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Emilio De Marchi


Giacomo l'idealista



PARTE PRIMA

I

L'AMICO GIACOMO

Giacomo Lanzavecchia mi scriveva sui primi di settembre: «Ti ricordo la promessa che mi hai fatta di venir a passare qualche giorno alle Fornaci. Non ebur neque aureum Mea renidet in domo lacunar... Ma c'è sempre la cameretta libera dello zio prete colla bella vista sul Resegone. Seguace dei pitagorici, io non sono cacciatore, ma c'è qui presso il "Roccolo" di don Andrea, dove sento che quest'anno i tordi si lasciano pigliare volontieri. Se stenterai a pigliar sonno la notte, ti darò a leggere le bozze di stampa d'un certo mio "Saggio sull'Idealismo dell'avvenire", che ebbe, se non lo sai, l'onore d'un mezzo premio d'incoraggiamento dal R. Istituto Veneto. Ma non spaventarti, caro Edoardo! So fare anche una polenta che non teme contraddizioni... Se discendi sabato sera colla corsa delle sette alla stazione di Cernusco, sarò a prenderti colla grigia e col venerando Blitz, un vecchio cane in cui dev'essere trasmigrata l'anima penitente d'un antico scettico. I miei ti aspettano a cena».
Una timonella di due ruote, che si appoggiava colle due lunghe stanghe alla schiena d'una magra cavalla, che pareva un sistema orografico, fu lí pronta a ricevermi quando scesi alla stazione. L'equipaggio di casa Lanzavecchia, se avesse avuto l'onore di uno stemma, poteva scrivervi dentro il motto: «Adagio, Biagio!» perché tra cavalla e legno era tutta una sconquassatura d'ossa e di carcassa. Bestia e carrozza poi, per il gran secco della giornata, eran coperti d'un denso strato di polvere come due palinsesti.
Giacomo in carniera di velluto color amaranto, con in testa un gran cappellaccio di paglia, mi venne incontro appena mi raffigurò dietro lo steccato, mi strinse allo stomaco col braccio che teneva la frusta, mi picchiò coll'altra mano sulle spalle, sulla vita, sulle gambe, come se volesse assicurarsi che non c'era nulla di guasto nel vecchio amico, e disse semplicemente: - Bravo, trapezio! temevo quasi che non venissi. - Non so se per allusione ai miei studi di matematica o se per qualche somiglianza ch'io avessi colla figura d'un trapezio, questo era il nome che mi avevano regalato i compagni del collegio Ghislieri ai tempi beati, quando si studiava con Giacomo all'Università di Pavia, ed evocandolo l'amico sapeva di darmi gusto.

- Come va, Giacomo? - domandai al filosofo. - Sai che è un gran pezzo che non ci vediamo, corpo di bacco baccone? Ti trovo quasi piú bello.

Il debole di Giacomo ai tempi beati era d'aspirare modestamente al titolo di bel giovine. E veramente, senza essere Apollo Musagete, poteva piacere per un non so che di dolce e di arrendevole ch'era nella sua persona forte di campagnuolo e di ex garibaldino. Era biondo, ma d'un biondo carico, con due baffetti scarsi e due cespuglietti di una piccola barba d'oro alla punta del mento, che gli davano quasi l'aspetto di un giovine professore tedesco senza gli occhiali, che sono cosí gran parte d'una soda dottrina. Gli occhi nella loro trasparenza cerulea lasciavano veder una gran bontà e una grande indulgenza, non priva di quella malizia brianzuola, che conserva forse nella sua vivacità lo spirito dell'antica razza celtica, che ha fondato e popolato i villaggi tra il Lambro e l'Adda. Se ora il bel giovinetto del collegio Ghislieri era diventato un uomo alquanto trasandato e abbruciato dal sole, e se la barbetta d'oro era diventata piú folta e piú scura, gli occhi conservavano sempre l'antica dolcezza pensierosa, che svelavano il filosofo e il poeta anche al disotto della logora cacciatora e del cappellaccio di paglia. Nemico d'ogni saccenteria, Giacomo, figlio di Mauro Lanzavecchia, il fornaciaio del Ronchetto, portava in tutte le sue abitudini una originalità quasi signorile e ridente, che in molti incontri avrebbe potuto ricordare l'arguzia di Sterne, un altro celta anche lui. In filosofia dopo aver vagolato a vent'anni con Hegel negli spazi sconfinati dell'Essere, dopo aver disprezzato per qualche tempo il suo simile con Schopenhauer in causa di un pignoratario che gli aveva sequestrato il tabarro, a poco a poco, non ancora mortificato dall'esperienza, andava raccogliendosi nel concetto d'un idealismo pieno di simpatie, che gli faceva sperar bene della natura e degli uomini. In questo suo tenero ottimismo entrava probabilmente una certa fiamma, che gli scaldava il cuore da un pezzo, perché pare quasi dimostrato che l'amore sia un buon maestro di filosofia. Le donne entrano dappertutto, fin nei dialoghi di Platone. Per una certa esitanza naturale, frutto d'incontentabilità e del rispetto ch'egli nutriva per la verità, finora l'amico nostro non aveva ancor dato che qualche tenue saggio del suo ingegno e della sua dottrina in una dissertazione sull'Energia morale dell'educazione, dove con tratti non comuni aveva cercato di abbozzare il tipo dell'Uomo moderno, prima che s'inventasse questa nuova corbelleria del Superuomo. Egli carezzava in questo suo primo saggio un ideale d'uomo, nel quale il sentimento avesse d'andar d'accordo colla ragione come l'ala e l'aquila. Ma il filosofo delle Fornaci sperava di farsi meglio conoscere col suo nuovo studio sull'Idealismo dell'avvenire, rivolto specialmente contro il pedestre meccanismo della scuola positiva. Con tutta la sua coltura filosofica e filologica, colpa in parte le condizioni della sua famiglia e in parte l'indole sua un po' scontrosa e schiva del farsi avanti, dopo cinque o sei anni dacché aveva prese le sue due lauree, Giacomo Lanzavecchia era costretto ancora a litigare col pane in un collegio di preti poco discosto da casa sua, e vi insegnava la grammatica latina ai ragazzi del ginnasio. Come a chi studia per il gusto di studiare, unicamente per cavare dai libri qualche utile esperienza e qualche consolazione per sé e per gli altri, gli mancavano forse le attitudini pratiche per prepararsi quei quattro o cinque chilogrammi di carta compressa e stampata che giovano nei concorsi governativi. E questo spiega la sua poca fortuna nella carriera, dove per riuscire bisogna pesare di piú. Inoltre Giacomo dava cosi poca importanza a sé stesso che anche gli amici erano quasi costretti a non stimarlo troppo per paura di far offesa alla sua modestia. Un terzo suo difetto, preso come filosofo, era di voler dire le cose con tanta chiarezza che quasi non pareva piú filosofia. Si sa che i dotti, specialmente i filosofi, amano scrivere in uno stile elevato, pieno di misteri, fatto apposta per non lasciar entrare i profani nel sacro tempio del sapere; Giacomo invece non aveva ripugnanza a pensare e scrivere come tutti gli altri. Leggendo le sue paginette cosí sobrie, cosí domestiche, cosí alla mano, pareva di non trovarci nulla che non fosse già prima nel senso comune e, dirò cosí, nell'aria respirabile: nulla che non potesse diventare patrimonio di tutti, e questo gli toglieva molta autorità presso coloro che imbottiscono d'ombre la verità e ne fanno un cuscino alla loro prosopopea.

- Come stanno in casa tua? - gli domandai.

- Tutti bene. Salta su che ti aspettano - disse aiutandomi colle due mani a montare sulla timonella, che sotto alle scosse oscillò come una gelatina.

- Ehi, Blitz, dormi? - gridò Giacomo schioccando in aria un colpo di frusta. Al rumore si mosse qualche cosa d'ispido in mezzo alla strada e il cane prese a correre davanti alla carrozza per prepararci una bella nuvola di polvere. Colla punta della frusta il filosofo raschiò il collo della grigia, che dondolò la testa in atto di compatimento, mosse un pezzo lo scheletro sotto la pelle senza mai riuscire a mover questa, allungò dolorosamente il collo e, dopo una penosa riflessione, finalmente si rassegnò a partire.

Si prese subito a correre, cioè per dir giusto, a ballare sulla strada che dalla stazione mena al piccolo borgo, e, attraversato questo, si voltò a man destra, lasciando a sinistra la torre rotonda di Merate, per la lunga strada diritta che va a Imbersago e al passo dell'Adda. Il Resegone coi monti contigui e coi verdi colli digradanti ci si spiegava davanti come un immenso scenario.

- Non sarò di disturbo ai tuoi? - chiesi, quando uscimmo dai sassi rumorosi dell'abitato sulla terra molle della strada.

- Tu non sei una conoscenza nuova per mio padre.

- Si ricorda ancora di me?

- Mi domanda spesso notizie del mio amico delle canzonette. Ti ricordi quando venne a trovarci a Pavia?

- Che ci pagò un magnifico pranzo...

- Si è divertito tanto alle tue burlette al cembalo.

- Allora si era allegri e matti. Quanti anni son passati?

- Sei, sette, otto... che giova a contarli? passano lo stesso.

- Io ne ho ventisette.

- E io ventinove, trapezio.

- E insegni sempre in quel collegio di preti, dove?

- A Celana, lassú - disse Giacomo, indicandomi colla frusta un punto sotto il monte Albenza.

- A star coi preti s’impara a dire il rosario - osservai con un pizzico d'ironia.

- Ip! - fece l'amico, lasciando andare una piccola frustata sui finimenti della cavalla. Dopo un istante riprese a dire con serietà:

- I miei non vedono volentieri che io vada lontano da casa. Son vecchi tutti e due, bisogna aver pazienza. Volevi che accettassi un posto in Calabria o in Sicilia? Il governo non può far di piú per me; qui a Celana c'è anche un mio zio prete che insegna, spiega le coniugazioni, e come si fa?... ip!

Superato un dossetto, la timonella riprese ancora a discendere e a traballare sulle antiche molle, che conservavano tutta la loro giovanile ed elastica resistenza. Un piede sprofondando nel rotto della maglia di corda, che serviva di fondo alla carrozza mi restò impigliato, e fu quasi la mia fortuna, perche a certe scosse e a certi trabalzi c'era a temere che il sediolo mi avesse a lanciare netto nell'Adda come una bombarda. Giacomo avvezzo a quella ginnastica, si divertiva alle mie paure; anzi ebbe il coraggio di citare Orazio:

... metaque fervidis

Evitata rotis, palmaque nobilis

Terrarum dominos evehit ad deas.

- Basta, son nelle tue mani, e sai quel che valgo.

- Abbi pazienza, ora siamo alle Fornaci. Non aspettarti un palazzo, ve'. È un gruppetto di vecchie case intorno a due fornaci di mattoni, che furono messe su da mio nonno verso il quaranta. Gli affari andarono mica male in principio, tanto che mio padre poté allargare l'azienda e mettere da parte qualche soldo. Ma la costruzione di questa strada ferrata, dando un gran colpo al commercio fluviale, ha sviato molti interessi. Il progresso non fa bene a tutti, e vuol le sue vittime come il carro di Budda. Desideravo per questo che tu venissi qualche giorno alle Fornaci per parlarti di queste nostre faccende, che non vanno troppo bene. Un ingegnere fa presto a raccapezzarsi, mentre con tutto il mio latino, con tutto il mio greco e colla filosofia per giunta, io non ci capisco nulla.

- Ecco quel che si guadagna a studiar troppo... - dissi ridendo, mentre Giacomo picchiava colla frusta una stanghetta per avvertire la grigia che si poteva correre. La strada, dopo un altro bel tratto in piano, ricominciò a girare sotto un poggio coltivato a viti, che finiva in un bel vedere su cui dominava un imponente palazzo.

- Casa Magnenzio... - indicò colla frusta - detto anche il palazzo del Ronchetto. Ti farò conoscere la contessina mia scolara, donna Enrichetta.

- Tu, dunque, non insegni solo la grammatica ai chierichetti!

- Proventi delle vacanze, mio caro. Conoscerai una famiglia simpatica, quantunque qui passi per gente clericale e di principii intransigenti. La contessa è nipote del vescovo di San Zeno e il conte è un mezzo dotto, un classico anche lui, che, fuori dei suoi libri, s'intende di poche cose. Ora è tutto occupato in una grande raccolta d'iscrizioni, che fa trascrivere di qua, di là, dalle chiese, dalle meridiane, dai cimiteri di campagna.

- Ne avrà per un pezzo, pover'uomo...

- Egli dice che questa è la sua uccellanda... Qualche cosa bisogna pur fare a questo mondo.

In fondo alla strada comparve una chiesa, un campanile, un villaggio, credo Imbersago; ma prima di arrivare alle case, la grigia di moto proprio voltò a sinistra e si messe per un viottolone di terra rossiccia profondamente solcato dai carri, che menava diritto alle Fornaci. Dieci minuti dopo la timonella si fermava davanti a un casolare che aveva tutto l'aspetto di un vecchio cascinale raffazzonato ad uso abitazione civile, col tetto sbilenco, con un portico rustico al basso e una loggetta di sopra, rivestita da una vite molto sparpagliata e polverosa. Un piazzaletto davanti all’ingresso col suo bel pozzo all'ombra d'un gelso quasi secolare, era ingombro di carri, di carriole, di catastelle di legna, di mattoni arrimucchiati e addossati ai pilastri, in mezzo ai quali passeggiavano anitre e galline e conigli, che al nostro arrivo si ritrassero in disparte senza mostrar né scompiglio né paura. Un contadino non vestito che d'una camicia sporca e d'un paio di calzoni di fustagno color creta venne a staccare la grigia, mentre noi, preceduti da Blitz, si passava sotto il portico, un rustico e sgangherato portico colle grosse travi in vista, nude e storte come la natura le aveva fatte; addobbate di ragnatele, di gerle, di roncole, di vecchi finimenti di carrozza, di tutto quel che si adopera e non si adopera nella casa della gente che lavora. Sul muro greggio era dipinta un'Addolorata a colori grossi e sbiaditi; e una lampada, che ardeva davanti, diceva che la vecchia fede non era sbiadita nella casa del signor Mauro Lanzavecchia.

- O pà, siete qui? - chiamò Giacomo, mettendo la testa nell'uscio della cucina.

- Oh, è lei l'amico che fa l'ingegnere? - domandò facendosi avanti nella luce quasi spenta del crepuscolo una vecchietta pulita pulita, vestita di lanetta scura, con due o tre spilloni d'argento appuntati nella poca treccia dei capelli sulla foggia delle contadine d'una volta.

- Bravo! Come sono mai contenta che sia venuto a far un po' di compagnia a Giacomo e a tenerlo allegro. Non guardi il sito, per carità! Siam gente che lavora.

- La mia mamma... - fece Giacomo, stringendo con fanciullesca famigliarità il mento acuto della donnetta tra l'indice e il pollice.

- Son contento di conoscerla, signora Santina. Giacomo mi scrive sempre parole d'oro della sua mammetta.

- Figurarsi, signor ingegnere, siam gente del credo vecchio. Però, se non le dispiace, la polenta la troverà buona... - La Santina, incoraggiata dal modo amichevole con cui avevo saputo entrare in casa sua, sorrise bonariamente accartocciando la faccia solcata di rughe, a cui l'aria e il sole avevano dato il colore della terra cruda.

- Dov'è questo pà? - tornò a chiedere Giacomo.

- È sabato e ha gli uomini da pagare. Giacomo intanto le aprirà la stanza, sor ingegnere. Ci sarà dell'acqua e credo d'averci messo anche una spazzola. Ce n'è della polvere in questi paesi; quasi più polvere che miseria.

E con questa sentenza, che essa pronunciò non senza un pesante sospiro, che tradiva un segreto affanno, ci accompagnò fino ai piedi di una scaletta interna che menava alla loggetta. Essendo già mezzo buio, Giacomo accese una candela al fuoco del camino, su cui bollivano due grosse pentole, e mi menò alla stanza preparata per me, che dava sul ballatoio colla vista sulla valle.

Per quanto non sia nelle mie abitudini l'osservare e il criticare quel che si fa in casa altrui, pure non poteva sfuggirmi il fantastico guazzabuglio delle suppellettili e degli arnesi, che ingombravano il pianerottolo di quella loggetta. Pareva il refugium peccatorum della casa. Mobili fuori d'uso, con qualche segno ancora dell'antico valore, sacchi di grano accatastati, casse di ferravecchi, barili vuoti, pezzi di lardo sospesi agli uncini, pannocchie di grano turco che mettevano il loro giallo vivo in mezzo al lividore delle pareti, tutta questa roba parve muoversi al comparire del lume in cima alla scaletta e farsi incontro a darmi il benvenuto. Vidi subito che se in casa Lanzavecchia non mancava il lavoro che porta la roba, non mancava nemmeno il disordine che la piglia a calci.

- Questa è la stanza dello zio prete - disse Giacomo, facendo scorrere il paletto d'un vecchio uscio a due battenti, che cigolò sugli inerti arpioni. – È la piú bella stanza del convento e la riserbiamo per gli amici. Ora ti porto l'acqua fresca e la spazzola.

- E che cosa dirà questo tuo zio prete, quando saprà che usurpo il loco suo, il loco suo che vaca...

- Don Angelo non viene alle Fornaci che il tempo della passata dei tordi: e quest'anno poi ha gli esercizi spirituali.

Rimasto un istante solo nella stanza, feci un giro col lume per rischiarare certe vecchie stampe, che rappresentavano i fatti principali della vita di San Carlo e resi il mio omaggio a S. E. il conte Romilli, un arcivescovo di Milano, che ha fatto molto parlare di sé ai tempi del dominio austriaco, quando, probabilmente, lo zio prete cominciava a dir messa. Anche il letto, il tavolino, il solido scaffaletto di libri e un seggiolone di vacchetta all'antica a spalliera diritta, coi bracciuoli di legno e le grosse borchie di ottone, parevano ripetere nella loro tabaccosa austerità: «Sissignore, noi siamo dello zio prete».

- E la tua metafisica dove dorme? - domandai all'amico, quando tornò col secchietto dell'acqua fresca e colla spazzola.

- Di là, verso il pozzo, in una stanza, detta ab antiquo la stanza delle cipolle, perché pare che una volta servisse di deposito a queste tenere «del pianto umano antiche eccitatrici». E una reminiscenza di quel lacrymae rerum, si sente ancora quando si tien chiuso un pezzo.

Giacomo, nella contentezza di rivedermi, ritrovava la vena umoristica, che ai tempi beati faceva di lui uno dei meno rumorosi, ma dei piú amabili compagni. Mentre compivo la mia semplice pulizia, mi presentò Blitz, il degno Blitz, e volle che riconoscessi negli occhi gialli e mesti del vecchio barbone bastardo l'espressione del filosofo, scettico seguace di Pirrone, che vi era trasmigrato.

- Alle volte penso che possa essere lo spirito stesso di Epicuro che mi ascolta. Vedessi come sta attento quando gli leggo le mie bozze di stampa!

- E la chitarra la suoni ancora?

- Pende muta dal salice...

- E ti ricordi i famosi caffè che ci servivi nel gamellino?

- Il caffè del gamellino è una dissipazione che mi concedo ancora insieme a peppinetta... - disse levando da un taschino della carniera una pipa corta e tozza, che fece saltare nel palmo della mano. Poi soggiunse: - Ora ti presenterò alla mia famiglia. Vedrai gente cosí vicina alla natura che quasi ne mostra il sasso.


II

IL SIGNOR MAURO LANZAVECCHIA


La cena era stata preparata all'aperto sotto un pergolato della vignetta, dal quale pendeva una lucerna a petrolio. Fu il signor Mauro che mi venne incontro colle braccia aperte:

- Caro ingegnere, che bel regalo! - disse, stringendo nelle sue mani corte e grassoccie i miei polsi, e storpiando, per far presto, il nome di Mordini in quel di Morandini. - Venga qua, venga qua, sor Morandini, - disse, tirandomi verso il pergolato illuminato - lei deve avere una fame d'anticristo, immagino. Metta di essere in casa del patriarca Giacobbe... Santina, e il vino? chi mangia senza vino, senza archetto suona il violino.

Il signor Mauro era un vecchiotto ancor robusto, dalla testa grossa e quadrata sopra un collo grosso e corto, dai grossi sopraccigli che cominciavano a incanutire, dal parlare rumoroso e cordiale, in cui amava intercalare certi proverbi e modi di dire, che spesso non avevano che un significato approssimativo come i responsi delle antiche e misteriose sibille. Dove alle molte idee che gli bollivano in capo venivano meno le parole, egli suppliva con gesti espressivi e con un socchiudere malizioso degli occhi, che voleva dire: i furbi s'intendono... E veramente sarebbe stato come un usargli un'ingiusta scortesia il mostrare di non capire tutti i sensi riposti, che avevano certe sue parole cabalistiche, quasi erudite, e certi sottintesi profondi, pieni di una malizia sopraffina, che gli facevano fare gli occhietti piccoli e aprire le larghe narici di quel suo naso ben piantato nel mezzo della rubiconda faccia di galantuomo. Natura focosa e di primo impeto, piú d'una volta questa sua malizia gli aveva impedito di vedere quella degli altri; e cadde nelle trappole che gli tesero i furbi che non parlano. Ma in compenso egli poteva dichiarare a voce alta che un Lanzavecchia non porta mai il cappello sugli occhi e può sempre dire pane al pane, ladro al ladro. Il Nonno Nicodemo Lanzavecchia aveva visto scappare i francesi nella famosa battaglia di Verderio; il padre Galdino Lanzavecchia aveva visto scappare i tedeschi nel quarantotto; e l'attuale Mauro Lanzavecchia sapeva quel che vale questo centauro che si chiama il regno d'Italia... Come chi possiede piú idee che non parole per esprimerle, il nostro vecchio amico era costretto a concentrare in certi suoi vocaboli prediletti tutti i significati che non sapeva dove mettere; e siccome non c'è nulla che meglio si adatti a un'idea confusa quanto una parola che non si capisce, sa soltanto Iddio quel che egli intendesse dire, quando definiva il regno d'Italia un centauro... cioè un mostro mezzo uomo e mezzo bestia.

- Provi questo diaspro, ingegnere, e mi sappia dire quel che ne pensa - riprese, porgendomi un tazzone colmo d'un vin rosso chiaretto. - È un vino che tiriamo da questi nostri ronchi, tutto vino, tutto d'un pezzo, senza ricchezza mobile: un vino che non ha mai tradito nessuno. In vinum veritatem, dillo tu, Giacomo, che hai studiato il vocabolario. Qualche volta ne faccio bere una tazzetta alla mia vecchia legittima, e vedesse come canta.

- Va, va, chi ti crede? - fece la Santina, crollando la testa in atto di rimprovero.

- Forse che il sor Morandini non sa come gira l'arcolaio? - E qui, socchiudendo uno de' suoi piccoli occhi grigi, m'interrogò a lungo coll'altro su qualchecosa che io e lui dovevamo sapere. - Il sor ingegnere ha studiato la meccanica e sa da che parte ha il manico la tazza... - E rise forte; e risi anch'io per dargli gusto.

Nell'espansione di quel lieto istante m'invitò a togliermi la giacchetta, ché avrebbe fatto anche lui lo stesso, visto e considerato che tirava sotto il pergolato una bell'arietta fresca, netta anch'essa di ricchezza mobile. Durante questi discorsi ai quali mi ingegnavo di partecipare con eguale espansione, sforzandomi di alzare i toni per accordarmi all'intonazione alta del direttore d'orchestra, la mamma Santina finí di preparare la tavola, aiutata dalla Lisa, sorella di Giacomo, una ragazza lunga, ricca d'ossi, cogli occhi sporgenti, che portava un tuppè di capelli neri, irti, duri come lische.

Poco dopo l'uomo, che aveva fermato il cavallo in corte, mise in tavola una grossa polenta tonda, che oscurò col suo fumo la luce della lampada e alla polenta tenne dietro una larga tegghia di rame con dentro stufato e con un contorno di salsiccia annegata nel pomodoro. Le donne presero posto su una panca di legno, mentre sull'altra panca in faccia, accanto a Giacomo, vennero a sedersi i due fratelli, uno di nome Battista, detto per far presto, Battistella, e l'altro, quasi ancora un ragazzo all'aspetto, chiamato, in onore dello zio prete, Angiolino.

Tornavano allora allora dalle fornaci, nel loro succinto arnese di lavoro consistente in una grossa camicia di tela aperta sul petto, colle maniche rimboccate, che lasciavano vedere due belle braccia rinforzate dalla fatica e colorite dalla polvere rossa del mattone cotto, e i calzoni tenuti in vita da una cintura di cuoio. Questi due giovinotti, dopo avermi salutato con un segno duro del capo, tuffarono subito il viso nel piatto. Giacomo, seduto sull'angolo della panca, voltò il suo piatto al rovescio sulla tavola per dimostrare che non era lí per mangiare.

- Ecco tutta raccolta la sacra famiglia - declamò il vecchio Lanzavecchia colla voce piena e soddisfatta. - Lavoratori da una parte, filosofi dall'altra, galantuomini tutti che non temono concorrenza. È la quarta generazione, che cresce all'ombra delle fornaci, e spero di veder la quinta, se questo centauro di governo mi lascierà respirare. Giacomo scriverà un giorno la storia dei Lanzavecchia e dirà come su tutti i muri delle Fornaci sia scritto: «Poveri, ma onesti»... Solamente vorrei che Giacomo mangiasse di piú alla tavola di suo padre. Dacché s'è messo a rovistare nella filosofia, fa troppo il patetico. Che bisogno c'è di viver magri? La gloria è una bella cosa e anch'io in gioventú ho sognato di diventar maresciallo; ma sacco vuoto non regge. Glielo dica anche lei, ingegnere.

- Sarà innamorato - dissi celiando per stare in armonia.

Giacomo arrossí, sorrise, e mi pregò con gli occhi di non insistere su questo discorso.

- Se è innamorato, fa quello che fan tutti per mantenere questo cataclisma di mondo, e non sarà mai suo padre che gl'impedirà di mettere un cuscino sotto la testa se si sente basso. A ognuno la sua volta. Che cosa dice il proverbio? Vicende umane, oggi la lepre domani il cane. Se non provvedono i giovinotti al meccanismo, chi mangerà il nostro frumento? dico bene, ingegnere? E, se non fosse stata quella legnata tra capo e collo della Rivalta, gamba d'un cane... - soggiunse aggrottando le folte sopracciglia, rannuvolandosi in viso.

- Lascia stare le malinconie quando si mangia... - interruppe la Santina, tagliando e quasi spazzando l'aria con un gesto frettoloso.

- Giacomo è il maggiore de' miei figli, ed è giusto che vada avanti agli altri. La sua posizione è fatta, e ora che il mondo dei professori sa chi è, non è necessario che sposi una mugnaia...

- Ci son tante contesse in giro... - scappò detto quasi a dispetto suo alla Lisa, che non aveva mai aperto il becco fin qui, e a cui mi parve di vedere che quel discorso irritasse le lische.

- O che mi vuoi tirar su le calze tu? - rispose il vocione di pà. - Io non ho mai negata la mia minestra a nessuno de' miei figliuoli. Chi è nato a portar farina, chi è nato a portar crusca, per tua regola, la mia mai pettinata. Se Giacomo ha avuta la fortuna di trovare dei benefattori che l'hanno fatto studiare, non è una ragione perché egli abbia a mangiare dei sassi. Non sarà mai un disonore che il nome d'un Lanzavecchia sia stampato sul cartone d'un libro. Io non so che cosa è la scienza, perché la vacca quando ero un ragazzo mi ha mangiato l'abbecedario, ma mi diceva il conte Lorenzo, quando sono andato ieri a portargli le tegole per la rimessa, mi diceva che a Bergamo e a Venezia son rimasti di princisbecco per quel che Giacomo ha scritto su quel cataclisma dell'avvenire: dillo tu come si chiama quel tuo libro per cui ti hanno dato un premio. Né io, né tua madre non ne capiremo mai una saetta, perché siam nati quando andavano ancora in processione le formiche; ma don Lorenzo non è un'oca, e, in intuito, istruzione, sa quel che pesano le lasagne. Io non so che cosa sia la scienza, ripeto, ma fosse anche una scopa, il merito è di saper adoperarla. E se quei signori di Venezia dànno un premio di tre mila lire a un Lanzavecchia, capisci, scarmigliona...

- Mi dànno meno, molto meno, pà... - interruppe Giacomo sorridendo.

- Poiché Dio ti ha dato il dono di maneggiare bene la penna, dovresti, gamba di un cane, scrivere qualche diaspro su questa porcheria dell'esattore, che ogni anno ti aumenta la ricchezza mobile. Sotto il cessato governo austriaco, prima del sessanta, si pagava il pane in questi paesi non piú di cinque soldi la libbra, e per cinque soldi avevi un boccale di vino di Mondònico che avrebbe fatto cantare i morti. Oggi questi italiani ti fanno pagare sette soldi la libbra il pane, e dico soldi di cinque centesimi l'uno; e a stento per ottanta o novanta centesimi ti dànno uno scongiurato vin di Barletta che ti abbrucia le viscere. Sotto il cessato, un onesto padre di famiglia, che non avesse il capo alla politica, era sicuro di lasciare un po' di dote alle sue figliuole, fare una posizione a cavallo ai maschi, e salvarsi un bicchier di vin vecchio. Sotto questi che comandano adesso, uno non salva nemmeno i denari del suo funerale. E voglion che si gridi viva l'Italia! Grideremo: Viva i ladri! Che se domani volessi, per citare un caso, maritare quella povera cristiana, - e nel dir queste parole il vecchio fornaciaio andava segnando colla punta della forchetta la ragazza lunga e liscosa, - dopo quarant'anni di sacrosanto lavoro, mondo scongiurato, non ho quasi da comperarle un paio di scarpe..

- O caro il mio pà, se lo dite un po' piú forte, vengono a cercarmi i tre re magi - protestò la Lisa, ridendo nel piatto con un fare tra l'amaro e il dispettoso.

- Sí, sí, cara la mia ricchezza mobile - seguitò quel rumoroso padre di famiglia. - Oggi l'aver dei figliuoli non è piú una consolazione. Ecco quel che dovresti scrivere in bel volgare, Giacomo, scriverlo e stamparlo sulle loro gazzette a questi italiani, che il diavolo porti sulla forca...

- Ohibò, un uomo che ha avuto un figliuolo garibaldino... - provai a dire per far sonare un'altra corda meno stridente; ma il vecchio impetuoso, che cominciava a sentire le tazzette del suo vecchio diaspro, e che da quel ch'era facile capire, sedeva su vecchie piaghe, mi tagliò la parola in bocca per dirmi, strillando come un'oca:

- Eh, eh, si è ben creduto che il Garibaldi e compagnia bella dovessero portar l'abbondanza. A sentire gli italianoni d'allora si dovevano legare le siepi colle salsiccie e l'Adda doveva correre vin di Piemonte. Mondo scongiurato, che fallimento! per ogni garibaldino morto per la patria, son spuntati dieci esattori vivi che ti mangiano vivo... - E come se cercasse di spegnere un gran fuoco interno, Mauro Lanzavecchia tracannò la sua quarta o quinta tazzetta.

In mezzo a questi discorsi, nei quali però né Battista, né Angiolino non misero mai parola, la cena finí presto. La mia presenza forse dava ombra ai due giovani, che, finito appena d'ingoiare l'ultimo boccone, dettero una selvatica buona sera e se ne andarono pei fatti loro.

- Non tornare a casa come l'altro sabato, Battistella, se non vuoi che ti rinfreschi col secchio del pozzo - gridò il pà verso il maggiore dei due che si allontanò zuffolando. Poi, voltosi a me, soggiunse: - È un ragazzo un po' corto di cervello, che si lascia facilmente ingarbugliare dal vino. Forse non è tanto la quantità che fa male, quanto il meridionale che ti vendono quest'italiani di osti.

Piú tardi venne a sedersi intorno alla tavola, nella frescura del pergolato, che tremolava teneramente al caldo riflesso della lampada, il maestro della banda, e quel don Andrea, padrone del «Roccolo», un prete bergamasco, che avviò il gran discorso della caccia, delle allodole, dei fringuelli, delle quaglie, dei cani da naso, dei cani da fermo, con quella gravità di sentenze, che ogni buon bergamasco mette in questa speciale istituzione della sua provincia. Essendo sfuggito al prete un giudizio alquanto avventato sulle correnti d'aria della riva lombarda, dove la passata degli uccelli in certe stagioni è quasi nulla, tale da non pagare nemmeno la spesa delle reti, il patriottismo del sor Mauro si risvegliò di botto come un leone affamato; e tra lui e quel pretucolo ruvido e nero come un carbonaio, il battibecco durò un pezzo con tanto calore che bisognò rinnovare il fiasco. La sera passò d'incanto, e non mi parve vero che fosse l'ora d'andare a dormire. Prima di salire a sognare la polenta colla ricchezza mobile, mi lasciai condurre da Giacomo a fare un giretto intorno alle fornaci, su cui batteva una bella luna d'agosto in ritardo.


III

UN FILOSOFO ED UN CANE


Quando la mattina aprii le persiane, e che il piú bel sole entrò a illuminare la stanza dello zio prete, i vecchi mobili parvero risvegliarsi anch'essi a quell'ondata di luce. Quattro goccie cadute nella notte avevano rinfrescata e purificata l'aria per modo che l'occhio poteva scorrere e riposare sulla conca verde della valle dell'Adda e sulla grandiosa parete dei monti che, addossandosi l'un dietro all'altro, par che chiudano, oltre la riva del fiume, i confini del mondo. Il Resegone colle sue creste agitate e colle sue massiccie rugosità sorgeva davanti come un gran muro, a cui si appoggiassero le schiene e i declivi degli altri monti, quale d'un verde scuro, quale d'un verde trasparente, quale d'un azzurrognolo leggiero, che andava a confondersi a sinistra colle creste sfumate delle due Grigne di Lecco, che, rarefatte dalle nebbioline del mattino, parevan lí lí per sfumare nel cielo. Piú morbida, piú lenta si distaccava la linea del monte Albenza (quello stesso che vediamo a Milano sullo sfondo del corso di Porta Venezia), un gran pascolo verde senza una punta, su cui il sole, di man in mano che montava in su, andava stendendo una specie di tappeto luminoso: e piú in basso ancora, piú oscuro per l'ombra e pei boschi, il monte Canto, nel grembo sinuoso del quale Villa d'Adda si sparpagliava colle sue case, colle sue ville, in una fredda sonnolenza. L'Adda, nel fondo della conca verde, si vedeva or sí or no di mezzo ai fitti boschi di faggio e ai cespugli delle bassure, qua in un piccolo specchio turchino, forse il laghetto di Brivio, più in giù in una bella vena color smeraldo, e oltre ancora in una breve rapida agitata da ricciolini biancheggianti. L'oscurità verde, in cui giaceva ancora il fondo prolungato della valle, faceva ancor piú comparire, come un teatro illuminato, il lontano territorio di Lecco e le chiesuole isolate su questo o su quel poggio meglio esposto ai raggi del sole.

Essendo la festa della Madonna di settembre, veniva dalla vicina Madonna del Bosco uno scampanare solenne, che risvegliava gli echi della valle e dava un non so che di gioioso e di sacro all'aria, in cui sentivi scorrere quasi il sentimento e la mitezza del giorno di festa. Dopo aver contemplato a lungo in una estatica inerzia i vari aspetti del paesaggio, uscii sulla loggetta, che alla luce del dí perdeva molto del suo bello fantastico, e andai a bussare all'uscio dell'amico filosofo.

- Vieni pure avanti, trapezio! - gridò Giacomo dal di dentro; e quando ebbi spinto l'uscio: - Bravo, - soggiunse - mettiti lí cinque minuti su quella sedia di paglia fin che abbia finito di leggere a Blitz questa bozza di stampa. La posta parte alle nove e non vorrei perdere una giornata.

- Fa conto ch'io sia il tuo cane - dissi sorridendo mentre mi mettevo a sedere in un cantuccio.

Giacomo, per riconoscere gli errori nelle bozze di stampa, aveva bisogno di leggere a voce alta la sua filosofia a qualcuno; ma, non essendovi alle Fornaci chi avesse la pazienza di stare a sentire le sue astruserie, obbligava Blitz a sedersi nel mezzo della stanza e a dargli ascolto.

- «Qual è la causa e qual è l'effetto? - leggeva il filosofo, alzando di tempo in tempo gli occhi verso il cane, che socchiudeva un poco i suoi. – È l'organizzazione il principio della vita o è la vita il principio dell'organizzazione? Quel che Claude Bernard ha detto della vita fisica, io psicologo posso dire della vita morale. Cosa meravigliosa in noi non è tanto la varietà e la molteplicità dei fenomeni spirituali, quanto il nascere e lo svilupparsi dell'uomo morale, che opera e cammina secondo un ideale a cui egli non può resistere».

- Ti giuro, Edoardo, che questa bestia capisce tutto, - interruppe Giacomo per lasciare un po' di riposo al cane. - Non solamente egli mi ascolta sempre con quell'immobile attenzione che vedi ora, ma cogli occhi mi dice quando l'idea lo persuade e quando non lo persuade, quando la sentenza è chiara e quando all'incontro è troppo filosofica. Se nel testo c'è poca evidenza, Blitz chiude gli occhi e par che si addormenti come un buon cristiano. Mi lasci andare fino in fondo della pagina? Intanto si scalda l'acqua nel gamellino.

- Leggi pure: mi sforzerò anch'io di capire, se non ti par troppa superbia.

Giacomo cambiò il foglietto, e, dopo aver richiamata l'attenzione di Blitz, ripigliò a leggere con un tono alquanto declamatorio: «Questo moto verso il miglioramento è la condizione necessaria della nostra vita morale che, nell'inerzia, troverebbe la morte. Ogni passo dev'essere necessariamente un passo avanti nella via del progresso ideale, che è la risultante benefica di tutti gli altri progressi economici e scientifici». Ti pare, Blitz?

Il cane mosse un poco il muso e fece dondolare le orecchie.

«L'uomo d'oggi è senza dubbio migliore di quello di ieri...» sta attento, Blitz... - E volgendosi a me con uno scoppio di serena ilarità - Guarda, - disse - si direbbe che il vecchio scettico è poco persuaso di questa verità. - «Domani sarà ancor migliore, finché, reso padrone della verità, potrà un giorno sedere ottimo arbitro, giudice conciliatore tra sé e la natura. Dal suo idealismo, come da un trono inarrivabile, il piccolo re dell'universo stenderà sulla natura lo scettro ch'egli tiene per investitura divina e formolerà le leggi eterne della felicità...».

Blitz, eccitato dal gesto e dallo sguardo ispirato del suo padrone non seppe piú stare alle mosse, e protestò, se non sbaglio il commento, con due o tre abbaiamenti sgarbati e dispettosi.

- Vedi se in lui non c'è lo scettico pessimista? - proruppe Giacomo, abbandonandosi a ridere sulla sua seggiola, che perdeva le paglie per il di sotto. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz: ancora una cartella e poi ho finito.

Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un trepiedi di ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate, un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso.

L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso... era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua.

- Ho bisogno che questa dissertazione sull'Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente...

Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera.

- A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno si è lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo... ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto... il sapiente... vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche?

Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper.

Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese:

- Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena.

- Lo farò volentieri.

- Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno.

- Tu pensavi forse a prender moglie...

Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse:

- Sai che io son legato da un'antica promessa...

- Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo.

- Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro...

Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla...

- Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale...

- Ben, bene... lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio.

Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto.

- Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi.

- Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare.

- E c'è anche una contessina?

- Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani.

- Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.


IV

ALTRE CONOSCENZE


Di maggio il nono - L'anno dieci sette

Videro qui Maria anime elette

dice una vecchia pietra del mille e seicento al luogo ove ora sorge il Santuario della Madonna del Bosco; e dice ancora come, quasi a conferma dell'apparizione, un castano lí presso che, essendo di maggio, non aveva cominciato se non da poco a metter le foglie, comparve ad un tratto ricco dei suoi frutti. E quasi se ciò non bastasse, si vuole che in questo bosco un fanciulletto, figlio di poveri pastori, venisse azzannato da un lupo; ma la Madonna, invocata con fede dalla mamma del piccino, ottenne che la mala bestia deponesse sull'erba il fanciullo senza fargli alcun male. Non dice se il lupo si facesse frate; ma il caso meraviglioso fu poi figurato in rilievo in mezzo a una gloria di angeli inverniciati, in una cripta sotto l'altare, presso uno zampillo d'acqua freschissima, che fa bene anche a chi non ci crede. Dalla cripta per una doppia gradinata scende la scala santa nell'ombra del bosco, per la quale continuo è l'andare e il venire dei devoti, che lasciano ad ogni scalino un po' del peso della loro vita. Dalle terrazze del tempio la vista si apre sulla valle, fino alle ultime case del territorio di Lecco, che biancheggiano sul monte, come lenzuoli messi al sole ad asciugare; ma, piú che la vista lontana, piace l'ombra vicina, piace nelle ore calde e poco frequentate il silenzio mistico del bosco e del sagrato, dove svolazzano le bianche colombe del Rettore che vanno a bere alla fontana della Madonna, e svolazzano i pensieri di chi fugge al rumore delle cose.

Giacomo, che era nato e cresciuto quasi all'ombra del santuario, stava descrivendone la segreta poesia, quando la brigata s'imbatté nell'illustrissima famiglia Magnenzio, che scendeva alla Messa dal sentiero del Ronchetto. La villa co' suoi due piani spaziosi, e colle sue sessanta finestre di stile romano, dominava nel mezzo d'un giardino accomodato come una pittura, dall'alto d'un ampio terrazzo, a cui si accedeva per un doppio ordine di scalinate fiancheggiate da massicci vasi di terra cotta. Nella piena luce di quella bella mattina di settembre, col sole d'oro che si specchiava nelle lucide vetriate delle finestre e delle serre, coi viali umidi che mandavano il buon odore della terra misto ai mille profumi confusi che uscivano dagli sterrati messi a fiori e dalle serre, giardino e palazzo, colla bandiera bianca e azzurra, svolazzante sulla torretta, facevano pensare piú agli incantesimi di Armida che non alla sobrietà morale di una famiglia di clericali, che vi coltivassero i doveri del decalogo e i precetti della Santa Madre Chiesa.

Alla vista del conte, Mauro Lanzavecchia si levò il cappello e, agitandolo come una ventola, esclamò colla sua voce di maresciallo:

- Che bella Madonna di settembre eh!... sor conte...

Il conte Lorenzo Berengario Magnenzio di Villalta, quasi a dispetto de' suoi nomi sonori e dei due draghi spiritati che si azzuffano da ottocento anni nell'antico stemma della famiglia, era un ometto di bassa statura, già sulla sessantina, dall'andatura lenta e addolorata,come se camminasse sempre coi piedi nudi sui ricci delle castagne; ma era pure un gran buon uomo, rispettoso anche dei deboli, pauroso dell'ombra sua, dotto come una libreria, e non privo di quell'arguzia un po’ grassoccia, che piaceva ai novellieri del buon tempo antico, tra cui messer Giovanni è il capo dei ladri. Purista appassionato, archeologo non da buttar via, piú che a far libri, com'è la smania nuova si divertiva a leggerli, a patto che fossero libri scritti colle mani e non coi piedi. Siccome però intorno a quel che sia lo scrivere bene come. intorno a quel che sia il buon governo, ognuno ha diritto di avere un'opinione sua, cosí il conte trovava che dal Monti in poi nella poesia, e dal Giordani in poi nella prosa, in Italia non si era piú scritto un libro tollerabile. Il Monti, il Giordani, un poco di Botta e bott lí, soleva dire. Dopo di questi, per colpa specialmente di quel bon omo del Manzoni, lo scrivere non è piú un'arte, ma un mestiere che si fa in maniche di camicia. Non contenti di aver scassinata la vecchia sintassi, giornalisti, pubblicisti, romanzieri e perfino professori di università lavorano ora a tutto spiano a scassinare l'ortografia, introducendo anche nella grammatica quella smania di novità e di distruzione che entra dappertutto.

Come si sente, c'era un tantino di pedante; ma nella penuria desolante dei signori che studiano, don Lorenzo si poteva dire uomo raro, originale, un prezioso avanzo d'altri tempi e di altri gusti meritevole d'essere conservato nella bambagia.

La contessa, maritata giovanissima a quest'arca di scienza, più che all'alba della seconda età, si poteva considerare arrivata allo splendido tramonto della prima. Alta della persona, quasi maestosa, con capigliatura ricca di un biondo vivo, che spiccava sulla carnagione d'una pallidezza sana e fiorente, temperava quel che vi poteva essere di troppo forte nell'indole, colla dolcezza d'uno sguardo aperto a una gran luce, colla modulazione d'una voce media, di signorile morbidezza, colla grazia di un sorriso sempre pronto e cortese, che metteva in vista dei denti bellissimi. La sua condotta onesta e diritta, di una perfetta trasparenza morale, la sua religiosità alquanto austera le aveva acquistato la riverenza non solo dei suoi dipendenti, ma il rispetto, piú difficile a ottenere, de' suoi pari, di cui non esitava a urtare colle parole e coll'esempio le facili transigenze, le opinioni accomodanti, i comodi pregiudizi, le volgari abitudini.

«Cristina è una vita parlante» soleva dire suo zio, monsignor di San Zeno, parlando di lei. Credente fervida e sincera, non immiseriva la sua fede in piccoli pensieri; ma aveva un'opinione cosí alta dei doveri a cui Dio destina la nobiltà, che ai leggeroni di professione la sua morale non tornava sempre simpatica e di facile digestione. Ma chi poteva avvicinarla nell'intimità sentiva in lei l'energia d'una volontà che genera altre buone volontà, come la forza del fiume che dove passa genera lavoro e ricchezza, e sopportava non mal volentieri un'autorità benevola e signorile, che è una cosa ben diversa dell'autoritarismo delle anime volgarmente aristocratiche.

Costretta a essere forte anche per conto degli altri, la sua virtú intelligente s'era andata via via concentrando, non senza forse irrigidirsi alquanto, per necessità di resistenza, nell'amore e nell'educazione dei figli, nelle opere di carità e in quelle istituzioni, in parte di propaganda, in parte di reazione, che sono la sostanza piú vitale del programma del partito conservatore.

