospizio, forse in compagnia di cattive traviate, o che la mandassero
lontano, in paesi sconosciuti, tra gente brutale, senza timor di
Dio, che l'avrebbero forse maltrattata, o fatta morire a tradimento.
Abbandonandosi senza ritegno alla corrente dei pensieri, che nel
silenzio e nell'ombra della notte risonavano nel suo capo in una
specie di gorgo, correva a immaginare colla fantasia sconvolta le
piú terribili insidie da parte di questi signori, che temevano in
lei un parlante testimonio dei loro peccati, e che avrebbero avuto
della sua morte un sollievo immenso. Che cosa vale la vita d'una
ragazza, che nessuno conosce, che nessuno difende? Se non ci sono
piú nei palazzi i trabocchetti, dove una volta si facevano sparire
le persone, non mancavano ai signori altri trabocchetti di ogni
sorta per sopraffare i poveri. Non l'aveva forse la contessa
intronata di parole e di promesse per metterla nelle mani di queste
vecchie, che ora volevano seppellirla viva in un ospizio?
Da questi pensieri, in mezzo ai quali errava la sua immaginazione
sgomentata, fu tolta dal fragore del carro, che il Pasqua stava
allestendo nella corte per la partenza. Si mosse, fece due volte il
segno della santa croce, si alzò, trangugiò un mezzo bicchier
d'acqua per sciogliere l'amarezza della bocca, avvolse le spalle e
la testa in uno scialle bigio di lana, prese da di sotto il letto
l'involto, che vi aveva preparato; e, dopo aver soffiato sulla
candela, si mosse per uscire. Allo sparire del lume, la finestra si
disegnò nella luce umile della luna, che dal mezzo di un cielo
rigido, solcato da leggerissime ale di nuvole bianche, incombeva
sulla campagna immersa nella neve. Celestina fu assalita da un
panico immenso. Per poco il cuore ricusò d'obbedire alla volontà,
che fin allora aveva comandato con tanta forza. La sua energia
oscillò un breve istante in uno di quei dubbi dolorosi e tremendi,
da cui, come dal fulcro d'una bilancia delicatissima, dipende spesso
il male e il bene di tutta una vita. A sospingerla sottentrò la
riflessione che per lei non vi poteva essere un male che fosse
peggiore del perdere per sempre il suo Giacomo e del lasciarsi
seppellir viva; e che ogni passo, in qualunque senso si faccia, per
uscir dalle braci, non può essere un passo perduto. Spinse l'uscio e
stette ad ascoltare ancora un momento sul pianerottolo. Quando fu
persuasa che dormivano tutti, scese al buio la piccola scala di
servizio, tenendosi attaccata alla parete. Guidata dal chiarore, che
entrava da una mezza finestra, raggiunse l'uscio di cucina, cercò,
palpando, la chiave, l'infilò nella toppa, provando al rumore che
fece nel girare, quasi uno scricchiolamento in tutte le ossa; stette
a sentire se alcuno dava segno di vita: e coperta dal rumore che
facevan di fuori nel caricare, uscí nel cortile. Il Pasqua finiva
d'attaccare il mulo, aiutato dal suo ragazzetto, che rischiarava con
una lampadina la stalla. Affogato in un ferraiolo di schiavina, col
cappuccio calato sulla testa, il vecchio cavallante lasciò qualche
ordine al figliuolo, che si curvò ad accendere la lanterna a vento
sotto la traversa del carro. Una luce giallognola e oleosa si sparse
sul biancore lucente della neve e proiettò l'ombra incappucciata del
vecchio, ingrandita come quella di un gigante delle tenebre, sul
muro livido e muto del palazzo. La bestia istigata dalla voce
sepolta del padrone, cominciò a raspare sul terreno per cercar sotto
la neve il sasso; il carro si mosse, ballottando la lanterna e
portandosi seco le ombre in una danza sconvolta.
Quando fu per uscir dal portone e per svoltare, Celestina uscí dal
suo nascondiglio, traversò il cortile; aspettò che Menico tornasse
per rinchiudere, e, andandogli incontro gli disse, fingendo una
certa apprensione:
- O Menico, avete dimenticato questo fagotto, che va alle monache.
Menico prese l'involto dalle sue mani e chiamando: - O pà, - corse
dietro al carro. La giovane colse quel momento e voltò a sinistra.
Camminando in fretta lungo il muro del brolo, uscí sulla strada del
molino. Non era ancora sonata la mezzanotte, quando cominciò a
camminare verso la strada della Madonnina della Noce, che apparve
ben presto in fondo al viale in una massa densa, resa piú oscura dal
riflesso vivo della campagna. Tirava una brezza acuta, quale può
mandar giú la montagna in dicembre; ma essa se ne difese
imbacuccandosi fin sopra agli occhi nel grosso scialle di lana e
affrettando il passo. L'idea del trovarsi sola, di notte, per una
strada deserta tutta piena di neve, in un paese sconosciuto, questa
sola idea, che qualche mese prima, passando in sogno, l'avrebbe
risvegliata in un sudor freddo, ora non le incuteva piú nessuna
paura. Non c'è nulla, che abitua cosí presto al male, quanto la
minaccia del peggio: e anch'essa ritrovava nella necessità delle
cose quella forza misteriosa, che meraviglia cosí spesso la nostra
stessa presunzione. I ladri, le ombre dei morti, che vanno attorno
per il mondo, gli orrori dell'oscurità, gli spauracchi delle ombre,
i gemiti, i fischi, che escono dai profondi silenzi della notte, le
reminiscenze delle fiabe spaventose udite raccontare dalle comari, i
terrori addensati nello spirito umano da secolari pregiudizi passati
in lei per eredità, non mai scossi, che non si possono scuotere del
tutto nemmeno dai piú forti, tutto questo era sempre qualche cosa di
piú sopportabile in paragone di quel che gli uomini avevano fatto e
volevano fare di lei. La notte, non limpida del tutto, era però
rischiarata dal quarto abbondante di una luna, che le nuvole sparse
per il cielo e più accumulate verso i monti non riuscivano a
nascondere; e quella luce fredda, quieta, che scivolava sulla neve,
eccitandone i segreti splendori, dava alla notte e alla solitudine
un non so che di tenero, di seducente, o almeno di non cattivo, che
parlava con una certa indulgenza all'anima primitiva della giovine.
Quando, uscita dal viottolo del mulino, si trovò davanti la strada
provinciale, larga, piana, rotta dai lunghi solchi delle ruote, che
pareva correre senza fine al piede dei monti oscuri; e quando,
fissando questi monti avvolti nelle nuvole, li vide lontani lontani,
rimpiccioliti, sprofondati nella lontananza, un senso di nuovo
terrore e di scoraggiamento ghermí il suo cuore. Il suono improvviso
e pesante delle ore, scoccando sulla sua testa dal vicino campanile,
ruppe quel breve istante di titubanza e di inerzia, che l'aveva
fermata nel mezzo della strada, l'incoraggiò a continuare. A
spingerla aiutò la vista d'un alto carro, che lentamente lentamente,
col moto ondeggiante d'una barca che si avanza, veniva dalla parte
di Bergamo, dondolando una lanterna sulla neve.
L'idea d'aver dietro di sé in un momento di pericolo questo appoggio
la sostenne. Volendo però stargli davanti per sfuggire alle
questioni curiose dei carrettieri, si affrettò a riprendere il suo
cammino nella direzione dei monti, che la chiamavano.
A destra e a sinistra taceva la campagna nella sua gelida inerzia;
ma questo silenzio avrebbe finito collo sgomentarla, se, oltre al
soffio del suo respiro non fosse arrivato di tempo in tempo a
sostenere il suo coraggio il rumore spezzato del carro che la
seguiva, a cui, col raccorciare un poco il passo, cercava di
accompagnarsi, appoggiandosi a quel rumore amico, che rappresentava
per lei gli ultimi aiuti del mondo: cosí il bambino che si sveglia
per un brutto sogno, si riaddormenta al rumore dell'arcolaio, che
gli parla della mamma. E andò cosí tre o quattro chilometri, senza
incontrar anima viva, sempre nella strada aperta, sempre col
pensiero e coll'occhio rivolto a quei monti, che non mutavano di
aspetto. Intanto pensava:
- Prima che a Buttinigo possano pensare a me, io sarò quasi alle
Fornaci. Troverò Giacomo? egli non può non tornare a casa a passar
le feste, specialmente quest’anno di disgrazia. Se la zia non mi
volesse ricevere andrò a cercar un ricovero in qualche cascinale,
finché Giacomo non torni; e se anche lui non mi vuol ricevere e mi
serra l'uscio in faccia, andrò a cercar lavoro a Brivio, a Lecco, in
qualche filatoio, andrò a far la serva, a lavar la biancheria dei
soldati, a cercar, se Dio vuol cosí, la carità sulle strade; ma in
un ospizio non ci vado a farmi rinchiudere, a morire disonorata,
arrabbiata come una cagna...».
Col capo circondato da questi pensieri, come da uno sciame irritato
di vespe, camminava sull'orlo della strada, dove la neve era già
stata battuta da altri passi, fissando lo sguardo a qualche gruppo
di piante lontane, che vedeva disegnarsi coi rami duri e neri sullo
sfondo dell'aria, provando nel suo muoversi rapido e nel calore che
andava sviluppandosi dal suo corpo giovine e robusto, un senso quasi
di soave energia. Dopo quattro mesi di sottili angoscie e di
spasimi, durante i quali la volontà degli altri aveva fatto ogni
sorta di strazi di lei, avviluppandola di fili invisibili,
ubbriacandola di false dolcezze e di carezze e di moine snervanti,
ora, finalmente, si sentiva libera, padrona di sé e dei suoi dolori,
libera di soffrire e di morire a modo suo.
Il calore del corpo, eccitato dall'andar lesto e faticoso su di una
strada rammollita, dopo aver con una segreta delizia rianimato i
suoi spiriti, cominciò a salire in un'afa soffocante alla testa,
chiusa nel pesante scialle di lana. Lo lasciò andare sulle spalle, e
provò un vero refrigerio a camminare cosí a testa nuda. Dopo quasi
un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta
abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e
luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della
memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di
case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un
abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette
un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che
brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un
senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a
sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che
dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di
pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima
davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva
l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie
chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una
gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando
inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di
luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani
che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche
in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al
camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade
deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva
dare... Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso
della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in
lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era
mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva
essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se
egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva
dato tutto e nessuno glielo poteva togliere.
Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche
maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le
poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo... Ma se
lui la cacciava via, se non la voleva vedere... oh allora... chi
poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse
all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui
due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto
vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva
tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a
una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di
vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota,
immersa nella tristezza d’una nuvola che passava sulla luna. Forse
il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere
dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo
svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in
certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva
un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un
brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo
la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che
stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno
della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con
una voce sostenuta ch'essa ascoltava.
La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par
fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana
e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua
volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per
qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però
che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero
a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie,
intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia,
finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si
facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi
collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e
intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il
desiderio che la memoria.
Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso
d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della
bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva
di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in
tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e
riprese a correre sull'orlo della strada.
Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel
richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove
sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle
immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo
del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri
dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili.
Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai
quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle
stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo
affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria
intirizzita e chiusa.
Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle
robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare
a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui
nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta,
che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava
collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed
illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la
mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata
seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare
una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre
trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per
giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre
di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro
l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della
povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo
zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel
calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che
la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio
Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla
«Frulin», un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo
orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina
volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo,
che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel
prato, perché non v'era buco in cui «Frulin» non si cacciasse, tanto
era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella
stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant
che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza,
che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora
questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di
veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve.
E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle
colorite pannocchie del granoturco?
Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le
impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più
or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si
fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente
l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i
terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata,
figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna,
che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve
pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa
nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle
spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio.
Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare
intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A
sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo
dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una
nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste.
Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di
ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravano i capelli,
le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio
partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di
neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma
non un'anima viva nel deserto! Solamente un capanno di paglia presso
una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e
pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo
creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti
alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al
ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse
intorno, non vide né il capanno, né la strada.
Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto
della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario
colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione
della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti.
La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della
voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani,
s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida
illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e
dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di
pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere a sé stessa,
quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava
carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie
trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia
segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir
davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa
fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra,
quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che
era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli
per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le
disse: - Cerestina, c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa
rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora
finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi
qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che
sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava
di avvicinarsi senza farsi scorgere... era lui, colla camicia rossa
del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal
sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese
tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le
braccia al collo... mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e
batteva le mani, piangendo come un ragazzo.
Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se
l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla
neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la
strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino.
Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai;
e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre
crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria
mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un
fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò,
lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi
intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante
stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel
trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne.
Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo
scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse,
si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva
dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le
insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al
rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola poco lontana, di
cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a
quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad
aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla
testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le
furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir
intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà
il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al
mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo
dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume,
senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque
minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un
color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo,
nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del
Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella
vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo
Giacomo.
XI
GIOBBE E LE SUE TRIBOLAZIONI
- Il dottore seguita a dire che tu devi mangiare e tener da conto le
forze - ripeteva la rnamma Santina nel metter davanti al suo
convalescente un tegame di buon fritto di cervello, in cui aveva
fatto saltare alcune creste. Dopo avergli versato un bel calice di
vino vecchio di Marsala, di quel che bevono soltanto i signori,
riprendeva a dire: - Il meglio che tu possa fare è di non pensare
piú a quella meschina che in mezzo alla sua disgrazia può dire
d'essere caduta nella bambagia. Tu non puoi raccogliere certe
eredità e... amen, di' anche tu: Sia fatta la volontà del Signore.
Don Angelo mi ha domandato se, a cose finite, avrei difficoltà a
ricevere Celestina in casa. Ho risposto che dipenderà dalle
circostanze. Naturalmente non siamo in caso di mantenerla, molto piú
se non tornerà sola. Don Angelo assicura che Celestina avrà quel che
ha diritto di avere, e quasi voleva ch'io dicessi una somma. Ho
risposto: no, no: son cose che regolerete meglio con Giacomo. Ho
detto bene? Ho accettato per il momento qualche soccorso, perché non
si sapeva piú dove dare del capo. I bisogni son molti e quest'anno,
in medici e medicine, si è spesa una dote; ma desidero che in questa
faccenda dica tu la prima parola, perché l'affronto e il danno è
stato piú tuo che nostro. La Lisa ha sentito dire alla fontana, da
una donna, che fu a servire in casa Fulgenzi, come in una
contingenza simile s'è potuto chiedere fin centomila lire, - mangia,
benedetto figliuolo, - ma non tutte le circostanze sono uguali; e
non bisogna nemmeno abusare delle disgrazie. Credo invece che
convenga mostrarsi discreti e ragionevoli, non solo per riguardo a
questi bravi signori, che sono i piú castigati, ma anche per
semplificare un accordo. Meglio stornello in mano che tordo in
frasca. Siano trenta, siano quaranta, quel che importa è che si
metta tutto sotto un mucchio di cenere e che non se ne parli piú.
Con questi denari, non solo si potrebbe provvedere alla disgraziata,
che non ha piú che questa casa; ma c'è anche questa povera diavola
della Lisa, che ha sempre lavorato per tutti. A proposito della
quale ti devo dire che si è fatto avanti il Bogellino, figlio del
fattore del Ronchetto. Ha finito il servizio militare e cerca
moglie. Sai che la Lisa non gli è mai dispiaciuta. Se non si è fatto
avanti prima, è perché sapeva che i Lanzavecchia litigavano coi
debiti e col fallimento; ma, quando si potesse assicurare alla Lisa
una parte della sostanza di vostro padre, anche su una piccola
ipoteca, il Bogellino dice che la sposerebbe subito. E io vedrei
volontieri, dico la verità, questo matrimonio, perché la Lisa non va
d'accordo con Battista; e se domani dovessi ripigliare in casa la
Celestina, dice che non resta un minuto in questa casa, ma va a
servire un curato di montagna. Il vecchio Bogella non ci vede quasi
piú e aspetta di cedere la fattoria al figliuolo, che è stato tenuto
al battesimo dal conte. Tutti lo chiamano Bogellino, perché hanno
cominciato a chiamar Bogella suo padre; ma il suo vero è Lorenzo
Limonta, il nome del conte. La contessa sarebbe disposta ad aiutarci
anche in questa circostanza, se si combina; ma non si può dare la
ragazza in camicia, - bevi, benedetto ragazzo. - Quando io mi sono
maritata, ho portato le mie trenta paia di calze, le mie
ventiquattro camicie di tela fatte in casa, e ventiquattro camicie
di tela forestiera, dodici sottane, sei vestiti, quattro di lana,
uno di seta, uno di cotone e ottomila svanziche. Sarebbe un
vantaggio di poter fare gli acquisti nell'inverno, quando si può
aver la roba a buon mercato, cosí il matrimonio potrebbe farsi in
principio di primavera. Don Angelo conosce un mercante di Bergamo,
un galantuomo, che avrebbe giusto rilevato in questi giorni una
camera da letto per duecento sessanta lire, col suo letto
matrimoniale, il cassettone col marmo, due tavolini da notte e la
seggiola col cuscino elastico... È un'occasione da non lasciar
scappare... Anche Angiolino avrebbe bisogno d'un paio di calzoni...
A questo genere di discorsi, che la vecchia Santina trovava modo di
ripetere e di far entrare in testa a quel benedetto figliuolo,
Giacomo non rispondeva mai nulla; ma lasciava capire che per conto
suo non avrebbe impedito né allo zio prete di accettare tutto quel
che nella sua coscienza di prete credeva onesto d'accettare, né alla
Lisa di sposare chi voleva, né alla mamma di ripigliare Celestina in
casa, se Celestina non desiderava che questo: gli affari di casa non
lo riguardavano piú. Egli non aveva, o credeva di non avere più la
forza né di combattere, né di resistere. Dopo che il suo cuore aveva
cessato di muoversi, come se il dolore ne avesse paralizzato le
forze, poco gli poteva importare che gli altri sfruttassero e
accomodassero la sua disgrazia ai bisogni del loro egoismo. D'un
cavallo morto è sciocchezza non trarre tutto il profitto che si può.
Perfino quel che vi poteva essere di piú grottesco, in queste
rattoppature della coscienza coll'avarizia, non aveva la virtú di
farlo sorridere. È giusto che ognuno pensi a sé; l'errore è nel
credere che si possa vivere d'idee; e molto meno si può vivere
d'idee inutili! Dal momento che aveva trovato quel posto a Pallanza,
non aspettava che di mettersi in forze, poi avrebbe dato un addio
per sempre alla casa di suo padre, non piú sua, al passato, ai
libri... Al finir della supplenza avrebbe fatta domanda per aver
qualche altro posto, in fondo alla Sicilia, o in Sardegna, un di
quei posti che nessuno vuole, che sembran fatti apposta per
seppellirvi un uomo, dove arrivi sconosciuto, non desiderato,
senz'obbligo di dar conto di te, dove con un poco di pazienza puoi
arrugginirti del tutto in una cinica inerzia di spirito, o in un
meccanismo di occupazioni, che, se non è la morte, è per lo meno
idiotismo laureato.
Stava una mattina raccogliendo alcuni pochi libri in una cassetta
(quei pochi che dovevano servire al mestiere) quando l'uscio fu
spinto bel bello e comparve nella luce della loggetta la figura
tozza e strapazzata del Manetta, ch'era venuto per dir qualche cosa
anche lui al povero sor Giacom. Il vecchio fornaciaio, che aveva
veduto nascere e crescere tutti i figliuoli della casa e che nella
sua rugosa scorza abbruciata dal sole e dal fuoco poteva dirsi il
genio affumicato delle fornaci, non aveva potuto rimanere di pietra
alle disgrazie, che da qualche tempo tempestavano le tegole dei
Lanzavecchia. Dopo la morte del povero sor Maver, pareva che il
diavolo, sceso per la canna del camino, si fosse seduto sul
seggiolone del pà. La storia della povera Cerestina non era da
credere; e se in conseguenza diretta anche il sor Giacom deliberava
di morire, a lui Manetta non restava che di andar a sonare il
violino. Quando un uomo ha lavorato tutta la vita, è dura, oltre al
veder crepare gli altri, di dover finire come un cane rognoso su un
pagliaio. Era questo il discorso che gli stava sul cuore di fare al
sor Giacom, per dimostrargli che di mali ce n'è per tutti e che il
peggio rimedio è quello di non volerli portare.