- È peccato che il figliuolo non somigli né a suo padre, né a sua madre - prese a dirmi la mamma di Giacomo, colla quale ero rimasto in disparte, mentre i Lanzavecchia presentavano il loro rispetto al conte e alla contessa.

- C'è anche un figlio?

- Sí, don Giacinto, una spina nell'occhio di questa signora cosí buona.

- Che cosa fa questo don Giacinto?

- Fa il bel giovine e l'ufficiale. Il ragioniere Riboni non arriva a tempo a pagargli i debiti.

- Come state zia? - disse una voce dietro di noi.

- Oh sei tu? beato chi ti vede. Siam proprio diventate forestiere del tutto, figliuola.

- Ho molto a fare, zia.

- Questa è una mezza mia figliuola - disse la signora Santina volgendosi a me. - Giacomo le avrà parlato di Celestina.

- E come! - esclamai, aprendo tanto d'occhi su quella famosa bellezza a cui l'amico aveva consacrato un altare perpetuo. Vidi una giovinotta sui vent'anni vestita come una cameriera, con due bellissimi occhi neri e grandi, col viso ovale e colorito delle belle ragazze brianzuole, che spiccava nell'amabile contorno d'una bianca cuffietta di rensa, foggiata alla bretone. Vicino alla pallida bellezza preraffaellita della contessa Enrichetta, questa solida ragazzona del popolo faceva pensare a una bella santa del Rubens. Quel che vi poteva essere di meno classico nella sua floridezza di forme compariva come ingentilito dal vestitino lindo e chiaro e dallo studio della contessa, che sapeva estendere intorno a sé un'atmosfera di saviezza e di composta eleganza.

Mi parve di scorgere che la fanciulla nel raffigurar Giacomo, che stava parlando col conte, si facesse a un tratto smorta smorta e trasalisse come spaventata. La contessa se ne avvide subito, tornò verso di lei, si fece dare i libri di preghiera che essa aveva recato con sé, e susurrandole in fretta un comando, a cui la ragazza non osò opporsi la rimandò a casa. Tutto questo in un baleno, tanto che Giacomo, che il conte aveva chiamato giudice in una questione d'ortografia, non ebbe tempo di accorgersene.

- Dunque avete visto Giacomo? anche il Rigutini ha sbandito l'j dal suo Vocabolario. D'ora innanzi non piú canteremo alleluja, ma soltanto alleluia...

Don Lorenzo, oltre al far sentire colla voce qual sia la differenza tra un j e un semplice i, volle disegnar le due lettere sul suolo colla punta del bastone.

- Sicuro, caro Giacomo - continuò il bravo signore, mentre rispondeva con un famigliare segno di mano alle scappellate dei contadini che andavano raccogliendosi sul piazzale del santuario. - che cosa dirà il boja, quando gli avranno applicata questa caudae diminutio... - E stringendo gli occhietti fino a farli scomparire del tutto nelle pieghe della pelle, il conte aspettò che Giacomo assaporasse la malizia dell'osservazione, per continuare poi: - E dovremo oltre questo avvertire con un decreto tutti i cani, perché da oggi innanzi cessino d'abbajare come han sempre fatto fin qui. Sarà appena tollerato che abba-i-no... che abba-i-no... da non confondersi con abbaino - Ed esagerando con una specie di guaiolo il verso d'una cagnetta, il conte, a cui stillavano già due piccole lagrime dagli occhi, volle far sentire anche al buon popolo quanto di serio vi sia in certe grandi e strombazzate riforme. E concluse: - Diremo anche questo un prodotto del liberalismo moderno? non vi pare piuttosto una minchioneria?

Giacomo assentiva con benevola indulgenza: ma il pà, che stava ad ascoltare con rispetto e colla sua aria di fiera protesta, non sapendo resistere alla voglia d'associarsi a un voto di biasimo contro quel mondo birbone, rovinato dai liberaloni, entrò in mezzo per dire:

- Sa che cosa farebbe bene all'Italia, sor conte?

- Sentiamo, sentiamo, caro Mauro... - sollecitò il conte, che amava riferirsi al buon giudizio popolare.

- Sei mesi di cessato governo farebbero bene con un po' di bankaraus e qualche forca qua e là, per far presto.

- O povero Petrarca, o povero Filicaja!... - esclamò ridendo il conte, che vedeva ancora l'Italia (beato lui!) attraverso alle canzoni e ai sonetti dei poeti classici. Ed era lí lí per citare un verso quando il suono della campanella avvertí che la messa stava per uscire. La compagnia si salutò e si divise, seguendo l'onda del popolo che si affollava nell'atrio. La chiesa, non molto vasta, fu presto piena dell'insolito concorso dei devoti, che approfittavano della bella giornata per onorare la Madonna. Molti che non poterono entrare si raccolsero sotto il portico, o andarono a sedere sui muricciuoli del sagrato, fin dove poteva arrivare il borbottamento frettoloso della messa di don Andrea, che aveva dovuto lasciare il «Roccolo» in un momento impagabile. L'aria che da una settimana pareva stagnante, rotta finalmente da un buon temporaletto di montagna, mandava giú per la valle dell'Adda correnti fresche con uno sterminio d'uccelli. Quella mattina si cominciava a vedere finalmente qualche tordo; quindi la messa fu piú spiccia del solito.

Io e Giacomo ci mettemmo a sedere sulla gradinata, da dove la vista s'apre sulla valle. E quando nella chiesa ebbero intonate le litanie, cessata la ragione del raccoglimento, dissi, battendogli la spalla:

- Mi congratulo col filosofo idealista. Abbiamo fatta la conoscenza di Celestina.

- Dove?

- Qua presso. La signora ha dovuto rimandarla a casa.

- Ebbene?

- Ebbene, molto bene. Per un filosofo distratto è forse troppo bella, ma tu la meriti, povero Giacomo.

- Aspetta, cavallino, che l'erba cresca... - disse con un sospiro.

- Non sarà sempre cosí, vedrai. La felicità non si compra a danaro. Da quel che sento, il figlio di questi bravi signori va a comperarsi la rovina co' suoi denari.

- È vero. Don Giacinto può essere definito il fallimento di tutte le nostre massime educative. Cresciuto sotto gli occhi di una donna santa e virtuosa, che lo raccomanda a Dio tutti i giorni nelle sue preghiere, il caro giovanotto batte allegramente una brutta strada. Un po' le donne, un po' lo sport, un po' il giuoco, a quest'ora ha già dissipata la dote di venti ragazze da marito.

- E come spieghi il fenomeno?

- Che vuoi che ti dica? ai ricchi la virtú è piú difficile che a noi. L'ozio, il rispetto umano, lo spirito d'imitazione, le digestioni pesanti...

- Questo è del materialismo, caro mio.

- Come ci sono i malati di denutrizione, cosí ci sono gli esuberanti e i pletorici. Il conte, immerso ne' suoi libri e nelle sue iscrizioni non ha la forza di volere; e la contessa forse vuol troppo, con troppo rigore e con troppo orgoglio. L'educazione se non è un equilibrio di forze, è una macchina che stritola. Se la povera donna si cruccia, n'ha di che. Essa ha provato varie volte a cambiar aria al ragazzo: l'ha tenuto in collegio presso i gesuiti a Ventimiglia, se l'è tenuto in casa sotto la guida d'un precettore tedesco, suggerito dal cardinale Hohenlohe; ma il giovine, che è già grande e grosso come tre filosofi, dice che mammà lo vuol far morir tisico. Donna Cristina si compiace d'interrogarmi per vedere se nella mia profondità pedagogica so dare un suggerimento: ma che rimedi possiamo suggerire noi, poveri pedagoghi che viviamo di pane e formaggio, a questi giovinotti che possono spendere venticinque lire in una colazione? Le madri vorrebbero poter edificare la loro casa sui figliuoli, e hanno ragione. Se questo orgoglio è naturale in ogni donna, pensa la contessa! Quando si nominano i Magnenzio di Villalta, e piú ancora quando si parla dei San Zeno, non solo in questi paesi, ma a Cremona, a Milano, a Roma, è come nominare la famiglia di Sant'Ambrogio. Il partito conservatore ha in questi nomi i suoi stemmi piú illustri: in hoc signo vinces... Dispiace veramente che un patrimonio cosí prezioso di buone condizioni vada sperperato nelle mani delle ballerine; ma sa piú bene il suo mestiere il diavolo che non tutti i moralisti presi in mazzo.


COMINCIANO I GUAI

Era mia intenzione di fermarmi alle Fornaci alcuni giorni, durante i quali avrei potuto farmi una idea piú esatta delle condizioni in cui si dibatteva il signor Mauro, che mostrò di aver fiducia ne' miei consigli; se non che un improvviso telegramma da casa mi obbligò a partire la mattina stessa del lunedí. Pregai Giacomo di tenermi informato dell'andamento degli affari e partii, promettendo di ritornare appena egli avesse creduto utile di servirsi dell'opera mia. Non andò molto che l'amico mi scriveva questa lettera, che fu il principio di una lunga via crucis di guai:

«Ieri ho avuto una lunga conferenza coll'avvocato Brognolico, e quel che prevedevo pur troppo si verifica, anzi arriva troppo presto. Il mio povero padre è ridotto al punto che dovrà entro l'anno dichiarare il suo fallimento; e siccome l'azienda dei Lanzavecchia è sempre stata condotta coi sistemi primitivi, senza i voluti registri di commercio, cosí l'avvocato mi avverte che c'è pericolo che il fallimento possa essere dichiarato doloso. Non oso domandare quel che la legge riserva in questi casi ai colpevoli; ma sento che intorno a me precipita la mia casa sulla bianca testa de' miei poveri vecchi. Intanto mi domando quel che posso fare. Nulla di piú malinconico d'una grande dottrina incapace. Tutto occupato a edificare delle magnifiche costruzioni ideali, sento che non saprei salvare un mattone da questa grande rovina che ci travolge. Alla mamma non si può più nascondere la verità. I creditori, che assediano di continuo il nostro uscio, s'incaricano essi di farle capire, e non sempre nel modo piú cristiano, quel che mio padre con uno sforzo sovrumano di energia e di dissimulazione ha sempre cercato di nasconderle. La povera donna ora non fa che piangere, e mi domanda con voce spezzata dai singhiozzi, se alla sua età sarà costretta di stendere la mano. Battista, che non sa entrare, (per sua fortuna) in certi dolori e che in questo momento non sente che il bisogno di prender moglie, impreca e minaccia non so che cosa, se non gli lasciano sposare la sua Fiorenza. Egli pretende la sua parte, vuole andarsene a far casa da sé e non capisce che di casa non ce n'è per nessuno. Anche la Lisa, che fu sempre una ragazza di buon senso, non sa rassegnarsi a questa disgrazia, e la sua lingua dice piú di quel che vorrebbe il suo cuore. Angiolino invece, che nella sua semplicità fanciullesca crede d'aver diritto alla sua parte di felicità, mi domanda con una segreta speranza se il fallimento lo salverà dal servizio militare. Il povero vecchio è diventato torbido e intrattabile. Per stordirsi ricorre piú che non sia permesso alla sua tazzetta di vino, va da un avvocato all'altro, minaccia cause e processi e torna spesso la sera come non fu mai visto. La gente, che vorrebbe trovare in lui un uomo ragionevole e accomodante, vedendo ch'egli non si lascia piú cogliere, prima di procedere a misure estreme, vien da me, vuol sentire da me quel che intendo di fare, nel riguardo dei creditori. Chi vanta un credito di mille, chi di cinquecento, chi di cinquanta lire, chi si appoggia a un'ipoteca, chi ha prestato roba, chi esige il pagamento di alcune giornate di lavoro. A me vien sulla punta della lingua di rispondere a tutti questi cari signori: - Io non so nulla, io ho sempre studiata filosofia. - Che mi può suggerire in questi casi Platone? - ma questi bravi signori vorrebbero almeno che io dichiarassi che intendo assumere la mia parte di responsabilità. Nella loro ignoranza nessuno ammette che io possa aver studiato tanto per arrivare a capir nulla; e credono che operi con malizia, per lavarmene le mani e avere un pretesto di rinnegare gli obblighi di mio padre. Un uomo che si dichiara onesto, che ha ricevuto un gran premio, che è nelle grazie di molti signori, dice questa buona gente, non può sottrarsi senza vergogna a certe obbligazioni morali. Un certo mugnaio di Lavello, uomo grosso e naturale, che si vanta di non portar barbazzale per nessuno, l'altro dí, alzando la voce nella mia stanza, e mettendo le sue manacce infarinate nelle mie bozze di stampa, mi diceva: - Se il sor Giacomo trova i denari per stampare le sue chiacchiere, deve trovarli anche per pagare le cambiali di suo padre. La gloria, per sua regola, non la si fabbrica mica alle spalle dei minchioni. - E come se queste verità non bastassero, con un tremendo colpo della sua mano, abituata a sollevare i sacchi della. farina, fece saltare il calamaio sul tavolino e sprizzare macchie d'inchiostro sulle carte e sui muri.

«Non credere, Edoardo, che io mi diverta a colorire questi episodi, per un cattivo gusto di far dello spirito sui nostri dolori. Oh, se tu vedessi gli sforzi grotteschi della mia povera disinvoltura e della mia povera dialettica, quando cerco di persuadere il mugnaio, l'oste della Fraschetta, il carrettiere, il capomastro ad aver pazienza, avresti compassione di me! Domani cercherò di rivedere questo avvocato (che avrà anche lui il tornaconto, come un filosofo, ad arruffare cose chiare), e procurerò di entrare nei particolari tecnici e legali, che minacciano di far comparire ladro e intrigante un povero galantuomo che ha sempre lavorato come un martire per amore della sua famiglia. Cercherò anch'io di mettere la mano su quel fascio di carte bollate in cui è scritta una storia e una filosofia troppo vere per essere ideali. Non so quel che farò e quel che saprò fare; ma sento che ormai la mia strada è questa che va tra le cose, e che fu una grande sciocchezza d'aver battuto finora quell'altra delle nuvole.

«Non so dove andrò ad attingere la forza necessaria per lottare contro questa tempesta; non certo nei libri, che quasi non posso vedere senza provare uno stringimento di stomaco. Se non fosse che per il novembre devo licenziare questi quattro fogli di stampa, e ritirare quei quattro quattrini del premio, avrei già rinchiuso questi miei rimorsi in una cassa, e confinata la filosofia sul tetto. Dicesti una volta che giova sempre avere una testa che pensa. Ma, domando, a che cosa serve il pensare la sua miseria? Che Blitz, il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?».

Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale di Lecco, sull'istanza dei piú ostinati creditori, aveva fatto dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi forza, e piú ancora per prepararsi un coraggio fittizio che l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può scannarli, li mette in prigione.

Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che scoccavano alla Madonna del Bosco. - Sette... otto... nove... nove e mezzo... - contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lí nel buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sí or no, a seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. «Cani, cani, cani» diceva mentalmente con forza; dopo tre generazioni di galantuomini, dopo quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di scongiurati italiani.

Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri. Che libri?

I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: «Poveri, ma onesti...» questo sí; ma era inutile cercar loro dei libri. - Sarebbe bella, - disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, - sarebbe bella che si dovesse, per far presto, andare in galera.

E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col cappello. In quel camposanto lí vicino era sepolto Galdino Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con su scritto in parole di bronzo: «Negoziante probo ed onesto...». Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio vecchio con su scritto in parole, sbiadite: «Nicodemo Lanzavecchia uomo operoso e integerrimo...». Sarebbe stata bella, gamba d'un cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: «Mauro Lanzavecchia, fallito come un governo»...!

Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi? attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i carabinieri ad arrestarlo? - O povero me! o me disperato per sempre! che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti, ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti, coi fatti...

Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano cadere sul banco.

Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze camicie, lasciando ombre nere negli angoli piú segreti della stanza.

Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il piú grosso de' suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza, trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto.

Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli arrivasse all'orecchio.

Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in piú d'un'occasione, qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva già di sentirne i commenti: - Come? (avrebbe detto il mugnaio) un sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui? non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero colla profondità del suo immenso sapere?

Piú d'una volta e forse piú di quel che era necessario, il fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantú, o qualche cosa di piú rotondo ancora.

Nulla piú offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il primo e il piú vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni.

Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò cosí nella bottega portato da una volontà piú forte del suo orgoglio. Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e, sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito.

- Siete voi? - fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli occhi. - Ebbene? che vi ha detto l'avvocato?

- La va male, Cecco... - disse il fornaciaio con voce coperta da un pesante affanno.

- Cioè? - tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi impiombati dal sonno.

- Cioè... - disse Mauro, che vedendo passare il piccolo dell'osteria, gridò: - Tu, portami un mezzo litro del tuo scongiurato meridionale. - Poi riprese sottovoce: - La va da cani, Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire.

- Non vi conviene, Mauro - disse l'oste colla voce fredda con cui soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa

- Voi non sapete quel che c'è in aria... - disse Mauro, che per darsi un po' di forza riempí la tazzetta col vino che il ragazzo mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: - Son quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone piú sincero del mio.

- È il vostro torto di lavorar troppo bene - osservò l'oste che sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna.

- Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, - disse Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la tazzetta sul piatto.

- Non bisogna mai dirlo, Mauro... - saltò su dal banco del giuoco il mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue dieci carte sporche...

- Sí, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo... - replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste: - Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo...

- Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, - soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva anche coll'uva.

Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco:

- Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco.

- Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci.

- Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino.

- Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. - Anch'io dovrò fare i miei conti.

- Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò con un tono di rancore il fornaciaio.

- Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente?

- Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto...

L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta:

- Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza...

- Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno.

- Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, - seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi.

Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia.

- Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale.

Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro.

L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno.

I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro:

- Pare che laggiú si guasti la parentela.

- È la tazzetta che suona - osservò il magnano.

- La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta.

Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno.

Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola:

- Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane!

E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.


VI

IL FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA


Quando si trovò solo sulla strada buia, sparsa di sassi disuguali, tra due spesse siepi, nella silenziosa e nera solitudine della notte, il vino, che fin qui aveva sostenuti gli spiriti, lo abbandonò come un cattivo amico, anzi gli si rivoltò contro anch'esso come un creditore e congiurò colla disperazione a sollevare i piú foschi fantasmi.

Mauro sentí le gambe rompersi sotto l'ampio peso del corpo, mentre vedeva la strada rizzarsi e diventare una montagna insormontabile. Dopo un lungo girare senza mèta attraverso i campi, dopo aver urtato negli spigoli dei muricciuoli e nei paracarri che non sapeva vedere nell'aria scura, avvisato e condotto dall'abbaiare dei cani, che si svegliavano irritati al sonar del suo passo rotto e pesante, gli riuscí d'orientarsi e di riconoscere nell'ombra della notte la linea magra dei camini delle sue fornaci, che, uscendo esili e lunghi dai bassi edifici, giganteggiavano nel vuoto.

Poco dopo sbucò nello spiazzo aperto, che sta intorno ai magazzini e che mette nello scuro dei campi una gran macchia giallastra, su cui in quel momento batteva il chiarore scialbo della luna. Queste fornaci, questi magazzini pieni di roba erano il lavoro consolidato dei Lanzavecchia, su cui domani si sarebbero stese le unghie rapaci dei creditori, dell'esattore, del fisco. Dei mille e mille mattoni tra cotti e crudi accumulati sotto le tettoie e sparsi sul terreno, delle mille tegole, che avevano rinomanza per venti e trenta miglia all'intorno, come le piú solide e oneste che uscissero dalle mani d'un fabbricante, non un coccio apparteneva ai Lanzavecchia, che avevano lavorato e sudato per il loro disonore e per la miseria.

La rovina era cominciata, secondo l'idea di Mauro, il giorno che, col pretesto di fare l'Italia, gli italiani avevano tirato in paese insieme ai calzoni rossi anche il mattone francese, a cui tenne dietro la tegola quadra alla romana e tutte quest'altre diavolerie di zinco e di lava del Vesuvio, che chiamano progresso, ma che lascian piovere in casa. Poi venne la strada ferrata a dar l'ultimo tracollo al commercio del burchiello, che sotto il cessato governo portava il bel materiale fabbricato a Parè, a Olginate, a Brivio, a Trezzo fino dentro il cuore di Milano, colla facilità dell'acqua che va in giú, alimentando clientele che duravano da cent'anni e che misero in piedi palazzi e chiese, che dureranno ancora quando sarà scomparsa tutta questa roba marcia di gesso e di poltiglia con cui s'è fatta l'Italia. Finalmente, a compimento dell'opera, venne fuori la bella invenzione della ricchezza mobile, talché un povero industriale si sentí in mezzo a tre forche. Non gli restava ora che di appiccarsi a una quarta.

- Ombre di Nicodemo e di Galdino Lanzavecchia! - gridò il vecchio, fermandosi sul piazzaletto e alzando il bastone verso la faccia della luna, come se volesse fare uno scongiuro. - Uscite a vedere come mi hanno tradito; venite anche voi a gridare: Viva l'Italia!

A questo schiamazzare d'un uomo che parlava ai morti tenne dietro il gran silenzio della notte, nel quale tornò a farsi sentire il rumore stridulo dell'Adda povera d'acqua.

- Voi sapete chi mi ha tradito: voi sapete chi mi vendicherà...

Col passo disuguale che gli faceva fare il vino, il vecchio fallito giunse in vista della sua casa, che spiccava piú nitidamente colla loggetta vestita di frasche nel tenue chiarore della luna. Tutte le finestre verso la corte eran buie, tranne quella di Giacomo, che dava sulla vignetta. Il filosofo vegliava sulle sue bozze di stampa. Mentre di fuori un povero negoziante di materiali di fabbrica piangeva sulla sua rovina, di dentro, nella stanza silenziosa del filosofo, si preparavano i materiali per una grande costruzione ideale, per il gran tempio dell'avvenire, nel quale si sarebbe celebrato il connubio di pace tra l'uomo e la natura.

«L'uomo padrone della scienza» diceva uno dei cento foglietti «è il vero dominatore della natura. La forza è nel pensiero, o per dir meglio, la forza è il pensiero stesso».

«Se potessi persuadere il mugnaio di questa verità, potrei mandarlo in pace con poca fatica» ripensò Giacomo, giocando colla penna sulle parole stampate, alle quali avrebbe voluto aggiungere una nota: «E se si dicesse invece che la forza è nella volontà?».

Questo conflitto tra un pensiero che sillogizza in poltrona e una volontà che corre e s'adopera per la casa non gli si era mai presentato cosí vivo, come dal giorno che suo padre gli aveva colle lagrime agli occhi domandato cinquecento lire in prestito. Da quel momento le parole stampate delle sue bozze, che contenevano prima affermazioni di bronzo, cominciarono a sconnettersi e a ballare una strana contraddanza sotto i suoi occhi stanchi dalle veglie e dallo scarso lume della candela di sego. Una continua voglia lo tentava, ed era di metter a piè di pagina molte note di mesta contraddizione, che avrebbero forse accontentato Blitz e l'anima scettica ch'era trasmigrata nella bestia; ma le note, oltre a diminuire il valore giudicato della dissertazione, avrebbero finito coll'inghiottire il libro e il filosofo in compagnia.

Non è mai utile complicare la verità, specialmente quando si ha bisogno di far quattrini. Inoltre, se non vogliamo screditare la scienza, non bisogna mai tagliare in erba il fieno del nostro contradditore.

Giacomo, deponendo di tanto in tanto la penna, dava fuoco alla pipa sulla fiamma della candela, tirava tre o quattro boccate di fumo, col pensiero perduto in aria, dietro i fantasmi della meditazione, mentre gli pareva di stare a sentire lo stormir delle foglie, scosse dai soffi intermittenti del vento.

Riscontrava un testo greco di Aristotile, e come allo svoltare d'un angolo di casa, s'imbatteva nella soave immagine dell'avvocato Brognolico, in casa del quale doveva ritrovarsi al mattino per addivenire col mugnaio e col signore della Rivalta a una transazione o, quanto meno, a un respiro che permettesse a lui e a suo padre di prendere cognizione dello stato delle cose.

Il mugnaio aveva qualche giorno prima fatta una brutta scena anche a Battista sulla piazza d'Imbersago, e n'era nato un putiferio da non dire. Battista, corto in dialettica, ma solido in altri argomenti, minacciava di rispondere alla sua maniera, che non era la più conciliante. Anche la Lisa s'era lasciata trascinare a un pettegolezzo indecente colla Fiorenza sulla soglia dell'osteria, dove le due ragazze avevano perduto un pezzo di lingua. Il bisogno che fa gli uomini cattivi, fa brutte le donne. Bisognava impedire che da un male limitato non nascessero pubblici scandali, aspre responsabilità e fieri rimorsi; e a chi toccava di aver giudizio se non si moveva il sapiente di casa? A che cosa serve la sapienza stampata, se non vale almeno come cerotto su un dito tagliato? Questi brutti pensieri venivano a mescolarsi e a sovrapporsi alle argomentazioni della sua tesi, ne confondevano i sensi e i segni, ne storcevano le intenzioni piú nobili, dando alle conclusioni del filosofo idealista quasi un'intonazione di amara corbellatura.

Trovando a un certo punto citato in una nota Parmenide, egli, che pure aveva scritto di suo pugno questo nome sulla carta, rimase lí colla penna in aria quasi in procinto d'esclamare anche lui sul far di don Abbondio: - Parmenide? chi era costui? un mugnaio? e che mi può giovare Parmenide nei miei bisogni? che m'importa di lui? come ho potuto perdere il mio tempo a occuparmi dei fatti suoi, mentre l'oste della Fraschetta divorava il mio pane e l'usuraio della Rivalta ipotecava la mia casa?

Sentendosi un poco opprimere da queste riflessioni aprí la finestra in cerca d'aria e stette, appoggiato al davanzale, a strologare il cielo e la luna. Le nubi mosse e sollevate dal soffio eguale e sostenuto dell'aria andavano a poco a poco allargandosi e come lacerandosi intorno al disco luminoso, di cui riflettevano i placidi splendori con lucide fosforescenze metalliche. Dagli strappi, per dir cosi, di quella fascia vagante di nebbia, quasi all'invito di una silenziosa volontà, uscivano spazi aperti d'un sereno purissimo, che parlava d'una pace alta e intangibile, di cui qualcuno mette nel cuore umano il mesto desiderio.

Dalla vignetta immersa nell'oscurità uscivano bisbigli di foglie scosse dal vento e fuggevoli fischi di scoiattoli che corrono su per i pergolati.

Di care e lunghe memorie era popolata quella vignetta, cosí folta di verde dov'egli era cresciuto fanciullo, dove aveva imparato ad amare e a soffrire. Ogni angolo gli diceva qualche cosa di Celestina; ogni foglia pareva bisbigliare di Celestina. Quante volte l'aveva portata sulle spalle, quando non era che una bimba, all'ombra dei pergolati! In quel frondoso frassino, che riempiva coll'ampio ombrello di foglie lo sfondo del cielo, s'eran fabbricata una loro villetta aerea, nascosta tra i rami, e vi avevano ingannato insieme molte ore dei pomeriggi estivi, appollaiati come due tortore, in mezzo al rumoroso stridore delle cicale. Cento volte avevano aperta una botteguccia nelle vecchie botti della tinaia e vi avevano invitato i ragazzetti del vicinato a comperar nòccioli di pesche, patate e carote affettate, sacchetti di fagiolini, chicche e dolciumi rubati dalle tasche della povera zia Marianna. Nel fienile sopra le stalle, di cui vedeva sporgere nel chiarore della luna i ciuffi arruffati, la piccina si era addormentata molte volte sulla sua spalla, prima che lo zio prete mettesse in campo la questione della vocazione e del posto gratuito nel Seminario vescovile.

E quante lagrime vergognose e segrete il povero pretino, tornando a casa nelle vacanze, aveva versato nell'erba folta e nelle frasche del grano turco, quando, non ben persuaso ancora della voce di Dio, si faceva peccato e scrupolo d'ogni passo che egli movesse per cercare la bambina, d'ogni parola allegra che gli scappasse dal cuore ancora inconsapevole di quel che fosse amore! Seguirono poi i giorni del combattimento, durante i quali l'anima sua fu come dilaniata da misteriose apprensioni, da strazi paurosi che nessuno seppe né leggere, né indovinare; ma le piante della vignetta conoscevano tutta questa storia dell'amoroso contrasto e glie la ripetevano ora con bisbigli di gioia. Vinta la gran battaglia, restituito il collare del chierico allo zio prete, era tornato con altre idee; la veste nera cedette il posto alla camicia rossa dei garibaldino durante la guerra del sessantasei, e alla camicia del soldato era successa una giubba un po' logora di professore di grammatica. Perfino il buon Dio del modesto altarino di casa era andato via via crescendo nella sua testa e nel suo cuore e cresceva oggi ancora fino a travalicare i confini del conoscibile; tutto s'era mutato fuori e dentro di lui; ma quell'amore no. Esso gli parlava nel cuore colla salda sicurezza dell'innocenza.

Tante immagini, tante ombre di pensieri e di cose evanescenti, uscendo dai pergolati, venivano a consolare la memoria del filosofo e lo cullavano in una soave tenerezza... quando una voce aspra come una sega rimbombò nell'aria:

- Giacomo Lanzavecchia, scrivi la sentenza di tuo padre.

Sporse il capo a cercar nella corte e riconobbe l'ombra del pà, che contro il suo costume s'era attardato fuori di casa. Capí che il pà aveva inaffiato un po' troppo i suoi fastidi.

- Dove siete? che fate lí? - gli gridò dalla finestra.

- Giacomo Lanzavecchia, ascolta la voce di tuo padre - tornò a gridare il vecchio, che gesticolava come un attore tragico.

- Venite in casa.

- Prendi la penna del filosofo - seguitò l'altro, movendosi per la corte come se recitasse veramente su un palcoscenico. - A tuo padre non resta piú che la nuda terra. Tutto è perduto tranne l'onore. Gli hanno portata via la casa, la terra, la roba, l'anima. La morte e l'inferno ai tremendi vigliacchi!

Nel tono rauco con cui il vecchio pà imprecava contro il destino, Giacomo vide tutto lo squarcio di quella pover'anima.

- State zitto, - gli disse - non svegliate la mamma; ora vengo io dabbasso.

- Ohi, che vi ha preso stanotte, pà? questa volta non è Battistella che dondola... - gridò un'altra voce dalla finestra presso il granaio.

- Rispetta tuo padre, lasagnone - rimproverò Giacomo, che riconobbe la voce di Battista.

- Tu, tu... - muggí il fratello con parola convulsa - tu fa il professore a casa tua e quando avrai finito di mangiare il pane a... a... a...

E lo sbattimento villano dell'impannata coprí il resto delle parole.

- Non avete vergogna, pà? - gridò anche la Lisa, mettendo fuori da un finestrino una testa fasciata come un dito malato.

- Figliuoli, nessuna lega coi traditori. Un Lanzavecchia non si deve vendere né per cento, né per duecento. Prendi la penna della filosofia, Giacomo, e stampa anche questo: la morte e l'inferno ai tremendi vigliacchi!

Il vecchio esaltato, afferrata colle due mani la catena che stava legata alla corda del pozzo, in preda alla frenesia dell'animo sconvolto, cominciò a battere sulla pietra colla violenza fanatica d'un santo che flagella un demonio. E a ogni colpo ripeteva disperatamente:

- Nessuna alleanza... la morte e l'inferno...

Blitz, che dormiva nella stalla, si risvegliò spaventato e cominciò ad abbaiare dietro l'uscio.

In quel furioso esercizio del battere si sarebbe detto che il vecchio fornaciaio cercasse uno sfogo alle sue forze compresse, alla sua collera, alla sua sovraeccitazione; ma i figli, che sapevano come di solito andavano a finire queste frenesie (Mauro aveva avuto in sua vita qualche attacco epilettico), senza por tempo in mezzo, scesero in fretta le scale, coi lumi in mano, e furono intorno al disgraziato, che già colla bava alla bocca si rotolava nella polvere in preda a spaventevoli convulsioni.

La povera Santina, che dormiva su brutti pensieri, saltò dal letto e si fece incontro sulla scala, pallida e come estenuata nella sua cuffia, invocando i nomi di Gesú, di Giuseppe e di Maria. Accorse anche Angiolino a piedi nudi, e tutti insieme sollevarono il corpo pesante del pà, che si dibatteva con stanchezza, Giacomo e Battista sorreggendolo per le spalle e per le braccia, la Lisa e Angiolino per le gambe, e, portatolo a gran fatica su per la stretta della piccola scala, lo distesero sul letto. Caduto l'accesso epilettico, il viso da infiammato e gonfio divenne subitamente bianco, floscio; la bocca si irrigidí in un sorriso che restò fisso in una smorfia sardonica e beffarda; il corpo divenne duro come un tronco. Gli occhi gonfiati dalla congestione fecero capire che un gran male scombussolava la vita; ma per quanti sforzi egli cercasse di fare, le labbra non poterono mandar fuori che dei suoni rotti. Era l'apoplessia.

Mauro rimase sei o sette giorni in quello stato, spegnendosi a poco a poco senza parole, senza gemiti...

Il dottor Brandati, chiamato in fretta, tentò tutti i mezzi e fece capire che soltanto un miracolo può risuscitare un morto. Per Giacomo e per i suoi fu una settimana di ansiosa e tormentosa agonia, durante la quale nessuno osò pensare ad altre cose che non fosse l'assistenza al malato.

Quando Giacomo si accostava al letto, gli occhi del morente si facevano piú teneri ed espressivi, come se cercassero di penetrare e di parlare all'anima. Il figlio cercava di farsi interprete dei pensieri del padre e, seguendo i suggerimenti di quegli sguardi carezzevoli, andava dicendo:

- Sí, pà, voi avete sempre lavorato con onestà, con giustizia, con timor di Dio, e Dio ve ne renderà merito. - Oppure: - Abbiate pazienza, perdonate a chi vi ha fatto del male. Il vostro nome è nelle nostre mani. Voi ci lasciate grandi e robusti, e non ci manca la buona volontà...

Il vecchio moribondo si lasciava consolare da queste parole, che gli venivano dal suo Giacomo. Gli occhi pieni di pianto pareva rispondere: - Tu sei stato la mia consolazione, tu sarai la mia gloria. Tu devi stampare in qualche libro la storia dei tradimenti di cui fu vittima tuo padre.

Il signor curato, che conosceva da trent'anni la coscienza del galantuomo, somministrò gli ultimi sacramenti e benedisse l'agonia. Mauro Lanzavecchia cadde in letargo e morí tranquillo, la vigilia stessa del giorno in cui la Gazzetta del Commercio stampava il suo fallimento.


VII

ALL'OMBRA DELLE PIANTE​


ALCUNI giorni dopo la morte del povero Mauro, il conte Lorenzo con un biglietto pregava Giacomo Lanzavecchia di lasciarsi vedere in un'ora tra la colazione e il pranzo, avendo a fargli una proposta di grande importanza. Nella dolorosa circostanza della malattia e della morte del vecchio fornaciaio, i signori del palazzo avevano dimostrato alla famiglia una cosí gentile e pietosa sollecitudine che Giacomo sentí il dovere e il bisogno di vederli, di ringraziarli, e di udire nello stesso tempo una parola che non fosse una volgare consolazione.

Mutò i vestiti, che in quei giorni di trambusto non si era quasi tolti di dosso, e, detta una parola alla mamma, che rincantucciata in cucina non faceva che piangere e sospirare, prese a salire lentamente il ripido sentiero, che dalle Fornaci va al palazzo del Ronchetto per la piú corta.

Quantunque fossimo oltre la metà di settembre, faceva ancora un bel caldo: e dalla strada sassosa e dal muro del giardino riverberava una vampa cosí ardente, che Giacomo provò un vero refrigerio quando, valicata la soglia della cancellata, si trovò nel fitto delle belle piante, nella dolce freschezza dell'ombra, per quei silenziosi viali a lui noti che, come le ore dei signori disoccupati, non hanno mai fretta di arrivare alla mèta.

Il contrasto tra il disordine, la disperazione, le angoscie della sua povera casa in babilonia e l'ordine, la compostezza, la pace elegante, che circondavano la dimora di questi signori, richiamò al pensiero del filosofo l'osservazione alquanto vieta e volgare: che il male e il bene non son distribuiti con molto giudizio sulla terra. I suoi dolori non gli permisero questa volta d'arrivare fino alla conclusione che anche le case dei ricchi possono essere l'albergo di dolori inenarrabili. Quando ci duole un dito, tutti i mali del mondo ci picchian dentro; e non solo ci sembra che il nostro male vada a urtare in tutti gli spigoli, ma facciamo del nostro dito malato il centro del dolore universale. Era naturale e compatibile adunque che anche Giacomo portasse un po' d'invidia a questa brava gente, a cui, oltre ai beni materiali della vita e al fascino della ricchezza e del nome, non mancavano i meriti della virtú, della rassegnazione che dà la fede, e i conforti che derivano dalle buone opere; com'era naturale che venisse a cercare all'ombra di questa felicità e di questa pace, un po' di riposo. Sentendo scoccare le due e parendogli ancora troppo presto, pensò di mettersi a sedere su una panchina che l'invitò presso un folto cespuglio di oscuri evonimi, per dar tempo al conte di finire il solito sonnellino, che aiutava mirabilmente a smaltire il peso della colazione. Senza questo breve viaggetto ai campi Elisi, don Lorenzo, che alla tavola soleva cercare volentieri le piccole compiacenze del senso, non avrebbe potuto ritrovare il suo appetito fresco per l'ora del pranzo, e una voluttà di meno, soleva dire, parodiando Sterne, è un filo strappato alla già esile trama della vita.

Giacomo, girando gli occhi intorno nella fresca oscurità di quel gran verde che lo circondava, sentí veramente quasi un senso di freschezza insinuarsi e diffondersi nel suo spirito eccitato da troppe violenze.

Il giardino, piantato dal conte vecchio secondo lo stile detto inglese, che simula con arte felice la spontaneità della natura alpestre, è ricco di macchie selvose che il tempo ha rese folte, nasconde molti oscuri recessi, da cui escono anche nei piú grandi calori quasi un continuo tremito di freschezza e un bisbiglio continuo di uccelli. In mezzo alle macchie scure delle conifere, tra cui luccicano con verde piú chiaro le magnolie e gli allori, costeggiando l'orlo delle praterie aperte al sole, girano i viali larghi, placidi, senza un ingombro, secondando le ondulate varietà del clivo, ritorcendosi in sé stessi, intrecciandosi, diramandosi in stradicciuole e in sentieruzzi quasi selvatici, che ti menano a luoghi perduti, a grotte umide di segreti stillicidi, a finte rovine, a segregate solitudini, ove dorme da cinquant'anni tra l'edera e il muschio una gelida ninfa di sasso. Dove i viali si incrociano, è bello vedere per diverse porte aprirsi di qua il gran verde, piú in là un pezzo della valle coll'Adda, che striscia e luccica in basso, altrove un fianco del palazzo, che domina colla torricciuola imbandierata sul fondo del cielo, ora verso un tempietto di marmo, che si specchia in un verdognolo stagno, ora verso alcune creste del Resegone, che l'arte ha saputo tirar nella cornice, o su un gruppo pittoresco d'alberi secolari, che, mascherando il muro di cinta, dànno a chi passeggia l'illusione d'una selva grandiosa, lontana da ogni consorzio, quali dovevano esser le primitive selve che accoglievano gli uomini erranti.

Giacomo, come si è detto, conosceva tutti i segreti di questo paradiso terrestre, ch'egli aveva cominciato a frequentare da ragazzo ed era, in certa qual guisa, cresciuto con lui: talché poteva considerarlo un poco come suo, per quel diritto di possesso morale, che abbiamo su tutto ciò a cui è attaccata una parte della nostra fanciullezza.

Quando viveva ancora la vecchia contessa, madre di don Lorenzo, Giacomo era solito salir tutte le mattine a servir la messa, che si celebrava nella cappella del palazzo. Strada facendo, nell'attraversare il giardino, la sua festa era di andar per le macchie, a ritrovare le traccie dei nidi degli usignuoli e dei capineri, che in primavera facevano nei boschetti una orchestra. Fu appunto per la sua docilità di carattere, per il suo raccoglimento religioso, per il suo viso delicato sotto i riccioli spessi di un color quasi d'oro, per la sua speciale devozione alla Madonna, che donna Matilde, detta ancora oggi la contessa vecchia, formò l'idea che si potesse cavare da Giacomino un buon ministro del Signore e nello stesso tempo un buon cappellano per la casa. Se ne parlò a don Angelo, che persuase Mauro a non lasciar scappare una cosí bella occasione. Il pà, che aveva imparato dai suoi vecchi a ricevere tutto quel che veniva dal Ronchetto come una benedizione, non seppe dir di no: la mamma vide subito il vescovo nel suo figliuolo; e Giacomo fu vestito da prete. Nelle vacanze tornò sempre a servir la messa in palazzo, finché visse donna Matilde, e quando, morta questa, cominciò a comandare donna Cristina, il chierichetto non cessò d'essere considerato come un figliuolo della casa; anzi, siccome don Giacinto cresceva un po' pigro e sventato, la contessina pensò di servirsi di Giacomo per dargli un compagno buono, studioso, che gli si imponesse colla serietà del carattere. Toccò dunque al pretino l'incarico d'accompagnare il contino, non solo alla messa tutte le mattine alla Madonna del Bosco, e di esercitarlo nel leggere e nello scrivere, ma gli fu compagno nella caccia colla civetta, lo seguiva al "Roccolo" di don Andrea, o nelle escursioni ch'egli volesse fare nei dintorni. Allo spuntare dell'alba, tutte le mattine di bel tempo, era lí sotto le finestre di don Giacinto a tirare sassolini nei vetri, colle gabbiette e le canne del vischio sulle spalle, finché il piccolo poltrone si risolveva a cacciar le gambe dal letto. Uscivano insieme a correre nei prati umidi dell'Adda, a tendere nei boschetti di nocciuoli insidie e trappole ai passeri e ai fringuelli, finché la fame, che si risvegliava presto negli stomachi digiuni, faceva levare i cartocci della colazione. Molte volte il contino cedeva il suo pollo fritto e lo spicchio del suo pasticcio per gustar la polenta fredda e il caciolino del compagno; ma qualche altra volta l'umore dell'eccellenzina non era molto trattabile. Per quanto Giacomo avesse qualche anno di piú e vestisse da prete, i vizi e l'orgoglio dei sangue si ribellavano non di rado agli ordini e alla dottrinetta del pedagogo, che mammà mandava per far la spia; e piú d'una volta all'ombra delle siepi di sambuco, e negli aridi fondi dei ghiaieti, tra il nobile spavaldo e prepotente, e il giovine povero, che sentiva fin d'allora la forza della sua aristocrazia morale, erano corse amare parole e qualche cosa di più solido. Un giorno don Giacinto, vedendo di non poter spuntarla, minacciò di ammazzare il suo chierichetto con un tremendo coltellaccio, che aveva levato dal cassetto della cucina; e da quel dí Giacomo non ne volle piú sapere. L'uno fu messo in collegio presso i Gesuiti, l'altro partí per gli studi di teologia, e non si videro piú, se non a brevi intervalli, come due uomini che camminano in senso inverso, si voltano e si rivedono di tanto in tanto sempre piú confusi e sempre piú rimpiccioliti, finché l'uno non sa piú nulla dell'altro.

Giacomo, nel tiepido silenzio di quel caldo pomeriggio di settembre, nel riandare col pensiero in modo saltuario e confuso a queste memorie d'altri tempi, ricordava il giorno, in cui era venuto a dichiarare a donna Cristina che la sua coscienza non gli permetteva piú di vestir l'abito ecclesiastico. Fu una grande battaglia, la piú terribile battaglia de' suoi vent'anni, di cui le piante del giardino eran state non insensibili testimoni. Oh se avessero potuto parlare, e dir quante lagrime egli avesse sparso nei dolorosi istanti del suo combattimento, quando invocava inutilmente da Dio il coraggio d'una risoluzione che avrebbe suscitata una tempesta! Quasi vicino a toccare la mèta, dopo aver goduto per dodici anni i benefici in una casa che aveva pagata sempre la sua pensione e sollevata la sua famiglia da tutte le spese, dopo aver ridestate molte speranze nei professori, nei compagni, nel cuore dei parenti, che vedevano già in lui il difensore della chiesa, egli era arrivato al punto scabroso di dover rinnegare tutte queste speranze e tutti quei benefici. Il doloroso segreto non era ancora uscito dal suo cuore, ma sentiva questa necessità crescere, giganteggiare, sospingere la sua coscienza.

Per quanto rumorosa e aspra potesse essere la meraviglia della gente, tuttavia qualunque rimprovero gli doveva sembrare piú sopportabile di fronte al rimorso di commettere un tradimento sull'altare di Dio. Dopo aver cercato inutilmente vicino a sé un amico o un confidente discreto, che l'aiutasse a essere sincero, fu quasi per un istintivo consiglio del cuore che si lasciò condurre a confessare il suo tormento a donna Cristina. La scena gli era ancor viva davanti agli occhi. La contessa l'aveva fatto chiamare per consegnargli, secondo era sua abitudine, alcune piccole elemosine da distribuire ai vecchi piú poveri. Era una domenica piovosa. Essa portava ancora il lutto per la morte recente di donna Matilde. Gli parlò di Giacinto, gli mostrò una bibbia illustrata del Doré, lo pregò di scegliere alcuni versetti d'un salmo adatti per una miniatura, e, mentre essa parlava e si moveva nella luce blanda della finestra, il cuore di Giacomo batteva d'un'insolita commozione. Colle lacrime agli occhi, egli cominciò a parlare: e la buona signora lo lasciò dire, lo lasciò piangere un pezzo, lo compatí, gli parlò da buona madre e prese sopra di sé l'impegno di persuadere il conte, lo zio prete, i parenti. - Lei potrà far del bene lo stesso e anche di piú, - gli aveva detto - e son persuasa che i Magnenzio non avranno mai a pentirsi d'aver incoraggiato il suo ingegno e la sua volontà.

Da quel giorno Giacomo aveva avuto per donna Cristina un sentimento di illimitata gratitudine, quasi di venerazione, e avrebbe voluto che si presentasse una grande occasione per dimostrarle che i benefici di casa Magnenzio non erano caduti a nutrire un ingrato. A lei aveva piú tardi confessato il suo amore e le sue idee per Celestina, provando nel rivelare alla gentildonna il dolce segreto del suo cuore il sollievo stesso che aveva provato qualche anno prima a piangere davanti a lei.