- Lei dirà, sor Giacom, ch'io ho buon tempo e che non tocca a me di
fare il professore - disse il vecchio fauno, tenendo sollevato il
cappello sull'osso della testa per tutto il tempo che durò il gran
discorso: - Per grossa è stata grossa; e quando ci penso, mi vien
voglia di bestemmiare, com'è vero che ho ricevuto il battesimo. È il
vizio che fa gli uomini cattivi; e quel che mantiene il vizio è la
troppa pietanza. Ma don Angelo dice che la Provvidenza non si
addormenta mai e bisogna crederci. Dal momento che questo Monsignor
vescovo ci mette lui le mani dentro, saprà ben trarne fuori qualche
ingrediente per far buona la bocca. Il tempo è un vecchio sarto, che
rattoppa anche al buio. Se va la combinazione, mi raccomando anche
per me, che sono ormai da vendere per ferro frusto. Non si desidera
mica mangiar manzo e mostarda, diodedei! A settant'anni non sono i
peccati di gola che fan paura; ma c'è che l'asino è stracco come una
vacca, parlando con poco rispetto; né lavorare si può, quando si
hanno i conti da aggiustare colla vecchia Caterina. Far conti sulla
cassa di risparmio? caro vita! è come voler scaldarsi a un fuoco
spento, perché ai calzoni del povero, dice quello, il sarto si
scorda di fare le tasche. Il male piú grosso è che, quando uno si è
fatta l'abitudine di mangiare tutti i giorni, è difficile che muoia
d'inappetenza. Per conseguenza diretta, se domani si vendono le
fornaci, come sento dire, a qualche grossa ditta di Bergamo, è
probabile che nessuno voglia prendere un uomo cosí rovinato nel
telaio. E non faccio per dire: ma di pesi ne ha sollevati in vita
sua questa carcassa di corpo, che ora scricchiola come una cesta.
Vede la chiesa di Calusco quanti mila mattoni? Ebbene son passati
tutti per queste due mani, che ora stentano a stringere il pane. Lei
sa che cosa è la filosofia, e dirà che io sono una bestia e che
della gente ce n'è fin troppa al mondo, peggio che le mosche
d'estate; ma si vorrebbe morire nel suo letto, non su una strada:
che ne dice, sor Giacom? Se mi buttan via perché son vecchio e
scassinato, addio bella! non mi resta che di andar a quattro gambe
come quel poveraccio del Foppa, che è uno sproposito di Dio. Chi ha
provato il tossico sa che cosa vuol dire bocca amara; chi ha patito
sa che cosa vuol dire patire. E se lei dice una buona parola al
vescovo, o alla sora contessa, o a Don Angelo, tanto che non mi
buttino ai cani, pregherò sempre per il suo pà, per la povera
Cerestina, che, se dovesse morir oggi, non la tocca nemmeno le
fiamme del purgatorio, tanto è bianca nella sua coscienza che non
piú questa neve che viene dal cielo. Lo so io il bene che gli voleva
la Cerestina. L'ho scoperto io questo amore, quando lei andò col
Garibaldi; e se Dio mi dicesse: Manetta, metti la mano nella fornace
accesa! com'è vero che questa è carne viva, giuro che ve la tengo il
tempo di tre salveregine.
Il vecchio fornaciaio stese il braccio affumicato e nocchioruto e lo
tenne sollevato col pugno in aria, come se aspettasse veramente il
giudizio di Dio.
Giacomo, che all'assalto di questa nuova tenerezza sentiva farsi il
cuore sempre piú debole, strascicando a fatica le parole, anzi
parlando piú coi segni che colla voce, fece intendere che fin che ci
sarebbe stato pane pei giovani, non sarebbe mancato ai vecchi.
Ma capiva sempre piú che l'opera sua era finita; non solo, ma
ch'egli era piú d'impedimento che di aiuto. Forse era meglio ch'egli
affrettasse la sua partenza. Quando la battaglia è perduta, al vinto
non resta che di ritirarsi. Durando il bel tempo secco, ben coperto
dal tabarro del pà, si fece accompagnare una mattina da Angiolino in
timonella fino alla stazione di Cernusco e mandò via la sua poca
roba per Pallanza. Nell'andare volle che si passasse per strade meno
battute, quantunque la gran neve caduta facesse i luoghi quasi
deserti. E anche procurava di rintanarsi nelle pieghe del mantello e
di nascondere il viso sotto le tese larghe del cappello, non tanto
per la paura del freddo, quanto perché immaginava che la gente,
riconoscendolo, dovesse dire: «To', colui che si lascia rubar
l'amorosa e par che si rassegni!».
Nel ritornare dalla stazione fece fermare la timonella davanti al
camposanto, e senza discendere girò l'occhio sulle croci, che
allargavano le braccia sulla neve. In mezzo alle croci quasi
soffocate e sepolte, un mucchietto di neve piú alto degli altri,
segnato da un piccolo piolo rustico, era tutto quanto oggi parlava
ai vivi di un Mauro Lanzavecchia.
- Sei morto a tempo, pover’uomo! - mormorò a mezza voce Giacomo,
mentre Angiolino colle mani nel cappello recitava il suo requiem di
cuore.
- Amen! - soggiunse Giacomo, quando Angiolino s'ebbe fatto il segno
di croce. - Questa primavera penseremo a mettergli una croce di
sasso.
- Sí - soggiunse Angiolino, con quel tono un po' acerbo, che
mostrava da qualche tempo in qua. - Sí, ma vogliamo mettergliela del
nostro, n'è vero?
- Cioè...? - fece Giacomo ch'era lontano dal capire.
- Voglio dire, non coi denari che vengono dal Ronchetto.
A questa improvvisa rimostranza, che uscí sbadatamente dall'anima
rustica del ragazzotto, Giacomo arrossí con tanto fuoco che sentí
per un pezzo il calore della vergogna durare sulla pelle e quasi
bruciargli la radice dei capelli.
- Il povero pà non ha mai voluto l'elemosina di nessuno e nemmeno a
me piace di mangiare il pane sporco.
- Perché, perché il pane sporco? - balbettò fievolmente Giacomo.
- Lo dicon tutti eh! - soggiunse Angiolino, menando un colpo di
frusta alle orecchie della grigia. - Tu sei troppo buono: ma io non
l'avrei finita cosí.
- Di chi intendi parlare? - interrogò smarrito il fratello filosofo.
- Non farmelo nominare. Per me avrei fatto il conto che avesse
finito di respirare l'aria di queste parti.
- Chi ti ha parlato di queste cose?
- Chi? chi? come se non lo sapessero le campane. Basta! tu sai
leggere il latino e può essere che, dal lato del messale, la ragione
sia tua; ma io gliel'avrei data una coltellata nel ventre.
Nel dire queste fiere parole, il ragazzotto, che mandava scintille
dagli occhi, lasciò andare un'altra bieca frustata al capo della
povera grigia, che s'impennò, balzò e prese la corsa. Il corpo forte
ed elastico del piú giovane dei Lanzavecchia, scosso dall'ira,
fremeva in tutti i muscoli, comunicando al sedile sospeso della
timonella un moto convulso, che faceva tremar Giacomo nelle pieghe
grosse del tabarro.
La grigia si arrestò sudata e spumante nella corte. Angiolino saltò
a terra e la condusse verso la stalla. Giacomo, che pareva
schiacciato dall'umiliazione, gli andò dietro, e quando quello ebbe
legata la bestia, mettendogli una mano dolcemente sul petto, gli
disse:
- Sai quel che hai detto, Angiolino?
- Lo so, non è da cristiano; ma bisognerà pure aggiustarla in
qualche maniera. Celestina è una nostra sorella eh?... e noi le
vogliamo bene... - Ora la fiamma divampò sul volto del ragazzo, che
fremeva tutto sotto la mano pallida del fratello.
- Son io, non tu, son io nel caso, che devo aggiustarla... -
pronunciò faticosamente Giacomo, alzando un dito, che tremava
nell'aria.
- Non importa chi sia, Giacomo: purché non si dica che noi mangiamo
il pane sporco.
- Non si dirà - scappò detto al povero filosofo, che parve
rianimarsi in un improvviso coraggio. - Non si dirà... ma son io che
devo aggiustarla.
- Fa conto che io sia con te, Giacomo: anche fino all'inferno -
soggiunse il giovinetto, che sputò per disprezzo di qualcuno sul
muro.
- Non si dirà, non si dirà - andava ripetendo macchinalmente la
forza d'argomentazione, mentre il convalescente si trascinava su per
la scaletta.
Fu ancora una brutta notte, una vera notte d'inferno! Le parole
sconsiderate d'Angiolino non avevano ridestato il vecchio uomo, se
non per dargli la coscienza della sua vergognosa incapacità.
Angiolino, sí, parlava come un forte. Egli invece, avviluppato da
considerazioni filosofiche e morbose, s'era lasciato disarmare della
forza naturale, che fa operare coraggiosamente per il bene contro il
male: e trascinavasi in una meschina inettitudine, permettendo che i
suoi mangiassero il pane sporco. Angiolino lo faceva piangere di
rabbia. Questo ragazzo quasi analfabeta, che lavorava per la sua
mamma, che pregava cosí fervorosamente per i suoi morti, che non
avrebbe esitato a dar l'animo al demonio, purché fosse ristabilita
una legge di giustizia, era un rimprovero vivente alla sua gretta
acquiescenza. - Quando la Lisa gli portò in camera la cena, lo trovò
quasi morto di freddo.
- Tu hai fatto male a uscir stamattina; lo dicevo poco fa alla
mamma. - Prese a cantare la ragazzona: - Che bisogno c'era di mandar
via proprio quest'oggi la tua roba? par che la tua casa ti bruci
sotto i piedi. Invece quel che importa adesso, piú di ogni altra
cosa, è che tu stia bene, prima per te e poi per tutti gli altri.
Chi ci aiuta, se tu non ci aiuti? È stata una grande disgrazia, e
veramente tu non la meritavi; povero Giacomo, cosí buono come sei:
ma da una disgrazia non dobbiamo mica cavarne cento. E ora mangia,
sforzati di bere una goccia di vino. Questo me l'ha portato per te
ieri il Bogellino del Ronchetto. È vin di Mondonico di cinque anni
fa, fatto dal vecchio Bogella, che ne ha una cantina piena. T'ha
parlato la mamma di quel che c'è in aria? Se ti pare che io abbia
fatto qualche sacrificio per questa povera casa, dovrai compatire se
desidero mettermi a posto. Qui finirei coll'essere la zia senza
denti, o col mangiare un pane, che non mi vorrà passare quel giorno
che madamisella tornasse in casa a comandare piú di prima. Ti parevo
troppo ingiusta, quando dicevo che madamisella non era fatta per
noi: sarà stata una disgrazia, ma a me non è capitata. Comunque non
sarò io che starò ad ingrassare sui peccati degli altri. Questo
matrimonio invece arriva a tempo, come l'arca di salvazione. Lo zio
prete ne avrebbe già parlato alla contessa: e quando tu non avessi
nulla in contrario, si potrebbe fare questo carnevale. Non è l'anno
d'allegria, no di certo: ma il povero pà, se dà un'occhiata in qua,
vorrà ben perdonare, se non lasciamo finire l'anno di triste
condizione. Queste non sono allegrie, cara Madonna! son rimedi da
far passare la miseria... Mangia dunque: non lasciarti prendere
dall'ipocondria; son già troppe le tribolazioni senza bisogno di
andarle a cercare col lanternino.
Giacomo si sforzò di mangiare; ma nel mettere in bocca il pane, gli
risonò nell'animo con una violenza irrefrenabile la frase di
Angiolino: Che non si dica che noi si mangia il pane sporco... Uno
stringimento della gola, una nausea nervosa dello stomaco gli fece
sputare nella cenere il boccone, che egli non sapeva né rompere, ne
inghiottire. Sentendosi il cuore pesante e tormentato, cosí ch'egli
temette per un momento di non potere piú trascinarlo innanzi, né
potendo togliersi dalle ossa i brividi, prima ancora che la giornata
fosse scura del tutto, andò a letto e pregò che lo lasciassero
quieto.
XII
POVERA FRULIN!
Si rannicchiò nelle coperte, sprofondò il capo nel cuscino; ma
l'immagine di Angiolino gli tornava davanti colla baldanza alquanto
oltraggiosa d'un rivale. Questo ragazzo aveva parlato semplicemente
come un uomo che ama; mentre i libri, l'analisi, l'aristocrazia dei
pensiero, la ripugnanza per il lavoro che logora le mani, l'ebbrezza
cercata e ripetuta dalle astratte speculazioni avevano snervata la
volontà del filosofo. Ecco, ecco: dopo di non aver saputo né
prevedere, nè impedire il male, ora non sapeva nemmeno respingerlo,
ma vi languiva sopra, miseramente, di obbrobrio a sé e agli altri,
non più uomo, ma spoglia vuota d'ogni energia, non piú savio, ma
cadavere mummificato d'un filosofo morto d'inazione.
Chi disprezza l'opera sua lascia libero il campo ai predoni. I
piccoli egoismi s'affollano come mosche sul cadavere dell'imbelle.
Ecco il castigo dell'orgoglio! ed era naturale che nel mal esempio
si guastasse anche la virtú dei buoni. È sul terreno dei doveri
trascurati che piú crescono le erbe velenose del male.
Fu solamente verso le quattro del mattino che il povero afflitto
poté addormentarsi, abbattuto dalla sua stessa fatica. Sognò cose
meno torbide, cose lontane, in cui entravano le camicie rosse dei
garibaldini, il lago di Garda, le montagne del Tirolo e certi
viottoli angusti e sdrucciolevoli, per cui passava una compagnia di
soldati sotto un'acquerugiola fina, fredda, noiosa; finché gli parve
di arrivare a un certo podere, dove bisognò piantare le tende... Fu
allora che intese per la prima volta chiamare: Giacomo, Giacomo!
Gli pareva di stringersi nella meschina coperta, di rannicchiarsi
sotto la tenda umidiccia, cercava di riprendere sonno, quando di
nuovo sentí la voce che lo chiamava. Stava per rispondere: presente:
e in quella alzò la testa dal cuscino. Riconobbe che aveva dormito e
sognato. Cominciava appena ad albeggiare.
- Giacomo! - risonò di nuovo la voce, dalla parte della corte.
«Chi mi chiama?» domandò mentalmente, senza alzare la testa.
- Oh il mio Giacomo, sono io...
- Sei tu? Dio, Dio, è lei... - disse a voce alta mettendosi a sedere
sul letto, come se si sentisse afferrato da una forza non umana.
- Giacomo, senti, sono la tua Celestina - chiamava la voce dolente
con una intonazione di tenerezza.
- Non sogno, Dio! è lei... - Prese i vestiti dalla sedia, se li
indossò in fretta, mentre andava ripetendo macchinalmente: - Dio, è
lei. Sei tu? - gridò aprendo la finestra e sporgendo il capo a
cercar nella corte.
Il giorno era appena chiaro, di quella prima luce che lotta ancora
colla pigrizia della notte: ma il riflesso vivo della neve aiutava a
far vedere le facciate delle case e i contorni degli oggetti.
Giacomo cercò lungo il muro e vide la figura di una donna, ritta in
piedi, colla mano sul paletto dell'uscio.
- Sei tu? o Madonna, aspetta che vengo...
Calzò le scarpe, avvolse la gola scoperta in una sciarpa di lana,
uscí sulla loggetta, scese nel buio passaggio della scala,
attraversò a tentoni la cucina fredda come una ghiacciaia, fece
saltare l'arpione dell'uscio, andò fuori...
- O Giacomo, non mi cacci via? - La voce di Celestina aveva in sé
qualche cosa di ridente. Giacomo aprí le braccia, strinse quel
povero corpo indurito dal freddo, fracido di pioggia, le impedí di
gridare mettendole una mano sulla bocca: - Taci, dormono: entra. Sei
proprio tu?
- Sí, sono io, proprio io: tu non mi cacci via...
- Da dove vieni? sei venuta sola?
- Sono scappata. Lasciami morir qui, Giacomo.
Egli la fece entrare e nell'oscurità dell'uscio, che richiusero
dietro di sé, i due promessi sposi si baciarono, si carezzarono,
piansero, mescolarono le loro lagrime, si strinsero cuore su cuore,
per finir di soffrire tutto quel male, che non aveva piú parole, che
non comprendevano piú, che li travolgeva come un grosso fiume, verso
una profondità, in cui non senza un'idea di contentezza sentivano
che c'era la fine di tutto.
- Tu sei malata, tu hai la febbre... - disse Giacomo, quando sentí
il povero corpo guizzare nelle braccia in un tremito violento e
convulso.
- No, sto bene, Giacomo - rispose, sempre colla sua voce ridente la
poverina.
- Vieni, che accendo il fuoco. Sei scappata? sola, di notte? che
cos'hai fatto? Sei venuta da Buttinigo fin qui a piedi? - Giacomo,
che tremava anche lui di freddo e di emozione, dopo aver cercato gli
zolfanelli sulla pietra del camino, accese un moccoletto, tolse dal
cassone un gran fascio di sottili stramaglie, l'ammucchiò sul
focolare, vi appiccò il fuoco, e, quando la fiamma cominciò a farsi
strada e a crepitare, trasse la Celestina a sedere sulla cassapanca,
le tolse dalle spalle lo scialle impregnato d'acqua, le asciugò col
fazzoletto la testa grondante e, vedendola rianimarsi al calore
della fiamma, si domandò se per caso non fosse ancora uno strano
sogno. Chi sa misurare la grossezza del filo che intercede tra la
verità e il sogno? e chi non ha visto, sognando, la segreta anima
delle cose?
- A Imbersago ho dovuto aspettare quasi una mezz'ora che la chiatta
del porto venisse a portarmi di qua: pioveva e non mi sono accorta.
Ma ora sto bene: questa fiammata è il paradiso.
- Hai camminato tutta la notte nella neve?
- Sempre. Era cosí bello... Fu nel discendere verso il porto per un
sentiero gelato e liscio come un vetro che son due volte
sdrucciolata... ma non è nulla... Ora sto bene qui accanto a te.
Giacomo dallo squallido disordine delle vesti, che portavano i
larghi segni dello strapazzo e del fango, e piú ancora
dell'animazione eccessiva, quasi nervosa, che spingeva la poveretta
a ridere e a celiare sulla sua avventura, fu tratto a pensare che lo
strano viaggio non fosse andato senza pericoli e senza spaventi.
Le scarpe, le calze erano una pietà. Il fango impiastricciava le
balzane, i gomiti, il volto fin sopra i capelli. C'era sulla fronte
qualche riga di sangue. Al bagliore dei fuoco gli occhi di lei
risplendevano d'una luce fissa e cristallina, che pareva mirar
lontano. Le braccia avevan bisogno di stirarsi: il corpo pareva
desiderare d'annidarsi in quella gran fiamma, che riempiva il
camino. Pure, con tutto questo, essa era contenta d'essere arrivata,
e parlava sempre con voce elevata, ridente, piena d'infantile
contentezza.
Giacomo cercò nell'armadio la bottiglia della vecchia acquavite, che
il povero pà soleva versare nel caffè.
- Bevi, questa ti farà bene: ti scalderà lo stomaco.
Essa prese il bicchierino colla mano traballante e tracannò il
liquore con avidità, come se fosse latte. Le sue gote si rianimarono
subito d'un calore interno.
- Grazie della carità. Come sei buono, Giacomo!
- Togliti le scarpe: fai pietà - pregò con voce sommessa.