Dolci memorie, che tornavano a consolarlo in questi nuovi frangenti in cui era venuto a cadere! E fu per godere piú a lungo della freschezza, dirò cosí, di questi pensieri che invece di procedere pel viale di mezzo, che va diritto all'ingresso del palazzo, piegò pel piccolo viale, detto dei carpini, per una lunga allea di queste piante, che il gusto architettonico del vecchio conte Massimiliano aveva fatto ritagliare a foggia di portici con arcate, disposte intorno a un obelisco in una piazzuola deserta, che pareva preparata per un minuetto di fate.

Quando fu giunto presso l'obelisco, s'imbatté in Celestina, che usciva dal viale della serra con un gran mazzo di fiori freschi da mettere in tavola. Appena essa vide il giovane, trasalí, cercò sfuggirgli, ma non fu piú a tempo.

***

- Sei tu? - le disse lentamente Giacomo, senza quasi alzare gli occhi - la povera mamma ha cercato piú volte di te.

- Povero zio...! - mormorò Celestina; e come se in quella compassione cercasse un pretesto per liberarsi da una grande sofferenza, che le riempiva il cuore di lagrime, portandosi frettolosamente l'angolo del grembiale al viso, pianse in modo cosí dirotto che mosse Giacomo a piangere e a confortarla.

- Tu gli volevi bene, lo so, e lui te ne ha sempre voluto a te come una sua figliuola. Ma chi sa che egli non sia uscito dalle tribolazioni...

- Oh sí, oh sí! - ripeté la ragazza senza levare il grembiale dagli occhi, acconsentendo con forza.

- Tocca ora a noi aver del coraggio - disse Giacomo colla voce insinuante e tenera, che gli usciva naturale, quando una forte emozione agitava il suo spirito. E alzando una mano, volle asciugare egli stesso col grembiale gli occhi della giovane, che voltò via il volto e rimase come intimidita davanti a lui. - Tocca a noi, non è vero Celestina? Quest'anno ero tornato con molte speranze. Credevo proprio che sarebbe stato l'anno buono di coronare il nostro amore, ma Dio non vuole: pazienza! Sarei un cattivo figliuolo, se pensassi a me in questi momenti cosí dolorosi, in cui sento che resto solo alla testa della mia povera famiglia. No, l'avvenire è troppo scuro e prevedo che dovrò rinunciare a molte altre speranze.

Celestina fece uno sforzo per prendere la parola, ma, soffocata da una grande angoscia, portò il palmo della mano alla gota e ve la tenne con uno sforzo rigido e pesante, come se cercasse con quell'atto di energia di sorreggere la testa. Un lampo di disperazione balenò nel suo sguardo, ma Giacomo non se ne accorse. Era uno de' suoi difetti d'andar troppo vagando nelle idee generali anche quando la realtà lo menava in mezzo alle ortiche. Continuando sempre con sommesso tono di dolcezza, mentre andava giocherellando coi coralli della collana ch'essa aveva al collo, seguitò come se parlasse a sé stesso:

- Non ho amato che te nella mia vita, lo sai, non potrei essere di nessun'altra. Anche tu mi hai voluto bene e me ne vuoi, vero? - Egli la interrogava col suo sguardo affettuoso, che penetrava nelle radici del cuore. - No? non me ne vuoi piú? - insistette con un sorriso carezzevole, passando leggermente la mano sui neri e lisci capelli della ragazza.

- Sentite, Giacomo... - proruppe finalmente la fanciulla con una voce lacerata da un dolore sordo e crudele. - È un pezzo che volevo parlarvi di questa cosa, e forse è bene che ve ne parli ora per sempre. Voi non dovete piú pensare a me.

- Perché io non devo piú pensare a te? - chiese senza rancore Giacomo, che prevedeva questi nuovi scrupoli in un'anima delicata.

- Perché io non son degna di voi... - E prima ch'egli avesse tempo di protestare, ritrovando nell'eccitazione del suo sentimento la forza che nessuna autorità esterna avrebbe saputo darle, seguitò con tono eguale, quasi freddo, ma convinto, senza togliere lo sguardo dai fiori, che andava sbadatamente sfogliando con le dita: - Penso che la Madonna vi abbia mandato oggi in un momento di dolore, perché io trovi il coraggio di dirvi quel che devo dirvi. Forse è meglio che questo vostro pensiero non si compia mai. Voi non siete piú quello d'una volta.

- Perché «Frulin», io non sono piú quello d'una volta? - disse Giacomo, evocando un piccolo soprannome che il pà, per far presto, aveva inventato per lei quando era venuta in casa: e mise in questa voce senza senso una tale dolcezza allegra e canzonatoria che Celestina impallidí come se agonizzasse, un velo nero le offuscò gli occhi, e fattasi a un tratto sdegnosa e dura:

- Ascoltate, Giacomo - gli disse aggrottando le ciglia. - Quando è nata questa nostra affezione eravamo due ragazzi, e non si poteva sapere dove si sarebbe finiti. Povero voi, poveretta io, ci siam voluti bene senza capire cosa volesse dire volersi bene. Il tempo non è passato allo stesso modo per noi due: io sono ancora la povera ignorante di una volta, mentre voi avete fatta molta strada, e ne dovrete fare molta ancora. Sento come tutti parlano di voi: avete stampato anche dei libri, e ne stamperete ancora; ma per andare avanti avete bisogno di essere libero, di non dover trascinare una povera contadina, che sarà sempre per voi un peso morto. Se io potessi essere la vostra serva... ma vostra moglie è un'altra cosa... Avete bisogno di una ragazza che vi possa seguire e capire... In questa buona casa vedete che non mi manca nulla: e poi, se devo dirvi tutto, da qualche tempo sento una voce che mi chiama.

- Che cosa ti dice questa voce «Frulin»? - seguitò Giacomo, sempre sul medesimo tono di chi non vuol pigliare le cose sul serio.

- Alcune monache cappuccine, che vengono spesso al palazzo per la questua e che rimasero qualche volta a dormire, mi hanno parlato di quel che soffrono le povere morette in Africa e vorrebbero che io andassi con loro. Poiché non posso essere vostra, voglio essere di Dio. Che cosa volete, Giacomo - continuò con un singulto, come se si sforzasse di reprimere un'amarezza rigurgitante. - Mi pare di essere già stata per voi una cattiva tentazione quel giorno che lasciaste di studiare da prete, con molto dispiacere dei vostri, specialmente dello zio prete, che dopo d'allora mi ha sempre chiamato un diavolo...

Giacomo non poté nascondere un sorriso di compiacenza a questa antica facezia dello zio prete, e avrebbe voluto cominciare a parlar lui; ma la ragazza, trascinata dalla foga appassionata del suo pensiero, non lo lasciò dire:

- Non voglio ora essere il vostro inferno, dopo essere stata la vostra tentazione. Lasciatemi andare per il mio destino e voi andate per il vostro. Troverete cento buone ragazze migliori di me, con istruzione, con dote, che vi permetteranno di studiare con meno stenti, che sapranno capire quello che scrivete, che vi faranno onore in società...

Giunta a questo punto, come chi arriva sfinita dopo una gran corsa sulla cima erta d'un monte, le mancò tutt'a un tratto la lena.

Un terribile impeto che, venendo dallo stomaco minacciò di soffocarla, la fece andare indietro di qualche passo: ma la volontà fu ancora piú forte del patimento. Non volendo piangere, si portò alle labbra una cocca del grembiule, che prese a mordere, mentre cercava intorno a sé cogli occhi se arrivava qualcuno a liberarla.

- Chi mi ha parlato già di queste monache cappuccine e di questa voce che chiama? - prese a dire Giacomo con flemmatica bonomia: - Credo la contessa, una volta: non ho capito ben con quale intenzione, se non fu per mettere alla prova anche la mia vocazione per te...

Da quel fino psicologo che credeva d'essere, Giacomo avrebbe voluto aggiungere che queste titubanze e questi scrupoli nel suo «Frulin» non solo non lo persuadevano, ma erano per lui una ragione di piú per voler bene alla sua tentazione e al suo diavolo. Di donne dotte ormai ne son piene le dispense; mentre una donna semplice e sincera non c'è scienza che la possa fabbricare, se non la fabbrica la mamma natura. E avrebbe voluto aggiungere, se fosse stato il caso fare una lezione in quel sito, che quanto piú gli uomini sono analitici, complicati, foderati di sapere, tanto piú cercano di riposare la testa sul seno d'un amore semplice e naturale, che li aiuti a essere semplici e naturali. I piú occulti misteri si svelano nelle anime più ingenue, mentre gli spiriti superbi e raffazzonati non sentono piú se non quel che il loro orgoglio permette di sentire. E all'uomo moderno non mancherebbe che questa disgrazia per essere il piú disgraziato degli animali, vale a dire, che, dopo aver guastato molte cose belle per il capriccio di voler vedere come son fatte, avesse a guastare anche l'amore, riducendolo a un dialogo tra un filosofo e una donna cogli occhiali.

Questo, ripeto, avrebbe voluto dire Giacomo Lanzavecchia, a una santarella piena di titubanze e di scrupoli inutili. Ma avrebbe «Frulin» penetrato lo spirito della sua sottile psicologia? Si limitò a castigarla con due schiaffetti, soggiungendo:

- Avremo tempo di parlar di queste faccende con piú comodo. Ora ho troppe cose per la testa. È in casa la contessa?

Celestina accennò di sí col capo.

- Vorrei domandarle che ti lasciasse venire tre o quattro giorni alle Fornaci a far compagnia alla povera mamma, che non ha piú la forza di reggersi. Mentre io vado dal conte, dille che desidero parlarle... e... e... (girando il braccio intorno alla vita della ragazza, la trasse un poco a sé, premendo le labbra a lungo nel fitto de' suoi capelli) e di' alle monache che il tuo moretto da salvare l'hai trovato da un pezzo.

Giacomo se ne andò pel viale dei carpini, non volendo piú far attendere il conte, e lasciò Celestina irrigidita in tutto il corpo, cogli occhi aridi e fissi, col cuore inerte, indurita, come una statua. Quando il giovane scomparve dietro la casa del fattore, venendo a un tratto a mancare in lei la forza artificiale che l'aveva sorretta finora, il suo corpo si sfasciò, e cadde sul margine dell'erba, colla faccia rivolta alla terra, urlando nel silenzio di quella verde solitudine:

- Madonna, Madonna, Madonna, fatemi morire!


VIII

IL VIL METALLO DI CARTA


In una buona iscrizione - disse il conte Lorenzo con classica gravità - non solo è compenetrata la storia e la filosofia della storia, ma c'è lo spirito stesso dell'umanità, che palpita nel sasso. Sicuro che i sassi bisogna saperli scrivere e saperli leggere, se no, di sassi n'è pieno il letto dell'Adda...

Don Lorenzo, che in mezzo alle piú gravi questioni sapeva con nativa arguzia far sorridere anche le cose serie, si rallegrò egli stesso all'idea dello sterminato numero di ciottoloni che l'Adda trascina nel suo corso, più adatti per lapidare i guastamestieri che non per celebrare le virtuose azioni degli uomini. Mosse due o tre passi traballanti e molli nello spazio che stava tra lo scrittoio e la massiccia libreria di mogano, aprí le imposte dei basamenti e mostrò a Giacomo tutto il prezioso materiale della sua grande raccolta d'iscrizioni sacre e profane, accumulate in una serie di cinquantaquattro grosse cartelle, una bazzeccola di cinque o sei mila foglietti scritti, che era peccato tanto il buttarli sul fuoco, come il lasciarli in preda ai topi e alle tarme.

- E non sono qui tutte... A Cremona ne avrò raccolte a quest'ora un'altra ventina di cartelle, che comprendono la serie delle iscrizioni funerarie; ma prima che questa raccolta sia compiuta, lallèla…- disse agitando le due mani floscie in aria, per far capire che la strada era lunga.

Questa raccolta, comprendente la XXXVII serie, doveva radunare tutte le iscrizioni dei cimiteri, delle cripte, non esclusi i cenotafi e le erme votive, senza trascurarne una, anche dei piú remoti villaggi di montagna, divise e suddivise per mandamenti, capoluoghi, comuni, frazioni, in modo da formare nel loro complesso un «Novum Corpus inscriptionum italicarum» pari a quello che il Mommsen fece per l'epigrafia latina. Si trattava (e in questa sua aspirazione don Lorenzo era veramente encomiabile) di prevenire il desiderio e la curiosità dei posteri.

- Non è egli vero - diceva spesso - che, se Varrone avesse pensato a raccogliere lui le iscrizioni del suo tempo, avrebbe risparmiato a noi l'incomodo di cercarle? Sicuro che non è impresa da pigliarsi a gabbo, e io ho questo mio cuore benedetto che mi travaglia e non mi lascia sempre lavorare quando voglio. Ecco perché vi ho fatto chiamare, caro Giacomo. Sapete quanta stima abbiam sempre avuta per voi.

- La sua famiglia, signor conte, fu sempre troppo buona verso di me - disse Giacomo con commozione sincera.

- Coi Lanzavecchia delle Fornaci siamo da un pezzo buoni vicini e non c'è mai stata ombra di dissidio fra noi. Ha fatto male il povero Mauro a morir cosí presto. Pareva il ritratto della salute, povero omaccione! Per me è un brutto avviso, perché siam lí lí cogli anni, e i cardinali, dicono a Roma, muoiono sempre a due per volta. Ci pensavo anche stanotte a quel pover'uomo, e, se permette, vi farò sentire quattro righe d'una iscrizione, che avrei preparato per la sua croce.

- Il signor conte onora un galantuomo...

- Non solo questo, ma ho voluto darmi il gusto di riprodurre un carattere. Non vorrei portar nottole ad Atene, e voi farete di quel mio esercizio quel conto che vorrete; quel che importa è che l'epigrafia non resti sempre nelle mani di questi benedetti curati, che guasterebbero il Santissimo. Dopo il Giordani, che fu quel gran maestro che sapete, non si vede piú una iscrizione tollerabile. Ma parleremo con più agio anche di questo un'altra volta; ora desidero sapere da voi che cosa si potrebbe fare di questo gran materiale di quasi trentamila iscrizioni, fra lunghe e corte, che rappresentano per me il lavoro paziente di trent'anni. Credete che valga la pena di stamparle? la contessa dice di sí, e alle volte le donne hanno piú di noi il senso fino della convenienza; ma se si stampano, le esigenze scientifiche vorrebbero che si compilasse un indice e forse meglio ancora due indici, uno per i nomi, l'altro per le cose... e, se ce ne fosse un terzo in ordine cronologico, tanto meglio: ma voi mi capite, Giacomo, che per far tre indici di trentamila iscrizioni, lallèla, non basterebbero gli anni di Matusalem.

Il conte raggrinzò la faccia a un riso lungo e silenzioso, che gli fece raccogliere in un ciuffo le grosse sopracciglia grigie biancheggianti e colorí la sua bella faccia di galantuomo sotto il berretto d'astracan, da cui scappavan due altri ciuffi di capelli brizzolati irti come lesine.

Giacomo, messo nella necessità di dover dare una risposta cortese, tenne un pezzo gli occhi fissi sulla superficie e sul volume di quel muro di carta scritta, di cui, a parte le esagerazioni, riconosceva il merito storico, e più ancora il merito morale di chi aveva voluto con quell'opera di pazienza guadagnarsi il suo posto in paradiso.

- Sicuro - disse finalmente, fissando gli occhi ora sul conte, ora sulle cartelle. - Sicuro che sarebbe un peccato non cavar da questo tesoro un costrutto.

- Non pare anche a voi che un buon index nominum potrebbe portare un bel contributo alla onomatologia italiana?

- Senza dubbio - riconobbe di buon grado Giacomo.

- Non è lavoro che si possa fare né in un anno né in due; ma non è il tempo che manchi alla pazienza. Ne parlavo anche ieri sera colla mia Cristina, che, coll'intuito pronto delle donne, mi ha detto: Perché non ne parli al Lanzavecchia? egli potrebbe aiutarti. È giovane, e diligente, e gli può far piacere di trovare un’occupazione tranquilla che gli permetta di stare a casa sua. S'intende che ci dovremmo intendere da buoni amici. Quel che vi dà, per esempio, il collegio di Celana, ve lo potrei dare anch'io, per tre, per quattro anni, fin che è necessario: e vi darò anche di piú, quando si incominciasse la stampa del primo foglio, in proporzione della fatica e dei meriti. Cosí avreste il vantaggio morale di restare quest'inverno a casa vostra e di attendere anche alla vostra famiglia. Di tanto in tanto potrei fare una scappatina per consigliarmi con voi, e, quando si tornerà al Ronchetto per il raccolto dei bozzoli, si potrà dar principio alla pubblicazione d'una prima puntata. Che ve ne pare?

Prima che Giacomo avesse il tempo di metter fuori una risposta degna di lui e del conte, una voce interna gli disse che questa proposta era un'abile e delicata insidia della contessa, che voleva fargli un beneficio senza umiliar il suo amor proprio: e nella schiettezza della prima impressione provò verso la buona signora un nuovo palpito di gratitudine. La contessa, che conosceva le angustie della sua casa e le segrete aspirazioni del suo cuore, gli offriva con un gentile artifizio un mezzo onorevole per provvedere degnamente alle une e alle altre; e nello stesso tempo veniva a infondere uno spirito di vita in un materiale sepolto, su cui si era logorata inutilmente l'energia podagrosa del povero conte.

- La proposta che il signor conte mi fa - riprese a dire con un tremito di contentezza - è di quelle che lusingano l'amor proprio d'un uomo e anche, posso dire, la golosità d'uno studioso. Ma non so se il còmpito sia fatto per le mie spalle.

- Non è il caso di citare il quid valeant humeri, caro Giacomo. Duecento lire al mese, per due, per tre, per quattro anni, fin che sarà necessario, fin che vi piacerà, è la mia proposta: e tocca a me ringraziar voi, che mi cavate da questo sepolcro. È sempre stato il mio sogno di lasciar qualche cosa, che mi ricordasse a' miei figli, quando sarò fatto polvere di pomice. E poiché sento che vostro padre vi ha lasciato in qualche imbarazzo, d'accordo con Cristina, non solo vi prego d'accettare questa nostra proposta, ma speriamo che non vorrete rifiutare fin d'ora una piccola anticipazione sul vostro lavoro.

Nel dir queste parole il conte tirò fuori da un volume del Forcellini, che aveva sulla scrivania, una grossa busta di carta sigillata e si avanzò verso Giacomo, che, ritirandosi verso il muro, cercava di schermirsi. Don Lorenzo lo spinse bel bello nell'angolo tra la libreria e la stufa, e, sollevando il pesante dizionario, andò ad appoggiarlo allo stomaco del giovane Lanzavecchia, mentre seguitava a dire colla sua quasi infantile bonarietà:

- Non capite che è tutta una nostra furberia? se voi accettate questo denaro, non ci scappate piú.

E senza aspettare una risposta, il conte insaccò la busta gonfia nel taschino, dove Giacomo soleva nascondere la peppinetta.

- Se non volete accettare per voi, accettate per i bisogni della vostra mamma. Io voglio che possiate dare a questo lavoro tutto il vostro tempo, e tutto l'animo vostro; né dovete immaginarvi che vi si voglia far l'elemosina. A chi volete che affidi questa enorme fatica, se non siete voi, che da molti anni considero come un figliuolo della casa? Non spererò mai che Giacinto abbia a pubblicare le mie opere postume. Povero Giacintone! - Il conte ritornava pian piano a ricollocare il primo volume del Forcellini accanto al secondo, senza smettere di ripetere: - Povero Giacintone! piú grande amico dei cavalli che dei libri. Avrei dovuto chiamarlo alla greca, Filippo o Ippofilo... Mi ha scritto ieri una cartolina da Roma tutta piena di parole tenere e senza errori di ortografia. È a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa pubblicazione, a cui intendo premettere un «Discorso preliminare intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo», che mi sta sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta...

Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in quel mentre sull'uscio:

- La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di passare un istante da lei.

- Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe che avrei scritte per quel povero uomo... Voi sapete da insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi è mestier facile; ci arriva anche il sacrestano. Il punctum è di saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni... e tanto meno quello sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll’i corto. Ergo, come ce la caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare: meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii, ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza...

Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli.

Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente, quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di commiserazione e di fedele amicizia.

- Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei vecchi.

- Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e, se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor conte, ringrazio lei, donna Cristina... - E, non sapendo piú continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra.

- Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua attività.

La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se ogni parola le cagionasse un tormento.

- E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui... - Il conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti, ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie...

Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre. Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo liscio, o con un caffè all'ovo, o con una tazza di cioccolata che Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro. Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta, giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno, rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle «Georgiche». Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti, sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole, come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani. Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull'«Annuario degli Agiati di Rovereto», continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse, che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato.

Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla povera mamma.

- È impossibile... - scattò a dire la contessa colla istintiva prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, - soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di Buttinigo, avremo gente a pranzo... insomma se me la lasciate...

- Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato, la faccio cantare: Va là, villan... e mi pare di bere una tazza d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! - sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia, lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano loro...

Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno, rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra in una rigidezza piú severa che dolente.

Il conte che aveva la bocca buona, continuò:

- Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei cappellini. Oggi «Sacré-Coeur», domani «Ravachol»...

Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello scrivere ha avuto dei grossi torti.

- Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire... cioè non verrete a dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo vostro Socialismo.

- Non è mio, signor conte... - obbiettò sorridendo Giacomo.

- Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per quell'angelo che suona il cembalo di là.

Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre, diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri, sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della contessa e sormontato dallo stemma di casa.


Duemila lire!

Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira dietro il «Roccolo» di don Andrea, non fece che pensare a questa offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione e gli accomodamenti della sua casa.

Duemila lire!

S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza.

Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne' casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila pagine d'un bel formato Le Monnier.

Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento, chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: un anno di paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea. Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara Celestina, addio... poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere, venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino stampato dei libri.

Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari; tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri, e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la vicaria della Provvidenza in terra.

Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz, quando riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata:

- Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto, asinaccio!


IX

ANGOSCIE MATERNE


Donna Cristina giunse alla villa di donna Fulvia di Breno verso le tre, come aveva scritto.

Quantunque donna Fulvia fosse di alcuni anni piú giovane, la loro amicizia, che risaliva fino ai tempi del collegio, conservava tutta la freschezza d'una simpatia d'anime sorelle. Entrambe erano state educate dalle dame inglesi di Lodi, dove avevano lasciata una memoria molto diversa, frutto del temperamento molto diverso del loro carattere, che gli anni e la pratica della vita avevano forse potuto modificare ma non cambiare. Quanto donna Cristina era inclinata ai pensieri alti e alla compostezza della vita morale, altrettanto la Breno amava prendere la vita da' suoi lati meno tristi e meno didattici, spingendosi non di rado fin dove l'allegria si confonde colla spensieratezza. Alta, bruna, asciutta, dal suo viso magro, tutto profilo, e piú ancora dagli occhi di falco spirava una tale noncuranza per le cose monotone di quaggiù che le stesse afflizioni non osavano, sto per dire, accostarsi, quasi temessero di non essere prese sul serio. Maritata a quello spirito freddo e prudente di don Lodovico di Breno, che fu per molte legislature il deputato indispensabile del suo collegio, aveva trovato nelle molte relazioni politiche di suo marito e nel suo salotto di Roma l'acqua chiara, che cercava il pesce per guazzare. Non aveva avuto figliuoli e non se ne lamentava: e per quanto la cronaca dicesse che, tra una legislatura e l'altra di suo marito, avesse trovato il tempo di cedere a qualche tentazione, non aveva mai abusato né di sé stessa né degli amici.

Pare che in certi momenti di contrizione le avesse giovato l'assistenza della piú santa delle sue amiche, la quale, come soleva fare in collegio amava esercitare sulla fantasia sbrigliata della Fulvia un'azione correttiva, dolce e materna, che aveva sul diavolino di casa di Breno un potere spirituale non privo di fascino. E dall'altra parte un po' per simpatia, un po’ per forza di contrasto, donna Cristina si lasciava volentieri trascinare a cercare nella Fulvia un segno di quelle ribellioni di spirito e un sapore di tutte le dissipazioni, che essa aveva severamente proibite a sé stessa. Il diavolo ha il suo fascino anche lui sull'anima dei santi. Ora si vedevano di rado, anche per riguardi politici. Per quanto il di Breno fosse un cavouriano all'acqua santa, tuttavia nella questione di Roma, quel suo accettare, senza una restrizione, i cosí detti «fatti compiuti» non poteva essere il programma né dei San Zeno, né di monsignor vescovo, che aspirava a far carriera, né della clientela pia e clericale, che dava e riceveva forza da questi nomi.

Questa differenza politica non impediva che le persone si stimassero reciprocamente per le loro virtú e che le signore si scrivessero spesso e si ritrovassero volontieri tutte le volte che una circostanza rendeva il ritrovarsi necessario o piacevole.

La missione spirituale di donna Cristina sull'anima ribelle dell'amica non era ancora finita, quando donna Fulvia (fu verso la metà di settembre) ricevette una letterina di Cristina con queste parole: «Ho bisogno del tuo consiglio e del tuo aiuto per una tremenda disgrazia, che minaccia la mia povera famiglia. Verrò giovedí verso le tre: procura di essere libera. Non lasciar capir nulla a tuo marito di ciò che ti scrivo, e prega, prega per me».

«Che mai può essere accaduto?» continuò per due o tre giorni a molinare nel suo capo donna Fulvía, che aveva sempre avuto bisogno che pregassero gli altri per lei. E quantunque il sospetto corresse subito a Giacinto, di cui si sapevano certe sue nuove e poco gloriose imprese con una principessa romana, pure aspettò con ansiosa incertezza e con viva trepidazione questa annunciata visita di Cristina.

Giacinto non era a' suoi primi spropositi, e mai la madre aveva scritto con tono cosí lugubre! Che don Lorenzo, quel gran traviato, avesse fatto un torto a sua moglie? o che ci fosse ordine di arrestarlo per sospetto d'anarchismo? Per fortuna don Lodovico da una settimana era a Roma relatore di una commissione del catasto, e quindi fu possibile mantenere il segreto cosí gelosamente imposto: altrimenti sarebbe stato un chiedere troppo alle forze di una povera donna.

Non c'è nulla che avvilisca tanto i fatti, quanto il non poter parlare con chi si vuole e quando si vuole.

- Ebbene, che cosa è accaduto, madre santa? - esclamò, quando ebbe fatta sedere la contessa nel suo gabinetto bianco ed ebbe chiusa la doppia porta che metteva verso il salone. - Tu hai una faccia malata, mia cara! Forse don Lorenzo...

Donna Cristina si affrettò a rispondere di no con un forte diniego dei capo: ma non poté parlar subito, perche si sentiva la gola piena di lagrime. Siccome era fuggita, si può dire, da casa sua per cercare un rifugio, dove potesse liberamente dar corso a questa sua opprimente passione, al primo sfogo ch'ella fece per parlare, ruppe in un pianto cosí sfrenato che la povera Fulvia rimase fredda e come allibita.

- Che cosa c'è? - domandò di nuovo con una voce che sentiva le lagrime. E, afferrate le mani della desolata donna, se le tirò a sé, se le pose sui ginocchi, aspettando in silenzio che quel gran fiume di dolore traboccasse tutto. Quando l'amica poté ricuperare la padronanza di sé, fu ancora la Fulvia che, insinuandosi, l'aiutò a parlare: - È per Giacinto che piangi? C'è ancora qualche novità? non è bastato farlo traslocare a Caserta? è ancora per colpa di quella principessa maritata?

- Peggio, peggio, quanto di peggio si può immaginare - proruppe la Magnenzio con una forza quasi di protesta.

- O Dio, s'egli fosse morto!...

- Peggio ancora! E doveva toccare proprio a me.

E, coprendosi il viso colle due mani, soggiunse:

- O Signore, voi sapete che io non ho mancato al mio dovere. Ah che castigo, che castigo tremendo!

- Raccontami - sussurrò la di Breno, facendosi più vicina e girando un braccio intorno alla vita della compagna. Dopo aver inghiottiti amaramente i suoi singhiozzi, donna Cristina riprese a dire: - Sai che ho in casa una povera ragazza, quella Celestina...

- Ho presente.

- Già fin da questa primavera, quando Giacinto fu a casa in licenza per alcuni giorni, mi sono accorta che le usava qualche confidenza; ma siccome la ragazza è onesta e ha il cuore occupato, non ho creduto che ci fosse pericolo. Ma il mese scorso, quando Giacinto venne a casa per le corse di Erba, credette di tormentarla ancora, e non pensò, non pensò il disgraziato che ci perdeva tutti.

- Scusa, - fece la Fulvia un po' accigliata - fin dove devo pensare?

- Pensa tutto quel che di peggio può accadere.

- Tu dici che la ragazza è onesta...

- Sí. Una notte che tornò al Ronchetto alquanto alterato dalla festa... me l'ha confessato lui... non sa, non si ricorda come sia avvenuto... trovò aperta la stanza... la ragazza dormiva. Ah che disonore per la mia casa! - tornò a gemere, fremendo con una irritazione mal repressa, che inaspriva la sua voce in singhiozzi rauchi e poderosi.

- Povera me! - balbettò donna Fulvia, che dal suo posto di spettatrice poté abbracciare con uno sguardo tutte le conseguenze che un passo falso di questa natura poteva trascinare con sé. - Non era questo il momento, povera me... - E dopo un istante di riflessione soggiunse lentamente: - L'hai saputo da lui?

- Entrò lui stesso la mattina nella mia stanza a confessarmi tutto, in ginocchio, nella stretta del letto. Che vale il piangere e il pentirsi, quando il male è senza rimedio? Se mi avesse cacciato un coltello nel cuore, per me era lo stesso. Egli crede ancora che io sia per trovare un accomodamento: ma che posso fare? c'è da impazzire, vedi. Se quel pover'uomo, che ha già il cuore malato, viene a conoscere questo scandalo, mi resta sul colpo. Un Magnenzio, capisci, un nome come il nostro, che ha una tradizione secolare di onestà! E i parenti? e mio zio monsignore? Se il popolo s'impadronisce di questo scandalo, se i nostri nemici vogliono servirsene come di un'arme per combattere noi e il partito ben pensante, se monsignore viene a sapere... O Dio, io perdo la testa solo a pensarci... - E come se veramente una convulsa vertigine la rovesciasse, la povera contessa si lasciò andare colla testa sui ginocchi di Fulvia e riprese a piangere in un modo contagioso.

- Certo che è grossa... - mormorò l'amica - e anche per la sua carriera, se aveva un po' d'ambizione, non gli gioverà. E per maggior disgrazia siamo alla vigilia delle elezioni generali, nelle quali i partiti di questi nostri collegi combatteranno una fiera battaglia. Di Breno dice che il governo massonico tende a spazzarci via tutti quanti. Non era proprio il momento... - cosí andava ripetendo donna Fulvia, come se parlasse a sé stessa, mentre il pianto straziante della povera disperata strappava anche a lei le lagrime dagli occhi. - Comunque, la calma è il primo rimedio. Non è il primo caso e pur troppo non sarà nemmeno l'ultimo. La gioventú ha i suoi inconvenienti. In casa nostra è accaduto, anni fa, qualche cosa di simile; ma il povero papà con un poco di denaro ha messo tutto a dormire. Vediamo, ha parenti questa tua cara innocentina?

- È orfana, ma ha qualche parente.

- Bisognerebbe sapere che gente è.

- È buona gente, incapace di approfittare di una sventura.

- Se si offrisse una dote alla ragazza?

- Fulvia, che cosa dici? ti pare?

- Già, il tuo Giacinto non può mica sposarla.

Donna Cristina, abbassando la testa, acconsentí con un sospiro.

- Nemmeno monsignor vescovo potrebbe pretendere tanto. E allora non vi resta che di offrire un altro genere di risarcimento. Hai detto che la ragazza aveva già il cuore impegnato con qualcuno? Non si potrebbe persuadere questo qualcuno ad accettare una ventina di mille lire? il povero papà nel caso di Costanza, se l'è cavata con meno: perché, via, tu sei buona e fai bene a credere all'innocenza; ma ritieni pure che in questi nostri paesi le ragazze, piú furbe del diavolo, sanno rappresentare a meraviglia la parte di vittima. Alle volte anche i parenti si mettono della partita e fan presto ad avere buon giuoco in mano. No? non credi che sia possibile persuadere Menelao a ripigliarsi la sua belle Helene? Che uomo è questo Renzo Tramaglino? Un contadino? un operaio?

A queste domande cosí incalzanti e taglienti, donna Cristina Magnenzio non seppe rispondere che con uno sguardo freddo e dolente, in cui si leggeva tutta la grande desolazione del suo cuore. Alla curiosità di Fulvia essa avrebbe dovuto opporre un nome, che non osava pronunciare, come se temesse di evocare tra loro un terribile giustiziere. Mai la bontà e la giustizia d'un uomo avevano parlato con tanta forza alla sua coscienza! e come se provasse in sé stessa l'offesa atroce che si recava all'assente, con un atto di nobile risolutezza, protestò:

- No, questo è impossibile!

- E allora bisogna raccomandarsi alla ragazza e farsene, se è possibile, una alleata. Se ti vuol bene, se non è una cattiva leggerona, se sente il suo stato, capirà che non ha a guadagnar nulla da uno scandalo. Procurate di allontanarla, di metterla per qualche tempo in un sito sicuro e di lasciare a lei l'incarico di persuadere il suo Tramaglino a voltarsi da un'altra parte. Questa gente non sta poi a far della psicologia troppo sottile, come si farebbe tra noi. Per loro tutte le donne son donne, e le ragazze dicono che un papa val l'altro. Se vuoi posso aiutarti. La sorella della mia maestra di piano è direttrice d'una Casa a Treviglio, una specie di rifugio, che ricovera appunto questi peccati, dove c'è anche un ospedale sotto la sorveglianza delle suore.

- Potrò io persuadere la povera creatura a rinunciare al suo ideale, a lasciar la casa, a rinchiudersi in un ospizio? tu non sai la battaglia che io combatto da un mese in qua. Sí, finora ho potuto far tacere la ragazza colle carezze, colle promesse, colle preghiere, con tutto ciò che soltanto il cuore d'una madre sa trovare in queste disperate circostanze; ma vedo che l'impresa è piú forte di me. Celestina oggi promette che non farà nulla, che non dirà nulla, che andrà dove voglio io, che non penserà piú al suo passato, che mi vuol bene, che accetta la volontà di Dio; ma non arriva il domani e me la vedo tornar davanti tutta cambiata. Non dorme quasi piú, non mangia quasi piú; di notte scende dal letto, attraversa il corridoio e viene a piangere nella mia stanza, si strappa i capelli, dice che il diavolo la batte con una catena...

- Taci! - pregò donna Fulvia, impallidendo, con voce spaventata, rabbrividendo nelle spalle.

- Vedi, Fulvia, dove siamo? - domandò con lamento straziante la povera contessa, battendo forte le ciglia e cercando di attaccarsi alle mani dell'amica come se avesse avuto bisogno di chi la tenesse su. - Vedi che cosa hanno fatto della tua povera Cristina? Il Signore non mi ascolta piú, il Signore mi ha abbandonata.

- No, no, povero angelo, non dir cosi. - proruppe la di Breno, compassionandola, e sorpresa in fondo all'animo di dover fare verso una tal donna la parte di madre consolatrice. - Tu hai troppi meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario, assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze dei vari partiti conservatori contro la falange abissina dei sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige, specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! - aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno messo di moda. On s'encanaille, ecco!

Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno, che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.


X

UN PRANZO POCO ALLEGRO


Il compleanno della contessina cadeva ai venticinque di settembre, e in quest'occasione i signori del Ronchetto solevano invitare le autorità minori del paese e dei dintorni, come sarebbe a dire il pretino rettore dei Santuario, il segretario Balsamino, il maestro della banda e qualche parente. Giacomo, nella sua qualità di professore campestre, come soleva definirsi, non poteva mancare. Quest'anno avrebbe avuto una buona scusa per esimersi: ma donna Enrichetta mostrò d'averne un cosí gran dispiacere ch'egli non osò dir di no.

- Venite, Giacomo, un po' di distrazione non fa male - gli disse il conte. - Saremo quasi in famiglia e potremo discorrere un poco delle nostre faccende. Di quel mio Discorso preliminare mi sono venute dieci paginette che non sono il diavolo: ma la materia mi cresce nelle mani, tante sono le cose che si possono dire intorno ai doveri della nobiltà nel presente tempo: voi potrete consigliarmi a togliere il troppo e il vano.

Questo pranzo del compleanno di donna Enrichetta era, secondo l'espressione del conte, una semplice messa piana. La gran messa cantata coi rivestiti e con musica aveva luogo in agosto, il giorno di San Lorenzo, coll'intervento del prevosto, del sindaco, del dottore e del buon canonico Ostinelli di Corno, un amico fidato della contessa, un po' romantico, un po' rosminiano, manzoniano perduto, ma non privo di coltura e di finezza. I preti non impedivano che anche il padrone di casa pontificasse, e l'una e l'altra volta, sul testo, piú antico che sacro, del post mortem nulla voluptas...

Giacomo, che dopo il nuovo beneficio si sentiva legato a questa cara famiglia ancor piú di prima, e che per la contessina aveva il cuore debole del padre protettore, nel mandarle un'edizioncina diamante di Dante, l'accompagnò con un sonetto da lungo tempo promesso, che gli uscí spontaneo in mezzo alle tribolazioni, come un fiore da un mucchio di sassi.

Fu la cara bambina che gli venne incontro saltando sulla terrazza. Quantunque non compisse in quel giorno che i quattordici anni, la persona lunga e slanciata, la ricchezza fluente de' suoi capelli d'oro, che portava appena raccolti in due nastri dietro le spalle, la spigliatezza un po' nervosa di un temperamento eccitabile le davan l'aria precoce d'una donnina.

Essa gli stese la mano e lo ringraziò del regalo, del sonetto, d'esser venuto; ma Giacomo capí che c'era in aria un piccolo temporale. La contessina aveva gli occhi rossi. Frequenti erano le burrasche, un po' per colpa della fanciulla, che, come una foglia sensitiva, s'irritava a ogni minimo tocco, un po' per colpa della mamma, che del bene aveva un concetto troppo geometrico e metteva, senza accorgersi, nel comando piú voce che non fosse necessaria.

La dolce e poetica pigrizia dell'età giovanile, che ama tanto sedere all'ombra dei propri pensieri, era troppe volte e troppo bruscamente disturbata dal rigido programma materno e dall'orario di ferro di miss Haynes, un orario, che, visto a due passi dall'uscio, ove l'inchiodavano quattro spilli, pareva la gratella del martirio che mettono in mano a san Lorenzo. La messa alle sei, la colazione alle sette, il francese alle otto, l'inglese alle nove, il piano alle dieci, la seconda colazione e il passeggio dalle undici a un'ora, e poi da capo il piano, il francese, l'inglese, un po' d'italiano, che si riduceva a una lettura di storia greca e romana; e questo dal lunedí al sabato, tranne qualche ora del giovedí consacrata alla spiegazione del catechismo. La lezione di Giacomo non era segnata nella gratella, ma aveva luogo quando la contessa poteva disporre del suo tempo per assistervi; e piú che una lezione, era un vago discorrere sulle bellezze dei poeti e sui caratteri generali dell'arte.

Dante era il testo unico, da cui il maestro sapeva cavare gli argomenti della sua conversazione, alla quale prendeva parte, per sua istruzione e per amore alle idee, anche la contessa. Giacomo, che aveva anche lui molti peccati di fantastica pigrizia sulla coscienza, soleva intervenire coll'autorità del filosofo educatore in queste non infrequenti disarmonie pedagogiche tra la figlia e la madre, e, quando parlava lui, la ragione era sempre a vantaggio di donna Enrichetta. - Creda pure, contessa, che l'orario è una dura necessità, come ci vuole una scala per andar al piano di sopra; ma non è escluso che un uccellino possa arrivare anche piú in alto senza far la scala. I meriti del rosario non sono nei grani infilati, ma nella spontaneità dell'anima che lo recita. Si faccia pure un orario per la regola del convento, ma ricordiamoci che noi accontenteremo la natura tutte le volte che c'ingegneremo di violarlo.

Per miss Haynes, che, dopo essere stata maestra alla madre, cominciava a invecchiare nelle consuetudini, queste idee del signor Lanzavecchia eran semplicemente eresie d'uomo di mondo, che non crede agli orari colla stessa facilità con cui non crede a qualche cosa di piú sacro e di piú indiscutibile. Buona come un angelo, finiva però col cedere anch'essa qualche volta, e lasciava che Enrichetta svolazzasse in giardino in qualche ora destinata ai verbi irregolari.

- Gli occhi rossi in un giorno come questo? è un po' troppo. Che cosa è accaduto? - chiese il professore.

Enrichetta si contorse un poco, e lottando tra il bisogno di piangere e l'orgoglio di non mostrarsi una sciocchina, raccontò che mammà l'aveva poco prima allontanata dalla camera con una parola cattiva.

- Non è la prima volta che usa con me questi modi. Immagina forse che vada di sopra a far la spia. La spia di che? Vuol piú bene alla sua Celestina che a me.

- Certe cose non si dicono e non si pensano nemmen per burla, signorina.

- No, no, è cosí. Da un mese questa è diventata la casa dei misteri.

- Se anche ci fossero, è naturale che le ragazze non abbiano a conoscere tutto. Ci sono i dispiaceri dei piccoli e quelli dei grandi. Quando sarà mammina anche lei, vedrà che non si può sempre essere di buon umore. Via, donna Enrichetta, ci tenga allegri, mi faccia vedere i suoi regali.

Giacomo prese sotto il braccio quello della fanciulla e si fece condurre da lei nel salottino di studio, dove su una tavola stavano esposti i molti regali e i molti mazzi di fiori, che amiche e parenti avevano mandato per la fausta circostanza.

Essa cominciò con voce piú consolata a farne la spiegazione. Il bel vaso di Sèvres l'aveva spedito il nonno da Bergamo; la splendida Madonna in miniatura era un regalo della zia monaca di Monza. C'era un tagliacarte d'avorio della zia Adelasia e un libro della zia Gesumina di Buttinigo. Il babbo aveva offerto alla sua Enrichetta il «Lessico della infima e corrotta italianità»; la mamma una collana di perle; miss Haynes un album inglese di ricami e d'iniziali; e perfin Fabrizio, quel povero vecchio di Fabrizio, aveva voluto farsi avanti con una scatoletta incrostata di conchigliette e di lumachelle.

- Soltanto il mio illustrissimo fratello ufficiale non si è ricordato della sua Enrichetta. Tutto occupato a conquistar l'Africa...

- Che c'entra l'Africa?

- Non sa che vogliono mandarlo in Africa? Al babbo però non si deve dire.

- A qualche cosa serve anche l'Africa - pensò in cuor suo Giacomo; ma, non potendo parlare di queste cose alla fanciulla, si limitò a domandare se la mamma era a parte di questo segreto.

- La mamma lo sa. Gliel'ha scritto il generale Piani, nostro parente. Tra la mamma e il generale corre da qualche tempo un gran carteggio, ma io non devo saper nulla. Io non conto per nulla in questa casa.

- Sia buona, ecco la mamma... - fece Giacomo, vedendo entrare la contessa.

Questa, nell'incontrarsi repentinamente con lui, ebbe ancora un piccolo scatto nervoso, che cercò di reprimere, stendendogli la mano, mentre gli diceva:

- Bravo, la ringrazio d'essere venuto... - Poi, volgendosi verso un alto specchio, che occupava una parete, mettendosi le mani nei capelli, come se avesse bisogno di accomodare uno spilione, continuò con un tono di naturale noncuranza: - Celestina è un poco ammalata, tanto che l'ho obbligata a mettersi in letto. Ieri ha voluto stirare colle finestre chiuse, e s'è buscato un forte mal di testa con qualche nausea di stomaco. Se può dormire, passerà tutto... - E, mutando a un tratto il discorso, sorse a domandare senza voltarsi: - Conosce, Giacomo, le mie cognate di Buttinigo?

- Credo di essermi trovato con loro un'altra volta.

- Sono a pranzo con noi. - E per l'inquieto bisogno, che sentiva, di non rimanere troppo in una cosa sola, con altra voce chiamò: - Enrichetta.

- Mammà - esclamò la fanciulla, correndo ansiosa verso di lei. La contessa le ravviò il vestitino bianco e, carezzandola sui capelli, le disse sottovoce: - Sai che non voglio essere disturbata senza necessità.

- Scusa, mammà - disse la bambina, a cui gli occhi splendevano di commozione.

- Accompagna il signor professore in sala e fa le presentazioni. - Quando Giacomo e la fanciulla ebbero lasciato il salottino, donna Cristina si strinse le tempie nelle mani, socchiuse gli occhi, e pregò con un mormorio di affanno mortale: - Signore, sostenetemi!

Verso le sei, fu servito il pranzo nel severo salotto parato di cuoio, che due grandi e massiccie credenziere intagliate nel grosso stile del seicento arredavano su due lati. La tavola era splendente di argenterie e di cristalli finissimi, sui quali si riverberava la luce rubiconda del giorno, che moriva dietro la piccola pineta del giardino. Fabrizio e un altro servitore piú giovine, nella sobria livrea color tabacco coi paramani bianchi, servivano con precisione in un raccoglimento quasi religioso, recando grandi piatti d'argento cesellati colle iniziali e cogli stemmi delle due famiglie.

La contessa pareva aver ricuperata tutta la sua forza di spirito.

Seduta a capo della tavola, esposta al caldo bagliore del tramonto, la sua bella testa di matrona ancor giovane spiccava sul fondo bruno della parete, alleggerita, per dir cosí, dalla luce fuggente dei brillanti, che popolavano i suoi capelli, dalla nebbia dei pizzi candidissimi e da un pallore marmoreo del volto, soffuso con insolita civetteria da un roseo velo di cipria. Indossava elegantemente un vestito di piccolo velluto amaranto, col busto eguale, sul quale ripiegavasi a guisa di collare un ampio risvolto di pizzo di Fiandra. Al collo, unico ornamento, era un filare di perle, una delle quali grossa quasi come una nocciuola, spiccava in mezzo al color fulvo di quei famosi capelli, che formavano l'ambizione di Celestina.