- Hai ragione: ho i piedi rotti. Fu un grande andare... - E con
docile obbedienza lasciò che colla lama del temperino egli tagliasse
le stringhe e aiutasse a levar le povere scarpe, che non erano più
scarpette da ballo. Le tolse anche le calze, che parevan state in
molle e volle che asciugasse i piedi nudi alla fiamma. Celestina
lasciò fare con una infantile accondiscendenza, provando nella gioia
fisica di quel calore, che la ristorava, qualche cosa di lieto e di
splendido, che correva ad accendere tutti gli spiriti della vita.
Cominciò a raccontare con tono eccitato e molto sconnesso le
avventure della sua fuga: come avesse ingannato le due signore,
perché lei in un ospizio non ci voleva andare: si era accorta che
volevan seppellirla viva: disse anche come da qualche tempo le
mettevano nel pane, che aveva un sapore amarognolo, una piccola
goccia di veleno per farla morire a poco a poco. Allora pensò di
fuggire: uscí di casa dietro il carretto del Pasqua e s'era
incamminata per quella benedetta strada lunga lunga lunga, tutta
coperta di neve. Una volta incontrò il Manetta, che le disse: È
arrivato il Garibaldi... Allora s'era consolata tutta: ma alcune
donne, che andavano al mercato di Merate, la volevano condurre con
loro per raccomandarla alla Madonna del Bosco, dove c'è un lupo che
mangia i bambini... Ma essa capí che volevano farla perdere, perché
eran streghe travestite. - Il portolano d'Imbersago, quando mi vide
comparire cosí, come se fossi stata pescata allora dall'Adda, non
voleva a tutti i costi trasportarmi dall'altra parte. C'era una
nebbia, ve'... Provò a chiamare un ometto colla barbetta rossa, che
voleva sapere chi aveva colta la castagna, chi l'aveva sbucciata e
mangiata. Io dissi a quei due burloni che avevano buon tempo e feci
vedere un cinque franchi. Allora si persuasero a portarmi di qua.
L'acqua era verde come una biscia. Poi non ebbi piú paura di
nessuno, perché sapevo che di qua c'eri tu, Giacomo; ma devo aver
perduto il borsellino colle sessanta lire della contessa. Credi che
abbian potuto rubarmelo quei vecchi? l'ometto dalla barbetta rossa,
se non era il diavolo colle scarpe, era uno de' suoi figliuoli piú
vecchi... - La febbricitante, mentre raccontava cosí, a spizzico,
sconnessamente, non cessò dal togliersi le forcine dai capelli, che
sciolse interamente e spremette colle mani, fissando con un sorriso
di tenerezza il suo Giacomo. A un tratto, come se venisse meno ogni
motivo di gioia, si rannuvolò, strinse nella mano convulsa una
treccia e rimase immobile, cogli occhi fissi sulla brage, simile
all'immagine simbolica dell'afflizione. - L'Adda era verde come una
biscia, - ripigliò colla voce di chi parla in delirio - ma quando
fui al di qua del fiume, non ebbi piú paura di nulla. Di qua ci sei
tu, Giacomo; tu sei il mio Gesú. - E sporgendo un piede nudo verso
la fiamma, soggiunse con dolorosa ironia: - L'ometto dalla barbetta
rossa voleva che lo sposassi; ma io gli dissi: «Levatevi la scarpa:
fate vedere il piede. Certo era il diavolo».
Detto questo, appoggiò la testa stanca al palmo della mano, chiuse
gli occhi, abbandonò il corpo e, se Giacomo non era pronto a
riceverla fra le braccia, stramazzava nelle fiamme, rotta dal sonno
e dallo strapazzo. Egli lasciò che posasse la testa dolente sulla
sua spalla, la sorresse col braccio, circondandola, le ricoprí colla
sciarpa i piedi, e se la tenne addormentata un pezzo,
rannicchiandosi nell'angolo del vecchio camino, mentre la fiamma si
spegneva a poco a poco nella cenere e cresceva la luce bianca del dí
a schiarire le cose. Il gallo cantò. Poco dopo, cominciarono le
campane a sonare l'avemaria, rompendo l'aria muta e ghiacciata con
una specie di domestica cantilena. Era proprio Celestina, che
dormiva sulla sua spalla colle labbra aperte a un inerte sorriso,
sotto i colpi di piccoli fremiti. Era lei, era la sua povera
Celestina, che gli parlava coi gemiti del suo dolore assopito.
E nel carezzarne i capelli, sentiva uno strano bisogno di ripeterle
cose dolci e soavi; come se tra lor due non fosse mai discesa alcuna
fatalità.
Nella luce ardente di questo istante presente impallidivano i
ricordi del passato. Alla realtà l'animo commosso non sapeva opporre
che una morta resistenza. La ragione non parlava piú, finalmente, in
lui, ma dall'anima sua buona e commossa traboccava la santa pietà,
la santa forza operosa che libera e redime.
Che cosa diventano i piccoli argomenti della piccola logica davanti
all'onda di quel sentimento di amore e di carità?
- Tu sei il mio Gesú - essa aveva detto nell'invocare la sua
misericordia; e forse parlava veramente al suo cuore una carità piú
grande del mondo, quella che Gesú recò sulla croce e che vinse
contro le leggi del mondo.
- O povera «Frulin» - le andava ripetendo, parlandole sommessamente
nei capelli: - Che cosa hanno fatto di te? perché ti hanno ridotta
cosí? che male abbiamo fatto noi due per essere cosí puniti?
L'ascoltava essa? pareva che uno spirito vegliasse nell'oscurità
profonda di quel sonno letale, che impiombava le sue palpebre e
snervava tutte le sue forze, perché alle parole carezzevoli
rispondeva talvolta un breve corrugare delle ciglia, un movimento
languido delle labbra, che cercavano ancora un sorriso. Di mano in
mano che la luce si diffondeva nella stanza e i pensieri della
realtà entravano a dominare la sua commozione, Giacomo, nel
contemplare quel povero corpo rattrappito nelle sue braccia, quei
piedi nudi illividiti, le vesti sciupate, i capelli cascanti sul
viso arso dalla febbre, non seppe più trattenere il pianto. Credeva
che fosse inaridita per sempre la fonte delle lagrime, e invece se
le sentiva colare tiepide e larghe nei solchi del viso, le vedeva
scorrere come un vero lavacro dagli occhi suoi sul viso e sulle mani
della disgraziata...
- Povera Celestina, povera «Frulin»! se ti vedesse lo zio Mauro, che
ti voleva tanto bene... Perché dovevo provare questo dolore? no, no,
non avrei mai creduto che si andasse cosí lontano nella via del
patimento. Se non si muore di questi mali, è segno che veramente c'e
in noi qualche cosa che non può morire.
Cosí parlava o credeva di parlare a lei, ma in fondo non faceva che
ascoltare sé stesso. E intanto non osava muoversi per paura di
rompere quel breve momento di riposo e di benedetta dimenticanza,
che la ristorava. Pensava che, perché la poverina avesse avuta
l'audacia di fuggir da una casa ospitale di notte, e di mettersi
tutta sola per una strada piena di neve, affrontando i pericoli e
gli sgomenti di un viaggio cosí pauroso, questo voleva dire che la
febbre dei suoi mali l'aveva eccitata fino al delirio. Ne' suoi
discorsi, nel suo stesso ridere festoso c'era già qualche cosa di
troppo, di oscuro, di irregolare; e questa febbre cresceva
spaventosamente ad abbracciarla, la faceva gemere nel sonno, emanava
in una vampa rovente, in cui cominciava ad ardere egli stesso, come
di un fuoco che si propaga...
Finalmente sentí muovere nella stanza di sopra gli zoccoletti della
Lisa, che poco dopo sonarono sulla loggetta. Aspettò ch'ella venisse
dabbasso e, quando la vide entrare in cucina, le fece un richiamo
colla mano.
XIII
QUOD DEUS CONJUNXIT..
- Guarda, fa piano; è Celestina...
La Lisa alzò le mani, aprí la bocca e rimase senza fiato, immobile,
senza poter trovare tra cento parole, quella che valesse ad
esprimere in una volta la meraviglia, il disprezzo, la gelosia e
anche un certo senso serpeggiante di compassione, che suscitò in lei
l'improvvisa presenza di madamisella in casa sua.
- Ha una febbre terribile, - continuò sottovoce Giacomo - va ad
avvertire la mamma; fate scaldare un letto.
«Quando son malate...» ebbe una gran voglia di dire la Lisa; ma
dalla faccia di Gesú crocifisso, con cui le aveva parlato Giacomo,
capí che non era il momento di pigliarsi di queste soddisfazioni di
stomaco. Tornò di sopra e cinque minuti dopo le due donne
rientrarono insieme.
- Sicuro ch'è malata questa pover'anima... - disse pietosamente la
mamma Santina tenendole una mano sul capo. - Il meno che si possa
fare è di metterla subito in letto e di chiamare il dottore. Mentre
raccolgo un po' di brace nello scaldino, tu Lisa, prepara il letto
nella stanza di Giacomo. Da dove vien fuori questa povera martire?
La Lisa, che, dalla roba giudicò lo strapazzo della creatura, non
osò replicare, ma tornò di sopra a stendere un materasso sul letto,
nella stanza che occupava Giacomo prima di passare in quella dello
zio prete, sforzandosi di vincere colla furia dei movimenti
un'agitazione, in cui il suo risentimento bisbetico si azzuffava col
presentimento pauroso di qualche nuova disgrazia.
- Non ci manca che questa - cominciò a brontolare dentro di sé,
mentre stirava i lenzuoli sul letto. - Càpita in una bella
condizione, se Dio vuole! Se si deve giudicare dalle scarpe e dalle
calze, madamisella non ha viaggiato in carrozza, ma ha camminato
abbastanza per arrivare a tempo per farsi curare da noi, come se non
ne avessimo abbastanza dei fastidi nostri; già, finirà col guastare
anche quelle poche feste di Natale. Questo, si sa, è l'ospedale
degli invalidi. Finito l'uno, comincia l'altra, e noi, s'intende, ci
dobbiamo prestare per tutti, gratis et amore, se dobbiamo
guadagnarci un bel posto in paradiso. Per loro il buon tempo, la
filosofia, i buoni bocconi, i complimenti, la corte dei signori, e
quel che segue, fin che il buon tempo dura; quando la festa è
finita, si torna a casa a farsi curare; e allora allon donc, tocca a
noi far pezze della pelle per medicare le loro piaghe. Sarebbe bella
che, dopo aver fatto quello che ha fatto, madamisella venisse a
morir qui, proprio a tempo per liberare da ogni obbligazione quei
bravi signori, che l'hanno rovinata! uscir lei dai fastidi e lasciar
a noi le spese del funerale. Non mi stupirei che lo facesse, perché
è sempre stato nel suo carattere di guastare le combinazioni...
Mamma Santina entrò in quella collo scaldino. Pallida e tremante di
emozione, quando la Lisa cominciò a voler far sentire le sue
ragioni, troncò ogni discorso col dire:
- Fosse la figlia di nessuno, quel che importa è che la povera
figliuola sia assistita; non sei cristiana?
- Non neghiamo la nostra carità nemmeno ai cani; ma io direi di
scrivere subito, a buon conto, allo zio prete, per avvertirlo del
fatto e per indurlo a conchiudere qualche cosa con quella benedetta
contessa. Sapete che Giacomo non è uomo da risolvere una questione.
Teme sempre di mancar di rispetto alla gente, la quale poi lo ripaga
nel bel modo che s'è visto; e non vorrei che, a furia di aver
misericordia agli altri, ci riducessimo a morir noi disperati come
ladri. Se questa disgraziata deve ammalarsi in casa, bisognerà pure
che qualcuno pensi alle medicine. Sarebbe bello che toccasse a noi
di far la penitenza de' suoi peccati...
La Lisa non avrebbe finito cosí presto dal predicare, se la mamma,
facendole un vivo segno colle mani, non l'avesse avvertita che
Giacomo stava per entrare.
Questi s'era presa Celestina sulle braccia e raccogliendo le sue
forze a un'estrema fatica, veniva su per la scaletta col peso lento
della persona, che rovesciata sulla sua spalla, nel languore pesante
di un corpo morto, lasciava cadere le braccia incapaci in un
desolante abbandono. I capelli umidi e sciolti scendevano sul volto,
velando i lineamenti già irrigiditi e mettendo una striscia quasi
funebre sul candore marmoreo, mentre i piedi ignudi, che uscivano
dalla povera gonna, davano alla giovine una tristezza d'infinita
miseria, di vittima spenta che portassero a seppellire.
- Come l'hanno conciata, pover'anima - scappò detto alla Lisa,
quando, deposta sul letto la malata, dette mano a svestirla; e male
resistendo alla violenza della naturale compassione, gli occhi le si
fecero grossi di pianto.
Giacomo ordinò con tono frettoloso e sostenuto che la mettessero a
letto, mentre egli andava a chiamare il dottore. Uscí e corse, cosí
come si trovava, a capo nudo, col petto mezzo scoperto, in cerca del
Brandati.
Celestina si lasciò svestire senza dar segno di vita. Era un letargo
di piombo fuso e colato in un corpo di ghiaccio.
- Non vede domattina - pronosticò don Angelo crollando
malinconicamente la testa.
- Nel suo stato lo strapazzo fu troppo - soggiunse la levatrice, che
il dottore aveva dovuto far venire in fretta.
- Santa Madonna, che brutto Natale! - La Santina nascose il volto
nel grembiale, e dopo aver asciugati gli occhi grondanti, si volse
al prete: - Glielo dite voi, don Angelo, a quel povero figliuolo?
- Dov'è?
- Dabbasso, in studietto. Da ventiquattro ore non par piú un uomo
vivo.
- Vado io a pigliarlo.
Lo zio prete scese lentamente la scaletta e andò in cerca di
Giacomo. Lo trovò nello stanzino, che serviva di studio, seduto in
una vecchia sedia di cuoio, col capo curvo e colle braccia
incrociate sul petto, cogli occhi fissi sul suolo, in una attitudine
di attonita tranquillità.
Nella luce grigia, che entrava dai nudi vetri della finestra, che
dava sulla vignetta, il suo volto reso quasi trasparente dai mali,
compariva ancor piú delicato e giovanile. Ma tutta la testa, sotto
il cespuglio d'una chioma fatta folta e lasciata incolta, aveva
un'espressione di bellezza forte e resistente.
Di fuori il vento strappava i rami della vecchia vite appoggiata al
muro, e nella bianchezza della neve svolazzavano per la vignetta
alcuni corvi. Il cielo attraverso agli alberi e ai pergolati spogli
appariva d'un azzurrino purissimo; e in quel cielo fermo e lieto,
che si sprofondava nell'infinità, pareva che lo spirito di Giacomo
attingesse le ragioni della sua persuasione.
Don Angelo, nel passare dalla cucina, vide Battista in un angolo tra
la credenza e il muro, in piedi, colle spalle appoggiate al legno,
colle braccia nascoste sotto il gabbano, col testone basso, in
un'attitudine di colpevole punito. Angiolino invece, che non poteva
star fermo nelle sue smanie dolorose, dopo essere uscito cinquanta
volte a cercare un sollievo al suo patimento in qualche occupazione
materiale, s'era messo a sedere sopra un sacco di cruschello e stava
lí, colla testa curva sui ginocchi, coi pugni stretti, colla gola
strozzata da un dolore furioso, che non osava farsi sentire. Insieme
alla pietà per la povera Celestina e per il povero Giacomo, fremeva
in lui un rancore che non voleva morire; e intanto gli pareva che
qualche cosa di vivo e di palpitante si distaccasse dal cuore. Senza
che egli potesse capire, in Celestina, piú che la sorella,
rimpiangeva lo svanire d'un misterioso incanto.
Dopo il pieno scampanare della benedizione, un lungo silenzio si
diffuse per la casa, per la corte spopolata, per tutta la campagna
lucente al sole. Una luminosità gioiosa si spargeva in quel
pomeriggio di Natale senza nuvole e senza nebbia e correva sulle
creste dei monti, che riflettevano splendori d'argento nella tremula
trasparenza dell'aria.
Raggruppati su un vecchio trave, accanto al muro del portico, il
Manetta e alcuni uomini delle fornaci discorrevano accorati con
mezze frasi nel tenore morto d'un suffragio. Parlavan di lei, di
Giacomo, del caso, dei mali, che vengono senza farsi cercare; poi da
capo a crollar la testa ed asciugar gli occhi col ruvido palmo della
mano. Una volta fece una rapida comparsa tra il chiaro e il fosco il
signor della Rivalta; domandò qualche notizia e scomparve colla
stessa furia. Forse c'era a casa chi lo aspettava con ansiosa
curiosità. Forse correva anche lui dietro a un suo incanto... Sulla
loggetta era un rapido incontrarsi di donne che non parlavan piú per
rispetto alla morte.
- Giacomo, - disse la voce grave di don Angelo con quell'intonazione
un po' alta ed estranea, di cui si servono i preti, quando sentono
di parlare in nome di una forza superiore - abbi pazienza, povero
Giacomo; per lei forse è meglio cosí. Non andiamo a investigare la
volontà di Dio, ma lasciamola passare. Puoi venir di sopra?
- Le avete detto il mio pensiero? - chiese il nipote con voce
altrettanto ferma.
- Gliel'ho detto. Quasi non voleva accettare; ma quando capí che per
lei non c'è piú nessun'altra speranza in questo mondo e che non
potrebbe avere da te una consolazione piú grande, ha detto con gioia
di sí. Ma bisogna far presto.
Giacomo si mosse sotto la guida d'un segreto pensiero, che lo
sorreggeva. Il vecchio prete, che nei suoi settant'anni maturi
poteva dirsi stagionato contro i tocchi della tenerezza, gli passò
il braccio nel braccio e volle accompagnarlo su per gli scalini.
- Allora faccio venire i testimoni - disse quando furono sulla
loggetta. Giacomo entrò nella stanza vicina, e ne uscí pochi minuti
dopo coi capelli ravviati e con indosso il vestito nero, pronto per
la cerimonia. Ebbe ancora un assalto di smarrimento momentaneo; ma
il Brandati e lo zio lo presero in mezzo e lo menarono nella stanza
della moribonda.
La mattina le avevano portato la Comunione. Ardevano ancora sul
tavolino le due candele benedette in mezzo ad alcuni fiori, che
Angiolino s'era fatto dare dal giardiniere del Ronchetto. Alcune
donne stavano in ginocchio, accanto al muro, col viso in lagrime.
Battista e Angiolino, ai piè del letto, parevano non veder piú
nulla.
La cerimonia cominciò.
- Voi siete i due testimoni - disse ai due giovani la voce di don
Angelo, che conservava in mezzo a quello scompigliato silenzio
un'intonazione d'ordine e di comando. Si mise al collo la stola
rossa, aprí un libro dagli orli dorati, fece il segno della croce.
Dopo aver letto sottovoce alcune preghiere in latino, si chinò
sull'assopita, per dirle piano all'orecchio:
- Celestina, figliuola, c'è qui il tuo Giacomo, che ti vuole
sposare.
La giovane aprí languidamente gli occhi, li girò per la stanza. Un
umile sorriso scosse e tremolò sulle sue labbra riarse dalla febbre
infettiva, che la divorava.
- Mi ascolti, figliuola? - tornò a dire don Angelo. Essa fece colle
palpebre un piccol segno di sí. E il prete con accento piú
sostenuto: - È contento il qui presente Giacomo Lanzavecchia di
sposare la qui presente Celestina Benetti?
- Sí - rispose Giacomo con un'espressione e un tono di voce che,
sfuggendo di mezzo ai brividi dell'anima, risonò con una dolcezza
singolare.
- È contenta... Sei contenta, Celestina, di sposare il tuo Giacomo?
- sussurrò don Angelo, curvandosi un poco sulla testa della malata,
mal resistendo anche lui questa volta alla violenza delle cose.
La morente, che seguiva coll'occhio luminoso la santa cerimonia,
disse un «sí» chiaro, ridente, che radunò tutte le speranze sfiorite
della povera anima sua.
Stese la mano stanca, mentre la mamma Santina, che non riusciva a
inghiottire tutte le sue lagrime, cercava di mettere nella mano di
Giacomo il vecchio anello d'oro, che le aveva dato quarant'anni fa
il suo Mauro.