I giorni d'invito erano per la giovane cameriera giorni di palpiti e di trepidazione. A Celestina la contessa rappresentava quanto di piú bello, di piú elegante, di piú ideale possa prendere la figura di una donna sulla terra; e se c'era pericolo che ella potesse soffrire in qualche confronto con altre signore, le precauzioni, le cure, le trepidazioni non avevano mai fine. La ragazza la faceva passare tutta, filo per filo, dalla punta delle scarpe alla punta dei capelli, e dopo averla aggiustata, ritoccata, adorata, l'accompagnava fin sull'uscio della sala, stando dietro il battente ad assaporare il trionfo, come se una parte di merito andasse a lei.

Questa volta la povera Celestina non aveva potuto accompagnare la sua signora. Una piccola e fiera battaglia era stata combattuta tra lor due nelle stanze superiori, dove miss Haynes, la vecchia istitutrice, era rimasta di guardia per impedire che la ragazza facesse uno sproposito. Donna Cristina, nella signorile acconciatura, sorridendo agli invitati, si sforzava di sostenere la conversazione colla consueta amabilità, provocando essa stessa i discorsi, perché nessuno avesse a leggerle negli occhi il suo affanno; ma se il corpo era in sala, il suo cuore era rimasto confitto di fuori. Essa avrebbe voluto persuadere Celestina a lasciare il Ronchetto quietamente, senza far scene, sotto un pretesto, che si trova sempre; e assumeva sulla sua responsabilità l'incarico di avvertirne Giacomo e di fargli parere questa partenza come una cosa naturale e provvisoria. La stessa di Breno si era offerta di ricevere la ragazza sotto la sua protezione, e, or sí or no, la poverina ne pareva persuasa. Ma quanto piú si avvicinava il fatale momento, non sapeva distaccarsi dalla contessa, che nella sua tremenda disgrazia rappresentava l'unica àncora di salvezza, l'ultima protezione, un testimonio della sua innocenza, un'amica, una mamma. Nelle mani degli altri essa sarebbe diventata di nessuno, o, quel che è peggio ancora, preda di tutti: e in questo timore, come se sentisse di camminare verso un precipizio, impeti di fiera ribellione succedevano a freddi propositi di rassegnazione, ripulse selvaggie a miti acconsentimenti, lagrime sfrenate a lunghi silenzi di morto stupore.

Piú d'una volta la contessa aveva dovuto trattenerla, stringerla nelle braccia, baciarla sugli occhi, bagnarle il viso di lagrime, supplicarla con parole umili e piccine, sussurrate nelle orecchie, perché non avesse a gridar cosí forte, a non richiamare l'attenzione della gente di casa; finché la Celestina, commossa da quel dolore non meno grande del suo, debellata da quelle parole, che si accordavano alle sue, rammollita da quelle lagrime, che si mescolavano alle sue, prometteva di esser savia e paziente, di lasciarsi condur via, di fare tutto quello che la signora contessa le avesse detto di fare.

Con una di queste promesse, strappata all'ultimo momento e ricompensata col dono d'un bel rosario di madreperla, donna Cristina era discesa in mezzo a questi suoi familiari, dopo aver soffocato con uno sforzo supremo della volontà le aspre inquietudini e le eccitazioni nervose sotto un amabile e ridente contegno, come aveva fatto sparire la traccia delle lagrime e delle notti mal dormite sotto il velo roseo della polvere profumata.

Questa straziante, necessaria, insolita energia di dissimulazione, la povera martire l'attingeva al pensiero che in essa era la salvezza della sua casa, come il capitano valoroso sa che dal suo contegno fermo e sicuro nel fitto della battagila può dipendere la sorte della giornata campale.

Insieme ai padroni e alla padroncina di casa sedevano, come s'è detto, intorno alla tavola il segretario Balsamino, il maestro della banda, don Iginio, pretino giovane e delicato, e le due zie di Buttinigo, sorelle di don Lorenzo, donna Adelasia e donna Gesumina, contesse Magnenzio, due dame attempate, non prive di barba, tonde e piccolette come due gomitoli, vestite tutte e due colla stessa severità quasi monacale di seta nera; ma si capiva dai molti anelli e dall'astuccio degli occhiali che si aveva a che fare con due dame e non con due monache.

Erano sempre vissute zitelle, non credo per avversione al santo matrimonio. Donna Adelasia aveva amato, sul tramonto della sua giovinezza, un uomo di quarantacinque anni, che la voleva sposare; ma il povero marchese Caccianino, proprio quindici giorni prima del fausto avvenimento, cadde da cavallo e restò sul colpo. Da allora la meno brutta delle Magnenzio, considerandosi come vedova, non fece che coltivare le meste memorie.

Donna Gesumina, anima di bambina in un corpo poco sviluppato, era invecchiata senz'accorgersi nella sua innocenza, vivendo un giorno dopo l'altro per quasi sessant'anni, di amaretti, di caramelle di gomma, di rosoli, di novene e di santi e pudibondi sgomenti per tutto ciò che leggeva sui giornali o che sentiva raccontare intorno agli oltraggi che si recano continuamente alla Chiesa e al cuore del Sommo Pontefice.

Vivevano sole in quel loro casone di Buttinigo, ma non rifuggivano dal mondo, al quale cercavano non mal volontieri gli argomenti di scandalo e le occasioni per deplorare la decadenza dei buoni costumi. Non insensibili al fasto e alle decorose tradizioni della famiglia, portavano a spasso l'antica nobiltà in un carrozzone foderato di stoffa color guscio di castagna, che aveva sulla portiera i due terribili draghi colle fauci aperte, una diavoleria araldica da far venire la tremarella alla Convenzione. A proposito di questa spaventosa impresa un canonico Ildefonso Magnenzio aveva scritta una dissertazione storica, pubblicata a Bergamo l'anno 1653, nella quale si tira in ballo perfino Berengario I, per dimostrare che Magnenzio deriva da magnar, corruzione di manducare, che in certi incontri storici può essere anche sinonimo di divorare. Comunque sia, quelle gran bocche aperte rappresentavano, per le due dame e per il Rebecchino, loro cocchiere e factotum, una gloriosa tradizione, alla quale era attaccato qualche milione di patrimonio, che sarebbe andato a cadere in bocca a don Giacinto, unico erede maschio di una prosapia quasi millenaria.

In quest'unico rampollo, com'è facile immaginare, le due vergini dame riponevano le loro femminili e aristocratiche compiacenze, amando in lui, non solo il passato illustre, che sarebbe rifiorito in lui, ma tutti i figliuoli, che esse non avevano potuto avere.

Il giovinotto era bello, bianco di carnagione, coi baffetti biondi, spigliato, spiritoso, amabile, non imminchionito nei libri come suo padre, sapeva essere a suo tempo e luogo ardito e prepotente; insomma le zie di Buttinigo vi trovavano tutti i sapori, lo sovvenivano di nascosto di denaro, lo compassionavano come una vittima di un sistema educativo irragionevole e, pur inchinandosi alle intenzioni di donna Cristina loro cognata, si permettevano di osservare sommessamente tra loro che i nobili non vengono al mondo per istudiare la filosofia e per incretinire sulle lapidi, come faceva il loro fratello antiquario. Giacinto capí presto, prima ancora di mettere un pelo di barba, che le due buone zie di Buttinigo eran da coltivare come due buone vigne. Con un tantino di ipocrisia, che in francese si dice savoir faire, coll'esagerare i suoi stessi sentimenti di buon credente, col fingere qualche straordinaria mortificazione in quaresima, col racconto ameno di tutte le storielle galanti che correvano negli aristocratici salotti, il ragazzo, a furia di soddisfarne gli istinti materni e la disoccupata curiosità, s'era fatto delle due zie due potenti alleate, sempre pronte a dargli ragione, a difenderlo contro le sofisticherie di mammà, a fornirgli sottomano i mezzi di pagarsi qualche scappuccio.

Né la contessa poteva da parte sua contraddirle sempre, e per un giusto riguardo a don Lorenzo, che sopra ogni cosa amava la pace e l'armonia, e anche per un riguardo ai due draghi e all'annesso patrimonio. Il giorno che, per isfuggire ai pedagoghi di mammà, il bel giovinotto si presentò alle zie nella chiara divisa di Piacenza cavalleria, cogli stivaloni alla scudiera, collo spadone al fianco, coi kolbach di pelo sulla sua bella testa di biondo Apollo, per poco le due zitelle non isvennero di consolazione. Lo fecero passeggiare in su e in giú per il salone, vollero sentire il tin tin degli sproni, sfoderarono esse stesse la terribile spada e gli regalarono subito cento lire ciascuna per le sigarette. A turbare la gioia di questo trionfo venne l'ordine del Ministero, che destinava il giovane soldato a Roma; ma, consultatesi con quel brav'uomo del prevosto di Trezzo, le due apostoliche zitelle cercarono di riparare l'offesa involontaria che un Magnenzio recava al cuore del Santo Padre, coll'incaricare lui stesso di versare cinquecento lire alla cassa dell'Obolo di san Pietro. Giacinto ritirò da un chierico una polizza per cinque lire, vi aggiunse di sua mano un paio di zeri, e giocò le altre quattrocentonovantacinque al faraone. Il diavolo, com'era dover suo, lo aiutò e lo fece vincere.

***

Don Lorenzo, da buon umanista, fece onore alla tavola, specialmente a un manicaretto di pasta frolla imbottito di tartufi, che Orazio non aveva potuto mettere in asclepiadei. Egli era in vena di celiare, e per il gusto che gli dava ogni bella compagnia, e per l'appetito, che per fortuna non guastava questa volta l'opera del cuoco. Giacinto gli aveva scritta ancora una cartolina, mica male, povero Ippofilo, tranne la smania di togliere l'acca alle voci dei verbo avere, che l'hanno sempre avuta.

- Son novità di quei signori toscani, che si possono compatire in un giovinotto; ma di questo passo non le pare, don Iginio, che si vada diritti all'anarchia ortografica?

Il pretino timido, che stava attento a non commettere errori di convenienza, si scosse, dètte una lavatina asciutta alle mani, le aperse come se celebrasse all'altare, e, facendosi rosso in viso, rispose:

- Sicuro, signor conte, l'acca ci vuole.

- Togli l'acca di qua, taglia di là la coda ai beneficj, a maleficj, al boja, leva un t a Cattolico e a Catterina, che è come levare una costola a una di queste signore... e poi che cosa resta dell'italiano di Dante, del Petrarca e del Boccaccio? che ne pensa il nostro egregio Balsamino a secretis...?

- Ecco, se mi permette, io le dirò, signor conte - rispose col solito rustico coraggio il segretario comunale, che non dubitava mai della forza delle sue arguzie d'uomo semplice: - Se permette, io per me preferisco il suo vin di barolo, signor conte... - e lanciata la bomba, rise molto, sperando che gli altri facessero lo stesso; ma un freddo silenzio gli fece capire che questa volta la bomba gli era scoppiata in mano.

Donna Adelasia, per aiutare il povero pretino, che pareva quasi asfissiato dalla suggezione e dalla presenza delle signore, volle sapere da lui che cosa fossero le quaranta proposizioni di Antonio Rosmini, che il Papa aveva riprovate e messe all'indice come ereticali. Il poverino, che, tutto occupato a confessare le donne, non aveva tempo di leggere, dopo aver lavate con tre o quattro fregatine nell'aria le sue piccole mani, se la cavò col dire:

- Vede, donna Adelasia? Il Rosmini è un panteista.

- Ho visto! - soggiunse col suo fare alquanto torbido la maggiore delle due zitelle; e volgendosi a Fabrizio, che si avanzava coi piatto, chiese collo stesso grado di curiosità:

- E questa che roba è?

- Questo è zampone di Modena, contessa - disse Fabrizio.

- C'è qualche altro, che pencola verso il panteismo - intonò il conte colla bocca fatta morbida da una soave pasta di patate, alzando un dito minaccioso verso Giacomo, che sedeva all'altro capo della tavola, tra la contessa e donna Enrichetta.

- Dice a me, conte? - domandò Giacomo, fingendo di non capire.

- Noi sappiamo leggere fra le righe, Giovannino!...

- Piano, piano: lei mi fa una terribile accusa davanti al Santo Uffizio - soggiunse Giacomo, ridendo e accennando coll'occhio a don Iginio.

- Zitto là, sor filosofo: bene intendenti pauca. Solamente guardate quel che fate, signori idealisti - aggiunse don Lorenzo coi pomelli accesi, alzando il tono della canzone; poi, tenendo sollevato sulla forchetta un boccone di quel ghiotto zampone di Modena, che aspetta ancora il suo poeta, continuò: - Guardate, giovanotti, che a furia di scassinare i principj, non vi manchi la terra sotto i piedi. I tempi son grossi di arie cattive e una cattiva filosofia è sempre la staffetta d'una cattiva repubblica, L'abbiam visto in Francia ai tempi della Rivoluzione, quando sul posto d'ogni altare abbattuto il buon popolo innalzò una ghigliottina. Che ne pensa la mia dilettissima consorte, che oggi mi par piú malinconica del solito, quantunque ciò non guasti la sua casta bellezza?

La contessa si scosse da' suoi pensieri e si sforzò di sorridere; poi, volendo mostrare che prendeva parte ai discorsi dei convitati, chiese al maestro della banda qualche notizia su un certo contrasto nato tra la fabbriceria e il Consiglio comunale... a proposito d'un funerale.

- La signora contessa sa che la nostra banda non ha opinioni politiche - disse il maestro, un ex-tromba dell'esercito, a cui faceva bene il vino di Piemonte. - La musica è un'arte, e l'arte dev'essere superiore alle opinioni. Si trattava d'un reduce garibaldino, e io domando se si poteva rifiutare di sonar l’inno di Garibaldi.

- L'inno di Garibaldi in luogo sacro... - entrò a dire il conte simulando un santissimo orrore per un cosí grosso sacrilegio. - Che ne dice, don Iginio?

- Ecco... - provò a dire il pretino, facendosi rosso per lo sforzo - poiché Sua Eminenza il nostro vescovo ha proibito ai parroci...

- Che cosa ha proibito? - gridò il maestro, che in questa benedetta questione degli inni patriottici s'era piú volte asciugata la gola. - Con qual diritto può proibire un vescovo la manifestazione d'un sentimento patriottico?

- Fin che durerà questo dissidio... - s'arrischiò d'aggiungere il pretino, sostenuto dalla coscienza del suo dovere.

- Ma mi faccia il piacere, don Iginio! - strepitò il maestro, con gusto infinito del conte che si divertiva ad aizzarli l'un contro l'altro parendogli di assistere all'epilogo dell'antica lotta delle Investiture. - Se lei avesse visto il fuoco come l'abbiam visto noi a San Martino, a Palestro, a Custoza, saprebbe che certi sentimenti non si smorzano nemmeno con l'acqua santa...

- Questa è buona, Giovannino!. - approvò il conte, picchiando sulla tavola il calice del suo vin bianco dolce; e, strizzando gli occhietti verso Giacomo, stava per citare un verso di Orazio quando, sul caldo frastuono della discussione dei piatti e delle posate, risonò un grido acuto e spaventato, che parve un grido di donna, a cui tenne dietro un forte sbattere di usci e un correre confuso di gente.

- Che cosa c'è? misericordia! correte a vedere. Chi si è fatto male? - confusamente esclamarono i convitati.

- Sapete che questi spaventi mi fan male, benedetto Iddio... - balbettò il conte, che rimase lí colla forchetta in aria e col boccone infilzato.

La contessa era subito scomparsa, ma rientrava poco dopo con Fabrizio a dire che non c'era nulla di grave. La donna di guardaroba era caduta sulla scala con una catinella in mano, ma tutto era finito con molto spavento, e col danno della stoviglia.

- Meno male, ma, santo Iddio, state attenti a non procurarmi di questi spaventi, che guastano la digestione. Sapete che son mezzo malato e il cuore mi salta per niente. Par sempre la casa del diavolo. Un po' di riguardo, per bacco! Mi versi un altro dito di vino, maestro. Bevete tutti, fatemi coraggio.

Tutti bevettero, per obbedienza, alla salute del signor conte e alla felicità di donna Enrichetta.

Donna Cristina, che, durante il pranzo, era stata continuamente col cuore sollevato, al primo grido di quella disgraziata era scattata in piedi, in preda a una violenza nervosa, era corsa di fuori, e giunse appena in tempo ad arrestare sul pianerottolo Celestina, che mezzo svestita, coi capelli in disordine sciolti sulle spalle, colla faccia stravolta, si dibatteva nelle braccia di miss Haynes.

La contessa, col tono severo e autorevole che sapeva prendere quando il caso richiedeva, l'afferrò per un braccio, la trasse con sé per il corridoio buio della foresteria, la chiuse nella sua stanzetta, dove Celestina s'inginocchiò:

- No, contessa, mi perdoni, - pregava - sarò buona. Mi pareva che volesse pigliarmi.

- Chi? chi ti perseguita?

- Il diavolo.

- Tu non mi vuoi piú bene.

- Le voglio bene, signora. Lei è la mia mamma. Ma c'è proprio un diavolo che mi tormenta.

- Sei malata, capisci? Senti come abbrucia questa povera testa. Torna a letto. Non sai che ci farai morire, se non obbedisci?

- Giacomo è qui. Lasci che gli dica tutto.

- Tu non gli dirai nulla, perché io non lo permetterò. Guarda che so essere anche cattiva. Ti farò chiudere in una stanza... Vieni, invochiamo insieme la Madonna dei dolori...

Celestina, passata la crisi, dette in un pianto dirotto, si lasciò collocare sul letto e promise di essere savia e obbediente. La contessa chiuse l'uscio a chiave e lasciò miss Haynes in sentinella. Tutto questo accadde nel minor tempo che occorre per raccontarlo, in una specie di furiosa scaramuccia, a cui le due infelici creature andavano da qualche tempo abituandosi. La contessa, non solo si meravigliava di saper vincere e domare la sua vittima, ma una meraviglia piú alta sorgeva nell'animo suo alla prova della sua forza, che mai avrebbe immaginato di possederne tanta; una forza morale e nervosa, che sapeva ardire e nascondersi, che, oltre a insegnarle le astuzie del vincere e del resistere, le manteneva sul viso quasi una maschera sorridente. E non eravamo che alle prime scaramuccie d'una tremenda battaglia! Sarebbe bastata questa forza il giorno che avesse dovuto affrontare il grosso del nemico? non vedeva né il quando, né il dove questa battaglia si sarebbe combattuta; ma, se si raccoglieva un istante, le pareva di sentire non molto lontano un muggito d'una moltitudine di mali selvaggi, non mai immaginati, davanti ai quali il morire, il morir subito, le compariva una liberazione.


XI

ANCHE I BUONI SONO FURBI


In una lettera, scritta verso gli ultimi di settembre, Giacomo mi discorreva ancora delle sue idee e delle sue speranze per l'avvenire:

«Non ho osato respingere il beneficio, che mi offrirono questi miei vecchi benefattori - scriveva - e non me ne pento. Intanto chi procura all'amico l'occasione di essere utile gli procura uno dei piú delicati piaceri, e io sento che il saper ben accogliere un beneficio è un riconoscere nel miglior modo che la bontà esiste nel mondo. Ma, lasciando queste sottigliezze che farebbero ridere, se le dicessi, l'oste della Fraschetta, è certo che io ho potuto ottenere una moratoria (dico giusto), placare i creditori piú feroci, destar della fiducia in questo signore della Rivalta, che si è offerto di mettere un puntello sotto il tetto di questa povera casa crollante. Il povero pà dormirà meno male sotto la terra. Sento che questa è la strada del dovere e procuro di batterla senza discussioni. La necessità ha questo di buono, che non lascia tempo alle esitanze: o correre o cadere. Questo signor Mangano della Rivalta di cui ti parlo, e che io considero come la causa principale della nostra rovina, è venuto a trovarmi con un viso umile e compunto, s'è sprofondato in inchini e in giustificazioni, sforzandosi di dimostrarmi che non aveva nessuna colpa nel disastro, che a mio padre voleva un gran bene, che di me ha una stima immensa, che soltanto le tristi circostanze hanno potuto congiurare contro un galantuomo; e, per provarmi che la sua non è un'amicizia di sole parole, mi offrí di ritirare lui tutti i crediti che gli altri possano vantare verso di noi, e di unire le sue forze alle nostre per continuare nell'azienda delle Fornaci, che, a parer suo, potrebbero avere un grande avvenire, quando si rinnovassero i metodi di produzione e ci fosse una buona testa direttiva.

«Che l'ex-impresario abbia a cercare anche questa volta il suo vantaggio, è chiaro come il sole; ma, nel suo vantaggio, non si può negare che non vi sia un utile e una sicurezza anche per noi. I miei fratelli, se va quest'accordo, metterebbero le braccia, e l'ometto della Rivalta il grande ingegno che Dio gli ha dato per far quattrini. La casa resterebbe cosí assicurata a queste povere donne, che, alla sola idea di andar raminghe per il mondo (e dove si andrebbe?), si lascierebbero morire di spavento. Questo signor Mangano trova che io non manco d'un certo bernoccolo per gli affari, e da una settimana in qua mi ronza intorno, perché persuada la contessa a cedergli un certo campo e una cascina, detta la Colombera, in corrispondenza di alcune cambialette di don Giacinto cadute nelle sue mani. È un tasto doloroso che dovrò toccare alla contessa: ma non è la prima e non sarà l'ultima volta. Ed eccoti, caro trapezio, come un filosofo idealista, quasi trascendentale, può trasformarsi, senza ch'egli se ne accorga, in un mediatore di affari e in un fabbricatore di tegole. Ovidio non ha prevista questa metamorfosi». E finiva la lettera con questa notizia: «Celestina è stata poco bene in questi giorni con una piccola minaccia di tifo, che pare scongiurata. Essa ha trovato nella contessa una madre amorosa, che me la farà guarire».

Giacomo era tanto lontano dall'immaginare il terribile disastro della sua vita e dal supporre nella gente oscure intenzioni che non esitò a trattare direttamente per incarico della contessa questa faccenduola delle cambiali di don Giacinto, recandosi egli stesso una bella mattina di ottobre a far visita al signorotto della Rivalta.

L'edificio, che portava il nome di Rivalta, avrebbe quasi potuto aspirare all'onore di palazzo, se non fosse stato il deplorevole abbandono, in cui da cinquant'anni in qua lo avevano lasciato i molti e cattivi padroni, che se l'erano barattato. Di fuori conservava ancora le traccie e la fisionomia dello stile pesante del seicento per il suo portone a grossi dadi di pietra, sovraccaricato da un enorme mascherotto di sasso, e per due vecchie colonnette mal sagomate messe davanti, che reggevano ancora qualche rugginoso pezzo di catena; ma l'erba cresceva tra i ciottoli del grossolano selciato, spuntava dalle screpolature delle sconnesse cornici, le gelosie si sgretolavano nei loro vecchi telai, dopo aver lasciata l'ultima vernice come una allumacatura lungo le pareti delle muraglie, e le macchie s'incontravano, scendendo, coll'umidità che saliva dalla corte, come sparse ombre di desolati fantasmi. Il caseggiato signorile, dopo aver servito per alcuni anni ad uso di filatoio, era caduto, in conseguenza d'un fallimento, nelle mani rapaci di questo signor Ignazio, un ex-impresario teatrale, intraprenditore di affari indecisi, sovventore riconosciuto di denaro al prossimo, che tra le molte trappole aveva piantata qui la famosa sega a vapore. La sega non lavorava piú per mancanza, diremo cosí, di combustibile; ma il sottile affarista lavorava sempre anche al buio, stendendo i suoi fili invisibili per un circuito di venti o trenta miglia a tutti gl'ingenui, a tutti i discoli, a tutti gli allucinati, a tutti i credenti e miscredenti della fortuna.

Mauro Lanzavecchia era stato uno degli ingenui. Siccome questo signor Ignazio, ricco ormai del suo, era oggi molto meno bisognoso di far affari, aveva sugli altri suoi pari il vantaggio di poter aspettare le buone occasioni, le quali non si maritano che agli uomini pazienti. E ciò spiega come molti buoni figliuoli di famiglie oneste lo preferissero agli altri esosi speculatori di mestiere, che non mirano che a guadagnar presto. Don Giacinto l'aveva, per esempio, sempre trovato un uomo ragionevole, e in certe occasioni quasi generoso. La stessa educazione dell'uomo, che aveva molto viaggiato e trattata la compagnia variopinta degli artisti, oltre a dargli il tratto civile e corretto, non gli permetteva di mostrarsi sordidamente avido e taccagno, come si mostrano gli strozzini di seconda qualità. Dacché cominciava a invecchiare e a schiudere la mente, come soleva dire, ai casti pensieri della tomba, il suo primo pensiero non era tanto di far quattrino da quattrino, quanto di collocare onestamente la sua Norma a una persona onesta, che facesse onore al suo denaro. Un galantuomo è anche lui un buon capitale nel mondo, quando sia ben impiegato; e nessuno sa meglio apprezzare la rendita che fruttano le modeste virtú di un uomo onesto, quanto colui che si è trovato qualche volta nelle condizioni di non poter esserlo. Questo pensiero non era estraneo al desiderio, che lo spingeva ad accostarsi al giovine Lanzavecchia, a mostrarglisi ragionevole, docile, transigente, migliore della sua fama, disposto ad accogliere una buona proposta, a rendere un buon servizio, a riparare, se pareva necessario, un torto o una ingiustizia, a rimetterci del suo, piuttosto che passare agli occhi del sor Giacomo come un aguzzino bramoso del sangue altrui. E in questo suo desiderio era tanto piú lodevole in quanto che, a sentirlo, avrebbe potuto maritare la sua Norma a fior di banchieri ricchi sfondati e, se avesse voluto, farne una contessa o una marchesa. Duecento mila lire pronte e il resto a babbo morto, col tempo che fa, possono indorare le vecchie corone, che, senza lo splendore del metallo, nessuno le vuole piú nemmeno per insegna d'osteria. Invece, se Giacomo Lanzavecchia si fosse fatto avanti col fallimento in una mano e il suo diploma nell'altra, l'amoroso padre l'avrebbe preferito a un principe, non una volta, ma quante volte il carattere, l'intelligenza, il sapere, il nome superano i titoli oziosi.

Giacomo andò alla Rivalta col denaro e coll'autorizzazione di ritirare le cambiali, che don Giacinto aveva rilasciate a favore di alcuni suoi compagni di studio. Dal piazzaletto della vecchia villa si dominava un gran tratto della valle e del corso dell'Adda. Il Ronchetto col suo fastoso palazzo biancheggiava nel verde folto del giardino; piú sotto era il Santuario; e piú in basso ancora le Fornaci, con due vecchi camini lunghi e affumicati, colla vecchia casa dal tetto bistorto, dai pioventi cascanti anneriti dal tempo, coi riquadri dei mattoni rossi, che spiccavano sugli spazi giallognoli esposti al sole dove gli operai lavorano a modellare la terra nelle forme, all'ombra di un graticcio di foglie secche. Dall'alto si poteva scorgere anche un tratto del muricciuolo, che chiude il camposanto.

Giacomo si soffermò un istante a riassumere, con un'occhiata pensosa, la storia della sua povera casa, e provò un senso quasi d'orgoglio davanti alla riflessione che la filosofia, usata bene, può servire a qualche cosa. Se i creditori non erano piombati come uno stormo di avvoltoi sulla sua casa, se i suoi fratelli avevano lavoro e sua madre un letto e un boccone di pane, il merito stavolta era stato dei mangialibri. La stima lungamente coltivata aveva fruttato il credito; e il credito aveva disarmata l'avarizia. «Anche i buoni son furbi» - finí col conchiudere in cuor suo, mentre coll'occhio andava a cercare tra le sessanta finestre di casa Magnenzio una certa finestra verso ponente, a cui soleva mandare le sue giaculatorie. Era la stanza di Celestina. La trovò, l'ultima sopra le serre, vi si fermò un istante, e, ricordando che «Frulin» era malata, un senso di oscura tristezza passò come una nuvola nell'animo suo. Un grande abbaiamento di cani lo fece uscire dai suoi pensieri. Si mosse e andò a battere al portone chiuso.

Al rimbombo, che rispose di dentro, si raddoppiò lo sguaiato abbaiamento, in mezzo a cui risonò la voce poco armoniosa d'una donna, che sgridava le bestie, inviandole all'inferno.

Il catenaccio interno cigolò un pezzo negli anelli, si aprí uno sportello, e comparve la figura poco pulita d'una vecchia serva, che, colle maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, dava maledizioni con un padellino a quattro o cinque botoli grassi, ringhiosi che si avanzavano.

- È lei, sor Giacomo? venga avanti.

- C'è il signor Ignazio? - domandò Giacomo alla donna, nella quale riconobbe una certa Serafina, che aveva servito molto tempo in palazzo. Si voleva che l'avessero mandata via per poca fedeltà. Sui passi della donna, attraversò una corte d'apparenza signorile, ma forse d'aria ancor più umida e tetra che non fosse di fuori.

- Sora Norma - chiamò la serva.

Una bella voce di contralto rispose con un gorgheggio:

- Chi mi chiama?

Ed ecco subito dopo comparire sull'uscio della sala una florida ragazza, dal portamento soldatesco, coi capelli scomposti sopra un giubboncello rosso fiammante ornato di alamari d'oro come una divisa ungherese, che si teneva in braccio una cagnolina appena nata, colla tenerezza con cui si porterebbe una bimba a battezzare. Gli occhi grandi e neri come quelli delle famose odalische ebbero un lampo di gioia. Tirandosi accosto l'uscio, senza però nascondere la bella e arruffata testa di zingara, la signorina Norma si scusò di non essere presentabile, e pregò il signor Lanzavecchia di passare nello studio di papà.

Il signor Ignazio, con indosso una vestaglia da camera a fiorami rossi su fondo giallo, con un berretto da cavallerizzo in una mano, stese l'altra mano al caro visitatore, si sprofondò in cerimonie, che avevano un non so che di frettoloso e di agitato, e, chiesto perdono per il gran disordine, fece sedere Giacomo in uno stanzino pieno di vecchi mobili, di quadri, di suppellettili preziose, che gli davano l'aspetto d'una bottega di rigattiere.

L'ex-impresario, magro, secco, nervoso, col viso volpino di certi uomini d'affari, si mostrò d'una cortesia infinita, profondendosi in complimenti, che il suo accento triestino rendeva ancora piú morbidi. Quando Giacomo fece l'atto di levare il portafogli di tasca, non volle assolutamente né ricevere, né vedere il denaro:

- Dica alla signora contessa che non intendo far speculazioni sulla inesperienza di un giovinotto allegro. Don Giacinto ha firmato per gli altri, ed è giusto che gli usi qualche riguardo; io sono pronto a rinnovare questi piccoli effetti, che possono valere molto meno di quel che dicono. Spero invece che la signora contessa vorrà accontentare quel mio modesto desiderio che lei sa, caro signor Giacomo, e vorrà cedermi quel pezzo di campo della Colombera a cui faccio la corte da un pezzo. Questa Rivalta è un cimitero, come vede, e il mio sogno è di finire i miei giorni al sole. Lei deve assolutamente aiutarmi in questa faccenda.

- Casa Magnenzio non usa a vendere e non so come potrò persuadere la contessa...

- Lei può molto, ora, lo sappiamo; e sappiamo anche che può chiedere quel che vuole a quei signori.

- Sono un magro mediatore - tornò a dire il buon uomo.

- Lei è piú filosofo di tutti, mi lasci dire, e noi dobbiamo fare della strada insieme. Ora le presenterò mia figlia... - E, dirizzandosi coi suo passetto scivolante verso l'uscio, chiamò due o tre volte: - Norma, vieni un po’ qua. - E poi gridò verso la cucina: - Porta il caffè, Serafina... - E poiché Norma si faceva alquanto aspettare, egli tornò a sedersi davanti al giovine, pose confidenzialmente le mani ossute e lunghe sui ginocchi di lui, e, dopo aver battuto tre o quattro colpetti confidenziali, passò la mano sul filo di due baffetti sottili, tinti e tirati aguzzi come punteruoli: - Che piacere che provo, caro professore, di stringere con lei un po' d'amicizia. Io non sono né un letterato, né un protettore di letterati, ma so giudicare gli uomini e li peso per il loro valore. Lei è un uomo, che andrà molto avanti, e per la strada maestra. Noi poveri affaristi, che siamo costretti a rimestare negli stracci, non sempre le mani vanno dove si vorrebbe. La scienza invece è una cosa astratta e pulita; non solo, ma la scienza oggi è la sola e genuina aristocrazia possibile di fronte a questi contini e marchesini, che non valgono piú della porcellana rotta. Il mondo, oggi, è di chi pensa e di chi lavora. Vieni, Norma - disse, alzandosi di nuovo, andando incontro alla figlia, che entrava col vassoio del caffè. - Conosci il professor Lanzavecchia? è un filosofo, che è stato anche garibaldino. La penna e la spada, ecco uno stemma che mi piace.

Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè, ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello.

- Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchi - esclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza nelle dita la gota rubiconda della ragazza - e, siccome non ho che lei al mondo, posso dire che questa è la mia vita. Essa è nata in America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa? Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i palcoscenici colle gonnelle.

- Sposerò un principe russo - uscí a dire la bella creatura con tono lieto e scioccherello.

- Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma.

Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo, sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele, con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi, alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire:

- Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa desidera che il conte non ne sappia nulla...

- So rispettare tutte le delicatezze - disse il padrone di casa con un fare umile umile. - Io spero che il signor Giacomo vorrà favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di là una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore...

E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia.

Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.


XII

LE DUE DAME DI BUTTINIGO


Da Caserta intanto seguitavano ad arrivare lettere afflitte e commoventi di Giacinto a mammà, nelle quali il giovane non cessava dal confessarsi colpevole, pentito, spaventato, inorridito della sua cattiva azione, in ansia continua, in preda ai piú acerbi rimorsi; egli sperava sempre che la buona mammà avrebbe saputo trovare qualche onesta riparazione, che lo salvasse dal rendere i conti e da uno scandalo. Se mammà lo trovava questo rimedio, egli prometteva di metter giudizio davvero, di non toccar piú una carta, di non veder piú un bicchiere, di lasciare le cattive compagnie, di abbandonare anche la carriera militare, se era necessario, per darsi tutto a una vita di raccoglimento e di studio. E finí col suggerire il nome delle buone zie di Buttinigo, che piú di tutti dovevano sentir compassione di lui, e che avrebbero saputo procurargli i mezzi di spegnere il fuoco, prima che appiccasse l'incendio alla casa.

Le buone risposte si facevano invece molto aspettare. La contessa esitava a mettere altre persone a parte di un segreto, che già si conosceva da troppi. Oltre a miss Haynes e a Fabrizio, dei quali non avrebbe potuto far senza, essa aveva già dovuto parlarne a Fulvia di Breno e lasciare che questa ne parlasse a suo marito. Per un segreto, che essa avrebbe voluto seppellire cento braccia sotto la terra, eran già troppo quattro persone condannate a tacere. Dal parlarne alle pie cognate di Buttinigo la tratteneva, oltre al naturale sentimento di confusione e di rispetto, un piú amaro risentimento verso sé stessa, sto per dire, un senso di orgoglio e di dispetto, quasi sdegnasse della sua sventura, non solo il rimprovero, ma la stessa compassione di quelle illustri ragazzone. Donna Adelasia e donna Gesumina, che avevano sempre biasimato il sistema rigido e autoritario con cui la loro nobile cognata credeva di ben educare un discendente di casa Magnenzio, non avrebbero saputo, non dico rallegrarsi, che proprio non era del caso, ma trattenersi dal vantarsi d'aver avuto ragione. Il risultato parlava chiaro. Il latino, il greco, il tedesco, l'inglese, la storia e la geografia e tutta la quintessenza del sapere voluta introdurre per forza in un corpo vivo, come si schiacciano i volumi in uno scaffale stretto, non avevano impedito che Giacinto scivolasse sulla prima buccia di cocomero. Per una madre, che si teneva in continue corrispondenze pedagogiche col canonico Ostinelli, da una parte, e col signor Lanzavecchia, dall'altra, e che consultava perfin dei libri inglesi, via, il risultato non poteva essere piú desolante. Donna Cristina, piú di ogni cosa al mondo, temeva le grandi ragioni delle anime piccine; e nella sua superiorità morale le temeva senza aver la forza di disprezzarle. Avrebbe potuto alla sua volta rimproverare le pie dame di aver voluto con arti e seduzioni segrete togliere autorità e rispetto all'opera educativa della madre; ma che le giovava ormai il discutere sopra le ragioni e sopra le responsabilità? il castigo c'era, e grande e terribile per tutti.

Quando Giacinto seppe che donna Fulvia di Breno era interessata a fargli del bene, le scrisse una lunga lettera piena di suppliche e di tenerezze. L'antica amicizia, che legava donna Fulvia a mammà, aveva abituato il giovine conte a considerare la di Breno come una persona della famiglia, alla quale si possono fare le confidenze, che a una madre e a una sorella non si fanno: la chiamava, per vezzo, la zietta, e si voleva che avesse avuto per lei una poetica scalmana negli anni della prima fioritura giovanile, quando gli occhi del ragazzo cercano nella donna un'esperienza matura e non barcollante.

«Dica a mammà» le scriveva «che è interesse suo e interesse di tutto il casato di non dare a questo fatto, fin troppo naturale, un'importanza maggiore di quella che ha. Dal momento che non posso sposarla, una cameriera, tanto fa che mi risparmi le noie d'un processo e dei possibili ricatti. Se non bastano quattro, dia otto, dia dieci, paghi fin dove è necessario, e mi salvi dalle scomuniche dello zio monsignore, pel quale io non sono già in troppo odore di santità. Se tarda troppo, ci sarà chi avrà tutto l'interesse a speculare su questo momento d'oblio, e ne uscirà uno chiarivari da teatro diurno. C'è a Bergamo un giornalucolo radico-massonico tre volte fallito, che mi darebbe volentieri in pasto alle belve per rifarsi d'una certa disdetta, che gli ho inflitta l'anno scorso, quando ci fui di guarnigione un mese. Si figuri con che gusto questi va-nu-pieds piglian le occasioni per far guerra al nobilume e al clericalume! Quindi piú presto si taglia, piú presto si provvede anche alla gloria di Dio. Dica e ripeta a mammà che, se mi tirano in una seccatura, se mi obbligano, puta caso, come dice il canonico Ostinelli, a lasciare il servizio, vado in Africa e non mi lascio piú vedere, come un esploratore qualunque».

Donna Fulvia rispondeva, sempre in nome di mammà, che lo scoglio pericoloso era la paura di un certo cugino, che vantava dei diritti sulla ragazza. E Giacinto, di rimando:

«Credo di ricordarmi questo cugino, e, se la memoria non m'inganna, non mi pare uomo da amare gli scandali. Non so fin dove si possa arrivare con lui, perché da un pezzo l'ho perduto di vista; ma, se il signor Lanzavecchia è ancora quel buon figliuolo che mangiava i miei pasticci ai tempi della nonna, non può essere né un mangiapreti, né un fanatico divoratore di aristocratici. Non ha egli studiato coi frutti d'un nostro beneficio ecclesiastico? non ha rosicchiato per molti anni il nostro pane? Se è vero che vuol bene alla ragazza che gusto deve avere di metterla in piazza? dica di me quel che mi merito; non sarei lontano dall'offrirgli delle scuse e anche delle soddisfazioni; si badi soltanto a non fare di lui un terribile alleato dei nostri nemici. Insomma, levatemi da queste angustie, che mi fanno patire le pene dell'inferno. In certi momenti mi prende una tale disperazione e un tale orrore di me che, se non fosse la fede del soprannaturale, mi farei saltare le cervella con un colpo di pistola».

Eran queste frasaccie, che non lasciavano dormire mammà. Nei San Zeno non era sconosciuta questa tendenza a esaltarsi e a ricorrere a rimedi disperati. Essa per la prima si risentiva di questa disposizione di razza in certi momenti, in cui le pareva che il sangue le facesse scoppiare la testa, che il cuore le saltasse fuori dal petto, che la terra le mancasse sotto ai piedi, che cento fantasmi la inseguissero. La sua stessa incapacità a scegliere un piano di battaglia era forse un'altra prova di un temperamento che si lasciava eccitare troppo presto e si logorava in dolorose incertezze. Ogni rumore era diventato per lei una cagione di sgomento, talché bastava che vedesse spuntare dal viale il Camillo della posta colla sacca delle lettere, per provare un tuffo del sangue, un angustioso rammollimento del suo povero cuore.

Finalmente una mattina (verso la metà di ottobre), parendole che ogni risoluzione fosse migliore di quell'atroce agonia, ordinò la carrozza e andò a trovare le due sante di Buttinigo.

Era una giornata piovigginosa con sparso nell'aria un primo brivido invernale.

Infossata nell'angolo della carrozza, cogli occhi fissi al finestrino, passò in mezzo alle case, davanti alle siepi, lungo i filari dei gelsi, all'orlo delle vaste e brune campagne già umide di guazza, senza veder nulla, tranne il suo dolore, che, come spina velenosa, trafiggeva la sua vita.

Dopo quasi un'ora e mezzo di viaggio per le strade malinconiche e fangose, che correvano verso la pianura, la carrozza voltò nel lungo viale di robinie, che mena alla villa delle due contesse.

Queste abitavano nell'antichissima casa, che le aveva viste nascere e che probabilmente, se Dio teneva conto dei loro meriti, le avrebbe viste morire. In quel loro palazzone senza architettura, dai muri lividi, dalle cento persiane chiuse, color brodo, passavano le loro giornate d'estate e d'inverno in una beata agiatezza, rallegrando la vita con modeste opere di beneficenza, coi pettegolezzi del villaggio e delle anticamere, col tarocco e colle tazze di camomilla.

Vestivano sempre in modo eguale come due mosche, con antica eleganza e con quel decoro che non escludeva i pizzi, gli anelli, i braccialetti, e, nelle giornate calde, perfino un po' di trasparenza, che lasciava vedere la carnagione bianca e ben conservata delle loro braccia e delle spalle rotondette. Per diritto di patronato esercitavano una tal quale supremazia sulle quattro monache dette della Noce, che un Magnenzio dei secolo XVII aveva dotate coll'obbligo di soccorrere dieci orfanelle. Queste pie religiose, che, dopo il Signore e la Madonna e i Santi, veneravano donna Adelasia e donna Gesumina quasi come il Papa, sentivano l'obbligo di coscienza di tenerle regolarmente informate, non solo di tutte le indulgenze che vanno attaccate alle vigilie, ai tridui e alle novene, ma anche del bene e del male che si diceva di tutti i preti per un circuito di dieci miglia all’intorno. L’arca santa, cioè il carrozzone foderato di stoffa color castagna colle frangie bianche, dondolante sulle ampie molle, coi passamani guarniti di fiocchi, coi terribili draghi azzuffantisi sulle portiere, usciva ab ímmemorabili due volte per settimana, tempo permettendo, ogni martedí e ogni sabato, affidato alla prudenza di Rebecchino, invecchiato anche lui come una castagna secca nella livrea, che gli faceva un guscio troppo largo. Al martedí uscivano dalla parte del bosco, facevano una piccola sosta alla Madonnina, dove scendevano a salutare Maria Santissima, comperavano dodici biscotti freschi alla bottega del Caminada, e col trotto sempre uguale dei due pesanti cavalli ritornavano a casa dalla parte del molino. Al sabato la carrozza usciva dalla parte del molino e allora i biscotti li comperavano prima di salutare Maria Santissima.

Donna Gesumina, nella sua vecchia innocenza molto ben conservata, riconosceva volentieri nella sorella maggiore, che era stata fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, l'autorità d'interloquire in molte cose delicate, che sfuggono all'inesperienza d'una zitella; e per parte sua, donna Adelasia, mentre si sentiva lusingata da questa affezione rispettosa e sottomessa, parlando della vecchia ragazza, usava un tono di dolce compatimento, come si fa coi bimbi che hanno bisogno di protezione. Quantunque facessero la vita in comune, si alzassero alla stessa ora, bevessero e mangiassero insieme nello stesso salotto e discutessero insieme col Rebecchino su quel che si aveva a preparare in occasione degli inviti straordinari, pure era tale la deferenza di donna Gesumina per donna Adelasia che, senza accorgersi, vedeva, pensava e parlava colla volontà della sorella; fin al punto che, se questa sentivasi la bocca amara o una trafitta in una gamba, pareva anche a lei d'aver la bocca amara e la gamba indolenzita. Questa fusione di due anime e di due corpi, consolidata da cinquant'anni di vita comune, era diventata cosí intima e omogenea che le due vite non facevano piú che un metallo solo, il quale, toccato, dava un suono solo, perché le vibrazioni dell'una non potevano essere che le vibrazioni dell'altra. Non era possibile, per esempio, che una cioccolata avesse fatto peso all'una e non all'altra; o che l'una sentisse il bisogno di prendere due dita di magnesia calcinata, senza che questo bisogno non ci fosse anche dall'altra parte. Se non oggi, avrebbe fatto bene domani.

Le due signore stavano nel gran salone a pian terreno verso la corte, che serve di galleria ai ritratti degli illustri antenati, dove passavano gran parte delle loro tranquille giornate. Donna Gesumina, per rompere la tetraggine del tempo, ripeteva sul pianoforte le vecchie variazioni sul «Carnevale di Venezia», ch'era stato il suo piccolo trionfo all'Accademia finale nel Collegio delle dame inglesi, la bellezza di quarant'anni fa; quando donna Adelasia che ricamava a un telaio presso la vetriata, sorse improvvisamente a dire:

- Guarda un po', Gesumina, chi arriva con questo tempo.

La carrozza di donna Cristina entrava in quel momento nel cortile sotto una pioggia fitta.

Le due dame, che non aspettavano anima viva in un giorno come quello, quando ebbero riconosciuto nella signora elegante, che discendeva, la bella figura della loro cognata, mandarono una esclamazione sola:

- Che cosa può essere accaduto?