Il figliuolo, il quale non vedeva innanzi a sé che un barbaglio di
cose bianche, aiutato dai vecchi, che mescolavano colle sue le loro
mani tremanti, mise l'anello nuziale nel dito della sua promessa.
Poi si lasciò cadere in ginocchio e restò come morto. Celestina
sollevò la mano e gliela posò sul capo.
- Quod Deus coniunxit homo non separet - recitò il prete, ritrovando
la sua voce naturale. Poi continuò le altre parole del rito mentre
cercava di avvolgerli nella sua benedizione.
Piangevano tutti, in silenzio, non senza qualche segreta
consolazione. Celestina, fissati gli occhi in viso alla mamma
Santina, parve chiedere qualche cosa. La mamma sollevò un poco colle
mani la testa di Giacomo:
- Perdona, Giacomo - disse con un filo di voce - perdona, perdona...
Fu questo l'ultimo sforzo d'una vita che fuggiva già lontano come
fugge un'ombra all'avvicinarsi di una gran luce.
Don Angelo senza pensare a cambiar stola, voltò alcune pagine del
libro, che contiene in poco spazio l'eterna leggenda delle gioie e
dei dolori che passano, e cominciò a leggere le orazioni degli
agonizzanti, a cui risposero i presenti, stando inginocchiati.
La poverina spirò ai primi tocchi dell'avemaria sul finire di quel
Natale che doveva essere per lei cosí bello e cosí felice.
Giacomo si alzò e venne condotto fuori. Non piangeva. Un sentimento
di serena convinzione, starei per dire di umiltà soddisfatta, gli
permetteva di essere il meno scosso e il meno turbato di tutti.
Sentiva confusamente che qualche cosa era finito, per cedere il
posto a qualche cosa di più grande, che non avrebbe potuto trovar
posto poco prima nell'anima sua.
XIV
IL ROSARIO DEL FILOSOFO
Per tutto il tempo che le campane accompagnarono col suono lento ed
uguale il funerale della vittima, Giacomo non fece che ricamare i
suoi pensieri nella cenere del camino, stando seduto, coi piedi
sulla pietra, col braccio appoggiato al ginocchio, colla testa
appoggiata al palmo della mano, nella penombra crescente della
fredda cucina.
La gente, che per un bisogno logico dello spirito non può fare a
meno di cercare alle cose che accadono la ragione che le muove,
avrebbe potuto domandargli che significato voleva avere per lui
questo matrimonio in articulo mortis, tanto in faccia a Dio, come in
faccia agli uomini: e che cosa accomodava, che cosa giustificava,
che cosa santificava? E non sapendo trovarla questa ragione, la
gente poteva supporre ch'egli vi avesse almeno qualche particolare
vantaggio.
Fortunatamente Giacomo non era piú obbligato a rispondere a nessuno,
nemmeno a sé stesso. Viaggiando molto lontano nella dolorosa
esperienza, egli era uscito molti passi dalla strada delle ragioni
solite e camminava, calpestando le idee accessorie, con un
sentimento ignoto al senso comune, verso una Idea, che metteva
finalmente nel suo spirito la pace dell'uomo vittorioso.
Nella coscienza del suo dolore cercava di misurare le forze, come
chi sa che dovrà rimettersi in cammino al nuovo spuntare del dí per
una via maestra, dopo aver perduto molto tempo e stancate molte
illusioni in un labirinto di sentieri dirotti ed oscuri. Sí, non
senza qualche meraviglia, assisteva egli stesso all'umiliazione del
suo orgoglio. Non senza qualche curiosità andava cercando da dove
gli venisse questa pace insieme a tanta forza di rassegnazione, di
umile rinuncia, quasi di consacrazione de' suoi mali. Non gli veniva
certo dalla cenere del suo libro abbruciato; non dall'eloquenza del
vecchio prete, che gli aveva parlato di leggi immutabili; non dalla
necessità, che stringe e costringe i piccoli bisogni e i piccoli
egoismi umani in un affamato sofisma.
Era tanto immerso in questa ricerca che non si accorse subito,
quando i suoi, di ritorno dal funerale, dopo aver lasciata Celestina
sotto la neve, rientrarono a poco a poco, in silenzio, e presero
posto, chi qua chi là, nella stanza già annerita dall'ombra della
sera.
Insieme a quelli di casa entrarono anche gli uomini e le donne di
servizio, coi lavoratori delle fornaci, e tutti presero posto, come
gente vinta, sulle panchette, sui sacchi, sui trespoli accostati al
muro. Il vecchio Manetta venne a cercare il suo posto sulla pietra
stessa del camino, ai piedi del sor Giacom.
- Vedi, Giacomo? - disse la voce sonora dello zio prete, mentre la
mamma Santina attaccava una lampadina accesa davanti a un quadretto.
- Siam qua tutti a recitare il rosario per quella figliuola, che è
morta come un angelo, col desiderio che si perdonasse: va bene,
Giacomo?
Questi mosse una mano e cercò quella grossa e forte dello zio.
Allora il prete sedette a capo della tavola e, levata una corona
dalla tasca, intonò il primo atto dei misteri dolorosi colla sua
voce alta e vigorosa, che andava avanti come per aprire una strada:
e dietro seguivano confusamente, piú intralciate e nascoste, le
altre voci diverse, proprio col disordine di un branco di pecore,
che si affollano dietro un pastore grande e robusto.
Giacomo per le sue convinzioni filosofiche non poteva rispondere a
una preghiera non sua. Tuttavia tutte le volte che il prete, con un
accento quasi di maggior insistenza, ripeteva: Requiem aeternam dona
ei, Domine... non sapeva rifiutarsi d'associare la sua voce e la sua
volontà alle altre, che invocavano la pace alla poverina.
«Chi può dire» pensava in cuor suo «che i morti non ascoltino le
voci dei vivi? Non aveva egli già avviata l'opera della pace, quando
aveva benedetta col suo amore l'agonia della disgraziata? Celestina
era morta colla consolazione che l'amor del suo Giacomo la seguisse
anche di là. In questa certezza aveva sorriso all'oscuro mistero,
come se col morire non l'aspettasse il letto umido della fossa, ma
l'amplesso dello sposo.
- Et lux perpetua luceat ei... - ripeteva il coro delle anime
sincere. E Giacomo, che si lasciava trascinare dalla forza di tante
voci umane, come da un'onda, che lo sospingesse molto lontano,
scopriva finalmente che anche a lui questa nuova pace veniva
dall'opera dell'amore e della pietà. Col non rifiutare a lei una
benedizione aveva provveduto anche a sé: perché il bene che fai è
quello che ti porta. In questa coscienza dell'uomo buono e benefico,
insieme alla pace, siede la santità della vita.
- Et lux perpetua luceat ei... - ripeteva il coro degli umili. Egli
intanto non cessava dal meravigliarsi, vedendo come nessun apparato
di dottrine occorreva a produrre questi dolci miracoli; ma basta a
raggiungere i piú alti ideali un'anima semplice, che affidi a un
affetto sincero. Nessun sapiente aveva sorriso mai alla morte con
tanta dolcezza come Celestina nell'ora estrema. Egli le aveva
schiuso un paradiso. Cosí la forza degli affetti ci riporta alla
natura: e per questa via, non per altre, ci accostiamo a Dio e Dio
ci viene incontro.
- El lux perpetua luceat ei... - rispondeva il filosofo nella pia
umiliazione del suo spirito. - La Scienza? - chiedeva poi a
qualcuno, che andava allontanandosi da lui. - La Scienza, che non
può mai essere piú grande del nostro orgoglio, sta di contro alla
verità della vita come un piccolo e ruvido scoglio di contro
all'immensità dei mare. Oh le infinite estensioni del mare! Il mare
ha forze inesauribili, che non si consumano per urtare che facciano
contro un povero sasso.
Tocca a chi ha avuto la visione dell'infinito, tocca a chi sente
dentro di sé il fluttuare divino di quest'onda instancabile, il
purificare le miserie della terra e risanare i deboli, che il
destino condanna alle angustie dell'egoismo.
Tutta l'umanità dotta ed indotta naviga per questo misterioso mare
senza sponde. Forse è una barca sola, che ci trasporta tutti nella
direzione di una Volontà; e poco importa che tu segga a prora o a
poppa. Ben poca cosa è qualche passo, che tu muova sul ponte della
barca nella direzione del viaggio comune o nel senso inverso. Tutti
approderemo o prima o dopo alla stessa riva.
Il Manetta, che stava, come si è detto, seduto sulla pietra del
camino, stretta la lucida testa nelle mani ruvide e logorate dalla
terra, quando tutti si mossero per rispondere al de profundis, si
alzò dolorosamente anche lui, e tentennando, cercò di inginocchiarsi
in terra. Giacomo, a cui parve che il povero vecchio si umiliasse
per lui, gli porse la mano, che il fornaciaio strinse nella sua e si
recò al petto con pietosa tenerezza. E, dal modo col quale il
vecchio servo prese a rispondere al salmo, il padrone vide lo sforzo
affannoso d'un'anima, che vola al soccorso di un'altra.
Giacomo s'intenerí. Nuove lagrime presero a scendere inaspettate nei
solchi inariditi, in cui eran passate le lagrime dell'odio e della
disperazione. Il gran discorso del vecchio lavoratore gli ripassò
nel cuore, e con un senso quasi di rimorso si domandò: «Che cosa ha
procurato a costui la filosofia da Talete in poi? ben ha potuto
talvolta seminare il disprezzo degli uomini e indurre la
disperazione nei cuori; ma tutte le statue di Aristotile non valgono
un pezzo di pane. E tutta la psicologia non vale le lagrime d'un
orfanello. Va, va, o filosofo, semina l'idea tua nell'opera tua.»
Improvvisamente si sentí battere un gran colpo alla porta.
- Chi è? - chiese don Angelo, interrompendo la salmodia; poi
soggiunse nel silenzio generale: - Andate a vedere.
La Lisa un poco esitante si mosse, tirò il paletto dell'uscio e aprí
un battente, che lasciò passare, insieme a un soffio d'aria cruda,
un leggiero fantasma di luna.
- Un telegramma - disse la voce del procaccia.
- È per te, Giacomo - soggiunse la Lisa, mentre Angiolino si
accostava colla lampadina.
Giacomo colle mani che fuggivano ruppe il dispaccio, lo scorse cogli
occhi, poi con voce accorata, che sentiva la mortificazione, lesse
in modo che tutti potessero intendere:
«Povero babbo morto oggi alle cinque. Preghi e faccia pregare per
lui, per noi. Enrichetta.»
XV
LA MORALE PRATICA DELLA STORIA
Don Lorenzo moriva sulle prime pagine di quel suo gran «Discorso
preliminare», che probabilmente non avrebbe mai avute le ultime,
anche se l'autore, incontentabile nella sua delicatezza stilistica,
fosse campato gli anni di Matusalemme. Lo stile piú perfetto
dev'essere quello che non si scrive, perché nulla nuoce tanto alla
perfezione quanto la necessità di conchiudere. E senza conchiudere
se ne andò, pover'uomo, da questo mondo, colla coscienza di non aver
fatto nulla di male, portando seco l'amarezza di quel dolore
assassino, che l'aveva ucciso. Poche, sempre le stesse, furono le
sue parole nei brevi giorni che, assalito nuovamente dal suo male,
stette indeciso tra la vita e la morte. - Si precipita!... - aveva
cominciato a dire; e non seppe dir altro. Nell'angustia del suo
spirito, nella struttura arida e tutta grammaticale del suo
giudizio, non seppe, prima di chiudere gli occhi, elevarsi a un
sentimento di incoraggiamento, di compassione, di compatimento, né
trovare una parola nemmeno antiquata, che sonasse per donna Cristina
come un sospiro di benevolenza. Il pover'uomo non trovò nel suo
abbattimento la forza di risvegliare nemmeno quella gran bontà, che
aveva sempre sonnecchiato in lui. E cosí, dopo aver tanto cercata la
pace in vita sua, moriva in una mezza collera cogli uomini e con sé
stesso, benedetto dal buon canonico Ostinelli, che accettò di
esprimere (la buon'anima gli perdoni) in una sua iscrizione alla
buona, tutte le belle qualità che ornavano il suo spirito e che non
impedirono a un Magnenzio di Villalta d'essere quasi un uomo
inutile.
Giacinto, chiamato in fretta al letto di morte, partiva, subito dopo
la disgrazia, per l'Africa, mentre già cominciavano a venire di là
grosse notizie di guerra.
Intanto gli affari delle fornaci si rialzavano colla mediazione
dello zio prete e sotto gli auspici di una solida ditta bergamasca,
che, rilevando i crediti del signore della Rivalta, assicurò pane e
lavoro a Battista ed Angiolino, e permise alla mamma Santina di
continuare a bere il suo caffè nel seggiolone del pà. Anche il
matrimonio della Lisa fu definitivamente conchiuso; e cosí fu
dimostrato quel che don Angelo Lanzavecchia non cessa mai di
ripetere, cioè che le cose del mondo, come le noci, si accomodano da
sé nel paniere tanto piú presto quanto maggiori sono le scosse del
viaggio.
E speriamo che in quest'opinione torni anche il sor Francesco,
l'oste della Fraschetta, se, come si dice, per intercessione della
contessa e di Monsignore, i giudici vorranno usargli
dell'indulgenza. Fu un gran sussurro quel giorno che i carabinieri
si presentarono all'uscio dell'osteria, non per bere il solito vin
bianco, ma con un mandato di cattura! Si parlava d'un complotto
ordito tra lui e non so quali vagabondi per cavar denari al conte
Lorenzo colla minaccia di scandalose rivelazioni. Si volle che la
lettera del famoso Galiasso fosse stata scritta coll'inchiostro
lungo dell'osteria; ma non si è potuto dimostrare. E, siccome ciò
che non si può dimostrare non ha nessun dovere d'essere vero, cosí
possiamo sperare che il buon Francesco esca dall'intrigo e torni
presto a fabbricare il suo vino, magari anche coll'uva.
XVI
BISOGNA COMINCIARE DA CAPO
Il tempo continuò quell'inverno piuttosto bello, con brevi nevicate
seguite da giorni stupendi di sole. Giacomo, che una piú serena
coscienza avviava a considerare le debolezze umane come nella sua
carità le deve giudicare il buon Dio, aveva ottenuto di poter
restare alle fornaci fin dopo le feste dell'Epifania. Sperava di
trovare nella quiete di Pallanza, nella bellezza del lago, nel
rifiorire non lontano della primavera quell'energia fisica, di cui
il suo spirito aveva bisogno per andare avanti. Le scosse eran state
troppe e troppo forti, perché il suo intero organismo, per quanto
robusto, non avesse a sentirsene come scassinato e rotto. Frequenti
vertigini di capo gli davano spesso allucinazioni d'immagini bianche
svolazzanti nell'aria, di cui non si spaventava, conoscendo per gli
studi fatti, fin da quando preparava la sua laurea di psicologia,
che i nervi mal nutriti ed esauriti fanno facilmente questi scherzi
curiosi.
A Pallanza, poiché la mamma preferiva rimanere accanto al suo Mauro
non avrebbe condotto che Blitz, il povero Blitz, il povero
pessimista sporco...
La vigilia dell'Epifania mentre stava sciacquando il vecchio
gamellino sul davanzale della finestra (la campagna bianca splendeva
tutta in un barbaglio di sole), sentí la voce del Manetta, che lo
chiamava dalla corte e che, mostrando una lettera orlata di nero,
gli disse:
- L'ha portata un ragazzo dal Ronchetto per lei, sor Giacom.
In un biglietto scritto in matita donna Cristina Magnenzio avvertiva
che si sarebbe fermata al Ronchetto soltanto alcune ore. Il
biglietto non diceva nulla di piú: non chiedeva nulla. Ma Giacomo
non ebbe neppure un istante di titubanza. Si vestí in fretta, e
s'incamminò per la breve strada del "Roccolo" verso la villa, colla
volontà desiderosa di chi va a compiere una promessa. Coll'animo
pieno di parole giunse al cancello che trovò aperto. Entrò nel
grande giardino, tutto vestito di neve, sotto i bianchi rami, che si
cristallizzavano nella luce opalina del cielo.
Raggiunse il viale dei carpini, che disegnavano nella selva
incantata una specie d'anfiteatro di marmo. Qui s'era incontrato con
Celestina un giorno in cui il suo cuore era ancor tenero di speranze
e di sogni.
Ora questo povero cuore pareva assiderato anche lui in una pace
profonda.
Il freddo che usciva dai boschi e dalla terra, mandò al suo capo una
di quelle vertigini, contro le quali mal resisteva da qualche tempo.
L'immagine bianca, che svolazzò davanti, lo ingombrò un istante come
se passasse per impedirgli la strada. Si fermò, aspettò che svanisse
l'allucinazione, e, seguendo sulla neve le tracce fresche d'una
carrozza, arrivò col respiro corto, fremendo in un piccolo moto
convulso, fino all'atrio del palazzo che si spiegava luminoso al
sole. Nel cortile vide la carrozza ferma e alcuni uomini, tra cui
Fabrizio, che nella pesante livrea di panno nero pareva diminuito e
invecchiato di dieci anni.
- Dov'è? - chiese.
- È qui, nello studio del conte...
Il vecchio servitore avrebbe voluto cominciare un rimpianto, ma
Giacomo, senza aspettare che l'altro andasse avanti ad annunciarlo,
obbedendo ancora a quel comando interiore, che gli faceva forte il
pensiero, attraversò l'atrio, passò nel salotto da pranzo, tutto
chiuso e scuro, dove le sedie intorno alla tavola nuda parevano
aspettare qualcuno, che non sarebbe piú tornato, e si diresse verso
la biblioteca.
La contessa, che era venuta a ritirare alcune carte, stava seduta
allo scrittoio, nascosta dai volumi, che facevano una specie di
baluardo sulla tavola; né egli la vide subito, né essa sentí subito
il suo passo smorzato dal panno del tappeto. Quando la signora si
mosse nella luce fredda della finestra, fu quasi un incontrarsi
improvviso, che li fece trasalire entrambi in una scossa dolorosa.
Dacché non si eran piú riveduti, cioè dopo lo straziante colloquio
nella sala verde, la loro vita era passata attraverso a feroci
dolori, che premevano sul cuore di tutti e due, che non potevano piú
tacere.
Nel rivedersi, dopo i tragici eventi, come due fatali ambasciatori
della morte, gettarono un sommesso grido lagrimoso, quasi d'ambascia
che si schiude.
Nel chiaror pallido, che la selvetta coperta di neve e il campo
candido del giardino riverberavano sugli scaffali, la contessa si
avanzò nella sua pesante gramaglia che faceva comparire piú scarna e
marmorea la grande pallidezza del volto.
La donna era vinta, ma non prostrata.
Al disopra di tutti gli avvilimenti parlava in lei alta la coscienza
del suo ideale.
Nel movere qualche passo verso Giacomo, che veniva a portarle il
perdono della vittima, fu essa la prima a stendergli le mani. Con un
sorriso morto, che oscillò negli angoli della bocca come una timida
ironia, donna Cristina cercò di respingere quel gran bisogno di
piangere, quel fremito di follia, a cui la trascinava il pensiero
della sua sconfitta e della sua povera casa precipitata.
- O Giacomo - proruppe con voce malata, movendo la testa con un
lento abbandono, mentre colle braccia tese si attaccava al collo del
giovane. - O Giacomo, perché non siamo morti noi?
Giacomo impallidí. Le palpebre velarono la luce de' suoi grandi
occhi cerulei. Attese che il doloroso istante passasse e sentendo a
un tratto ridestarsi il suo cuore in una nuova e misteriosa dolcezza
con una voce in cui scorrevano lagrime invisibili:
- Oh contessa! - esclamò - c'è qualche cosa di piú santo della
morte.
E riaperti a fatica gli occhi come chi si sveglia da un lungo e
faticoso letargo, si recò la mano della signora alle labbra,
mormorando:
- Forse bisogna cominciare da capo.