E ancora piú si sgomentarono quando, dal passo incerto, dal pallore, dall'affanno con cui la contessa entrò in sala, capirono che qualche cosa di grosso era nell'aria.

- Donna Cristina, con questo tempo? non è mica successa una disgrazia...

Donna Adelasia invitò la parente a prendere posto nell'angolo a destra, dove essa soleva ricevere il lunedí e il mercoledí. Donna Gesumina riceveva ogni giovedí nell'angolo a sinistra. Le piccole differenze d'opinione e di metodo potevano far nascere delle diffidenze, ma scomparivano nel gran rispetto che le due dame avevano per la virtú di donna Cristina di San Zeno, nipote d'un vescovo, una delle piú specchiate signore della buona nobiltà; e quand'anche maggiori e piú crude fossero state le loro diffidenze, sarebbero scomparse allo stesso modo nel cerimoniale largo e ospitale, con cui le vecchie dame continuavano le tradizioni della casa con quel bel decoro che va cedendo il posto, pur troppo, a un borghesismo senza elevatezza e quasi senza dignità.

Le tre signore, dopo aver ben osservato che le porte fossero chiuse, rimasero una mezz'ora in vivo e segreto colloquio. Quando la contessa ebbe esposto il caso, che l'aveva condotta a Buttinigo, con quella delicatezza di parole che il rispetto a sé stessa e alla religione delle parenti esigeva, tornò a piangere cosí amaramente da far temere una crisi di nervi. Donna Adelasia afferrò subito la gravità della disgrazia e sospirò una breve orazione; e, dopo aver congiunte le mani due o tre volte in atto di scongiuro, vedendo che la contessa era in procinto di perdere le forze, si mosse, levò colle mani tremanti da uno stipo intarsiato la boccetta dell'acqua di cedro, ne riempí tre bicchierini di cristallo, e insistette perché ne bevesse anche la Gesumina.

- O Madonna beata, e ci sarebbe forse già il carro davanti ai buoi? - chiese la maggiore delle due sorelle.

Donna Gesumina, che nella sua semplicità di spirito non poteva entrare in tutta la gravità di questi buoi e di questo carro, volendo con una frase interrompere quel pianto nervoso, che le straziava il cuore, provò a dire:

- Non si potrebbe intanto far fare una bella novena alla Madonna?

- Taci, taci - rimproverò con fare tra il burbero e il compassionevole la sorella maggiore, accompagnando le parole con un gesto che pareva dire:

- Ci vuol altro che novene adesso!

Gesumina capí che non era il suo posto, e si ritirò in disparte per permettere alle due dame di parlar piú liberamente.

- Se Giacinto fosse un servitore - riprese donna Adelasia, interpretando il lungo silenzio della contessa come una confessione - se fosse il figlio d'un fattore, o che so io? un esercente, un professionista, il suo dovere, anche davanti alla nostra santa religione, sarebbe di sposare la ragazza, coûte qui coûte.-. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso, ha detto Metastasio; ma nella sua condizione sociale il caso è piú difficile: un conte non può mica sposare una cameriera.

- Sicuro, Madonna benedetta! - fece dal suo cantuccio donna Gesumina, che cominciava a capire qualche cosa.

- Noi abbiamo dei doveri non solo verso i vivi, ma anche verso i morti e verso quelli che verranno. Per la colpa d'un povero ragazzo, che sarà stato tirato nelle tentazioni, non si possono sacrificare le tradizioni e il decoro di due antichissime famiglie. Non si scherza! Che cosa dirà monsignor vescovo e nostra cugina monaca...?

- Che ora voglion nominare superiora! - completò Gesumina, che pareva un'anima smarrita nello spazio vuoto del salone.

- Ci sono doveri e doveri, non è vero, donna Cristina? - insinuò donna Adelasia.

- Ho io mancato al dovere di madre? - uscí a dire con appassionata tristezza la contessa, a cui la parola dovere risvegliò quasi nell'animo un acerbo risentimento. - Fu appunto per educare mio figlio a sentimenti elevati di virtú e di dignità che ho combattuto tutta la vita. La nobiltà ha i suoi doveri, sí, donna Adelasia; ma nessun dovere si compie bene, se manca la forza morale e l'educazione della mente. Se qualche volta ho potuto sembrare rigorosa verso questo disgraziato, era per tentare di sottrarlo con tutte le mie forze alla decadenza fatale che ci perseguita e al contagio degli oziosi suoi pari. Sono stata troppo superba e Dio mi ha castigata.

Il tono doloroso, non privo di dignità, col quale donna Cristina pronunciò queste parole, sgomentò non poco le due vecchie zitelle, che, incapaci di entrare colle loro piccole cuffie in un concetto superiore, si affrettarono a chiedere mille perdoni, dimostrando che ci doveva essere stato qualche malinteso nelle parole.

- Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto...

- Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia.

I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsi del povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla.

E rimasero in quest'accordo.


XIII

DUE POVERE ANIME


La vita della povera Celestina, dopo l'impensata tempesta, in cui era naufragata la sua felicità e la sua innocenza, si sarebbe potuta somigliare alla continuazione d'un inquieto, interminabile sogno.

Quello sforzo che la sua coscienza aveva fatto la notte fatale per afferrare la realtà del suo patimento, per liberarsi dall'incubo, dai lacci della sonnolenza, durava ancora e, perdurando, si trasformava in uno spasimo morale, in cui si sentiva avviluppata come in una rete tagliente.

Un senso di doloroso stupore intorpidiva i suoi movimenti e la rendeva più che sonnambula, cieca e sorda davanti alle cose e alle persone che la circondavano. Se non che di tratto in tratto un pensiero piú vivo, guizzando come un lampo sinistro nell'oscurità degli altri, rischiarava momentaneamente tutto l'orrore dell'abisso in cui l'avevano gettata, e allora erano gridi strazianti, che uscivano dalle tenebre del suo cuore a invocare aiuto e misericordia.

In questo stato l'aveva trovata la contessa quella mattina che, uscendo dalla sua stanza dopo la confessione di Giacinto, era corsa, prima ancora che albeggiasse, a cercarla nella sua cameretta; e ve la trovò coi ginocchi a terra, quasi svenuta, colla testa sepolta nelle coltri, colle mani intirizzite dentro i capelli. Solamente la carità, la tenerezza, le lagrime, le supplicazioni, le promesse e le lusinghe della povera signora poterono ridestarla dal profondo terrore e salvarla da un repentino impeto di disperazione, che in quel primo momento la spinse verso la finestra.

A poco a poco la sua riflessione, guidata da una mente piú forte della sua a giudicare del suo stato, la paura di uno scandalo pubblico, la vergogna di sé stessa, lo stordimento stesso di tutti i suoi sensi, giovarono a trattenerla per qualche tempo in un riserbo, che diede tempo alla contessa di preparare le prime difese. Nelle braccia della povera signora, colla testa appoggiata al suo petto, nel quale versò fiumi di lagrime, sentí a poco a poco venir meno molti istinti di ribellione. Molti gridi morirono sotto la pressione d'una mano leggiera, ch'essa era solita baciare con amore. La povera servetta sentí troppe volte battere vicino al suo un altro cuore, il cuore della madre, non meno agitato e spaventato del suo, e non ebbe la forza d'imprecare, di maledire, di chiedere vendetta. Si lasciò intenerire, ricadendo, come per desiderio di riposo, in un assopimento, che non arrivava fino a uno stato di dimenticanza. Allora ciò che era accaduto non le pareva piú accaduto; sottentrava una tenue illusione che il sogno affannoso potesse da un momento all'altro rompersi e finire; mostravasi la Celestina naturale degli altri giorni, e poteva nella sua intera illusione illudere gli altri. Seguendo l'incanto d'una dolce ipotesi, pensava non essere possibile che in casa di cosí bravi e buoni signori avessero potuto farle un cosí gran male. Perché l'avrebbero ingannata e presa dentro a una rete? la contessa non era quella santa e cara signora che essa venerava come la Madonna? e donna Enrichetta non aveva dell'angelo perfino il profilo? e quel buon conte, cosí alla mano e cosí popolare, poteva essere complice di un tanto delitto? era dunque proprio vero che avessero abusato cosí slealmente della sua buona fede?

Tra queste consolazioni, che essa spremeva dal suo pensiero e che somministrava a sè stessa come un calmante, che dà un minuto di sonno e di oblio, per un subitaneo ritorno di sovraeccitazioni fisiche, si risvegliavano le acri sensazioni del supplizio. Nella brutale rivelazione di un mistero, che nessun amore aveva abbellito, che nessuna benedizione aveva santificato, ma nel quale essa era piombata come dal buio della notte in un braciere ardente, tutta la sua vita era rimasta sconvolta e disorganizzata. Un tal disastro avrebbe potuto essere l'agonia d'ogni altra creatura, ma per lei, per lei che amava un altro uomo...

Non poteva fermarsi un attimo sul pensiero di Giacomo, né udir pronunziare il suo nome, né prevederne il sopraggiungere, senza sentire tutto il suo sangue andare dal cuore alla testa e dalla testa al cuore come un torrente di fuoco. L'impulso era di correre da lui e dirgli tutto, subito: ma gli avrebbe piantato un coltello nel cuore. Avrebbe egli creduto alla sua innocenza? non era meglio seppellirsi viva piuttosto che andargli davanti cosí indegna? A questo suo povero Giacomo essa si sentiva legata da un'antica promessa, che non aveva mai avuto bisogno di essere pronunciata. Quando avesse cominciato il suo cuore ad appartenergli non avrebbe saputo dire. Forse era sempre stato suo.

Raccolta bambinella in casa dello zio Mauro, era cresciuta con Giacomo, accanto a Giacomo, all'ombra sua, quasi sui suoi ginocchi, come una piccola rosa innestata sul tronco d'una quercia. La casa, l'aia, la vignetta, la loggetta erano stati il loro regno comune per tutto il tempo che Giacomo stette presso i suoi. A lei non era parso di perderlo nemmeno quando tutti le dicevano, scherzando, che lui sarebbe diventato un vescovo. Nessuno meno di lei si era meravigliata quando, buttata la veste nera alle ortiche, Giacomo ricomparve ancora libero della sua volontà. Tutto questo era nel giro naturale delle cose. - Per me - gli disse quel giorno che le tornò davanti non piú prete - per me tu saresti sempre stato il mio padrone e io la tua serva.

Essa aveva allora poco piú di quattordici anni; ma quando, qualche anno dopo, scoppiò la guerra, e il cugino partí con Garibaldi, oh! allora aveva cominciato a capire che l'amore è un patimento. Durante tutto il tempo della disgraziata campagna, furono per lei giorni e notti d'angoscie inesprimibili. Il suo cuore sentí tutte le fucilate, che potevano uccidere il suo povero Giacomo. Finalmente egli scrisse che sarebbe ritornato, e ritornò veramente, piú bello nella bella camicia rossa del garibaldino, che non fosse stato mai, col viso abbronzato, colla barba cosí lunga, che non osò piú dargli del tu. Non poté piú guardarlo senza arrossire, fuggiva davanti a lui per una inesplicabile paura; le fucilate continuarono nel suo cuore anche a guerra finita; e nel parlargli col «voi» metteva in questo pronome nuovo un sentimento nuovo di rispetto e di venerazione, come se cercasse di sostenere in una parola piú larga e piú sostenuta la gran gioia che traboccava da tutte le parti. Che un giorno dovessero sposarsi era cosa tacitamente ammessa da loro e da tutti quelli che li conoscevano. Tutto si riduceva a una questione di tempo e di circostanze. Che cosa importava che fosse oggi o domani? Giacomo riprese a studiare nei libri latini, e qualcuno assicurava che avrebbe col tempo dato alle stampe qualche cosa di bello; ma allora non passò nemmeno per la mente a «Frulin» che il latino potesse guastare l'amore. Anche i sapienti hanno bisogno, e forse piú degli altri, che qualcheduno voglia loro del bene. Cosí erano passati gli anni in una dolce aspettativa, fino al giorno che Giacomo le consigliò di entrare al servizio della contessa per sollevare lo zio Mauro e per mettere in disparte un po' di corredo. Egli sperava in un certo premio, pel quale lavorava sempre. Un anno ancora di pazienza, e poi chi sa? Aveva diciott'anni, quando la contessa la condusse nel Cremonese; e anche nella nuova casa non tardò ad acquistare la benevolenza di tutti. Il cuor contento, pieno di speranza, dava alla sua soda bellezza di ragazzona campagnuola un'affascinante espressione di giovialità. Al vecchio conte faceva allegria soltanto a vederla passare col secchiello dell'acqua o col cesto della biancheria. Non abituata ai salamelecchi e al cerimoniale compassato dei signori, che hanno molto tempo vuoto da riempire, quel suo andar per le lisce, quel suo parlar brianzuolo cosí pronto, cosí gustoso di proverbi, con cui sapeva difendersi tanto dagli adoratori platonici in guanti come dalle tenerezze troppo espansive dei servitori, aveva servito a rallegrare una casa che a molti pareva fin troppo imbottita di dottrina cristiana e di filologia. Donna Cristina, volendo raccogliere questa bellezza troppo vistosa, finí col dare l'ultimo tocco di pennello a un bel lavoro della natura: e fu appunto questa bellezza cosí fiorente, resa affascinante dal grembiulino e dalla cuffietta alla normanna, che colpí in pieno la fragilità di don Giacinto.

Aveva cominciato anche lui, durante una breve licenza d'inverno, a corteggiarla con qualche elegante facezia; ma chi bada a quel che dicono i signori, quando vogliono canzonare una povera ragazza? Una volta però essa minacciò il giovine di dire tutto alla contessa, se non la lasciava stare; e per fortuna il signorino fu richiamato al reggimento. Venute le vacanze d'autunno, don Giacinto tornò due o tre volte all'assalto; ma di nuovo essa lo pregò di non dare questo dispiacere alla signora. Fu durante il tempo delle corse d'estate, verso la fine d'agosto, che tornato improvvisamente al Ronchetto, dopo il celebre trionfo di Messalina, che gli aveva fatto tracannare una quantità enorme di sciampagna, fu in un momento di vertigine e di esaltazione sensuale che il suo cattivo genio lo condusse a varcare, nel silenzio istigatore della notte, una soglia, che avrebbe dovuto, per il bene suo, della sua mamma, della sua casa, sprofondargli sotto ai piedi. La ragazza, snervata dal sonno della sua età, si trovò nel male, prima che avesse tempo di aprire gli occhi.

Eran quasi passati due mesi da quell'ora terribile, due mesi, in cui due povere donne, avvicinate dallo stesso dolore, come possono soffrire due cuori trafitti dalla stessa spada, vedevano avvicinarsi ora per ora, minuto per minuto, il giorno che avrebbero dovuto chiamar Giacomo a giudice di un delitto. Questa fatalità si poteva con cento artifici nascondere e ritardare, ma i giorni passavano, passavano le notti insonni, e crescevano le responsabilità insieme agli spaventi.

Donna Cristina, che temeva la solitudine de' suoi pensieri, chiamava spesso di notte la ragazza nella sua camera (il conte per riguardo al suo cuore dormiva abbasso accanto allo studio), e vegliando con lei, pregando insieme colle quattro mani legate dallo stesso rosario, cogli occhi fissi nell'immagine dell'Addolorata, cercavano di prepararsi ad affrontare il terrore della loro situazione. Nell'ardore di quel tormento, che le consumava, scomparivano le differenze sociali; nel proprio dolore ciascuna sentiva l'altra, si compassionavano come sorelle e si eccitavano a vicenda con isquisite suggestioni. La raffinatezza di questa cura, mentre esauriva le forze dell'infermiera non era tale da infondere coraggio e quiete nella malata. Al contrario, i momenti di inquietudine nervosa si facevan piú frequenti, piú spesse tornavano le allucinazioni, le visioni, i terrori fatui, che facevan balzare la ragazza dal letto e trasalire la contessa nel mezzo de' suoi sogni torbidi e posticci. Durante certe notti, in cui la povera vittima non poteva chiudere occhio, toccava alla contessa scendere, tre, fin quattro volte, dal letto, attraversare il piccolo corridoio, che divideva la sua stanza da quella della ragazza, inginocchiarsi ai piedi dell'altro letto, pregare la sofferente di non piangere piú, di non farsi sentire da Enrichetta, che dormiva poco lontano, la carezzava, le sussurrava orazioni e paroline di pace, la segnava colla croce, le metteva sul petto un crocifisso o vecchie reliquie benedette, finché la stanchezza e il cloralio tornassero ad assopirla.

Qualche altra volta, entrando nella stanzetta, trovava la disgraziata seduta sul letto, colle mani morte sui ginocchi, immobile come la statua della meditazione, insensibile al freddo, sorda alla voce di chi la chiamava, con tutte le facoltà concentrate e ipnotizzate in una sola idea, che si condensava nell'oscurità: che cosa doveva dire al suo Giacomo?

Di mano in mano che si avvicinava il tempo di tornare a Cremona (ritorno che avveniva sempre nell'estate di San Martino), la contessa, che vedeva la necessità di prendere una deliberazione, cominciò a parlare alla ragazza di queste sue buone parenti di Buttinigo, che l'avrebbero ricevuta volentieri. «Il luogo è quasi un convento, quieto come una chiesa, fuori dagli occhi del mondo. Nella compagnia delle buone signore, due vere sante, e nella vicinanza delle monache della Noce, avrebbe trovata la forza e la pazienza di sopportare la sua disgrazia, insieme ai balsami della religione e della carità. Cosí toglieva alla gente ogni occasione di sussurro, e dava a lei più libertà di preparare l'animo di Giacomo a ricevere il terribile colpo. Del bene se ne può fare dappertutto e in ogni stato: e se il Signore teneva conto del suo grande sacrificio, doveva un giorno rimunerarla con qualche grazia particolare. Qualunque fossero i suoi bisogni e i suoi desideri, avrebbe sempre trovato in lei una madre amorosa e riconoscente». E per dimostrarle che la sua compassione non era fatta di sole parole, le regalò e le mise al collo una preziosa crocetta di lapislazzuli, che una sua amica aveva portato da Lourdes: l'obbligò ad accettare una somma di denaro per far fronte ai bisogni e per accontentare qualche capriccio.

Con questo minuto lavoro di antiveggenze, di ingegnose astuzie, di raffinatezze femminili, che alla povera signora, non abituata agli artifici della simulazione, costavano notti intere di pensieri e di spasimi, le riusci di ridurre a poco a poco l'animo incolto e non indocile di Celestina, se non alla rassegnazione passiva, a considerare almeno il suo stato con meno tremito, con minore ribellione di spirito. Tutto il fascino, che una maggiore educazione di spirito, la forza della mente e gli splendori incantevoli della ricchezza possono esercitare su una natura primitiva, incapace di troppo lunghe resistenze, fu messo in opera dalla madre spaventata, colla rapida e sgomentata destrezza che c'insegna e fuggire da un pericolo incalzante; arrivò fino a far tacere, fino a respingere qualche rimorso, che il delicato senso della rettitudine naturale e della carità andava sollevando. In questa tremenda battaglia donna Cristina Magnenzio sapeva d'aver in giuoco la vita e l'onore de' suoi figli; e senza aver mai letto i consigli del Machiavelli, piú che ai modi del vincere badava a vincere presto.

La ragazza agli ultimi di ottobre, nella sua integra ignoranza, non sospettava ancora quel che non era piú un dubbio per l'esperienza della madre: per evitare che questa nuova coscienza le nascesse in casa, prima che l'intimo mistero si annunciasse con qualche moto, la signora si affrettò a sfruttare tutti i buoni propositi e le ultime debolezze della vittima.

Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco, che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga, dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare. Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta.

- Addio, povero Giacomo... - fece la misera, con voce rotta, ma senza piangere.

- Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il Signore ti ricompenserà... - Cosí cercò di consolarla la contessa con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore angustia.

Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale, inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che la menassero, come si dice, a perdersi.

«Addio, povero Giacomo...» ripeteva in cuor suo a lontani intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tutto quello che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti.

Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli uomini, al suo Giacomo, al suo angelo...

Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare quel che non poteva piú essere.

- Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? - balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano della signora.

- Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza.

- E gli dica che cerchi di perdonare anche lui... - soggiunse la poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza.

Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto.

Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera.

- Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è?

- Donna Adelasia aspetta in chiesa.

La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro in corsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose?

La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano:

- Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore...

Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco.

Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.


XIV

LE PRIME SCARAMUCCE D'UNA GRANDE BATTAGLIA


Giacomo, dopo aver messo un po' di pace in casa e un po' d'ordine negli affari, aveva da qualche tempo ripigliata la correzione del suo libro sull'Idealismo, al quale stava per aggiungere una lunga nota sulla virtú educativa del dolore, suggeritagli dalle malinconie delle ultime esperienze. Facile a trovare nella ricchezza e nell'indulgenza del suo cuore la giustificazione di quel che è, si lasciava di nuovo dolcemente trascinare a un concetto roseo della vita, persuaso sempre piú che gli uomini, anche quelli che passan per malvagi, sono cattivi piú per la loro insufficienza a comprendere il bene che non per cattiva disposizione o per un odio dichiarato alla giustizia. Il dolore viene sempre a tempo, quando gli errori e gl'inganni nostri son maturi, maestro di logica morale, onesto giudice liquidatore nel gran fallimento delle nostre presunzioni. «Soffrire è conoscere, e conoscere è perdonare. La filosofia senza la dolorosa esperienza potrà essere un bel cartone, non sarà mai il libro della vita».

Questi concetti scaturivano ancora spontanei dalla sua penna, mentre il sole nitido delle ultime giornate di ottobre entrava a illuminare la stanzuccia del filosofo, che di tempo in tempo si moveva a cercare l'ispirazione e gli elementi del pensiero a due boccate di peppinetta, o andava a consultare Blitz, che sonnecchiava al sole sulla loggetta. Molte brighe l'aspettavano dentro e fuori dell'uscio, ma non disperava di saper col tempo e colla pazienza dipanare la matassa. Col signore della Rivalta, che si era fatto raccoglitore unico di tutti i crediti del fallimento, aveva concretato un affitto di sei anni, dietro il corrispettivo d'un proporzionale pagamento d'interessi. Ma Battista, che avrebbe dovuto prendere la direzione dell'azienda, indispettito di non poter sposare la Fiorenza, giurava che non avrebbe piú toccato un mattone. Era difficile anche per un filosofo pacifico come Giacomo far entrare in quel testone, che i tempi non erano piú quelli di prima, che bisognava fare di necessità virtú, rassegnarsi a lavorare per conto degli altri, e ringraziar Dio, se lasciava un tetto per dormire al coperto e un pezzo di pane tutti i giorni. Battista, coll'ostinazione delle teste dure, che vedono in tutto ciò che non capiscono una mancanza di rispetto alla loro ignoranza (e in questa fissazione poteva vantare un bel numero di compagni anche tra coloro che sanno leggere e scrivere), andava ripetendo che Giacomo, il sapientone, non era un asino, perché mirava a stringere tutto nelle sue mani per far la parte del leone; perché, dopo aver sempre vissuto alle spalle della famiglia, senza mai sporcarsi le mani colla terra, ora la moglie voleva prendersela lui e far lavorare gli altri a mantenerla. A questi patti egli non ci stava. Gli dessero la sua parte, ed egli se ne sarebbe andato fuori dei piedi. E per quanto Giacomo si martoriasse a dimostrargli coi registri alla mano che di parte da dividere non ce n'era piú per nessuno, Battista opponeva sempre quel sorriso tra il fatuo e il sarcastico, che vuol dire: «A me non la si dà a bere!». Parlava anche lui di voler ricorrere agli avvocati, e intanto andava a cercarli tra i villani i suoi avvocati, tra i barcaiuoli della riva, tra i fannulloni dell'osteria.

Avendo una volta riscosso a insaputa di Giacomo, un vecchio credito da un cliente di Merate, si tenne le cento lire per sé, e, vestito coi panni della festa, passò il lunedí sulla soglia della Fraschetta a biscantare coi soldati coscritti e a dir peste dei filosofi intriganti. Tornò a casa col grugno torvo, col proposito violento, coll'occhio acceso dal vin cattivo, e, picchiando de' grandi colpi sulla tavola, cominciò a gridare che voleva veder la carta, cioè il testamento del pà, perché era nel suo diritto di prender moglie, come tutti gli altri, voleva andar fuori di casa e lavorare per conto suo; e mille altre cose voleva, che Giacomo non gli poteva dare in nessuna maniera. E quando questi, perduta la pazienza, gli disse una volta che, se voleva proprio andarsene, la porta era aperta, fu come dar fuoco a una bomba. Ferito nel suo diritto, acciecato dall'odio, Battista, dopo aver teso il pugno in aria, si scagliò sul fratello, urlando come un disperato:

- Ah, per te e per la tua smorfia i denari ci sono, brutto mangialibri: aspetta cane... - Ma la Lisa, che aveva ormai fatto l'orecchio a questa musica, si cacciò in mezzo e, menando le lunghe braccia simili a due manichi di scopa, che giocassero di scherma, alzò la voce stridula come un vecchio telaio, lasciando cadere un tal diluvio di parole che i due uomini non ci sentirono piú. Stordí l'ubbriacone, gli innaspò la vista con quelle sue mani che non finivano mai, lo spinse fuori dell'uscio, che chiuse con fracasso, facendo tremare la casa dai fondamenti; e voltasi verso Giacomo, fece capire anche a lui ch'era tempo di finirla.

La povera mamma che ci poteva fare? Seduta nel cantuccio del camino, non aveva gli occhi che per piangere e la voce che per sospirare. Dopo la scomparsa del suo Mauro, che in quarant'anni di matrimonio le aveva levata ogni energia di pensare a qualche cosa la quale non fosse già stata pensata e comandata, ora rimaneva lí, come un orologio, a cui sia stato tolto il meccanismo, che puoi ancora far andare col dito; ma da sé, l'indice fermo sopra un'ora, non si moverebbe in cent'anni. Dal dí che la discordia era entrata nella sua casa insieme alla miseria, essa non aspettava che d'essere mandata via da un momento all'altro dai creditori. In ogni faccia nuova, che comparisse sull'uscio, credeva di vedere un esattore, o un usciere, o un nemico, che venisse a portar via l'ultima sedia; e non ci voleva che la parola autorevole di Giacomo per persuaderla a non lasciarsi morire di tristezza.

Ad onta di tutte queste tribolazioni, Giacomo non disperava di vincere la dura partita. Se quel bestione di Battista non voleva piú lavorare, avrebbe lavorato lui in suo luogo. À la guerre comme à la guerre. Il dirigere una fornace e il far cuocere dei tegoli non è poi un mestiere piú arduo che l'inventare una spiegazione probabile del mondo. Qualcuno aveva già riconosciuto in lui il bernoccolo degli affari, e veramente, senza ch'egli osasse insuperbire per questo, sentiva che a far meno male di chi fa peggio non occorre un genio particolare. L'ingegno serve in ogni cosa, tranne qualche volta che a far dei libri. Col lume della retta osservazione, col provvedere a tempo, coll'ordine nelle piccole cose, che sono i mattoni delle grandi, in men d'un mese poté raddrizzare il baraccone, che suo padre aveva lasciato molto sconquassato. Pacificato il mugnaio del Lavello, ritirata una ricevuta definitiva dall'oste della Fraschetta (e in questi bisogni il denaro anticipato dai suoi benefattori del Ronchetto fu una vera provvidenza), accontentato qualche altro creditore più inquieto, egli aveva visto ritornare a poco a poco gli antichi clienti e i carri carichi di materiale passare e ripassare davanti alla casa, come ne' tempi migliori. Dove egli avesse potuto trovare tanto credito e tanto denaro era per tutti un mistero. La gente sa benissimo che la scienza e la filosofia non hanno mai fatto farina; anzi coi libri si lavora sempre a perdita. Fu l'oste della Fraschetta il primo a scoprire l'arcano che il denaro veniva dal palazzo. Il sottocuoco l'aveva saputo da altri, o aveva visto, o, quel ch'è lo stesso, aveva creduto di vedere. V’era chi, tra il dire e il non dire, lasciava capire qualche cosa di piú, come se la Celestina, quella furbona, c'entrasse; tanto che Giacomo in questa faccenda aveva tutto quel che voleva avere. Per qualche altro, all'incontro, che si credeva non meno bene informato, Giacomo Lanzavecchia aveva stretta una lega con quel bel mobile della Rivalta, che sarebbe stato felicissimo di dargli la Norma in moglie. Si arrivò fino a far credere che Giacomo fosse l'amante della bella contessa, e allora, si capisce, si fa presto a pagare i debiti...

Il nostro filosofo era troppo occupato nelle cose vere per andar dietro alle verosimili, con cui si fabbrica la storia del mondo. Non pensava nemmeno che la gente potesse occuparsi de' fatti suoi. Se gli affari camminavano, il merito in parte l'attribuiva a sé, in parte alla fiducia che ispirava la sua onestà e il suo buon volere.

Lasciò dunque che Battista andasse in cerca dei suoi avvocati, collocò Angiolino alla direzione delle fornaci, ritenendo per sé l'amministrazione, e scrisse allo zio prete a Celana che per il nuovo anno scolastico credeva piú utile rinunciare al posto del collegio per attendere all'azienda. Tutte le mattine si recava egli stesso sul lavoro, incoraggiava i vecchi operai, nei quali trovò buone disposizioni d'animo e i conforti dell'esperienza. Se il caso richiedeva, non si faceva scrupolo di mettersi egli stesso in maniche di camicia e di dare una mano a caricare un centinaio di mattoni, coi piedi nella polvere, colla polvere nella gola. Una volta che un ronzino stentò a levar le ruote d'un carro dai solchi, l'autore dell'Idealismo dell'avvenire non si vergognò di attaccarsi alle stanghe e di gridare anche lui uh uh, per indurre nell'animale quel grado di emozione volitiva, per cui non era bastata la frusta.

- Lei, sor Giacom, se mi lascia dire, - osservò un giorno il Manetta, il piú vecchio dei lavoranti - lei fa fin troppo dopo tutto quel che ha studiato. Si guasterà la scrittura.

Questa povera gente, che aveva visto da vicino il pericolo di restare senza pane, in un paese dove ai bisogni della disoccupazione non si provvede sempre facilmente, dimostrava verso el sor Giacom una stima e un'affezione particolare, come merita chi ci salva dagli stenti e dalla fame. La povera gente non va a cercare da che parte le caschi il pane, né chi l'abbia cotto: el sor Giacom aveva fatto il miracolo di far rivivere le fornaci; viva la faccia del sor Giacom!

Una sera dei primi di novembre, Giacomo incontrò presso la strada di Sabbione il signor Ignazio della Rivalta, che, venendogli incontro tutto cerimonioso, gli disse:

- Ho parlato col ragioniere Riboni, e forse non siamo lontani dall'intenderci intorno a quel fondo della Colombera; ma anche il Riboni dice che una sua parola, signor Giacomo, alla contessa potrebbe rendere la cosa come fatta.

- Una mia parola... - chiese Giacomo meravigliato.

- Il Riboni sa che la contessa a lei non dice mai di no.

- Via, è un po' troppo! - soggiunse, respingendo scherzosamente questa graziosa malignità.

- Eh! lei è piú filosofo di quel che pare, - ribadí l'ometto della Rivalta, stringendolo amorosamente sui fianchi e guardandolo sottecchi con cipiglio compunto: - lei sa spennacchiare le suo galline senza farle strillare. Coraggio: s'intende che, se l'affare si fa, ognuno avrà la sua provvigione. Se poi si persuadesse quel buon uomo del conte a sbarazzarmi la casa da quei vecchi imperatori romani, son disposto a dare al mediatore il venti per cento sul prezzo.

- Oh che mi piglia per un sensale costui? - ruminò tra sé il figlio di Mauro Lanzavecchia - e che cosa pensa, quando dice ch'io so spennacchiare le mie galline? - Ma forse avrebbe dimenticate anche queste parole se, tornando qualche giorno dopo da Brivio, non si fosse trovato faccia a faccia con Brandati, il dottore, che scendeva dall'aver visto un malato alla cascina Bruschetta.

Con Brandati erano stati compagni all'Università di Pavia, per quanto possono essere compagni due studenti di facoltà diverse, uno dei quali ami, piú che i libri, il fiasco e la compagnia allegra. Giovine di temperamento robusto e gran mangiatore al cospetto della terra, più che a logorarsi sui cadaveri, il Brandati aveva portato da Padova, sua patria, un grande amore per le donne e per le brighe politiche in favore della repubblica, ch'egli intendeva come un'istituzione, in cui si avesse a venir spesso alle mani, finché non fosse schiacciato l'ultimo cappello a cilindro. Bonario e tenero di cuore come una donna, passata la sbornia repubblicana, aveva messa molt'acqua nel suo vino, e ottenuta una laurea a Macerata, cercava colla diligenza, colla carità, con una intuizione naturale, di supplire alle lacune della scienza; anzi ai contadini era simpatico, e gli volevano bene, non tanto per il suo sapere, quanto per l'arte ingegnosa con cui sapeva farne senza.

Appena il dottore vide venir Lanzavecchia, fece un movimento, come se cercasse una scappatoia a destra o a sinistra; ma, essendo la stradetta chiusa tra due muricciuoli e senza uscita, venne avanti e finse d'avere una gran premura di andare a casa. Camminando nel fossatello di scolo lungo il muro, - Buona sera! - disse brevemente, mentre toccava col dito la tesa del cappello.

- Buona sera, sorr... - rispose Giacomo, strascinando l'erre e voltandosi a seguire coll'occhio l'illustrissimo, che mostrava quasi schifo a salutarlo, e stava per tirar dritto anche lui, quando sentí una forza, che lo condusse indietro. Raggiunse il Brandati poco distante dal cimitero, lo fermò, gli domandò a bruciapelo.

- Ti ho fatto qualche cosa io a te?

- Se tu hai fatto qualche cosa a me? - chiese alla sua volta il giovinotto grasso, per non saper lí per lí che cosa rispondere. - A me tu non mi hai fatto proprio niente, mio caro punto e virgola! - Era questo un vecchio nomignolo, con cui i compagni allegri dell'Università solevano mettere in burla la dialettica a distinzioni e a sospensioni del filosofo delle Fornaci.

- E allora che cos'è questo sussiego?

- Che sussiego! ognuno va per la sua strada, o bella!

- Che cosa t'impedisce di salutarmi?

- T'ho salutato. Del resto, ognuno ha il suo modo di vedere.

- E che c'entra qui il modo di vedere? - riprese il Lanzavecchia sotto una fiammata di collera, pigliando l'amico per una orecchietta del bavero. Brandati nicchiò e cercò con un piccolo sforzo di liberarsi, ma Giacomo, afferrata anche l'altra orecchietta, lo tenne lí prigioniero, dicendogli con una certa solennità: - O parlerai, bambino, o dirò che sei un vigliacco; e allora ti tratterò da vigliacco, ve'...

- Aseo! - esclamò il rotondo padovano, che parve quasi contento d'esser cosí forzato a parlare. - Poiché tu mi tieni pel bavero, te digo subito che la gente te giudica mal.

- Siamo dei poveri falliti; e, cavallo magro tutte le mosche son sue.

- Son certe tue amicizie coi... cosi... che fan parlare la gente, - spiegò il Brandati con quella maniera propria dei veneti, che ridurrebbero a un coso anche lo Spirito Santo.

- Forse vuoi dire i miei rapporti con quel signore lassú, della Rivalta? ma egli oggi è il nostro padrone.

- Non questo soltanto...

- E allora... - insistette Giacomo su un tono di collera sorda.

- Bada, vecio, io non credo niente ai... cos... voglio dire a tute le ciàcole, che vengon fuori dalla bocca dei marsupiali, ma capisco che alle volte la apparenze dànno il mànego alle supposizioni. Lo dicevo anche ieri sera a Brognòlico: Lanzavecchia è sempre stato un po' timido, un po' troppo punto e virgola, troppo amico dei cosi... dei preti e dei signori (mi te parlo franco); ma da questo al dire ch'egli vende il suo onore e la sua filosofia per qualche biglietto da mille, o fiol d'un can...

- Chi? Brognòlico ha detto che io...? - interruppe vivamente Giacomo, sentendo venir meno le furie agitatrici all'immagine gonfia e arruffata dell'avvocato Brognòlico che per venti lire avrebbe venduta l'anima in fette. - E tu credi a questi merli? - disse al Brandati, tirandogli un pezzo la folta barba nera.

- Che gli dicevo? quando un uomo è stato una volta col... coso... con Garibaldi, come ci sei stato tu a Bezzecca, non sa nemmeno che cosa siano certe vigliaccherie. Son le apparenze...

- Quali apparenze, se si può sapere?

- È vero che hai ricevuto dei denari da questi signori del Ronchetto?

- È vero: ma non potrò onestamente restituirli?

- Allora non è vero che il... coso... come si chiama quell'ufficialetto? il contino possa essere l'amante di tua cugina, ahn!

Il Brandati pronunciò in fretta quest'ultime parole, come se volesse farle scomparire nella barba, e, quando si accorse che l'amico le pigliava bene, senza offendersi, sentendosi sollevato, infilò il braccio nel suo e lo rimorchiò un tratto di strada, parlandogli coll'animo sciolto:

- Non dicono forse che tu sei l'amante della contessa? Non ci sarebbe niente di male, fiol d'un can, se ti piacesse un bel pezzo di aristocrazia come questa: le beghine amano con fervore, specialmente se hanno il coso... il marito un po' vecchiotto; ma un conto è coltivare il genere, un altro conto è far degli affari. Giacomo Lanzavecchia può prendere denaro anche dal diavolo, dicevo anche ieri sera in farmacia, ma non sarà mai denaro che puzza. Lo conosco da un pezzo, razza d'ippopotami che siete tutti quanti! Non hai idea che lingue ha questo paese! Ma io ti aiuterò a frustare questi rinoceronti, se mi dai il segnale di incominciare. È un pezzo che mi sentivo qui in gola il prurito di parlartene, ma temevo sempre di seccarti in mezzo alle altre tribolazioni. Ma ora che mi hai preso per il bavero, caro punto e virgola, e che mi autorizzi a parlare, vieni qualche sera alla Fraschetta, quando c'è il mugnaio colla solita compagnia del magnano, del maestro della banda e degli altri, e ci penso io a farti rendere giustizia. Quattro cappiotti dati a tempo fanno piú bene di tutta la politica di Aristotile...

Il Brandati che si sentiva ancora nelle vene il fuoco di quei bollori giovanili che l'avevano spinto a litigare colle guardie di questura e a sfidare i lavandai del Ticino, fece scorrere le mani sulle maniche, come se volesse incominciar subito.

- Non è il caso di dar troppa importanza alle ciarle degli imbecilli - disse Giacomo con voce velata, soffermandosi e liberando lentamente il braccio da quello dell'amico; - però, se non sarà all'osteria, sarà bene rivederci, Brandati.

- Quando vuoi...

- Oggi è tardi... grazie... addio... - soggiunse con una crescente inquietudine, allontanandosi in fretta, come se cercasse di uscire da una situazione imbarazzante. Istigato, quasi a suo dispetto, da una violenza interiore, che gli faceva alzare il pugno in aria, ripeté due o tre volte: - Selvaggi! razza di malandrini! - Fatti venti o trenta passi, si fermò e si voltò di nuovo a cercare il Brandati, pentendosi di averlo lasciato scappare troppo presto; ma l'amico era già scomparso nell'oscurità della strada. Ad un tratto il filosofo disse: - Che stupido! e che mi deve importare di quel che pensi de' fatti miei il mugnaio, il magnano, l'oste, l'avvocato, quando so quel che pensa la mia coscienza? - E come se fosse da questa riflessione persuaso abbastanza, riprese a camminare, sforzandosi di dare a' suoi discorsi interni un procedimento di filosofia naturale, quasi di commento ermeneutico al testo antico della umana imbecillità: - Ecco come si fa la storia! - diceva. - Io l'amante della contessa, Giacinto il drudo di Celestina, i denari il compenso delle rassegnazioni. E tutto questo a due passi dalle cose! Figuriamoci quel che dev'essere la storia di Ninive e di Roma. Povera Semiramide! povero Narsete! Ora mi spiego anche i discorsi di questo mio futuro suocero della Rivalta e l'immagine elegante delle galline, ch'io so spennacchiare con tanta politica. E c'è anche chi pretende di sapere che la contessa non dice mai di no a un amico della mia forza; ah porci baroni! Dunque se la gente mi fa grandi scappellate, non è certo per rispetto alla filosofia: ma la gente pensa che un uomo il quale paga i suoi debiti con tanta disinvoltura e che giuoca cosí abilmente sulla rassegnazione, è piú rispettabile d'una zecca.

Giacomo a questi insulti, ch'egli procacciava a sé stesso, quasi per un fanatico piacere di confutarli, ora opponeva un sorriso acerbo di canzonatura, ora un corruccio di fiera collera, che lo faceva inavvertitamente correre per la strada deserta già immersa nell'ombra umida del crepuscolo. Non volendo portare in casa la sua inquietudine e dar motivo a sé e alle donne di provocar domande inutili e fastidiose, invece di svoltar subito verso le Fornaci, appena fu al luogo detto Sasso del Pin, continuò per il viottolo selciato, che monta dolcemente al «Roccolo» di don Andrea, entrò nel bosco artificiale di cerri, di carpini e di ginepro, che fanno del sito quasi un verde castello fortificato; e quando si trovò nel mezzo del tortuoso labirinto presso la capannuccia di legno, che serve di ricovero al cacciatore, sedette sul rozzo panchetto e lasciò che il suo cuore un po' grosso riposasse dal palpitare scomposto che avevano suscitato le parole del Brandati.

Un mesto raccoglimento regnava nel boschetto già logoro e spoglio di molte frasche, che ingiallivano marcie sul terreno, mentre tra i rami chiari entrava l'ultima vampa dell'incendio d'oro, che si spegneva dietro la curva dei colli. Il cielo era sereno, con pochi fiocchi di nuvole porporine immobili nell'azzurro, fresco e ancor ridente in quella bella sera di novembre. Intorno a lui era un cinguettare rumoroso d'una plebaglia di passeri, che, partito il nemico, consideravano il «Roccolo» come la loro casa, e civettavano con plebea insolenza, là dove gli illustri loro compagni avevano lasciata la vita nelle ragne e perfin sulle canne del vischio. Ebbene! che dovere hanno i vivi di morire per i morti? - dicevano i passerotti. - La vita è forza che incalza la forza, è il giorno che succede alla notte. La lotta non cessa mai su questo campo, ora aperta, ora insidiosa; dove non arriva la spada, arrivano la calunnia e la maldicenza, che son le ragne dissimulate della morte. Che può fare la creatura contro questa fatalità della legge? - Egli poteva rispondere che l'uomo si sottrae all'invidia dei vili come l'aquila sfugge alle trappole, volando molto in alto. Ciarlino pure gli stolti; la maldicenza è un brutto animale vorace, che finisce sempre col mangiare sé stesso.

Non volendo farsi troppo aspettare a cena, prese un sentieruzzo da capra, che piomba quasi diritto sulle Fornaci, e in quattro salti fu a casa. La Lisa, che stava inginocchiata davanti al camino, intenta a preparare la solita minestra, senza voltare il viso dal fuoco gli disse:

- C'è stato Fabrizio con una lettera della contessa per te.

- Dov'è questa lettera?

- Lí, sull'armadio.

Giacomo ruppe la busta, che buttò nel fuoco, e al lume maggiore della fiamma, che si sollevò, lesse queste quattro righe:

«L'avverto che oggi ho lasciata Celestina presso alcune nostre parenti, che mi avevano chiesta una ragazza brava nei lavori. Ho pensato che le potesse far bene di restare in campagna, mentre noi ci prepariamo a tornare in Cremona. Venga domani verso le due; ho bisogno di prendere qualche decisione per quest'inverno».


XV

LA CICOGNA SULL'ARMADIO


Giacomo rimase un pezzo immobile davanti al camino, cogli occhi fissi alla fiamma, che scoppiettava sotto la pentola. In ogni altra disposizione di spirito un biglietto cosí semplice non avrebbe lasciata traccia; ma questa volta ogni piú piccola scossa faceva fremere una corda troppo tesa.

Fu per sottrarsi al pericolo di credere troppo alle suggestioni dei cattivi pensieri e anche per rompere l'oscurità dell'aria, che pareva anch'essa piena di brutti sospetti, che accese colle sue mani la lucernetta a petrolio posta sul camino e la collocò a uno dei capi della tavola, dov'era già steso il tovagliolo della cena.

La Lisa, sempre un po' aspra e angolosa nelle sue brusche sollecitudini di massaia, in quattro movimenti, bruschi come il suo carattere, mise in tavola i piatti, i bicchieri, le posate, il fiasco del vino, levò da un cesto, che tolse dalla credenza, quattro pani, che batté sulla tavola con quattro colpi pesanti come se non fossero pane da mangiare, ma bombe, e, senza mai schiudere quella sua bocca da merluzzo in collera, tornò a inginocchiarsi davanti al camino e a rimestare nel calderotto. Era un giorno di luna cattiva. Si capiva subito dal grembiale allacciato storto e dalle lische, che scappavano dai denti delle forcelle come un'imbottitura di crine da un cuscino mal cucito.

- Battista non si è lasciato vedere quest'oggi? - chiese Giacomo, quando fu seduto al posto del povero pà in capo alla tavola.

- S'è lasciato vedere, ma ubbriaco come un animale. Io non so chi gli paga il vino che beve.

- E ora dov'è?

- S'è arrampicato sul fienile e dorme al fresco. Farebbe meglio a buttarsi nell'Adda.

La Lisa posò il calderotto ancor bollente sopra un tagliere di legno a un angolo della tavola, e, dando col mestolo l'ultima rimestata, sollevò un nuvolo di fumo, che l'avvolse fin sopra i capelli e le diede l'aspetto di una pitonessa in collera, in atto di provocare una qualche diavoleria.

- La mamma come sta oggi?

- Se mangiasse di piú e bevesse un bicchier di vino, sarebbe più in forze. Per quel che si guadagna a risparmiare il quattrino...

Mentre parlava, la ragazza lunga finí di riempire di minestra le quattro scodelle, che pose sui piatti e distribuí colla solita buona grazia, che pareva le uscisse dai gomiti. Dai vent'anni in poi ne aveva scodellata della minestra su quell'angolo di tavola! e, proprio, ne aveva ricavato un bel compenso. Se prima poteva sperare ancora che un cane la sposasse, almeno per amore de' suoi quattro soldi di dote, ora che il fallimento aveva inghiottito fin l'ultimo quattrino, chi voleva pensare a lei? Cosí, dopo aver fatto per tanti anni la serva per attaccamento alla sua casa, ora per confortino non le restava che di servire per forza in una casa ch'era roba di tutti e di nessuno, in mezzo a gente che si voleva bene come cani e gatti, ai fianchi d'una povera donna, che non si contentava piú di nulla, esposta alle violenze brutali di Battista, che pretendeva di comandare non meno di chicchessia, sotto la soggezione di Giacomo, che s'imponeva di piú quanto meno si faceva sentire.

E il bel risultato! sarebbe stato di vedere tra qualche mese entrare in casa madamisella Celestina, fresca come una rosa, padrona assoluta di tutto e di tutti, dopo essere stata a carico della famiglia per tutti gli anni del bisogno; ma a madamisella lei la serva non l'avrebbe fatta. «Quando madamisella entrerà da una parte, io uscirò dall'altra. Se lo zio prete mi piglierà, bene quidem; se non mi vorrà pigliare, andrò a servire qualche vecchio curato di montagna; ma da madamisella non mi lascerò comandare. Nostro padre col voler dare il suo pane e la sua pietanza a tutti i pitocchi della strada si è ridotto a morire fallito e a lasciare i figliuoli sull'assa. È la vecchia storia che chi lavora ha una camicia, chi non lavora ne ha due».

La Lisa non aveva mai veduto di buon occhio la presenza di Celestina in casa per quel senso d'invidia che fa parere tolto a sé tutto ciò che vien dato agli altri. Piú giovane, piú fresca, di carattere dolce e festoso, l'orfanella era cresciuta in quella casa, come una pianta rigogliosa, che fa uggia a un umile e spinoso cespuglio.

La persecuzione della Lisa sarebbe stata insopportabile, se, oltre al temperamento molle e poco suscettivo, la Celestina non si fosse fatta scudo della benevolenza degli zii e della protezione autorevole di Giacomo. Quando poi i tempi incominciarono a diventare difficili, fu Giacomo stesso che consigliò la ragazza a cercare, come si dice, un servizio e a mettersi in grado di guadagnarsi la sua vita; ma l'idea che madamisella, uscita dalla porta, avesse a rientrare dalla finestra, bastava a irritare le lische e i gomiti della Lisa.

- Che cosa ha detto Fabrizio? - tornò a domandare Giacomo, senza levare gli occhi dal biglietto, che aveva buttato sulla tavola. - Non ha parlato di Celestina?.

- Che cosa doveva dire?- brontolò la sorella, movendosi dal camino verso la corte, dove versò il fondo sciacquato del calderotto nel trogoletto delle galline. - Quando si è degnata madamisella di far sapere che è viva? qui si potrebbe morir tutti come cani, ma ora, che non c'è piú da stare allegri, madamisella non sa piú nemmeno che ci siano le Fornaci.

- Tu sei sempre stata cosí dura con lei! - osservò timidamente Giacomo, al quale non era sfuggito, per dir il vero, questa insolita freddezza di Celestina nei giorni della sventura. Quasi non ricordava d'averla veduta ai funerali del povero pà.

- La gente si giudica nelle occasioni - seguitò il gendarme in gonnella, attraversando in fretta la cucina per collocare le sedie intorno alla tavola. - Tu hai sempre avuto nel cuore quella bellezza e non vedi che le bellezze; ma io dirò sempre che, quando si è mangiato il pane di una casa, non si deve fare come i gatti...

E, avviandosi verso l'uscio della scala, lanciò la sua voce di pavone nel vano chiamando:

- O ma', venite a mangiare la minestra.

La vecchia Santina, rimpicciolita e tozza dentro il suo scialletto di lutto, uscí dall'ombra e venne con passo malinconico a sedersi al suo posto. La Lisa le pose davanti la scodella, le riempí il bicchiere, le collocò sui ginocchi il tovagliolo, rimproverandola con affetto rauco:

- Mangiate dunque. Credete che si possa vivere a forza di biascicare corone? Già, non lo potete risuscitare quel benedetto uomo, che in fondo sta meglio lui di tutti noi. Mangiate e fate coraggio anche agli altri.

E con un lampo dell'occhio mostrò alla donna il contegno stanco e pensieroso di Giacomo, che, colle braccia appoggiate alla tavola, andava rimestando col cucchiale nel riso con nessuna voglia di mangiare.

- O Angiolin... - chiamò di nuovo la Lisa, facendosi sull'uscio della corte, mandando nell'aria il suo grido di pavone selvatico. Il ragazzotto non si lasciò chiamare due volte. Preceduto da Blitz, che scrollò in casa il freddo e l'odor della nebbia, Angiolino entrò nel suo succinto vestito di lavoratore, che lasciava scoperta la pelle bianca del petto, e due braccia non ancora mature. Egli prese di sulla tavola la piú capace delle scodelle, quella in cui la Lisa aveva piantato il cucchiale, come si pianta una vanga in una terra lavorata, e andò a sedersi sulla cassapanca accanto al camino. Blitz, dopo aver cercato inutilmente d'avere una buona grazia da Giacomo, andò anche lui ad asciugarsi il pelo al fuoco.

- Piove? - domandò la Lisa, togliendo da una vecchia cassa un gran fascio di rami secchi, che buttò sulle braci. Dopo un gran fumare oscuro, la fiamma si alzò luminosa e grossa in mille lingue.

- Non ti ho predicato stamattina che avessi a metterti il giubboncino di lana? - rimproverò la Lisa, alzando il mestolo della minestra sulla testa dell'Angiolino, come se volesse dargli una mazzolata. - Tu non sarai contento fin che non avrai pigliata una bella bronchite. Ce n'è tanta d'allegria in questa casa!

- Credi ch'io fabbrichi i sorbetti alle Fornaci? - osservò Angiolino, mettendo in vista i suoi bei denti sani e girando gli occhi chiari e ridarelli. Seduto ritto su quella cassapanca di vecchio noce levigato (molti poveri morti vi si erano strofinati appresso), sotto i bagliori d'oro della fiamma, il giovinetto pareva un san Giovannino, che predica, tranne la buona voglia con cui prese a scavare nella scodella. Il suo appetito si risentiva delle prime frustate di freddo che soffia il Resegone per la valle dell'Adda. Giacomo si lasciò distrarre a contemplare la snella persona del ragazzo, ch'egli amava con protezione paterna. Poi gli disse:

- La Lisa ha ragione: non siamo piú nel mese di luglio.

- E Battista dov'è? - domandò la mamma, svegliandosi dalla sua dolorosa sonnolenza e girando gli occhi per cercarlo intorno alla solita tavola. - Sapete, ho poco tempo da stare al mondo, e vorrei vedervi riuniti d'amore e d'accordo. Se potete contentarlo in qualche cosa quel figliuolo, lui lavora volentieri. Che colpa ha lui, se il Signore non gli ha dato molto talento?

Giacomo sentí tutta la sagacia di un rimprovero cosí semplice, e, senza alzar gli occhi, posò e lasciò un pezzo una mano sulla mano fredda e rattrappita della mamma. Il cuore deve sempre avere una ragione di piú sopra quelle degli avvocati. Non disse nulla Giacomo, ma la mamma capí quel segno e si sforzò di trangugiare il suo mezzo bicchiere di vino.

La fiamma grande del camino riempiva tutta la stanza di una luce colorita e mobile, che faceva ballare le ombre delle sedie su per le pareti e sul palco affumicato, evocando dagli angoli piú riposti, dove non arrivava mai la luce del sole, i vecchi arnesi dimenticati da cinquant'anni, su cui Giacomo fin da ragazzetto soleva far molte fantasie e mille congetture. Dall'alto dell'armadio, per esempio, in mezzo a una rovina di oscure suppellettili fuori d'uso, tra cui uno sgangherato arcolaio apriva le sue braccia come un immenso pipistrello, spuntava il becco e il lungo collo d'una cicogna impagliata, che il nonno Galdino aveva ammazzata collo schioppo sul tetto della prima fornace. Intorno a questo raro uccellaccio, che non si vede mai nei nostri paesi, correvano in casa molte storie, che il pà soleva raccontare agli amici e ai figliuoli, davanti a quello stesso camino, dove si erano scaldate le ossa tre generazioni dei Lanzavecchia; talché nella fantasia affettuosa di Giacomo la cicogna dell'armadio stava quasi ad esprimere il buon genio della casa, l'amore che si sacrifica per l'amore, la creatura alata, che si getta nelle fiamme dell'incendio per salvare le creature deboli, che non possono volare...

Se egli avesse potuto ricondurre di nuovo la sua povera e sconnessa famiglia a godere qualche giorno di contentezza intorno al vecchio camino, a questo camino che nella costituzione delle cose nuove e nella rovina di molte cose vecchie è una delle poche pietre immobili, che puntano sulla roccia stessa della natura, ben avrebbe potuto paragonarsi alla cicogna che salva i figli dalle fiamme. Il continuare una buona tradizione di onestà e di lavoro è già una filosofia, che non ha bisogno d'essere scritta, molto migliore di quella, che va attaccando ragnatele tra il possibile e il probabile. L'ideale, che un giorno potesse raccontare anche lui a' suoi figli la storia della cicogna nella dolce vicinanza di Celestina, ben valeva quell'altro ideale, ch'egli stava fabbricando coll'inchiostro. Chi sa, chi sa che non giovi anche per l'avvenire il ravvivare la fiamma del camino domestico col buttarvi dentro un po' di libri?

Il pensiero di Celestina in mezzo a questi vaghi pensieri, ch'egli contemplava nella ridda dell'ombre scomposte, lo ricondusse a rileggere il biglietto della contessa: e, all'idea che la ragazza fosse stata mandata lontano cosí improvvisamente (il biglietto non diceva nemmeno dove e presso chi), provò una torbida tristezza. Volendo cercare una ragione o una parola, che calmasse il suo cuore, chiese alla mamma:

- Celestina non vi ha mandato a dir nulla?

- Speravo bene che si lasciasse vedere uno di questi giorni, - disse colla voce sonnolenta la donna.

- Fu un po' malata - soggiunse Giacomo per giustificarla.

- Ho paura che madamisella sia malata qui... - scappò detto ancora alla Lisa, che non cessò troppo presto dal picchiare coll'indice un poco piú su del grembiale, dove essa supponeva d'avere il cuore.

Giacomo questa volta se ne offese. Buttò il cucchiale sulla tavola con atto dispettoso, si alzò corrucciato, accese alla fiamma del camino una candela, e, senza dir verbo, infilò l'uscio della scala, lasciando dietro di sé un silenzio pieno di dolore e di sconforto...

- E mo' sei contenta?... - prese a gemere la mamma. - Quando imparerai a moderare quella tua lingua? Ognuno ha i suoi difetti e non tocca a te a mortificare Giacomo in questi momenti. Se domani ci manca il suo aiuto, chi ci dà da mangiare? - Cosí la vecchia, che però non riuscí a commuovere Lisa, la quale non si era mai pentita in vita sua d'essersi levato un peso dallo stomaco.

Giacomo, tirandosi dietro gli usci, si chiuse nella sua stanzuccia squallida ed esposta ai colpi del vento. Dopo aver collocato il candelliere di legno sul fascio delle scritture e delle stampe, che riempivano come una montagna il tavolino, cercò di sollevarsi, come sapeva fare qualche volta, con un moto d'energia mentale, nelle pure astrazioni del pensiero, in quel mondo superiore, dove i rumori della terra non arrivano, dove certamente non poteva arrivare il rumore irritante delle zoccolette di sua sorella. Ma ogni sforzo per entrare nel giro delle cose scritte e per scaldarsi in un pensiero generale gli riuscí vano. Il suo spirito, come un'acqua in cui una frotta di ragazzi avessero gettato dei sassi, non aveva piú la limpidezza necessaria per riflettere l'immagine delle cose. I suoi nervi vibravano troppo. E fuori e in casa gli pareva di vedere tutta una congiura contro la sua pace e contro la povera Celestina. Non solamente le sue intenzioni erano interpretate al rovescio, ma si sarebbe detto che il suo medesimo affetto per la giovine le portasse sfortuna. Ripensando all'ultima volta che l'aveva vista e alle ultime parole dette da lei, gli sonò nel cuore un discorso assai triste, come se Celestina fosse persuasa per la prima volta che la loro affezione non poteva piú durare. E questa improvvisa partenza per luoghi ignoti chi assicurava che non fosse un primo passo per rompere un legame apportatore di cattiva fortuna? S'era parlato una volta d'una vocazione d'andar monaca; e anche la contessa in qualche occasione aveva lasciato sfuggire parole misteriose di questo genere. E nemmeno quest'ultimo biglietto (ch'egli rileggeva per la quarta volta) spiegava bene una partenza che aveva tutta l'apparenza di una fuga. Già la gente, prima ancora che egli fosse avvertito del fatto, credeva di spiegarlo alla sua maniera...

Pensava, avvicinava supposizioni e sospetti, tenendo gli occhi fissi alla fiamma della candela. Una inquietudine spinosa, che gli entrò in corpo, un'afa calda, che gli accese la testa, l'obbligò a cercare una distrazione e una soffiata di refrigerio all'aria umida della notte. Aprí la finestra.

Una pioggerella mormorava sui pergolati immersi nella scura quiete della notte. Una tristezza desolante, la tristezza forse delle cose che sono, usciva dall'oscurità di quel fogliame depresso, quasi avvilito dalla pioggia, che cominciava a correre e a gorgogliare nei canali. Il cielo era chiuso.

Non vedendo ove fissare il pensiero, chiuse con rumore la finestra, e con un atto risoluto del volere, tornò al tavolino a metter le mani sulle bozze di stampa, incoraggiando mentalmente il suo spirito titubante. Non era la prima volta che il suo temperamento delicatamente nervoso e cauto soffriva di spauracchi vani, che un raggio di sole o una parola amica solevano dissipare come per incanto. Poiché si conosceva, amava dominare sé stesso, come se il pensiero di un altro Giacomo lo guardasse dall'alto. Dalla contessa voleva andare coll'animo sereno, sgombro, quasi purificato da tutte le chiazze di fango, che vi avevano gettato i pettegolezzi della gente. Il suo affetto per Celestina non era bastato a salvar lui e una signora degnissima di tanto rispetto, dai pettegolezzi e dalle maligne supposizioni degli ubbriachi... Non si diceva, tra le altre cose, ch'egli era l'amante della contessa? Egli doveva colla sua schiettezza dissipare queste voci.

Coll'occhio fisso al lucignolo, che si allungava nella fiamma, avrebbe voluto percorrere gli spazi liberi della dottrina; ma l'animo invece andava a intricarsi con una specie di malsana energia in mezzo ai viluppi della vita piccina, quasi per un gusto fanatico di tormentarsi. Tratto tratto si scoteva dalla sua fissazione, ripassava colla penna bagnata sulle parole stampate, che avevano avuto un gran senso una volta, e ora non l'avevano piú, o ne mettevano fuori uno tutto diverso, che sonava quasi come una canzonatura. In un certo punto, dove il libro parlava della solidarietà, trovava d'avere scritta questa sentenza: «L'esperienza ci dimostra che un sentimento attivo di pietà lega gli uomini tra loro. È questa pietà che forma il profumo speciale dell'anima umana. Essa è quanto di piú divino si agita in noi».

Non poté trattenere un sorriso di compassione verso sé stesso nel rileggere queste grandi parole:

«Va, va, minchione, a cercare il profumo dell'anima all'avvocato Brognòlico, all'ex impresario della Rivalta, all'oste della Fraschetta, al mugnaio del Lavello, a questa cara mia sorella, che taglierebbe il ferro colla lingua, a quell'asinaccio ubbriaco, che dorme sul fienile...»

L'immagine di Battista, evocata in coda a questa nobile processione di anime, gli richiamò alla mente una promessa, che aveva fatto in cuor suo poco fa a tavola alla mamma. Se l'asinaccio restava a dormire sul fienile aperto ai quattro venti, in una notte cosí fredda, c'era pericolo di trovarlo morto intirizzito. Questo pensiero cacciò via tutti gli altri. Si mosse, prese il lume e spinse l'uscio; ma rifletté che a persuadere Battista a scendere dal fienile, se lui non voleva, non sarebbero bastati i sette savi dell'antica Grecia; né egli da solo era uomo da prenderselo in ispalla e portarlo fuori. Tornò indietro, tolse dal letto un coltrone di lana, che la mamma aveva aggiunto alle coperte a difesa dei primi freddi, se lo buttò in ispalla, come una toga, e passando sulla punta de' piedi davanti agli usci delle donne, scese in cucina.

La casa era tutta chiusa e quieta. Aprí adagino l'uscio dell'orto, attraversò il cortile della scuderia, tirandosi sotto la gronda per difendersi dalla pioggia che batteva sulle pietre, e giunto ai piedi del fienile, provò a chiamare:

- Battista!

Nessuno dette segno di vita. Allora provò a salire la scala a piuoli ch'era lí, appoggiata al muro, e quando fu in cima, facendo schermo della mano alla fiamma contro i buffi del vento, cercò di mandar la luce nell'interno del fienile. Vide Battista raggomitolato nel fieno, immerso nel sonno più profondo. Con precauzione agganciò il lume a una trave e, passeggiando nel fieno secco e cedevole che parve animarsi di mille scintilluzze, s'inoltrò sotto le ruvide travi del tetto fin dove russava colla bocca aperta il suo tenero fratello. Appressò col piede alcune zolle al corpo, in modo da fargli un po' sponda e buttò sull'addormentato il coltrone.

- Che il vino ti mandi un bel sogno - mormorò nel tornare indietro. E stava per rimettere il piede sulla scala, quando un non so che di bianco, una carta, caduta in mezzo allo strame, richiamò la sua attenzione. Si abbassò e raccolse una lettera, che portava l'indirizzo dell'egregio avvocato Genesio Brognòlico. La lettera era aperta, di vecchia data, già consumata e impregnata d'un forte odore di pipa.

Quando Giacomo fu di nuovo disceso sotto il portichetto, non credette di commettere un'indiscrezione, se volle conoscere in quali mani era caduto Battista e con quali armi intendevano di fargli guerra i signori avvocati. Chi scriveva al Brognòlico era l'avvocato Brescianella di Merate, che in poche righe d'una scrittura ingrossata dalla polvere sparsavi sopra diceva all'egregio collega:

«Caro amico, se credi che il Lanzavecchia Giacomo possa pagare, sarebbe meglio trattar direttamente con lui. Questo tuo raccomandato mi pare un salame. Se l'altro non ama scandali, come mi dici nell'ultima tua, tanto meglio; verrà piú presto a una transazione. Ma intanto chi paga le spese e le anticipazioni?...»

- Ecco il profumo delle anime! - disse Giacomo, accostando il delicato biglietto al naso, quasi per aspirarne l'essenza. Come mai questa lettera fosse rimasta a fermentare nella giacca di Battista non si poteva spiegare, se non immaginando che l'avvocato di Merate si fosse servito di lui come di procaccio, e che, colla diffidenza propria dei poveri di spirito, Battista, prima di consegnarla, avesse mostrato il foglio a qualche compare capace di decifrarlo.

Comunque fosse andata la cosa, si vedeva qua sotto un altro intrigo di quel democraticone di Brognòlico, che, non volendo dichiarar guerra aperta a un amico troppo vicino, lo faceva, col sistema dei francesi, combattere nelle colonie.

- Che cosa intende dire colla frase: se l'altro non ama gli scandali? E perché devo accettare una transazione? e con quali fondi dovrò pagare questi bravi signori, che mi fanno l'onore di occuparsi de' fatti miei?

Queste frasi disse fra sé e ripeté piú volte, soffermandosi sugli scalini, mentre ritornava nella sua stanza; ma non trovò che valesse la pena di andare in collera.

- Ne parleremo domattina... - conchiuse tra sé, e, messosi a letto, cercò d'afferrare il sonno; ma non fece che voltarsi e rivoltarsi nelle coltri, adirandosi con sé stesso, che non sapeva con un atto di volontà superiore liberarsi dai continui pensieri. Finalmente sul far dell'avemaria, rotto dalla fatica mentale, si appisolò in un sonno, che continuò in una cieca sofferenza. Quando saltò dal letto la mattina, prima ancora d'infilare la giacca e d'accendere peppinetta, sedette al tavolino, prese di primo impeto la penna in mano, e, senza aspettare i consigli della solita prudenza, colla furia di un Bonaparte, che segna sul tamburo un bollettino di guerra, scrisse d'un fiato:

«Le restituisco, signor avvocato, una lettera che Le appartiene, e colgo l'occasione per dirle che i Lanzavecchia non hanno denari, né per coprire gli scandali, né per comperare coscienze d'avvocati. Le auguro che i sentimenti di liberalismo democratico, di cui Ella fa insegna alla bottega, abbiano a suggerirle un maggior rispetto, se non per la dignità altrui, almeno per il titolo che porta. Con immensa compassione mi sottoscrivo.

prof. Giacomo Lanzavecchia.»

Chiuse le due lettere in una busta gialla come la rabbia e mandò a chiamare un ragazzetto della fornace.

- Porta subito all'avvocato, sai? quel pallone gonfio che sta in piazza sopra la drogheria. Corri, Paolino! - E, fregandosi le mani, come se avesse vinto un terno: - Cosí, cosí... - andava ripetendo, mentre passeggiava in preda a un'insolita spavalderia, - cosí impareranno a conoscermi, e se il sor avvocato vorrà il resto, glielo sapremo dare, senza bisogno di carte bollate e di anticipazioni. Glielo daremo tutto in una volta. Forse son miserie e pettegolezzi indegni d'un filosofo; ma anche ai filosofi dànno noia le ragnatele. Un buon colpo di scopa di tanto in tanto fa bene alla casa.


XVI

LA GRANDE BATTAGLIA


Per tutta la mattina si agitò e si tenne vivo in questi pensieri di ribellione, che gli mettevano indosso una forza fin troppo calda ed esasperata. Cercò di distrarsi in cento occupazioncelle materiali per far venire l'ora d'andare dalla contessa. Qualunque fosse per essere lo scopo e l'intonazione del colloquio, aspettava e nello stesso tempo gli pareva di temere quest'incontro, molto piú che, senza metterla a parte di indegni pettegolezzi, doveva pur provocare da lei qualche provvedimento, che collocasse Celestina al coperto d'ogni mormorazione. Forse era prudenza togliere la fanciulla dalla casa di quei signori, e tenersela vicina per dar qualche soddisfazione ai maldicenti. Dopo la morte del povero pà, egli aveva assunto verso la povera ragazza dei doveri maggiori, quasi di padre e di tutore; e per quanto la nuova risoluzione potesse dispiacere a donna Cristina, egli non poteva assolutamente lasciare esposta una debole creatura alle calunnie del mondo.

Parendogli che il tempo passasse troppo adagio in mezzo a questi pensieri e a questi dibattiti, per distrarsi con qualche operazione un po' complicata trasse dalla rimessa l'antica timonella e si pose all'opera faticosa di ripulirne le ruote, di liberarne l'ossatura dalla ruggine e dal fango, lavò, strofinò con una spugna, dipinse con un pennello i cerchioni, i mozzi, le cigne, versò dell'olio nelle addolorate giunture della logora carcassa, in cui pareva riassunta, come in una immagine visibile e sconnessa, la storia della sua famiglia, e quando finalmente sentí sonare le tre al campanile, salí in camera a vestirsi. Nell'uscir di casa s'imbatté nella mamma, che tornava dall'orto con una gallinetta nel grembiale e disse: - Vado dalla contessa a sentir di Celestina; torno subito...

- Dio benedica quei signori, se posson fare del bene a lei e a te... - soggiunse la Santina, spingendo l'uscio della casa, mentre Giacomo si avviava lesto per la strada del Ronchetto. Ai piedi della salita, s'incontrò nel ragazzetto, che aveva portata la lettera all'avvocato.

- Gliel'hai consegnata a lui, Paolino?

- Sí, stava bevendo il caffè!

- Bravo Paolino, to' - e mise nelle mani del ragazzo un soldone. - Io gli ho mandato a tempo lo zucchero - soggiunse ridendo, rallegrandosi con sé, mentre varcava il cancello del giardino.

Nel risalire pel noto viale dei carpini, già seminato di foglie umide e morte, già coperto della melanconia dell'autunno, provò un presentimento inesplicabile di sgomento, come se qualche cosa si offuscasse, si distaccasse e morisse anche in lui. Mai aveva sentito con tanta pietà la tristezza dell'autunno morente e delle foglie che cadono! Sul punto di raggiungere la soglia della casa, tutti i pensieri della sera prima e della notte mal dormita si affollarono nel suo capo in un miscuglio confuso, che fece un breve intoppo alla sua fermezza. Un velo di nebbia scese ad oscurargli gli occhi; ma fu un'impressione momentanea, da cui uscí animosamente. Nel passare davanti alla finestra della biblioteca, vide al di là dei rami squallidi della glicina la figura vagolante di don Lorenzo, che vestito della sua zimarra rossa, col berrettino d'astracan in testa, frugava tra le carte e i libri; e, per una successione ruvida e scortese di idee, gli sonò nell'orecchio una frase volgare del Brandati a proposito dei mariti vecchi e del fervore delle beghine.

Fabrizio, che stava di sentinella sotto l'atrio dell'ingresso, gli venne incontro col suo passo umile e strisciante, gli fe' un cenno colla mano, lo tirò in disparte:

- La signora contessa - disse sottovoce - prega il signor Giacomo di andare di sopra. È alquanto indisposta e le sale son cosí fredde...

Il vecchio servitore, andò avanti, precedendo Giacomo, non per lo scalone, ma per una piccola scala secondaria, che riusciva, dopo due pianerottoli, in un andito semibuio, da dove partivano due lunghi corridoi sul far d'un convento. Per quanto pratico della casa, Giacomo non si ricordava d'esser passato mai da questa parte, che era la meno bene esposta e la piú lontana dalle stanze abitate. Nei tempi andati vi alloggiavano i pellegrini e i frati di passaggio, tanto che al quartiere era rimasto il nome di Cappuccina.

- Si accomodi - disse il servitore, spingendo un uscio dissimulato nel muro; e introdusse Giacomo in un salotto addobbato con fredda eleganza, secondo lo stile detto imperiale, con mobili bianchi e freddi, carichi d'ornamenti d'oro, che spiccavano sul verde cavolo delle stoffe di cui eran coperte le pareti e le sedie.

Giacomo, quando si trovò solo co' suoi pensieri, cercò di occuparsi delle cose. La finestra, spoglia affatto d'ogni genere di tende, dava immediatamente sul frascame ombroso d'una grande magnolia, che riverberava il suo verde umido e lucente nell'aria verde di quel salottino, già smorto di colori bassi e squallidi. Sul caminetto di marmo gelido e liscio dominava in un composto raccoglimento il gruppo rimpicciolito delle Grazie del Canova, in mezzo a due tripodi pure di bronzo, imitazione del greco antico. Un basso canapè rasente una parete, a sponde rigide, con piedi di bronzo, freddo e liscio anch'esso come un letto di marmo, era il principale mobile della stanza, tra due seggioloni irrigiditi nello stesso stile, che da cinquant'anni forse non aspettavano piú nessuno. Freddo era il silenzio stesso dell'ora in quell'angolo di tramontana, che aveva fama di umido e di poco sano.

Rimasto solo, Giacomo si abbandonò alla timida emozione, che viene da tutto ciò che non si capisce. Perché questo ricevimento clandestino? Che la contessa avesse veramente qualche brutta notizia a dargli?

Fermo nel mezzo della stanza, colla mano appoggiata alla spalliera d'una seggiola, che pareva un piccolo trono, seguí il fruscio lento delle scarpe di feltro di Fabrizio, che gli era parso preoccupato, sentí battere a un uscio, raccolse l'onda morta d'una voce che usciva dalle stanze interne; e Dio sa perché i polsi e il cuore cominciarono a battere dolorosamente.

Sentendo che l'insulsa emozione montava quasi a soffocarlo, mosse qualche passo e si curvò a osservare in uno stipo una piccola raccolta di monete classiche. Non vide la contessa, quando entrò, ma ne sentí la presenza.

- Contessa - disse, volgendosi verso di lei: e rimase quasi atterrito alla vista del pallore terreo, all'espressione spaventata del suo sguardo. Sentendosi veramente un poco febbricitante, la signora non era discesa dal letto che per venire a questo colloquio, che non poteva piú essere ritardato. La sua persona, avvolta in una vestaglia floscia di flanella, spiccava sul fondo verdognolo delle pareti, come una statua nelle pieghe pesanti del marmo. E qualche cosa di veramente marmoreo era pure nella trasparenza del volto dimagrato e raffinato dall'insonnie, dalla febbre, dall'angoscia morale. Giacomo che non la vedeva da quindici giorni, fu quasi per dubitare che fosse lei.

- Scusi se la ricevo cosí - essa cominciò a dire, accennando alla semplicità del suo vestire.

- Contessa, che cosa è accaduto? - chiese il giovane Lanzavecchia, prevenendola.

- O Giacomo, o il nostro povero Giacomol - riprese la signora con un tono quasi delirante, coprendosi il volto colle due mani e rimpicciolendosi davanti a lui.

- Che cosa? - fece egli, andandole incontro con impeto e arrestandosi davanti alla persona, che tremava tutta: - Che cosa? - ripeté dopo un momento con voce torbida e mancante.

La contessa, come se si sciogliesse a un tratto da un'orrida rete di ferro, scosse la testa, alzò il viso, posò le mani sulle spalle del giovine, mosse le labbra sotto lo sforzo vano di voler parlare, non potè, le forze l'abbandonarono e, come un corpo che si sfascia, cadde sui ginocchi.

- Contessa, che cosa c'è? - ripeté quasi per forza d'inerzia il giovine, vacillando un poco egli stesso, mentre una visione terribile, spaventevole come la morte, balenava nella oscurità della sua mente.

- Una grande, una irreparabile disgrazia per me, per lei, povero Giacomo, per tutti - confessò singhiozzando la signora, cercando di farsi ancora piú poca nella sua umiliazione.

- Si alzi, signora... - balbettò Giacomo tutto smarrito: e poiché essa non dava segno di volersi muovere, egli, mettendole rispettosamente una mano sotto il braccio, cercò di sollevarla; ma la poveretta, prostrandosi ancor di piú in una specie di sfinimento fisico, sino a toccare la terra colla fronte: - Punite me, schiacciate me... - singhiozzò di nuovo con voce rotta e agonizzante.

Giacomo ebbe per via occulta la chiara rivelazione di tutta la verità, della crudele verità, che già aveva brutalmente bussato al suo uscio.

- Celestina? - domandò con una collera violenta ed aggressiva: né mai interrogazione alcuna fu piú piena della sua risposta. Si sarebbe detto che egli interrogasse non per avvicinare, ma per respingere la mostruosa verità, che lo assaliva da tutte le parti.

- Calpestatemi! - sospirò la povera madre.

- Celestina?! - riprese dopo un cupo silenzio, cercando di trattenere la voce - no, non è vero, non è possibile. Noi c'inganniamo a vicenda. Non può esser vero quel che va dicendo la gente. Non mi faccia soffrire cosí. Si alzi, signora, sono un uomo, so portare ogni male. Si alzi, mi usi questa carità, dica che io m'inganno.

Mentre andava cosí parlando, col cuore ghermito come dentro una mano di ferro, poté sollevare donna Cristina dalla sua posizione umiliante, e, sorreggendola in un momento in cui parve che le forze stessero per abbandonarla, la condusse a sedere sul canapè: e nella coraggiosa dimestichezza degli istanti supremi, quando non restano che le anime nude a soffrire, le afferrò le mani, che essa si era portate al viso, gliele distaccò con forza, per cercare la fatale risposta nel fondo degli occhi. Essa sostenne un brevissimo istante il suo sguardo investigatore e tagliente: poi, cedendo avvilita, chiuse lentamente gli occhi in una dolorosa agonia. Fu allora che, riassumendo in un nome la formidabile tragedia: - Giacinto? - chiese lui, e strinse nelle sue irritate le piccole mani della contessa, che gemette di dolore. Essa rialzò gli occhi e li fissò con lento e pauroso stupore in viso al giovine, che l'ammaliava co' suoi. Fu un momento di tragico incanto. Giacomo vide balenare nelle pupille della madre una luce di spasimo immenso, che si spense in una piccola lagrima di supplicazione. - Ah Dio! - gemette: e, distaccandosi inorridito, la respinse cosí brutalmente che la misera donna cadde per la violenza dell'urto col viso sui cuscini, dove non trattenne piú nessuna voce di pianto. Il gran momento preveduto, ritardato, temuto e invocato con raccapriccio e con ansioso desiderio, era venuto; ora essa lasciava che tutti i dolori passassero sopra di lei. Si sarebbe detto che tutta la sua vita di donna, di madre, di cristiana, si rompesse sotto la frenesia di quel pianto, che stemperava l'anima, che non voleva riposo.

E Giacomo? era per lui una tenebra fitta, un rumor sordo sotto i piedi come di terremoto, un senso acre e un peso di piombo in tutta la sua oscura esistenza.

A questo fiotto di dolori, di terrori, a questo precipizio improvviso di mali, non resse: e si lasciò cadere pesantemente nella vicina sedia, a cui si aggrappò, còlto da un tremito, da una fisica incapacità di reagire. A poco a poco, passata la prima tumultuosa tempesta, quando gli spiriti cominciarono a calmarsi, si trovarono l'uno in faccia all'altra, sfiniti, come due miseri flagellati.

Fu allora che Giacomo, seguendo la violenza del pensiero, si alzò, e agitando le mani con un movimento di spasimo, con parole che gli uscirono velate e scialbe, come se venissero da un uomo sepolto, - Signora! - disse - non posso piú resistere. Qualunque sia la mia disgrazia... aspetto prima di sera una sua lettera... Farò di tutto, perché entro domani le sia restituito il prezzo del disonore...

Non aveva egli ancor finito di parlare che donna Cristina, scattando per una trafitta interiore, sostenuta dalla forza prodigiosa, che la natura femminile attinge da inesauribili profondità, gli pose una mano sulla bocca. Poi colle due mani, che ardevano di febbre, gli strinse la testa, e lasciando sgorgare dal sentimento mite e forte le parole come volevano venire, nel tono confidenziale, che aveva usato con lui quando era un giovinetto, senza la freddezza del pronome signorile: - No, Giacomo, non dite queste brutte parole... - seguitò amaramente - merito ogni oltraggio, non questo. Nessuno crederà mai che noi vogliamo comperare il vostro perdono... Non maledite a questo modo una povera madre. È la mia casa che rovina sulla mia testa, guardate! Il conte non sa ancor nulla, non immagina nemmeno quel che ci fa piangere, ma sarà un gran colpo il giorno che non gli si potrà piú nascondere la verità. Pensate, son la madre di Enrichetta, della vostra Enrichetta, che non deve sapere come si soffre e perché si soffre a questo modo. Se potessi dare tutto il mio sangue, perché non fosse avvenuto quel che è avvenuto, fino all'ultima goccia, Gesú lo sa se ne farei il sacrificio. Nemmeno il vostro dolore, Giacomo, è uguale al mio... no, no, nemmeno il vostro dolore!

Nulla c'è di piú sacro sulla terra quanto un'angoscia di madre. Il giovine, che avrebbe voluto riprendere il suo risentimento e stringere in una parola d'esecrazione tutti i pensieri d'odio che gli tumultuavano nel cuore, si sentí, se non disarmato, molto impedito ne' suoi movimenti di violenza da queste parole.

Perché avrebbe infierito contro una donna, contro una madre, che si era già umiliata piú di quanto a un cuore generoso piace di veder umiliato un nemico?

Questo momento di esitanza bastò alla contessa per impadronirsi della fortezza di lui, perché pare dimostrato che, dove contrasta per un qualunque motivo un uomo con una donna, l'uomo perde sempre, se non vince subito. Giacomo, a cui non era ignota la storia della povera signora, che conosceva quanto avesse combattuto per sostenere l'ideale della sua casa, non seppe respingere con un atto di reazione brutale la seduzione dolente di questa voce, di queste lacrime, di questi occhi supplichevoli, di questa percossa bellezza, a cui le mani del dolore davano una cosí nobile e appassionata scompostezza. Come poteva dimenticare a un tratto che in questa casa era, si può dire, cresciuto come un figliuolo, e che a questa gente era in gran parte debitore della sua ricchezza morale?

Sentendo in quest'urto di pensiero le piú forti risoluzioni venir meno, si avvilí del tutto. Una leggera vertigine lo colse, cominciò a tremare in tutto il corpo, l'occhio si coprí d'ombre per un istante rimase ignoto a sé, forse svenuto. Un vivo senso di freschezza alla fronte e un forte profumo lo svegliò. Donna Cristina, mentre sorreggeva la testa, passava un finissimo fazzoletto inzuppato un'acuta essenza sulla fronte, sussurrando parole, ch'egli non riusciva ad afferrare, come avviene qualche volta nei sogni. A poco poco, riconobbe il salottino, che gli parve immerso in un'acqua verdognola, come se ei sognasse veramente in un fondo di mare; riconobbe la contessa, che, seduta davanti, gli raccontava con brividi di febbre la tristissima storia d'una colpa. Celestina era innocente e il voler incrudelire contro di lei sarebbe stato peggio che calpestare una vittima. Ogni atto di severità, ogni parola acerba di rimprovero, lo stesso abbandono silenzioso sarebbe stato da parte di Giacomo un colpo mortale per la povera creatura. - Il male è grande - seguitava a ripetere la voce, che egli stentava ad afferrare, come appunto capita nei sogni - ma da ogni male si può ricavare una redenzione. Vendicatevi, dice il diritto volgare; perdonate, dice la legge del Signore. Una vendetta contro di noi è una cosa assai facile: ma voi esporreste Celestina al giudizio della gente. Non imploro per me e meno ancora per il disgraziato, che ci ha precipitati in questo abisso: ma, prima di lanciare una pietra, si pensi a quanti cuori ne andrebbero spezzati. Forse che Dio non ci perdonerebbe, se gli chiedessimo grazia con queste lacrime? Celestina per il momento è al riparo di ogni scandalo, e quanto si potrà umanamente riparare sarà riparato.

- Non si risuscita un uomo ucciso... - interruppe Giacomo, stendendo i pugni verso la terra, come se provocasse una maledizione: - Dio, Dio, è il disonore, è il ridicolo, è la morte: avete sputato sull'innocenza d'una povera creatura, sulla mia dignità, sulla mia virtú, sul nostro amore...

- No, no, Giacomo - supplicò la contessa.

- No, no, no - proruppe egli piú forte, alzandosi, in preda a un singhiozzare nervoso. E poiché la contessa cercava con un'ultima insistenza di afferrargli la mano, egli se la cacciò con un gesto disperato dentro i capelli, e premendo con spasimo, la fronte corrugata: - Questo è l'inferno, - disse - questa è la maledizione di Dio! Ma, Dio santo, qualcuno pagherà!... - E si mosse per uscire, dopo aver preso di sulla sedia il cappello.

Donna Cristina fece un ultimo sforzo. Stese le braccia verso di lui, mormorando con una scossa dolente del capo:

- Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene - e pose la mano sulla chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse cosí.

- Qualcuno pagherà col sangue - ruggí l'uomo ferito, mentre cercava di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscí a precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie piú basse e piú fitte, sempre nella direzione del fiume. Cosí una fiera ferita cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma teme, arrestandosi, di sentire piú vivo il suo dolore. Seguendo la stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate, dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni, egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza, minacciava di soffocarlo.

La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi, quantunque il caso gli paresse cosí inverosimile da far pensare piuttosto a un delirio angoscioso e crudele.

Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando, era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto, egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era piú in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera follia che luccicavano nel suo cervello.

I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza!

I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite!

Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto!

A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva cercato l'uomo morale e non trovava che la belva!

Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo? come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato? Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare sé stesso da questa schiavitú? Se egli avesse potuto fare un gran rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico.

Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero.

Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico?

A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata?

Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore.

Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne.

Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.


PARTE SECONDA

I

I PADRI E I FIGLI


Don Lorenzo si sarebbe lasciato tagliare una gamba piuttosto che introdurre, come sappiamo, in una epigrafe la parola fornaciaio, una parolaccia che fa rima con merciaio, formicaio, letamaio; ma, d'altra parte, non sapeva capacitarsi come il canonico Ostinelli, a cui aveva mandata per un'ultima approvazione l'iscrizione sul povero Mauro, trovasse a ridire sulla voce laterizio, che non è poi un latinismo della Valle Brembana! C'è o non c'è in Plinio? Non che egli fosse contento in tutto e da per tutto delle quattro righe, che aveva consacrato al buon vicino delle Fornaci; c'era anche per lui in quell'iscrizione qualche cosa che non finiva di finirgli. Là dove diceva, per esempio: «A Mauro Lanzavecchia dell'arte laterizia maestro industre» quell'estro, ustre, dava al suo orecchio un certo suono di banda campestre, che urtava la tromba d'Eustachio. Si sarebbe potuto girare la locuzione e di dire in altro modo: «Qui i resti mortali posano di Mauro Lanzavecchia che nell'arte calcaria fu per dieci lustri operoso maestro»

- È vero che le sue ultime tegole non hanno impedito l'anno scorso che si bagnasse tutto il nostro frumento; ma. questo non si può dire in epigrafe. Mauro era veramente un buon diavolo, un po' rumoroso, operoso e rumoroso maestro...

Il conte, che si rallegrava facilmente e volontieri in questa valle di lagrime, purché il cuoco non gli guastasse un piatto, rideva tutto solo nel suo studio luminoso, parlava con sé stesso, movendosi in mezzo ai libri, come il pesce si muove nell'acqua chiara e trasparente del fiume in cui è nato, cercando che la stanza fosse né troppo calda, né troppo fredda, ascoltando il suo stomaco, litigando spesso per lettera con quel benedetto canonico Ostinelli, un manzoniano spiritato, che trovava (bontà e coraggio suo) fiori di lingua perfino nei «Promessi Sposi».

In fondo non era malcontento che la non grave malattia della contessa gli offrisse una ragione sufficiente per rimanere senza inquietudini eccessive un paio di settimane di piú al suo Ronchetto, al suo Tusculo. La regola ormai secolare di casa Magnenzio voleva che non si restasse in campagna mai piú tardi del San Martino, vale a dire non mai dopo la riscossione degli affitti e l'aggiustamento dei conti coi mezzadri. Cogli ultimi di novembre dunque la famiglia doveva ritornare regolarmente a Cremona nel gran carrozzone della nebbia, cosí detto, perché pareva agli abitanti della contrada che con esso viaggiasse l'inverno. Don Lorenzo non s'era mai potuto abituare a quella diavoleria scatenata del vapore, e preferiva andar nella sua carrozza e co' suoi cavalli, che si possono fermare quando si crede. Siccome per la stessa legge fisica e filosofica delle cose, quando non c'è una ragione piú forte che spinga a far diverso, la necessità naturale vuole che si continui a far quel che si è sempre fatto, cosí non era accaduto mai, nei cinquantanove anni dacché don Lorenzo era venuto al mondo, ch'egli vedesse la neve cadere sulle piante del Ronchetto. Grazie alla piccola febbre reumatica di Cristina, che aveva permesso di fare uno strappo alle abitudini, gli era stato concesso anche questo nuovo spettacolo di una bella nevicata sulle piante del giardino, e se lo godeva tutto, stando dietro le doppie vetriate della finestra, coi piedi nelle pantofole di pelo, con in testa un berrettone cosacco, che faceva comparire piú grossa la testa e piú piccina e piú pallida la sua buona faccia di arguto pedante. Meno d'una volta ora sentiva il desiderio di tornare in città. Quantunque vivesse nel suo guscio come una lumaca e non amasse mescolarsi nelle beghe amministrative e politiche, fino a rifiutare l'onore di essere fabbriciere del duomo, tuttavia non poteva impedire che il rumore delle agitazioni cittadine, dei conciliaboli politici, delle lotte elettorali non arrivasse qualche volta fin sulla sua tavola insieme al formaggio e agli amaretti.

Da qualche tempo, in seguito a un'attiva propaganda repubblicana e anticlericale, andavano díffondendosi nel cremonese, specialmente nel basso popolo, le idee del piú scamiciato socialismo, per non dire dell'anarchia addirittura, che avrebbero trascinata la società agli eccessi del famoso Terrore, quando si segavano le teste come gambi di trifoglio.

Quantunque don Lorenzo non arrivasse fino al punto di veder in pericolo la sua cucuzza, si capisce tuttavia che un uomo pauroso come lui sedesse mal volentieri sulla mina e sognasse l'idillio di ritirarsi un bel giorno al Ronchetto a rileggere il suo Guicciardini e le prose del suo Giordani, l'ultimo degli scrittori veramente italiani. Ora che Giacomo Lanzavecchia aveva accettato di metter le mani nelle sue schede epigrafiche e gli toglieva il fastidio della fatica materiale, il conte sognava di lasciare a' suoi figli un monumento storico, che testimoniasse ai posteri come equalmente un certo conte Lorenzo Magnenzio di Villalta, del decimonono secolo, non fosse un merlo del tutto. E come una leccornia, si riserbava l'unica e dolce fatica di premettere il suo gran «Discorso preliminare sugli Uffizj della Nobiltà del presente tempo», che doveva essere il suo testamento morale e stilistico, al quale pensava già con una specie di febbre indosso. La vecchia aristocrazia italiana, specie quella del secolo scorso, della quale egli si sentiva moralmente contemporaneo, aveva lasciata una gloriosa tradizione di coltura, di amore agli studi, di buon gusto nelle lettere e nelle arti, come dimostrano i nomi dei Verri, di un Beccaria, di un Alfieri, di un conte Gozzi, di un marchese Spolverini, l'autore di quel gioiello didascalico intitolato la «Coltivazione del riso»... Oggi invece, - diceva qualche volta con un senso di rammarico a pestar tutti i nostri nobili insieme in un mortaio, non cavate il sugo per condire un sonetto. Le vecchie e illustri biblioteche sono in bocca ai sorci o nelle mani dei rigattieri; i preziosi archivi se li mangiano le tarme; le raccolte dei quadri di valore se li portano via i sarti e i dentisti arricchiti; e cosí il basso popolo si abitua a non stimarci più, ci considera come nati solamente fruges consumere, aspettando il momento di portarsi via colla forza quel che non abbiamo ancora perduto colla pigrizia. Brutti tempi! ma ne vedremo di piú brutti: e quando diremo «mea culpa, mea maxima culpa», non ci sarà piú nessuno dei nostri in grado di dettare sul nostro sepolcro una iscrizione passabile... - Queste erano le idee, dirò cosí, in camicia, che dovevano entrare vestite e decorate nel gran «Discorso preliminare» pel quale andava facendo spogli di lingua dal Davanzati, dal Machiavelli e dall'aureo libretto della «Vita civile» del Palmieri; e passeggiando nelle sue pantofole, mentre risaliva col pensiero alla grandezza politica dell'aristocrazia romana e veneta, gli pareva di diventar grande anche lui e di sentirsi lo stomaco riscaldato da un sentimento nuovo di coraggio e di magnanimità che lo faceva digerire piú bene.

Non meno felice del babbo fu donna Enrichetta per questa ritardata partenza. Per lei Cremona era una specie di monastero, senza nemmeno la distrazione del coro. Vecchie dame austere, reverendi sacerdoti, antichi amici, affumicati come i ritratti dell'anticamera, formavano l'unico diversivo delle sue eterne giornate piene d'inglese, di aritmetica, di musica tedesca, di orazioni. Qui al Ronchetto le era concessa piú libertà di svolazzare per il giardino, di scendere in compagnia di qualche buona ragazza a visitare le sue vecchie malate nei cascinali circostanti o a copiare dal vero un gruppo di piante, senza quella fodera inglese di miss Haynes, o di pregare sola nella chiesa del Santuario, da dove l'occhio scorreva nella valle dell'Adda coperta di neve. La malattia di mammà e qualche cosa d'insolito, che non osava indagare, rendevano la vigilanza meno rigida: quindi quel trovarsi a un tratto libera da ogni reticolato d'orario prestabilito, le fecero parere quei venti giorni di freddo dicembre una vera e mai provata vacanza. E cercò di goderseli leggendo e scrivendo a lungo, improvvisando grandi poemi in prosa sulla natura bianca, sui morti che sognano al camposanto, sui genii del molino, sul fumo che esala dagli umili tuguri verso il cielo, su un mondo non ancora esplorato di sentimenti, d'impressioni, di fantasie poetiche, che, prima di partire, voleva dedicare al suo professore sotto il titolo di «Foglie cadenti».

Un giorno, tornando dalla messa, sentí da una vecchietta della cascina Colombera, che il signor Giacomo era stato trovato come morto in un luogo detto la Cava presso il fiume, e, portato a casa, dibattevasi da una settimana tra la vita e la morte. Questa notizia colpí il cuore della ragazza come una pugnalata. Di mano in mano che dalle Fornaci arrivavano cattive notizie, sentiva crescere le lagrime negli occhi. Fece accendere una lampada all'altare della Madonna e distribuí ad alcune povere donne gli ultimi avanzi del suo privato peculio, perché pregassero secondo la sua intenzione. Se mammà avesse permesso, sarebbe discesa tutti i giorni alle Fornaci a chieder notizie; non potendo farlo, cercava cogli occhi i neri fumaioli nel candore della neve e dalla sua finestra stava molto tempo immobile e pensierosa a ripetere mentalmente degli auguri. Quando il dottore assicurò che la congestione cerebrale era vinta e che il signor Giacomo si metteva in via di sicura guarigione, donna Enrichetta, come se anche il suo cuore uscisse da una grande malattia, aggiunse molte pagine alle «Foglie cadenti». Una finiva con queste parole:

«Come ti chiami, o fiorellino, che dalla candida e sterile neve sbocci, portando il saluto della terra? Sei tu il fiore della vita, o sei il fiore della speranza, che nessun gelo può spegnere? O modesto fiore dell'elleboro, va fino a lui e portagli il saluto della vita e della speranza. Possa, allo sciogliersi di questa neve, apparire la terra seminata di violette. Già presento il profumo che inebria l'anima».

Pensieri ben diversi passavano intanto nell'animo di suo fratello, il bel tenente di cavalleria. La contessa giudicava male suo figlio, quando scriveva in una lettera alla Breno: «La gioventú è egoista. Egli crede che col denaro oggi si arrivi dappertutto e dorme nell'illusione, in cui vissero i suoi antenati, che mezzo mondo sia stato creato da Dio a servizio e a divertimento dell'altro mezzo».

No, Giacinto non arrivava fino all'orgoglioso concetto di creder sé qualche cosa di superiore e di privilegiato, a cui gli umili dovessero inginocchiarsi. Questa idea spagnolesca di sé stesso non poteva essere nell'indole allegra, cordiale, espansiva, leggerona del giovine, che amava semplicemente il vivere allegro, interrotto, e odiava come la morte le cose difficili e noiose.

Bellissimo, ben costituito e pieno di tutte le sue forze vitali, soltanto una ferrea volontà e una solida tempera di carattere avrebbero saputo salvarlo dagli istinti prepotenti e dalle tentazioni cosí numerose, cosí seducenti per i giovinotti ricchi, molto in vista, molto cercati e pei quali la vita galante è quasi un obbligo sociale; ma su questo argomento egli soleva ripetere una facezia, che non mancava d'una certa ingegnosità filosofica: - Per fabbricar la volontà ci vuol la volontà, e non è colpa mia, se il buon Dio non mi ha data questa materia prima.

Avrebbero potuto salvarlo le tradizioni austere della casa, l'affetto de' suoi parenti e l'azione moderatrice della religione; ma le tradizioni di casa Magnenzio, per quanto donna Cristina si sforzasse di tenerle su, s'erano già troppo illanguidite nella bonaria incapacità dei padri; l'affetto non era in armonia colle idee; e la religione non passava la pelle. Quel buon uomo del conte, allevato in un guscio d'uovo nei tempi della Ristorazione, quando s'è creduto di poter rompere le corna al diavolo a colpi di rosario, da uomo cosí amico della sua pace, pur di non turbarla questa pace, pur di non sentir gridare, metteva sottoterra i cocci delle cose rotte e ci metteva su una pietra. La mamma, alla quale era mancata nella sua vita di donna la rivelazione di quell'affetto, che sorregge nel tempo stesso che si abbandona, metteva forse nella sua educazione troppi sforzi spirituali, troppe idee estranee alla natura delle cose, credendo in buona. fede che il volere possa sostituire il sentimento. In quanto alla religione, è vero che Giacinto si sentiva e si confessava buon cristiano cattolico e osservante; è vero che non senza rimorso trasgrediva ai precetti della Chiesa; è vero che, vivendo in compagnia di amici nobili e ricchi, pei quali la religione, cosí come sta, non è l'ultima delle difese sociali, era tratto a considerare con rispetto e con benevolenza tutto ciò che si riferiva allo spirito e al meccanismo della Chiesa; ma gli pareva di aver fatto abbastanza, quando aveva pagato il suo tributo alla pratica obbligatoria.

Farsi veder alla messa, specialmente in campagna, mangiar di magro il venerdí in faccia alla servitù, comunicarsi a Pasqua e a Natale, rispettar qualche vigilia, non celiar mai sulle convinzioni... Andiamo, via!... per un giovinotto, che portava una spada, era piú di quel che si potesse domandare. Queste quattro pratiche non eccessivamente complicate, in cui è riassunto in certo qual modo il pensiero della Santa Chiesa, lo sbarazzavano dall'obbligo di pensare al resto, cioè, a Dio, all'immortalità e a tutte quell'altre tribolazioni, che logorano la coscienza degli spiriti filosofici.

Anzi, come uno scolaro che, sbarazzati in fretta i quattro lavorucci di scuola la sera del sabato, si piglia tutta la santa festa per spassarsela, cosí don Giacinto, una volta eseguite le quattro pratiche tradizionali, sentiva d'aver una maggior libertà di movimento per tutto il resto.

Di contro a questi argini posticci vennero a urtare le onde minacciose delle passioni e delle seduzioni mondane nella compagnia allegra di giovani corrotti e di ragazze disinvolte, nelle lusinghe dei balli e dei teatri, dove anche le signore oneste fanno di tutto per piacere in quel che hanno di piú bello e di meno morale. Tutto stimola i sensi di un giovine di vent'anni, tutto parla al suo essere fisico in questi ritrovi, in cui la donna è specchio alla vanità dell'uomo; ed e facile che la donna cosí detta onesta, riesca anche piú pericolosa delle altre, se le piglia il ghiribizzo di giocare coll'inesperienza d'un giovane non spento del tutto. Questo fu appunto il caso di Giacinto colla famosa principessa romana, che lo fece soffrire sulla corda fin dove un giovane come lui era capace di soffrire, e gli tolse quest'ultimo sentimento di rispetto, che il maschio conserva anche in mezzo alla sua decadenza per la piú fragile delle creature.

Celestina ne pagò le spese. Ma, per arrivare fin qui, era necessario che il vino gli togliesse il sentimento di rispetto che ogni uomo, anche il piú tristo, nutre per sé.

Nelle accese giornate di corsa, nell'ebbrezza di un trionfo, nell'espansione d'una riunione di caccia, ora all'ombra di una tribuna, ora nella frescura d'un bosco selvaggio, dove anche la piú gentile signora cerca a un bicchier di sciampagna il grido selvaggio dell'amazzone, Giacinto aveva presa l'abitudine di bere, senz'accorgersi, due volte, tre volte piú della sua sete, deliziandosi nel ritrovare tra i fumi della vaga ebbrezza una dolcezza di cose misteriose, che parevano scendere a lui da un mondo ideale. Il vino dà spesso anche agli imbecilli l'idea delle cose grandi, per le quali non son nati: e cosí accadeva che don Giacinto vedesse attraverso al lucente tremolio del cristallo la bellezza e la perfezione di quel misterioso ed eroico gentiluomo che era in lui, che Dio aveva mandato in terra a riassumere la secolare tradizione di casa Magnenzio, per consegnarla nobile e pura a un'altra serie di illustri discendenti. Peccando d'intemperanza, egli sacrificava all'ideale. Il male era questo: che passata la sbornia. non restavano della dolce poesia che i conti da pagare!

«Naturam expelles furca...» ha detto un poeta latino, Orazio, salvo errore, in un verso che Giacinto sapeva citare a mezzo nella fiducia che gli altri sapessero il resto. Tutta la sua erudizione classica si arrestava a quella furca... ma credeva di saperne abbastanza per tirare anche Orazio dalla sua.

Del resto che male c'è, se a ventidue anni un ragazzo si sente giovine? Un uomo, che può spendere diecimila lire all'anno senza sconcertare i bilanci del suo ragioniere; che col tempo avrebbe raccolta la bellezza di tre patrimoni, non solamente non era nato per portare gli occhiali, ma non poteva capacitarsi come mammà si ostinasse a voler cavare da lui un assessore comunale, o un fabbriciere, o un segretario di opere pie. Era lo stesso come voler cavare da un cavallo da sella un professore di greco. Vedendo che mammà non sapeva risolver nulla, e che alle sue insistenti lettere non rispondeva piú che inconcludenti querimonie, chiesto un congedo di alcuni giorni, capitò a Milano, dopo aver scritto un biglietto a donna Fulvia, che aveva in ogni circostanza mostrato per lui delle tenerezze materne.

Donna Fulvia, che era appena entrata nel suo elegante quartiere d'inverno, lo invitò a colazione. Prima di andare da lei, il bel giovane si lasciò vedere al circolo degli ufficiali; quindi in compagnia di Pierino Scala fece una passeggiata nelle sale dell'Unione, dove si raccoglie la sera il bello e il buono dell'aristocrazia maschile di Milano.

Capí, dalle accoglienze e dai discorsi degli amici, che la sua avventura campestre non era ancora uscita dalle siepi e dall'ombra, e si consolò come un capitano, che sente di arrivare prima del nemico in una buona posizione.

Donna Fulvia lo accolse colla espansione gioviale che fa di lei una delle piú ridenti signore di Milano. A colazione si parlò di tutto un po' delle corse di Roma, della bella principessa di Cerere, che doveva venir sposa nel prossimo carnevale con uno dei piú amabili gentlemen della società lombarda. Don Lodovico di Breno, uomo di non troppe parole, ma fino come una lesina, intavolò una discussione semipolitica sull'espansione italiana in Africa, ch'egli riteneva, a quei tempi, la cagione principale del nostro disagio economico; ma Giacinto, che non per nulla portava una divisa coi bottoni d'argento, gli dimostrò, tenendo la forchetta in aria, che l’avvenire del paese era là, al lago Tsana. I popoli vecchi, diceva, non hanno che da guadagnare nella fusione coi popoli nuovi; e in quanto all'Italia, noblesse oblige, era il caso di dire. Quando si è stati una volta i padroni del mondo, non si può senza vergogna rinunciare alla propria missione civilizzatrice. Per conto suo, se mammà non avesse avuto dei pregiudizi, avrebbe domandato subito d'essere mandato a combattere ras Alula.

- Sí, sí, ma intanto... - brontolò il conte, abbassando la sua testa precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa, in cui entrava, non so come, il principe di Galles - intanto noi roviniamo la nostra agricoltura.

- Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete un partito vecchio, senza ideali.

La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria dell'esercito.

- Noi non ti lasceremo partire, Giacinto - soggiunse la contessa, che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza trasparente; - noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i nostri figliuoli.

- In quanto a' tuoi figliuoli - brontolò il conte, ridendo nel piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro pollo inglese - non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli.

Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di mammà, che rimbeccò con spirito:

- La colpa è della tua politica moderata.

Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e, balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse:

- Te la sei meritata questa volta, Vico.

- Tu, taci - ribatté il conte, minacciando il giovane col dito - ne sappiamo di belle della tua politica liberale.

Giacinto arrossí, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel salottino.

- Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano. Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino. Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia giudizio.

Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e, raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole.

Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrí una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave:

- Ebbene? devo fare una predica?

- Sono cosí pentito, cara contessa, - rispose il giovine, voltando la sigaretta fra le dita - che potrei già scrivere un quaresimale.

- La povera mammà è desolata.

- È desolata, ma non sa trovare un rimedio.

- Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno scandalo?

- Ha parlato con questo signor cugino, sí o no?

- Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna. Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di cosí gravi circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro. Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle cameriere. Ma come è potuto accadere?

- Come... come... - balbettò con una spallata chinandosi ad accendere la sigaretta alla fiamma del camino. - È cosí facile immaginare, Dio buono...

- Diremo che è stata anche questa una passione africana, - disse col suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle scarpette gli alari dorati. - È almeno bella questa Lucia del Ronchetto?

- Non mi tormenti, via! - replicò egli, non senza una certa scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la sigaretta nel fuoco.

- Povero Giacinto, mi piace di vederti cosí contrito e umiliato. Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, cosí un sasso, una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi quindi se Víco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e, se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza scapito una sfida da lui e portare cosí la controversia sul terreno cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello limiterebbe la questione personale e obbligherebbe piú tardi le due parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche, non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua ragazzata?

Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna, passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola, del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava come oppresso sotto il peso della sua responsabilità.

- Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto papà... - Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui, l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato.

- O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! - riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a soggiungere: - Io non dico che tu non possa trovare qualche altro rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate, mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle dai giornali, quando non c'è piú tempo di far nulla. Nella sua alta posizione egli è piú di noi in grado di misurare il pericolo e anche di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa piangendo il suo peccato.

- Andrò a farmi ammazzare in Africa - borbottò tra il rustico e lo spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la chiave, non si potesse sfondare l'uscio?

- Per Dio! - disse ingrossando la voce per far comparire piú rauca la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise cosí malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe, che la rovesciò e le ruppe il naso. - Che cosa si vuole, per Dio? che mi tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia cameriera?

- Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il diavolo non sia poi cosí brutto come ce lo immaginiamo. Non andar poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo.

Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una chicchera e l'offrí al giovine, stando in piedi sotto la grande specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con nitido splendore.

Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono col ridere come due ragazzi.


II

TRA IL DEPUTATO E IL VESCOVO


Giacinto accettò la proposta di donna Fulvia e incaricò il conte Lodovico di Breno della delicata ambasciata a monsignor vescovo. Se questa volta non lo salvava Santa Madre Chiesa, era inutile far dei conti con quel briccone di diavolo, che, dopo averlo tirato in molle, lo lasciava morire affogato.

Mentre don Lodovico pensava al modo di aver un abboccamento con monsignore di San Zeno, che non aveva l'onore di conoscere di persona, sentí dire dal canonico Murari che il degno prelato era venuto a Milano ospite per alcuni giorni dei padri barnabiti di Sant'Alessandro. Non tardò a procurarsi una lettera di presentazione, non volendo perdere una cosí bella occasione, mentre perorava la causa d'un libertino, di tastare il terreno sul programma che il partito intransigente stava preparando per le prossime elezioni amministrative.

Già da qualche tempo i vari partiti conservatori, di fronte alle fortunate audacie della progresseria radico-massonico-socialista, sentivano la necessità d'un segreto concentramento di forze, in virtú del quale i sentimenti piú liberali avrebbero dovuto abdicare a molte speranze e cedere un pezzo di superbia ai clericali, che, avendo un programma piú stretto e piú determinato, eran piú sicuri di vincere. Era sonata l'ora in cui i liberali della destra pura dovevano sostituire alla speranza la rassegnazione, al bene il meno male: ma non tutti sapevano acconciarsi al fatale destino, che travolge i partiti che non sanno rinnovarsi. Di Breno era uno di quelli che piú mordevano il freno e giurava che lui a Canossa non sarebbe andato mai. Cavouriano indurito, che sulla formola di «libera Chiesa in libero Stato» si sarebbe lasciato inchiodare vivo, era persuaso che con questo programma storico si poteva far molta strada ancora nella via del progresso e della libertà, non solo, ma che l'aristocrazia intelligente, piú che all'ombra del baldacchino, doveva prendere il suo posto all'ombra di questa bandiera, che era sventolata da Novara a Roma. Ma i preti, non contenti di far la parte del leone nella distribuzione delle cariche amministrative e nella rappresentanza delle Opere pie, pretendevano di mettere all'uscio addirittura il vecchio e nobile partito che aveva fatto l'Italia e, se era possibile, di seppellirlo non ancor morto del tutto nel sudario di Roma intangibile.​

Fiutando il vento infido, anche in vista d'una non lontana elezione politica, che avrebbe scosse le basi del suo vecchio Collegio, sapendo che questo monsignor di San Zeno aveva un po' la natura degli antichi arcivescovi, che andavano in battaglia colla croce in una mano e la spada nell'altra, immaginò che lo scappuccio di Giacinto potesse tornargli comodo, se non altro per rendere sua Eminenza meno rigido e meno restrittivo. Non c'è economia piú astuta di quella che insegna a trar profitto dai peccati degli altri: e il nostro don Lodovico, senza essere un genio, ci aveva questo talento nella zucca pelata.

Sua Eminenza, appena ebbe ricevuta la lettera dell'onorevole deputato, gli fece sapere che sarebbe stato lieto di conoscere personalmente un gentiluomo, che conosceva cosí bene di fama. E il conte fu puntuale al convegno.

Introdotto da un giovine prete grande e robusto come un gendarme in un salotto della fabbriceria, fu amabilmente e decorosamente ricevuto da monsignore. Questi era ancora una bell'asta d'uomo, di solida e fresca senilità, di carni ancor morbide e quasi biancheggianti sul severo paonazzo della mozzetta, che egli sapeva portare con signorile eleganza.

Quantunque non schivasse col rigore dei principî le occasioni per farsi dei meriti presso la Curia romana e presso il partito piú intransigente che domina la Chiesa, pure nei rapporti sociali rivelava un uso non mai interrotto di aristocratiche abitudini e un galateo di tolleranza, che una certa prelatura di piú recente fabbrica non può né conservare, né inventare. Se avesse dovuto crearsi uno stemma morale a insegna dell'episcopio, al posto del santo, che decorava le torri della famiglia, monsignore avrebbe scritto il motto: «Mano di ferro in guanto di velluto...», essendo egli persuaso che il primo segno di forza è nel rispetto che si usa all'avversario. La trivialità non è che una secrezione velenosa di animali inferiori.

Di fronte alla persona larga e paludata del prelato, il povero conte, già cosí magro e cosí poco nei panni, con quel suo passo breve e come dimezzato, con quegli occhietti miopi di formica affogati nelle lenti dell'occhialetto, con quella testa a foggia di mellone, faceva la figura, non d'un legislatore, ma a dir molto d'un fabbriciere, o quasi d'un sollecitatore d'elemosine.

Monsignore, per quanto fiutasse da lontano il motivo di questa visita, volle per una strategia diplomatica mostrarsi esagerato nei complimenti. Se questi signori liberali, scassinati nelle loro basi, venivano al tempio col capo coperto di cenere, curvi sotto il peso di tutti gli errori commessi in sedici anni di cattiva politica ecclesiastica, piú che il gridare: «Vade retro, Satana...» era il caso di ammorbidir loro la contrizione e di mettere un cuscino di velluto sotto i loro ginocchi.

- Ringrazio il signor conte di questa bella visita... - disse il vescovo, che, sorridendo in tutte le pieghe della sua faccia morbida e pastosa, soggiunse poi con arguzia: - Per quanto traviato, l'onorevole di Breno non è per noi un Innominato...

- Invece io sono venuto a cercare il mio Federico Borromeo... - fu pronto a ribattere il conte, che in queste battagliuccie diplomatiche era un piccolo Machiavelli in guanti inglesi. E non volendo perdere il vantaggio di parlare per il primo, vantaggio che serve a dare, se non il motivo, almeno la battuta della musica, continuò subito: - Avrei dovuto venir prima a compiere il mio dovere verso monsignore e non qui in casa altrui...

- I nostri doveri sono i nostri piaceri - declamò monsignore, premendo un istante sul largo petto la mano ossuta del conte nella sua piú nutrita, ingemmata del ceruleo topazio.

I due illustri personaggi, davanti a un vasto camino, dove ardeva silenziosamente un gran tronco, sedettero in due seggioloni a spalliera ritta, coi bracci imbottiti di cuoio, sotto lo sguardo un po' fiero di un santo dipinto, dalla lunga barba nera, credo San Paolo, che reggeva colla sinistra un gran libro squinternato e colla destra si appoggiava a un lungo spadone. Cornice, quadro, seggioloni, e i pochi mobili massicci, che arredavano l'area della vasta sala in cui fluttuava un filo di odor d'incenso e di cera bruciata, ebbero per gli occhi del conte l'aspetto stanco e addormentato delle cose che non si muovono mai, come certi principi che non sentono gl'impulsi del tempo.

- Prima d'ogni altra cosa mi dica come sta la signora contessa - riprese monsignore con un tatto gentile d'uomo, che sa il vivere del mondo.

- Molto bene, grazie, monsignore. Essa mi ha incaricato di presentarle il suo ossequio - rispose il conte, sapendo di dire un'amabile bugia.

- Conosco donna Fulvia dalle unghie tenerelle. Non fu essa educata nel collegio delle Dame inglesi?

- Appunto, Eminenza.

- Non era compagna di mia nipote Cristina?

- Precisamente.

- L'ho confessata piú volte quand'ero vicario da quelle parti. Ha figliuoli, n'è vero?

- Dio non ha voluto contentarla - confessò confusamente colle orecchie un po' calde il conte, fissando lo sguardo nel fuoco.

- Pazienza! Si può essere sempre di vantaggio all'umano consorzio - si affrettò alla sua volta a correggere monsignore, che, per quanto esperto e navigato, non aveva forse finito d'imparare.

- Io sono venuto, Eminenza, per due motivi - ripigliò subito il conte per uscir presto da quel discorso impacciato. - Il primo motivo è, dirò cosí di ragione pubblica; l'altro molto piú delicato, tocca molto da vicino la persona e la famiglia di vostra Eminenza. Cominciamo dal primo. Presto avremo le nostre elezioni amministrative, che preludieranno alle grandi elezioni politiche di questa prossima primavera...

- Sicuro! - disse la voce baritonale del prelato che, ripercossa dalla vólta, lasciò indietro un silenzio un po' lungo pieno di difficili sottintesi.

Il conte vedendo che il nemico non rispondeva alla prima cannonata, fece un passo avanti:

- Io so che vostra Eminenza è un capitano che non dorme sugli allori.

- Dica spine, dica spine, signor conte.

- Se è permesso a un bandito qualche indiscrezione, vorrei chiedere a monsignore quali sono le sue intenzioni per la prossima battaglia.

- Non ho nessuna difficoltà a dir quel che è. Il nostro partito questa volta farà da sé.

- Cioè porterà nomi suoi, escludendo quelli degli alleati...

- Salvo una o due eccezioni.

- A tutto vantaggio degli avversari comuni.

- L’urna deciderà.

Il dialogo seguiva serrato col passo d'un esercito che si concentra. Il conte masticò una goccia di saliva, e alzando una mano quasi per invocare indulgenza:

- Ecco! - fece - se vostra Eminenza mi assolve, io credo che il partito, al quale Ella consacra la sua nobile attività, si lasci un po' troppo presto acciecare dalla buona fortuna e voglia mangiare, come si dice, il fieno in erba.

- A noi non importa tanto il vincere quanto il purificarci, - fu pronto a ribattere monsignore, ingrossando la voce. - Oggi troppa zizzania è mescolata al buon frumento, e io son persuaso che, come in natura, cosí nella vita morale nessuna idea può nascere da ibridi connubi... - E nel finire questa bella frase, la voce, come se sentisse l'impulso dell'interna convinzione e dell'indole battagliera dell'uomo, cominciò a prendere una solennità pastorale.

Il conte, che intese subito il latino della sacrestia, tentennò un poco la piccola testa aguzza, si fregò le ginocchia, masticò ancora una goccia di saliva, per finir di concludere:

- Prego vostra Eminenza di credere ch'io non parlo per me, perché ormai della vita politica son piú le amarezze che le dolcezze che vado continuamente ingoiando, e il mio sogno è di ritirarmi in campagna a coltivare i miei cavoli. Ma la mia vecchia esperienza mi dice che il partito clericale, con questa sua intransigenza, fa un buco nell'acqua: provvederà forse a qualche piccola ambizione locale, ma perde di vista il bene supremo della patria e della religione...

- Conte, conte, conte..- scattò monsignore, facendosi rosso e caldo in viso, quantunque si sforzasse di smorzare l'improvviso risentimento sotto un sorriso, che non riusciva ad essere allegro. - Vorrà concedere, signor conte, all'ultimo dei ministri di Dio di saper intendere che cosa sia il bene supremo della patria e della religione, tanto quanto lo può intendere un seguace delle idee liberali. Non è colla diuturna guerra alle istituzioni ecclesiastiche, alle mense vescovili, agli ordini rnonastici, non è coll'obbligare al servizio militare i giovani chierici, condannandoli all'obbrobrio delle caserme, non è colla confisca delle mani morte, non è coll'ignorare o col fingere d'ignorare che ci sia una coscienza religiosa nel paese, non è coll'oltraggiare l'istituzione stessa del cattolicismo nella persona del suo Capo, non è con questi mezzi che i nostri avversari di ieri hanno provveduto al bene della patria. Peggio non potranno fare i nostri avversari di domani, se l'urna sarà repubblicana o socialista. Cristo ha detto: «se la tua destra ti è cagione di scandalo, tagliala», e noi tagliamo, caro conte, cioè noi separiamo la causa nostra da tutti coloro che considerano, per esempio, il pontificato romano, non come una gloria e come una futura salvezza, ma come una vergogna della patria. È duro di dover ferire dei cari amici, ma l'intransigenza e la coerenza, è la forza dei principii, e per noi è la verità. L'Apostolo delle genti, che ci sta guardando da questa cornice - e monsignore indicò colla mano la fiera figura del santo dalla lunga barba nera - ci ha insegnato a combattere per Cristo. Il simbolo della pace è la spada.

Il conte si guardò bene dall'interrompere una eloquenza, che sgorgava cosí calda e sonora, ma, fingendo un atto remissivo di rassegnazione, con voce umile riprese a dire:

- Perdoni, Eminenza, se nella foga del dire mi è uscita qualche parola, che possa essere sonata male al suo orecchio. «Iliacos intra muros peccatur et extra», e la storia ci giudicherà tutti a tempo opportuno. Ora, per non farle perdere il suo tempo cosí prezioso dirò subito dell'altro motivo, che mi ha persuaso a chiederle questo abboccamento. Qui non è piú il deputato che parla ma parla l’ambasciatore: mi sia lecito dunque invocare il diritto delle genti, che riconosceva sacra e inviolabile la persona del feciale. Chi mi manda, come vostra Eminenza può vedere da questo biglietto, è don Giacinto Magnenzio, il figlio di donna Cristina.

- Notus in Judea.. Che cosa vuole l'elegante ufficialetto? la mia benedizione?

- Vuole... vuole... veramente non saprei come dire. Se parlassi a un uomo di mondo, potrei invocare il detto classico: Homo sum et nihil humani a me alienum puto... - Il conte si rallegrò in cuor suo d'aver infilato cosí felicemente e in cosí breve tempo le due belle citazioni latine, e lasciò capire che la riverenza verso il ministro di Dio lo rendeva un poco imbarazzato e perplesso.

- Cioè? ha fatto degli altri debiti? è vero che giuoca? quella povera Cristina ha avuto la sua croce in questo ragazzo.

- È un ragazzo un po' vivo e, girando per il mondo, si sa, le occasioni son molte. Anche sant'Agostino ha fatto le sue in gioventú.

- Lei, conte, sarebbe un eccellente avvocato per la mia canonizzazione. - Monsignore rise con tutta la sua bella voce per dissipare con un gran frastuono quel po' di amaro e brusco che poteva essere rimasto nell'aria. Poi seguitò: - Parli, parli, il sacerdote è abituato a compatire le debolezze umane. Che cosa vuole questo signor Argante?

- C'è che ha conosciuta una ragazza - disse il conte, scivolando sulle parole.

- Cioè? - fece il vescovo, corrugando le grosse sopracciglia

- E... ci sono conseguenze...

- Oh...! - uscí con un suono secco il prelato.

- Una ragazza di bassa estrazione, una figlia del popolo...

- Asino, imbecille! - tuonò questa volta monsignore, lasciando cadere sul braccio della poltrona un gran colpo di mano. E si volse a interrogare collo sguardo corrucciato. E il conte sempre umilmente, come se confessasse dei peccati suoi, continuò: - Suo padre non lo sa e non lo deve sapere, povero uomo. La contessa non fa che piangere.

- Peggio per lui e peggio per lei! - soggiunse, battendo un altro colpo sdegnoso colla mano chiusa: poi, alzandosi in tutta la maestà del suo portamento patriarcale: - Dica a don Giacinto - sentenziò gravemente - che ad altre cure, ad altri bisogni è consacrata la dignità del vescovo.

- Monsignore, non respinga le lagrime di un peccatore, - supplicò nuovamente don Lodovico di Breno, che pregustava già il saporino del suo piccolo trionfo.

- Chi è causa del suo mal pianga sé stesso - ribadí il vescovo duramente, rimettendosi lentamente a sedere.

- Io credo invece che il caso questa volta meriti una speciale considerazione. La ragazza non è sconosciuta dalle nostre parti e, se i parenti vogliono sollevare un clamoroso scandalo, e mettere in qualche imbarazzo anche vostra Eminenza, avranno buon giuoco in mano. I nostri avversari... pardon... - corresse con un saltuccio di malizia birichina - dirò meglio gli avversari di vostra Eminenza non aspettano che un pretesto per dare una grande battaglia, che quest'anno sarà, da quel che so, non contrastata nemmeno dal Ministero, che vuol vincerla ad ogni costo. Ora è evidente che non Giacinto solo ne andrà di mezzo, ma ne andranno di mezzo i Magnenzio, i San Zeno, i di Breno, vale a dire tutti i piú bei nomi del Collegio, le colonne del partito onesto, che non so come potranno resistere ai colpi dei giornali avversari. Uno scandalo di questo genere, quando sia ben manipolato, fa una grande impressione sulle masse, è un turbine, che scompagina tutte le baracche della fiera. Mi par già di leggere quel che si stamperà in grossi caratteri sui giornali piú scalmanati di Milano o di Roma: «I fasti dei Catoni», «I diritti feudali...», «La moralità dei predicatori di morale», «Il nipote d'un vescovo...». Aggiunga, Eminenza, - continuava quel birbonaccio di conte colla compostezza di chi mette a posto un prezioso mosaico - aggiunga che la ragazza era fidanzata a un giovanotto di là, un ex garibaldino, un arrabbiato libero pensatore, una mezza testa filosofica, tutt'amicizia, pare, coi capoccia della framassoneria, che stampa dei libri, e che saprà fare di questo scandalo un buon sgabello per andare in su. «Rebus sic stantibus», io non so se a vostra Eminenza convenga proprio lavarsene le mani...

- Quel che mi dice, caro conte, è veramente brutto - balbettò monsignore, abbassando la testa, coll'abbandono d'un uomo stanco, mentre col fazzoletto si asciugava la pallida fronte. - Perché non mi hanno scritto subito?

- Prima non si sapeva, poi si è creduto che il male fosse minore di quel che è... Si è sperato sempre in qualche atto di riparazione… ma è una desolazione, creda, per la povera contessa. Se lei non interviene, monsignore, colla sua autorevole benevolenza, è una rovina per tutti...

- E come posso io impedire ai nostri nemici di usare di un loro diritto di guerra...?

- Ecco! - riprese colla sua vocetta meticolosa l'ometto avveduto - conosco un poco questi nostri nemici, perché li vedo piú da vicino... Dove non può arrivare la mano consacrata dei vescovo, potrebbe arrivare la mano... scomunicata... del deputato... (Il conte, per togliere ogni sapore ingrato alla facezia, cercò colla sua la mano paffutella dell'alleato, che rispose con una stretta lunga e cordiale). - Non solo conosco molti di questi avversari, ma so anche quel che costano. Quando poi lasciassi capire al sottoprefetto che una guerra di scandali non sarebbe gradita alla Corte, Gadda é un uomo da far tacere anche le oche del Campidoglio. Ma perché io possa essere forte con Gadda, bisogna che mi senta sicuro nelle mie scarpe, ovverosia che vostra Eminenza mi dica fin dove posso andare col suo nome e col suo appoggio...

- Ho capito! - disse monsignore, chinando la testa: e per un istante le due piccole potenze rimasero in silenzio in una grave contemplazione del fuoco. Quindi come due corrieri che, giunti da strade diverse a un crocicchio, si preparano a far insieme il resto della strada, continuarono a discorrere un pezzo, in un colloquio piú sciolto e familiare, da buoni amici, che provvedono a guardarsi dai ladri. Il deputato promise di veder subito il sottoprefetto: il vescovo avrebbe fatto chiamare il curato del sito; se la ragazza era già nelle buone mani delle contesse di Buttinigo, non sarebbe stato difficile farla viaggiare anche piú lontano; non restava che uno scoglio: il fidanzato, questo ex garibaldino.

- Come si chiama questo giovane? - chiese il prelato.

- Giacomo Lanzavecchia - disse il conte, dopo aver consultato un piccolo taccuino. - 1 suoi hanno una fornace e un deposito di tegole non molto lontano dal Ronchetto.

Monsignore prese nota dei nomi, dei siti, delle circostanze, e promise di scrivere al piú presto le notizie delle sue investigazioni.

Il conte posò le labbra sul ceruleo topazio e venne via in fretta col suo passetto dimezzato, desideroso di veder Giacinto, prima che partisse per Roma. Lo trovò che passeggiava martoriandosi i piccoli baffi, in preda ad una nervosa inquietudine, sotto l'atrio del teatro alla Scala. Infilò il suo braccio in quello del giovine e, rimorchiandolo verso il caffè Cova, andarono a sedersi a un tavolino d'angolo nella sala grande del ristorante, dov'era tutto preparato per la colazione.

- Coraggio, le cose si mettono bene. Credo di aver vinto, non una, ma due cause, la tua e la mia. È proprio il caso di ripetere col salmista: «Felix culpa...!» e, tracannato un bel bicchiere d'acqua per spegnere l'arsura interna che lo rodeva, disse al cameriere, che aspettava gli ordini, ritto, impalato nella sua linda falda nera, coll'aria anche lui d'un solenne diplomatico: - Il tenente beve Lafitte... e in quanto al resto ci mettiamo nelle tue mani, Biagio. Oggi pago io, s'intende, per diritto d'anzianità... - E dopo aver ripulita due volte la bocca col tovagliolo, don Lodovico, che sentiva d'aver guadagnata la sua giornata, datasi una fregatina di mani, soggiunse: - Peccato non essere un Paolo Ferrari, che avrei l'argomento per una magnifica scena diplomatica. Avessi sentito con che tono alto aveva cominciato: «Vorrà concedere, signor conte, all'ultimo dei ministri di Dio di saper intendere che cosa sia il bene supremo della patria e della religione. A noi non importa tanto il vincere quanto il purificarsi...». Ma poi il sant'uomo scese da cavallo, ammorbidí la voce, sbarrò tanto d'occhi a sentire come suo nipote santifichi le feste, e per farla corta, s'incaricò di far chiamare il prete della parrocchia e mi ha dato un specie di carta bianca per tutte le autorità eretiche e scismatiche. Per questa volta, - continuò con nervosa garrulità l'onorevole di Breno, mentre col tovagliolo finiva di compiere la pulizia delle posate e dei bicchieri - per questa volta anche il diavolo avrà la sua parte. E a rivederci alle elezioni generali! Non resta ora che di mettere a posto quel povero pretendente, che tu hai servito un po' troppo ladramente, turpe seduttore di ragazze oneste... Che porcheria mi dai per cominciare? - chiese, interrompendosi e volgendosi al cameriere, che metteva in tavola un piatto di cibi freddi.

- Huîtres à l'huile, signor conte.


III

SORELLE NEL DOLORE


Celestina, una volta che fu persuasa d'accettare con rassegnazione la sua sorte, trovò nel palazzo delle due vecchie contesse un asilo quieto e sicuro. Già fin dai primi giorni la confortò il sentirsi segregata in un sito dove non era conosciuta da nessuno, lontana da quella maledetta casa, ogni angolo della quale le ricordava un segno della sua disgrazia, fuori dagli occhi di Giacomo, ch'essa aveva ragione di temere come un giudice implacabile.

Le due vecchie dame, che non avevano mai avuto per le mani una matassa piú ingarbugliata, e che nella protezione della fanciulla sentivano di carezzare i peccati del loro Giacinto, fecero di tutto per trattarla bene, le assegnarono la piú bella stanza della guardaroba, che dava sull'aperta campagna; e, per giustificare agli occhi della gente la presenza di questa fanciulla in casa, dissero alle altre donne e al Rebecchino che l'avevano domandata in prestito alla contessa per la sua abilità nel ricamare. Avvicinandosi il centenario della Madonna della Noce, volevano finire il bel padiglione, un lavoro di pazienza, minutissimo, per il quale non bastavano le sole loro mani e i loro poveri occhi. Questa Celestina, oltre a essere brava di mano, aveva bisogno di rimettersi anche di una malattia, di cui recava le traccie sul viso, mentre a Cremona l'aria non è cosí buona. Con queste ed altre abili bugiette, riuscirono a rendere naturale non solo la sua presenza a Buttinigo, ma a giustificare anche una certa quale predilezione, di cui facevano segno la povera orfanella.

Fecero portare nella sua stanza il telaio col bellissimo lembo ricamato a imitazione d'un arazzo, offerto dalle monache Preziosine di Monza. Tra due alti margini di corone di spine intrecciate e ricorrenti si svolgevano i profili simbolici della Passione di Cristo, i calici, i flagelli, i chiodi, la croce a punto ribattuto di seta cruda, collegati un oggetto coll'altro dalle iniziali di Maria Santissima, a punto rincrunato d'oro, sopra un fondo di raso color cielo perso, che mandava fosforescenze di madreperla.

Donna Adelasia, che per essere stata fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, si sentiva nella condizione non solo di conoscere, ma anche di poter discorrere dei piccoli misteri della vita, le aveva tenuto fin dai primi giorni un gran discorso per raccomandarle la prudenza, la rassegnazione, il santo ritiro:

- Qui - le disse - devi considerarti come in un convento. Non ti mancherà nulla, ma non devi offrir motivo ai discorsi della gente. Quando una povera ragazza ha avuto la disgrazia di perdere il fiore della santa purità, non può avere che un conforto: la religione. Quando capitano certe disgrazie, com'è capitata a te, povera pecorella, la gente non crede mai che sia senza colpa. E allora diventa uno scandalo il solo farsi vedere. Negli esercizi della pietà potrai trovare la tua redenzione e anche la pace del cuore. Col tempo non ti mancheranno le occasioni per acquistarti dei meriti, potrai consacrarti al servizio dei poveri e degli infermi in qualche ospedale e trarre dalla tua stessa disgrazia i piú preziosi frutti spirituali. Ho letto che una grande peccatrice di Parigi, tocca dalla grazia, dopo tutta una vita di perdizione, si era data all'esercizio delle buone opere con tanto fervore che tutti la chiamavano la madre dei poverelli e morí quasi in odore di santità. Questo non per dire che tu sia una donna cattiva, povera pecora, ma per dimostrarti che si può sempre in ogni condizione ottenere i doni della divina misericordia.

A queste raccomandazioni, che la carita sincera e la trepidazione paurosa di uno scandalo inaudito suggerivano allo spirito stretto della pia dama, Celestina non sapeva opporre che un attonito sílenzio, come chi teme di offendere col voler capire piú di quel che permette la sua ignoranza. Non sempre sapeva entrare col pensiero nello spirito delle cose che sentiva dire, non sempre osava rispondere a interrogazioni che contenevano curiosità oscure o mal represse, miste a bizzarrie di desideri invecchiati o morti insoddisfatti; ma cedeva volontieri alla seduzione carezzevole della benevolenza e della protezione di queste buone signore, che avevano nelle mani la sua vita. Come un'edera molle e rigogliosa, che si attacca e si stende sopra un vecchio muro cadente, nel suo abbandono e nella sua incapacità si sentí appoggiata a questa protezione, si adattò al mite e ombroso ambiente, mise volontieri le mani in un lavoro, che parlava già da sé stesso di sacri dolori e di eterne consolazioni. Le crisi divennero meno frequenti, perfino un'ombra di colore riapparí sulla pallidezza del suo volto lavato da troppe lagrime, si abbandonò alle pratiche della pietà, che per gli spiriti umili e bisognosi tengono il posto delle persuasioni che non si possono procacciare; accettò di buon grado tutte le medagliette e tutte le coroncine, che mandava il convento e che le sante dame facevano venire apposta per lei da Lourdes o da Loreto, piccoli segni di quella forza di fede, che è piú facile canzonare che non sia il farne senza.

Cosí passò tutto il novembre.

Dopo una nevicata, che rallegrò le feste di Sant'Ambrogio e che lasciò le campagne belle bianche, il dicembre seguí eccezionalmente dolce. Il piú bel sole si diffondeva nella stanza dove le pie signore tenevano un vecchio altarino colla statua dell'Addolorata sotto un tempietto di fiori di carta. Donna Gesumina che era bravissima nei lavori pei quali ci vogliono manine di piuma, veniva spesso a trovarla, sedeva con lei davanti al telaio, ordiva il tessuto nuovo, dava qualche suggerimento per il resto. Se il punto era alquanto cruccioso o troppo pigro per sostenere la pazienza, la buona signora intonava sotto voce le litanie su una cantilena facile e girante come un arcolaio, tale da aiutare senza sconvolgerlo il filo del lavoro. Celestina in quella vocina di monaca digiuna faceva entrare a intervalli la bella nota media della sua voce, con cui soleva sostenere le litanie al Santuario, e si lasciava cullare cosí in una dolce dormiveglia piena di oblio.

Nelle nature sane pare che anche i dolori perdano del loro veleno e finiscano coll'essere assorbiti, come sono assorbiti dalle sane costituzioni i contagi che persistono. Un secondo dolore non fa piú soffrire come un primo, come se i tristi pensieri, a furia di passare, facessero nell'anima un solco sempre piú inclinato e largo.

Come il montanaro si abitua a portare sulle spalle i più grossi carichi e non si sente ben equilibrato sulle gambe, se non quando ha tutto il suo solito peso addosso, cosí si oserebbe quasi dire che la natura dia alle costituzioni robuste, non guaste dalla troppa filosofia, l'abitudine di portare una certa quantità di patimenti.

Questo può spiegare come nel rifiorire della pace anche il fisico della ragazza, aiutato da forze spontanee piú potenti della volontà, ricominciasse a fiorire. Nel benessere di tutto il corpo essa provava non rari istanti di ristoro e di nervosa ebbrezza, non priva di godimenti, come capita nei dolci istanti di buona convalescenza. Anima semplice e primitiva, priva di raffinatezze intellettuali, incapace di uscire o di allontanarsi troppo dal momento presente, bastava che l'idea dolorosa fosse momentaneamente assente, perché tutte le altre idee, quasi ancora fanciullesche, godessero di una specie di vacanza. A vederla in certi istanti, uno avrebbe detto che la sua disgrazia era piú grande di quel ch'ella fosse in grado di soffrirne. Pensava qualche volta: - Poiché era diventata cosí indegna, non per colpa sua, Giacomo avrebbe imparato a dimenticarla. Forse era per lui una fortuna. Giacomo aveva camminato troppo avanti sulla strada del sapere, perché potesse contentarsi di voler bene a una povera ragazza come lei. Se la terribile disgrazia doveva fruttare a qualcuno, in mezzo al male era un bene che fruttasse almeno a lui la libertà, e qualche compenso. La contessa aveva promesso che, fin dove un male si può riparare a denaro, Giacomo doveva far conto sugli aiuti della sua casa. Alla famiglia dello zio Mauro non sarebbe mancato piú nulla. Ebbene (seguitava a riflettere, offrendo a sé stessa, non senza qualche orgoglio, questa consolazione), se la mia disgrazia salva questa povera gente dai bisogni e dai creditori, se mette Giacomo nella condizione di poter continuare nella sua carriera e di farsi col tempo un grande onore, perché devo disperarmi? Certo avrei voluto restituire in un altro modo il bene che ho ricevuto; ma poichè Dio ha voluto cosí, sia fatta la sua volontà.

Ma non sempre questa rassegnazione parlava cosí forte. Improvvise curiosità intervenivano a interrogarla: «Che cosa avrà detto di me? crederà proprio ch'io sia stata innocente? perché non è venuto ancora a vedermi? perché non mi scrive? gli avranno detta la verità? sa dove sono e in mano di chi?» In questi incalzanti quesiti, a cui non era in grado di dare nessuna risposta e che andava ripetendo a sé stessa con una ostinazione piena di rancore e di compianto, tornava a provare le vecchie ansietà, la sua mente cadeva in paure profonde; agitazioni nuove, accompagnate da una febbrile impazienza, non la lasciavano piú ferma sulla sedia.

La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non aver saputo respingere con piú violenza le cortesie del giovine conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla. In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del rimorso fin nel fiore dell'innocenza.

In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della viva luce del dí sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile, cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere piú che morta, sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi:

- Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto della tua Celestina.

- Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno.di qualche speciale benedizione? - disse un giorno donna Gesumina alla sorella. - Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e ignoranti per tirarle al male.

- Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da sè. Sono i fenomeni del suo stato.

Cosí disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica.

- Basta, basta... tu sei piú in grado di me di saper giudicare - rispose, umiliandosi, la piú giovine delle due vecchie zitelle; e non tornò piú sull'argomento.

Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato del colloquio avuto con Giacomo:

«Per quanto il colpo sia stato grande» scriveva la contessa «egli mi ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costí, se un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto. La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione. Io faccio pregare sempre per te.»

Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia:

«Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile. Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa piú che cosa pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale, che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza qualche apprensione. Nel mio egoismo non so piú che cosa augurare a me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza.»


IV

SOGNI E COSE VERE


- In quanto a questo, signor Giacomo, c'intenderemo con comodo. Norma non aspettava che una parola. Dillo tu se non è vero. - Il signore della Rivalta, sollevando una mano curva e lunga verso sua figlia, sorrideva, movendo le mascelle di can segugio, mentre la bella Norma dagli occhi di odalisca, appoggiata mollemente allo stipite dell'uscio, lasciava cadere piccolissimi baci sulla cucuzza della cagnolina.

L'ex impresario mise l'un sull'altro venti logori biglietti rossi da cento lire, dopo di che soggiunse:

- Ora, caro signor Giacomo, non le resta che di firmare queste due righe.

Giacomo si affaticò inutilmente per chiarire gli sgorbi, che l'amico protettore gli mise davanti. L'aria della stanza cominciava a diventare cenericcia. Dopo aver esitato un gran pezzo, non senza provare in tutto il corpo un inesprimibile senso di cascaggine e come un dolore sonnolento, che serpeggiava nelle ossa, firmò e buttò via la penna con un atto di ribrezzo. Il sacrificio era fatto! Per riscattare la sua dignità, per salvare e sostenere il suo ideale morale, era venuto alla Rivalta a cercar questo denaro all'amico usuraio; ma sentiva che, firmando la carta, si vendeva anima e corpo al suo creditore ed alla sua bella zingara, che lo dominava coll'occhio della civetta. Ma domani avrebbe potuto dire ai signori del Ronchetto: «Ecco il vostro denaro; ora posso difendermi; ora comincia la mia vendetta, o signori!». Avrebbe voluto prendere il denaro e andarsene da quella casa: ma si aspettava un caffè, un caffè che non era mai servito. Al di là della soglia, oltre l'uscio della cucina, vedeva passare e ripassare infagottata in una gonnella, color dell'acqua sporca, la Serafina, la serva ladra, che, nicchiandogli cogli occhi loschi, gli voleva far capire che la bella ragazza era innamorata morta di lui... - Ah! finalmente aprí davvero gli occhi, e vide che era un altro sogno, o qualche cosa di ancor piú irrazionale, di piú manchevole di un sogno. Da immagine in immagine la sua povera testa, divorata dalle fiamme della febbre, passava attraverso un mondo d'idee posticcie, dal quale usciva per improvvisi sbalzi nervosi, per ricadere nella realtà, per uscire poi di nuovo a raggirarsi in tetri labirinti, in mezzo a concetti logici frammentari, che avevano già fatto parte della sua ragione, ma che ora rivedeva come i frantumi sparsi in terra d'un vetriata dipinta.

Questo pensiero che alla Rivalta avrebbe potuto trovare il denaro del suo riscatto gli era venuto per vie ignote in mezzo a mille altri suggerimenti nelle due ore che, uscito dal colloquio della contessa, era andato vagolando, come un'anima ossessa, per il ghiaieto del fiume. Ora la febbre non faceva che dar corpo e colore a una fragile ipotesi. E cosí si mescolavano gli spauracchi alle piú dolci visioni; cosí si alternavano i giorni torbidi alle notti di profondo assopimento. Al sesto giorno di febbre, il dottor Brandati cominciò a notare un certo sostegno nelle forze: poi vide il male ritirarsi a poco a poco in una forma placida e indefinita, in parte divorato dalle sue stesse fiamme, in parte vinto dalla natura sana e robusta del soggetto.

- Se fossimo in agosto, direi quasi che è un colpo di sole, - rispose una volta alla contessa che lo interrogava sull'andamento della malattia - ma credo che in fondo sia una malattia filosofica: Giacomo fa lavorare troppo il cervello, ed il padrone di casa si fa pagare i danni e le spese.

In mezzo ai sogni assurdi e contorti della febbre, che versavano nell'anima inerte dell'infermo una tenebrosa tristezza, e che duravano penosi fino a produrgli l'angoscia e il singhiozzo, guizzavano brevi immagini chiare festevoli, tenui memorie di momenti veramente vissuti, come se passeggiasse tra le sue speranze, o in mezzo a dolci presentimenti, che lo facevano parlare e ridere forte. Una volta immaginò di essere nel gran giardino della villa, tutto pieno di sole, colle belle piante nereggianti mosse dal vento meridiano. Nei pratelli erano molte farfalle e molti fiori tra l'erbe alte che ondeggiavano al soffio caldo. Per un viale ombroso e fresco donna Enrichetta scendeva, nel suo vestitino rosa, tenendo un libro in mano; e a lui pareva di andarle dietro con passini leggieri, che gli davan l'illusione del volare; e quando era molto presso, mettendole le mani sugli occhi, la teneva cosí prigioniera. Mentre aspettava che la giovinetta rispondesse col suo riso vivo e molle, al sentir le mani umide e calde, al gemito singhiozzante che a lei sfuggiva di bocca, si avvedeva con umile e profonda pietà di stringere nelle mani per un inesplicabile inganno la testa di donna Cristina.

Fu sotto il palpito doloroso di questa visione che una volta balzò sul letto.

Riconobbe la sua stanza, il suo letto, la finestra socchiusa e, in un angolo, il tavolino con su accatastati i libri e le carte alla rinfusa. Non c'era nessuno in quel momento nella camera. Vedendo sul tavolino da notte i bicchieri e i barattoli delle medicine, capí ch’egli era malato, malato d'un gran male alla testa, e che il suo svegliarsi era simile all'uscire da un sepolcro. Facendo leva col braccio vinse la stanchezza del corpo, alzò il capo, che gli pesava come se fosse cerchiato di ferro; lasciò che la coscienza nel ritornare gli riportasse a poco a poco il nome delle cose e il senso della realtà. Alla vista della bottiglia dell'acqua stese la mano e bevette avidamente per spegnere la fiera arsura. Poi si lasciò ricadere in un pesante abbandono. Cominciò a ricordare in nube che un gran dolore gli era passato vicino e gli aveva, piú che il corpo, infranta l'anima. Chiuse gli occhi e lottò un pezzo con sé stesso per raccogliere le idee rimaste come disperse, al di là della coscienza; sentendo sonare le ore al campanile della chiesa quella sensazione d’ambascia, in cui si era trovato al momento di andare al colloquio colla contessa, si ridestò sotto l'impulso di quel rintocco di campana; la verità gli apparve in tutta la sua brutale crudeltà in un improvviso spiraglio di luce.

Che cosa era avvenuto di lui dopo quel colloquio? che cosa avevano fatto di Celestina? perché non lo avevano lasciato morire?

Un brivido diaccio corse e si mescolò agli ardori della febbre seguendo l'onda di questi pensieri che tornavano; nella sua estrema debolezza fisica non seppe respingere un urto di grosse emozioni, abbandonò il capo sul cuscino e pianse a voce alta.

Mentre ancora le lagrime colavano pei solchi, si aprí l'uscio ed entrò la mamma.

Al veder la coltre in disordine e il malato cogli occhi aperti, la buona donna si accostò frettolosamente al letto.

- O Giacomo, o mio povero Giacomo, sei sveglio? come ti senti? benedetto mio figliuolo, non sai che cosa ti è capitato e dove ti hanno trovato? Però ti pare di sentirti un po' meglio? piglia una goccia di brodo. Il dottore ci raccomanda di sostenerti le forze. Se non vuoi il brodo, c'è qui una lagrima di marsala. L'ha mandato per te apposta di quel vecchio la contessa. Giacomo con un gesto risoluto allontanò il bicchierino che la vecchietta voleva accostargli alle labbra; e si oscurò in volto, come se avesse visto il veleno.

- Sai che c'è stato anche don Angelo, il tuo zio prete? Ha sentito a Bergamo ch'eri cosí malato ed è venuto apposta per vederti. Tornerà quando starai piú bene.

Per molti giorni non fece che star rannicchiato nel letto, testa sprofondata nei cuscini, cogli occhi chiusi, in uno stato di pesante annientamento, non desiderando che il sonno, l'oscurità, la dimenticanza di sé stesso. Come un fanciullo pauroso, che non osa passar da un uscio per non isvegliare un grosso cane accovacciato noto per la sua ferocia, cosí egli non osava moversi per paura di risvegliare la sua riflessione. A certi mali non c'è che un rimedio efficace: il non pensarvi. Ma piú raffinerai la ragione e la coscienza, piú avrai affilati in te stesso gli strumenti della tua tortura, quando la mano spietata del dolore ti lancierà contro te stesso. E Giacomo non potè impedire che la forza inesorabile della natura lo portasse nuovamente al supplizio, quel giorno che cominciò a star meglio. Quasi per ritardare di un'ora la necessità di occuparsi di sé, volle vedere qualcuno de' suoi, e, fatto chiamare Angiolino, lo interrogò sull'andamento degli affari.

Il ragazzo, col viso duro, piú oscuro del solito e con una intonazione fredda d'uomo irritato, si fece a riferire minutamente. Erano state consegnate seicento tegole al Legnani di Cernusco. La chiesa di Pagnano aveva mandato a prendere altri quattrocento mattoni di pavimento. La Lisa aveva incassato cinquanta lire a saldo del conto Lavelli di Brivio... - E restava lí come oppresso da un cattivo pensiero.

- E Battista? - chiese Giacomo, che, per paura di sé, andava in cerca degli altri.

- Battista non parla piú di andare in America. S'è rimesso a lavorare.

Anche la Lisa, quando seppe che Giacomo cominciava a riconoscere qualcuno, volle far la sua visita. Si sentiva qualche rimorso per via di quella benedetta linguaccia e non aspettava che il momento di farsi perdonare, quantunque, a esser giusti, i fatti avessero data ragione a lei e non a lui. Per quanto male avesse potuto dire di madamisella, cento lingue come la sua non sarebbero bastate, pensava la Lisa, a dir tutto il male che madamisella si meritava. Che fosse una leggerona si sapeva: ma in casa Lanzavecchia non si osavano nemmeno immaginare certe vergogne! Il Signore questa volta aveva voluto bene al povero Giacomo col fermarlo a tempo sull'orlo del precipizio. Se madamisella avesse portato in casa certe abitudini... uh spavento! uh ludibrio! - La Lisa entrò nella stanza del malato colla sua andatura angolosa e rigida, avvolta come una vecchia ombrella nei vestiti flosci e cascanti, che avevano tutti i colori dell'acqua piovana: e, accostatasi con passi contati al letto, disse al malato-.

- È vero che ti senti meglio finalmente? - e non seppe togliere a quel finalmente un certo tono d'impazienza, in cui si sentiva il buon cuore litigare col dispetto.

- Sai che ci hai spaventati bell'e bene? Se ti sentivi cosi male perché non parlare a tempo? Sempre cosí voialtri uomini. Rimproverate a noi donne di parlar troppo dei nostri mali ma neanche il tacer troppo, come fate voi, non è un bel sistema. Covare i mali e non pensare a curarli che quando non se ne può piú, è proprio come andare dallo speziale a comperare la febbre. Ma pazienza, e sia lodata la Madonna! - soggiunse senza intenerirsi troppo su questa devota giaculatoria, perché in cuor suo sentiva per un razionale istinto che, quando la Madonna vuol proprio bene a un povero cristiano, ha tutti i mezzi di risparmiarglieli addirittura certi dolori.

Nello sforzo che la ragazza magra faceva per contenersi umilmente davanti al letto del malato e per dare alle sue parole un senso di mansuetudine, i gomiti le uscivano acuti e irritati dai fianchi, la sua testa spettinata s'irrigidiva nella luce cruda della finestra.

- Adesso cerca almeno di guarir presto, perché tu sei piú necessario di prima a questa povera casa senza tetto. Questa povera donna - soggiunse indicando la mamma, che rientrava colla tazzetta del brodo - non è piú quella di prima e non parla che di morire. Io dico che per morire moriremo tutti, quando sarà la nostra ora, e non c’è bisogno di mandare su un'istanza; ma il Signore dice: «Aiutati che ti aiuterò». Cerchiamo di dimenticare le cose passate e amen. Anche tu, Giacomo, devi farti una ragione, perché tutto il male non vien per nuocere, se dobbiamo credere a quel che è venuto a dire lo zio prete.

- Che cosa è venuto a dire? - domandò con aria stanca il malato.

- Ha detto che tornerà e parlerà con piú comodo - fu pronta a interrompere la mamma, lanciando una viva occhiata di rimprovero alla figliuola. - Ora pensa a guarire, che è l'importante: al resto penseremo poi. Le some si aggiustano per via.

- C'è stata due o tre volte la signora contessina colla sua maestra a domandare tue notizie - disse Angiolino che capí la necessità di sviare un discorso difficile.

- Ti va? - chiese la mamma, incoraggiando il malato a prendere il brodo, mentre lo aiutava a mettersi un cuscino dietro la schiena. - È tutto brodo di cappone.

- Lo si doveva mangiare per Natale, - disse la sorella - ma è sempre buono quel che arriva a tempo. Per Natale metto in collegio un bel tacchino, se avremo voglia di mangiarlo. Intanto io son del parere che tu abbia a vendere allo stracciaiuolo tutta questa filosofia, che ti guasta lo stomaco. - La Lisa indicò i libri e le carte ammucchiate sul tavolino, facendo colle due mani il segno di chi spazzola l'aria. - Già, credi pure, il mondo non lo si rappezza piú nemmeno con la carta stampata e una buona digestione vale una dozzina di belle massime. Quando c'è la salute, a che cosa serve la spezieria?

- Tu gli fai la testa grossa cosí - rimproverò la mamma.

- Badate a tener nota esatta di tutto quello che spendete per me... - disse Giacomo, rannuvolandosi in volto, con uno sforzo doloroso, che gli fece la fronte umida di sudore.

- Non parlar di conti, adesso, - riprese la mamma - e non pigliarti pensiero per noi. Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui.

- L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la Lisa.

- Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci vuol bene.

Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava, raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la nuca.

- Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso.

La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni ci saltavano dentro.

Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda.

- Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte.

Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente.

Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva i pugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità!

Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza.

A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. «Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forse che il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli». Ma che poteva fare dunque per quella poverina?

All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione.

Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?


V

FINIS PHILOSOPHIAE


Il dottore, vedendo che la stanza del malato non aveva fuoco, gli consigliò di cercare un rifugio piú riparato nella vicina camera dello zio prete, dove si poteva accendere il caminetto.

Imbacuccato nel gran tabarro a cinque mantelline del povero pà, il nostro malato passò i primi giorni della sua faticosa convalescenza sprofondato nel seggiolone dello zio prete, colle gambe fasciate nello scialle di sposa della mamma, provando nella sua sfinitezza e nel tiepore morbido della cameretta il pigro piacere di sentir la vita rinascere e di contemplare in una vuota estasi i grossi fiocchi di neve cadere sui tetti già bianchi dei casolari contigui e sui fracidi pergolati. Appoggiava la testa allo schienale alto del seggiolone, sul fondo bruno del quale la sua faccia, resa piú sottile e nobile dalla malattia, spiccava in una delicata bianchezza, e rimaneva cosí lunghe ore cogli occhi perduti nella festa luminosa della fiamma, in cui si agita in modo cosí vario e cosí bello lo spirito sottile della vita.

Una mattina pregò la mamma di mettergli accanto sur un tavolino tutte le carte stampate e manoscritte, che formavano il materiale del suo libro.

- Non aver troppa fretta di metter le mani in queste tue cartaccie, - gli disse la mamma - prima hai bisogno di guarire. Libro piú, libro meno, il mondo va innanzi lo stesso.

- Non ho che a fare una piccola correzione... - rispose Giacomo con un malinconico sorriso.

La mamma lo contentò. Gli portò nel grembiale quel gran fascio di carte, che lo spavento di quei di casa aveva scompaginate, e, vedendo che il figliuolo stava bene e non aveva bisogno di nulla, soggiunse:

- Oggi è festa, e son tre domeniche che non sento una messa. Posso andare?

- Andate pure, mamma; per ora non mi manca nulla.

- To', vien Blitz a tenerti compagnia - disse la donna nell'uscire.

Il cane venne anche lui a sedersi al fuoco e, appoggiando la grossa testa alle gambe del padrone, lasciò che questi si attaccasse famigliarmente alle sue orecchie.

Nevicava con forza lenta e silenziosa. Erano usciti tutti, e non uno zitto si sentiva per la casa. Se tendeva l'orecchio ad ascoltare, pareva a Giacomo di sentire nella delicatezza della sua debolezza la solennità della grande inerzia che teneva la campagna e come se quel gran freddo invernale entrasse a stringere e a irrigidire la sua speranza, appoggiò la testa pesante alla mano e si carezzò dolorosamente la fronte. Era solo nella povera casa di suo padre, ch'egli non aveva piú la forza di sorreggere.

- Blitz - chiamò con un lento singhiozzo. Il cane sollevò gli occhi umidi e stette ad aspettare che il padrone gli dicesse una buona parola.

- Sta attento, Blitz, come va a finire l'ideale...

Il cane riaprí gli occhi davanti a una luce piú viva, che si alzò nel caminetto. A mazzetti, a mazzetti, Giacomo seguitò a gettare sul fuoco il manoscritto e i fogli di stampa, fin che rimasero immersi nella brace d'oro in un misero pugnetto di carte carbonizzate. Tratto tratto, sotto i contorcimenti dei margini, uscivano in una traccia sanguigna le righe e perfin le parole dov'era passata, dove aveva palpitato l'anima del filosofo. Esitando il vento, che scendeva dalla canna, a scomporre e a rapire le povere spoglie, Giacomo nel furore con cui un suicida si pianta un coltello nelle carni vive, urtò colla pala quell'inerte mucchio di vani pensieri, che svolazzando in una fuga sgominata, si dispersero per la nera gola.

- Finis philosophiae - mormorò con grave accoramento, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa affaticata al palmo della mano. Di che cosa avrebbe vissuto domani? Per rompere con un atto materiale la cupa misantropia, che minacciava di soffocarlo, provò a muoversi, uscí appoggiandosi alla parete sulla loggetta, da dove l'occhio correva sui campi aperti e sui tetti delle fornaci; posò lo sguardo sulle suppellettili e sulle cento cose, che il tempo e l'uso della vita avevano radunato nel portico e che nell'aria livida dell'inverno gli parlavano con un senso d'infinita tristezza.

Sentendosi abbastanza sicuro sulle gambe, provò a scendere le scale, e quando fu abbasso, nella cucina, si accostò al camino, dove bolliva sommessamente un caldano, e sedette nella poltrona di legno del pà, che era stata la poltrona dei vecchi, sempre davanti a quel medesimo camino dalle panchette logorate, dagli alari consunti, dagli oscuri ripostigli, che contenevano le cose dei morti. Ogni generazione vi aveva dimenticato qualche cosa, chi una pipa, chi una scatola di fiammiferi, chi una tabacchiera, chi una moneta, chi un cartoccio di tabacco, chi un libro da messa o un rosario, o un bastone, o un falcetto; e si sa che ogni cosa lasciata indietro ha dentro di sè un poco dell'anima di chi è partito, come resta il calore della vita per breve tempo anche dopo che la vita ha cessato di battere nel corpo. Molta cenere era stata portata via e dispersa dal giorno che davanti alla pietra scolpita del camino era stata accesa la prima fiamma; e ogni cenere morta contiene un pugno delle nostre speranze! Ma nessuno de' suoi era stato avvilito e amareggiato come avevano avvilito e amareggiato il filosofo di casa, il grand'uomo, che intorno a quell'affumicato edificio di casa sua aveva creduto d'innalzare un tempio ideale ricco di pietre preziose. Non era passato un mese dal dí che aveva sognato di far sedere Celestina al suo fianco, lí davanti a quel camino, e di rinnovare con lei nella casa dei Lanzavecchia un nuovo patto; ma intanto ch'egli costruiva i sogni suoi nella cenere, c'era chi faceva di lei e dell'onore di tutti e due il piú orribile strazio. No, no, nessuno dei vecchi padri era passato per queste verghe; nessuno avrebbe saputo immaginare per sé una simile ignominia. Questi era riservata al discendente filosofo, al raffinato analizzatore della vita, perché avesse con comodo a scriverne un bel libro. Questo gli andavano ripetendo con ironico aspetto le sedie, le casse, gli utensili accostati al muro, la polverosa cicogna, che alzava il collo di mezzo ai trespoli consunti sull'armadio, questo gli suggeriva ogni altra apparenza, a cui l'occhio, l'abitudine, la memoria avvessero attaccato un po' della sua vita. Che stava egli a tener in conto questa sua miserabile esistenza senza bene, senza coraggio e senza rassegnazione? L'odio, che gli stillava dal cuore, non faceva che corrodere come un acre veleno le sue viscere, senza infondergli l'ardimento d'una vendetta o di una qualunque azione vigorosa, che giovasse alla sua dignità. Il suo posto nel mondo non poteva essere che un oscuro nascondiglio, come si riserva agli arnesi scassinati; e allora che giovava il vivere?

Ancora una volta si mosse e girò intorno alla tavola, non potendo star fermo su questi aculei; ma nell'alzare gli occhi, un cupo pensiero si fermò sullo schioppo da caccia a due canne, attaccato per la bandoliera lungo il muro sulla cappa del camino. Era un vecchio schioppo di buona fabbrica bresciana d'un calibro solido e pesante, che nelle mani del pà non aveva mai sbagliato un colpo. Giacomo osservò che uno dei cani aveva la capsula, segno che c'era dentro una carica. Con un braccio appoggiato alla sponda della tavola, a cui cercava di reggere il corpo affievolito, si domandò con terrore se il caso ha i suoi suggerimenti, socchiuse gli occhi, volò con l'immaginazione a quel che poteva essere di lui al di là d'un gesto fatale. Un gran picchio di cuore gli fece sentire il rombo della schioppettata e si rimirò disteso col petto squarciato attraverso la pietra del camino. Cedendo al fiero invito, montò sopra una sedia, distaccò il fucile, alzò il cane sulla capsula... girò gli occhi intorno... Proprio in quell'istante presero a suonare le campane del Sanctus della messa.

- Povera donna...! - mormorò: e buttò la capsula nella cenere. La notte, ebbe un breve ritorno di febbre; tanto che il dottore gli consigliò, anche in vista della brutta stagione, di restare a letto qualche giorno di piú.


VI

I CONSIGLI DELL'ESPERIENZA


Don Angelo Lanzavecchia, incaricato da monsignore di trovare a questa dolorosa avventura una risoluzione che accomodasse senza scandalo le parti offese e che nello stesso tempo fosse di soddisfazione alla giustizia, tornò alle Fornaci verso la metà di dicembre per avviare con Giacomo un discorso semplice e pratico, ispirato alle necessità e ai freddi consigli dell'esperienza.

Il vecchio prete, che era un uomo di fondo ruvidotto e campagnuolo, colla trascuranza propria di chi sa che a questo mondo, voltala e rivoltala, una cosa val l'altra, convinto per la lunga pratica della vita che, a tirarla troppo, si rompe anche la corda del pozzo, espose con naturale bonomia tutte le ragioni, per le quali, a parer suo, non si doveva respingere la mano, che i signori del Ronchetto stendevano a chiedere perdono e ad offrire una buona riparazione.

- A far degli scandali si fa presto, - disse il vecchio uomo, che colla persona colossale e tarchiata riempiva tutta l'aria di un uscio - ma io ho sempre visto che gli scandali non sono che il teatrino dei gonzi. Chi butta in aria il fango se lo butta facilmente in viso. Quel giovinastro seduttore non me lo puoi ammazzare, perché si ammazzano le galline e non i cristiani: e poi, quando pure ti fossi abbeverato di sangue, non puoi fare che non sia avvenuto quel che è avvenuto. Non te la puoi pigliare colla poverina, che non ha nessuna colpa. La contessa, che avrebbe tutto l'interesse ad accusarla e a farla passare per una civetta, vedi invece che la difende a spada tratta e mette la sua innocenza fuori di discussione. Non ti resta dunque che di pigliartela con te stesso; bravo, ma tu sei il meno colpevole, avendo sempre nelle tue azioni operato con buona intenzione e con sincerità. Se l'ammazzare è un mestiere da beccaio, l'ammazzarsi è da asino. A chi gioverebbe una tragedia? a te no, a Celestina nemmeno, meno ancora a tua madre e alla tua casa: tutt'al piú servirebbe a far sapere anche a chi non lo sa che ti hanno fatto un gran torto. Sicuro che fu un gran torto! e capisco come tu possa averne la testa malata: ma, lasciando stare che anche a nostro Signore ne hanno fatto dei torti, e grossi, io, se dovessi scegliere, vorrei sempre essere tra coloro che li ricevono i torti e non tra coloro che li fanno. Il mondo fu sempre e sarà sempre pieno di trappole e di dolori. In qualche modo bisogna che anche il male si manifesti. Oggi è una grossa flussione, domani è un tremendo mal di denti, dopodomani è una ladreria, che ti fanno patire, o un'ingiuria, o una coltellata che ti dànno nella schiena: è inutile! il diavolo c'è e vorrà sempre metter le corna nelle faccende del mondo. Che possiamo e dobbiamo fare noi cristiani di fronte a questa dichiarazione di guerra? Darla vinta a berlicche? Rinunciare alla battaglia per paura delle botte? Il diavolo lo si piglia per le corna e gli si dice: Io sono piú forte di te! Alle tue cornate non c'è nulla che piú resista come un buon cuscino imbottito di pazienza. E lo sai meglio di me tu, che hai letto i classici; e sai quel che dice Virgilio, che non era un coglione: «Durate et vosmet rebus servate secundis...» - Qui il vecchio prete tirò una presa dalla scatola d'osso, poi continuò: - Stando cosí le cose, non vedo che un mezzo possibile per uscire da questo ginepraio. Chinar la testa alla volontà di Dio e lasciare che il tempo faccia maturare il sacrificio. Tu non puoi, qualunque sia il tuo modo di vedere, abbandonare Celestina in mano agli altri, non puoi chiuderle l'uscio in faccia, come se fosse una donna perduta, non puoi spingerla sulla brutta strada, come purtroppo capita a queste povere figliuole senza protezione. E se la disperazione le andasse alla testa? e se in un momento di pazzia commettesse uno sproposito? Non v'è bisogno d'avere studiato per capire certe necessità. Non puoi nemmeno far cadere il castigo delle colpe altrui su tua madre, su tua sorella, sulla tua casa, a cui oggi sei piú necessario di prima. L'amore sarà, anzi deve essere una bella cosa, dal momento che Dio lo mette nel cuore degli uomini; ma il mondo non lo si mantiene soltanto coll'amore. Ci deve essere anche il dovere per fodera. E non si abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse, stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche buon secolo prima che si inventasse d'attaccare il picciuolo alle ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. - E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare. Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti troverai contento di non aver impedita la pace.

Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose?

Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.


VII

UN MAZZETTO DI LETTERE


Donna Fulvia di Breno a Giacinto

Milano, 15 dicembre.

Dunque siamo sulla buona strada. Monsignore non ha perduto il suo tempo e forse la patria è salva. Riservandosi di regolare la parte, diremo cosí, canonica della questione, Monsignore, che ha fiutato il pericolo in aria, ha fatto chiamare subito il parroco del sito. Da prete in prete, si scoprí che un Lanzavecchia è vicedirettore d'un collegio vescovile e fu chiamato anche lui ad audiendum verbum -(excusez le latin) - e a lui il vescovo ordinò tutto quel che un vescovo può ordinare in una circostanza come questa. Don Abbondío andò al castello dell'Innominato, voglio dire cercò i parenti della povera innocentina (glissons, n'appuyons pas), mise innanzi la parola autorevole del vescovo e qualche altro argomento piú persuasivo. Tanto fece insomma questo nuovo Boccadoro che a quest'ora il tuo peccato mortale ha reso o sta per rendere a quei disgraziati come un doppio raccolto di bozzoli. «El tempesta mai a dagn de tucc..». dicono i nostri contadini, che hanno anche loro una filosofia degna di essere stampata. Pare che anche don Abbondio avrà il suo compenso, appena resterà vacante un posto di canonico in duomo. Lodovico, che mi ha dato queste preziose notizie, è aux anges, perché ha potuto scongiurare un diabolico complotto clericale contro il nostro partito e consolidare la sua base elettorale presso questi buoni curati, che, se fossero trattati un po' meglio dal governo, sarebbero in fondo una nostra forza. Lodovico dice che il partito moderato ha sempre esagerato sulla sua politica ecclesiastica e che fu una grande insipienza l'aver disgustato il basso clero. Vedo che dovrò anch'io regalare almeno una lampada all'altare della Madonna della Noce, quantunque abbia il cattivo gusto di lasciarsi vestir cosí male.

Revenons à nos moutons. La ragazza, che fu tenuta finora sotto la protezione di quelle due farfalle angeliche delle tue zie di Buttinigo, sarà per raccomandazione del vescovo inviata a un ospedaletto di suore, fuori della diocesi, dove troverà nei conforti della religione e della carità quel coraggio di cui, poverina, avrà presto bisogno. O iniqui peccatori! Vedete di quali tristi conseguenze siete cagione? e potete ancora andar saccheggiando come i lanzichenecchi le fragili virtú e le riposte dovizie della bellezza? Scherzi a parte, Giacinto; se vuoi proprio bene alla tua povera mammà, come vuoi far credere, non star piú colle mani in mano. Prendi una bella penna e scrivi un letterone coi fiocchi, in cui ti mostri riconoscente di tutto quel che ha fatto per te, e chiedile perdono di tutto quel che le hai fatto soffrire. E prometti di lasciarti guidare da' suoi consigli. Quando si ha una mamma santa e di talento come hai la fortuna di possedere, la strada della virtú è già segnata. E colla medesima penna scrivi allo zio Monsignore un'altra lettera piena di lagrime, che cominci colle parole: «umilmente prostrato a' suoi piedi...» e finisca colla promessa che gli fai di piangere tutta la vita questo tuo giovanile traviamento. Non ti pesi troppo di riempire tre o quattro facciate, che non mai fatica letteraria sarà piú ricompensata. L'esperienza la si deve pagare a proprie spese: ma tu saresti indegno del nome che porti, se da questa esperienza non ricavassi qualche insegnamento e non ne uscissi colla nausea per tutto ciò che è volgare e poco pulito. L'aristocratie c'est de la politesse. Perdona ad una vecchia amica la predica: ma questa volta te la sei meritata.

La tua quasi zietta Fulvia.

Il conte Lorenzo a Giacomo Lanzavecchia

Cremona, 15 dicembre.

Caro Giacomo,

Son dovuto partire dal nostro Ronchetto senza prima salutarvi, com'era desiderio mio vivissimo: ma il rigor del verno e questo cuore, che da qualche tempo mi travaglia non poco, mi hanno impedito di scendere a salutarvi alle Fornaci. Sento tuttavolta che andate via via, per quanto di lento passo, riacquistando la sanità, la quale, secondo che parve a tutte le filosofie del mondo, è il miglior dono di natura. Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe, cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali, trascura oggidí quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione dire in quel «Discorso preliminare», che premetterò alla raccolta delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto genitore. «Brevis esse laboro, obscurus fio», posso dire con Orazio: ma nulla è piú tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni. Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del canonico Ostinelli a cui sono cosí care le cianciafruscole manzoniane. Abbiatemi per vostro.

Lorenzo Magnenzio di Villalta.

Giacomo a Celestina

Fornaci, 15 dicembre.

Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante della tua virtú e del tuo affetto?

Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu lasciati giudicare da me. Sí, Celestina, il tuo cuore, la tua vita, la tua virtú sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtú, e questo colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costí, vorrei metterti le mani sulla testa per rendere piú forte questa benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo rinfranchi. Immagino tutto quello di piú spaventoso agiterà i tuoi giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e terribili. Ebbene, non pensar piú a nulla, non dir piú una parola, non far piú un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti dimostrarmelo di piú, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei consigli.

Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno. Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a' miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me, impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di piú, se non mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati.

Il tuo Giacomo.

Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce.

Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: «Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò morto del tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma...». - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.


VIII

ENTRA IN SCENA LA DEMOCRAZIA


Una mattina, qualche giorno avanti le feste di Natale, don Lorenzo, con indosso la veste rossa di flanella, che Fabrizio aveva avuto cura di riscaldare alla stufa, stava scrivendo nel suo studio a Cremona alla luce d'una lucerna, che faceva lume a una giornata nebbiosa, piovigginosa, triste come la politica.

In giro sulle quattro pareti luccicavano quattro massicci scaffali di mogano, con modanature di bronzo dorato, pieni di bei volumi legati in pelle colle intestazioni d'oro: e sopra ciascun scaffale era un busto di bronzo scuro, rappresentante uno dei quattro nostri grandi poeti. Un'iscrizione d'oro in lettere greche maiuscole correva lungo la cornice dei quattro armadi, racchiudendo una sentenza, che don Lorenzo spiegava volentieri, traducendo: «I libri essere medicina dell'anima.»

In uno degli scaffali il conte teneva la raccolta dei classici greci, latini e italiani, coi lessici e colle opere fondamentali di consultazione. La sua filologia però non andava piú in là del sapore dolce che hanno in sé i libri della bella antichità classica; anzi, egli non aveva mai potuto comprendere la fissazione di certi nuovi cosí detti filologi, che sputano il fiore per il gusto di masticare delle amare radici. In un altro armadio dominavano gli storici, ma intendiamoci, i buoni, quelli cioè che hanno saputo vestir di broccato la verità, scrivere con dignità, con magniloquenza romana, non questi raccoglitori di notiziole e di quisquilie, che, sull'esempio dei tedeschi confondono l'istoria, magistra vitae, colla nota del bucato o colla spesa del cuoco. La sua raccolta cominciava dunque con Ricordano Malispini e scendeva fino al Botta, al Colletta e all'Amari. Non potendo sopportare le traduzioni mal fatte, e non sapendo leggere il tedesco, non aveva del Mommsen che qualche dissertazione latina, quel che bastava per fargli dir corna di un uomo, che ha rovesciata la Storia romana e negato agli italiani il senso della poesia lirica. Che fortuna, diceva su questo proposito, che fortuna che certe corbellerie sian dette in tedesco!

In un riparto separato il buon classicista teneva sotto chiave i buoni novellatori del trecento e del cinquecento e anche qualche birbonata del Casti e del Porta, ch’egli poteva leggere e gustare colla superiore licenza ecclesiastica, ridendo volentieri coi pochi amici del suo tempo e del suo gusto alle facezie grassoccie sí, ma sane, dei nostri buoni padri. Non voleva però che Giacinto mettesse le mani, nemmen per isbaglio, in questi fiori del giardino di Armida, perché ogni età ha i suoi pericoli. Il buon padre non immaginava nemmeno che venissero da Parigi dei profumi ben piú pericolosi.

Da alcuni giorni, dopo che le stanze furono ordinate e dopo che furono messi i tappeti in terra, il conte, nel tepore di quindici gradi costanti, andava riordinando gli elementi del suo «Discorso preliminare», di cui qualche periodo non da buttar via cominciava a correre sulla carta. Era per provare la rotondità delle frasi, che di tanto in tanto lo scrittore aveva bisogno di leggere a voce alta uno de' suoi foglietti, su cui la scrittura grossa ed obliqua correva come altrettante note musicali:

«Parlare a' giorni nostri degli uffici della nobiltà potrà forse parere a taluno pressoché opera vana, per non dire ridevole, tanto oggi gli uomini si affaticano a non stimare se non quel che in oro si traduce o che dell'oro abbia le fallaci apparenze. Che giovano (dice la gente al vil guadagno intesa), che giovano gli emblemi e le larve d'una polverosa nobiltà, condannata a un perpetuo esilio dal consorzio civile, buona, non dico a reggere, ma solamente a far gemere le meste rovine degli aviti palagi...?»

- Fabrizio, mi pare un po' troppo caldo qua dentro - interruppe il conte, che cominciava a infiammarsi nel fervore delle sue frasi cadenzate. - Forse è meglio che tu mi dia la veste verde, che riscalda meno.

Di queste vesti foderate di flanella ce n'erano quattro come i quattro poeti, di peso e di imbottitura diversa, che Fabrizio doveva far indossare a norma del termometro e del barometro giudiziosamente combinati insieme. Veste verde significava quasi sempre depressione atmosferica, aria morta e soffocante, pioggia imminente. Indossata la nuova zimarra, il conte riprese la sua lettura, sollevando un viso, che la luce della lucerna circondava di gloria.

«Ciò non di meno pare a me che all'umano consorzio le virtú del passato non giovin meno di quel che giovin le forze del presente, non essendo, a parer mio, null'altro il presente momento che la somma risultante di tutte le forze antecedenti. E stando cosí la condizion delle cose, nessun ordine è piú indicato a conservare intatta e venerata la tradizion del passato di quel che sia l'ordine della nobiltà, che dei tempi trascorsi conserva, dirò cosí, le pietre piú preziose e le già intrecciate corone. Che se l'antico ha potuto suscitare, al volger del passato secolo, contro l'instituto gentilizio la reazion popolare, non fu giusto che insieme alle colpe andasse travolta la tradizione, avvegnaché...»

- Fabrizio, portami il brodo liscio stamattina, e di' al cuoco che quella sua lingua di manzo era troppo grassa. Mi pare di sentirmela ancora in bocca.

Don Lorenzo si mosse per consultare un passo dei «Discorsi» del Machiavelli, dove si parla del dominio dei pochi: e pochi istanti dopo, Fabrizio entrava colla posta del mattina, raccolta in un vassoio d'argento. C'era il solito «Bollettino dell'Istituto Veneto», quello dell'«Istituto Lombardo» colle prime comunicazioni del Lattes sull'italianità degli Etruschi, un argomento che stuzzicava la sua curiosità e insieme il suo orgoglio nazionale contro quei signori della Sprea, che ti farebbero tedesco anche il bel tempo. C'era la «Perseveranza» di Milano, detta donna Paola, della quale divideva or sí, or no, le opinioni. Se come umanista non aveva ripugnanza ad accettare anche le idee di Lucrezio Caro, che egli traduceva di nascosto per un certo gusto del difficile; se nel campo libero della filosofia indipendente non gli facevan paura né gli atomi di Epicuro, né i vortici del Cartesio, né la pluralità dei Mondi del Leibnizio; in politica, era, secondo il suo modo di vedere, un altro paio di pantofole. Come cittadino, come Magnenzio, come padre di famiglia, era di opinione che una buona messa e un buon rosario valgono, per la felicità dei popoli, piú che tutta la scienza della famosa Enciclopedia.

- S'è visto il bel risultato della dea Ragione applicata al governo dei popoli. O l'utopia di Platone, o la ghigliottina a vapore. Quel che piú importa ai popoli è di star bene e di vivere in pace.

Siccome però per pace intendeva specialmente la sua, cosí il buon uomo era tratto facilmente a giudicare le teoriche sociali un po' troppo colla bocca dello stomaco. Questa pace benedetta se la faceva seder vicina tutte le volte che poteva chiudersi nel suo studio, in un angolo della casa, dove non arrivava mai nessun rumore della strada, tranne il rintocco delle ore del vicino convento dei cappuccini. E per amore di questa pace, ai libri dei vivi preferiva quelli dei morti, perché sulle guerre dei morti son già cresciuti gli ulivi o son scaramuccie già messe in musica: mentre queste controversie politiche, sociali, economiche, parlamentari, amministrative, anche quando si fanno per otium philosophiae, lasciano sempre la bocca impastata come una lingua di manzo non ben sgrassata.

Don Lorenzo, dopo aver crollata la testa su un articolo d'intonazione rosminiana, che la «Perseveranza» riportava in difesa delle quaranta proposizioni quasi ereticali del filosofo roveretano (tutte beghe che sconnettono la fede), prese dal piatto una letteraccia mal piegata, che puzzava di pipa lontano un miglio, con sopra una scritturaccia, che pareva dipinta colla scopa, e voltandola e rivoltandola nelle mani

- Chi è questo Gioppino che scrive L'orenzo coll'apostrofo? - brontolò un pezzo, squadrando con un certo sospetto la lettera, che pareva suggellata coll’unto. - Vien da Calusco? Chi può scrivere da Calusco? Dov'è questo Calusco? - All'avvicinarsi delle feste di Natale ne arrivavano molte di queste lettere di poveri supplicanti bisognosi di qualche sussidio e di solito il conte le passava a Fabrizio, perche se l’intendesse col ragioniere Riboni e cercassero con prudenza di liberarlo dalle mosche e dagli scrupoli. Ma era la prima volta che Gioppino osava scrivere L'orenzo con l'apostrofo. - Birbonaccio, aspetta che t'insegnerò io l'ortografia. Aspetta me, aspetta me... - E strofinando le babbuccie morbide di panno sul pelo del tappeto, il conte, che da vecchio ammiratore dei Sacchetti e del Lasca aveva il gusto delle facezie mordaci, girò intorno allo scrittoio, sedette sui tre cuscini della poltrona e afferrò la penna per far scoppiare quell'epigramma, che gli faceva gli occhi piccini e il naso crespo. - «Se lor con l'or confondi...» avrebbe voluto cominciare; e, per richiamare la rima, corse coll'occhio alla firma del supplicante, una firma che pareva uno scorpione schiacciato sotto una pagina di altri scorpioni... veri scorpioni, corpo di Bacco! pieni di veleno. La lettera correva in questi termini:

Ill'ustrissimo Sigor Cote,

Se L'ei non fa trovare per s’abato a mezzanote L'ire tremila al l'uogo detto S'asso del Pin presso il Roccolo noi metteremo in piassa il gran segreto con suo disonore di L'ei e di tutta la famiglia. Non parli con ness'uno si no guaja.

Galiasso...

Un cane, a cui sia dato a mordere un ferro rovente avvolto in una polpetta, non lascerebbe cascare il boccone con piú dolore e raccapriccio di quel che il conte lasciò cadere il foglio di mano. In cinquant'anni e più, cioè dal dí che i suoi occhi correvano sull'alfabeto, non aveva mai letto quattro righe piú spropositate e piú spaventose. Altro che Gioppino! Chi poteva essere questo bardassa di Calusco? e di che segreto andava spropositando? disonore di chi e di che?

Quando Fabrizio entrò colla scodella del brodo si spaventò nel vedere il volto del padrone piú smorto della carta.

- Che cosa è accaduto, signor conte? si sente male? - gli domandò, fermandosi in mezzo alla stanza.

- Sto bene, sto benone, sto d'incanto... - rispose il conte, facendo saltare quel brutto foglio da una mano all'altra. - Quando si bevono di questi brodetti a stomaco digiuno, un uomo non può che sentirsi bene. Guarda un po' quel che mi scrivono. Non badare all'ortografia, ma cerca di penetrare nel concetto. Una delizia, vedrai, un sorbetto. Conosci tu questo signor Galiasso? C'è dalle nostre parti qualcuno che porta questo bel nome?

- Non ho mai sentito che ci sia nessuno che si chiami cosí. -disse il vecchio Fabrizio, mentre correva cogli occhi sulla lettera, fingendo nel viso meno sorpresa e meno turbamento di quel che veramente provasse in cuor suo. Segreto aiutante della contessa in questa segreta congiura diretta a nascondere al conte una dolorosa e pericolosa verità, questa improvvisa minaccia di ricatto non poteva che confondere i piani di guerra e dare al cuore mezzo malato del suo padrone una scossa dolorosa.

- Non ci deve badare, signor conte - prese a dire il fedele servitore, mostrando indifferenza. - Asini e malviventi ce ne saran sempre, e, siccome sanno che lei è buono e amico della pace, credono forse di spaventarla.

- Grazie tante. Minaccia di mettere in piazza un gran segreto. Che segreto c'è da mettere in piazza? E non si contenta mica di poco il sor Galiasso riverito; ma domanda solamente tre mila lire. Catteri! tre mila lire non sono un quattrino e in che modo le domanda il sor Galiasso!...

Il conte, che aveva già la bocca impastata, per via di quella sciagurata lingua di bue, se la sentí diventar piena di una saliva salata. Ballando sulla poltrona, si lamentò con voce quasi piagnucolosa:

- C'è da perdere la fame per quindici giorni.

- Non si spaventi, le dico, non dia importanza. Son cose che a loro signori càpitano tutti i giorni.

- Nossignore, a me non è mai capitato. Quando un uomo non fa male a nessuno, ha diritto che gli altri non faccian male a lui...

- Guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaian! Essi tentano il colpo. Se va, dicono, è segno che la cosa ha le gambe. Ma qualche volta son loro che ci lasciano le gambe e la coda.

- Chi conosci tu a Calusco? non hai sentito che ci sia qualcheduno dalle nostre parti che ci voglia male?

- Le pare? una casa come la sua?

- Non son piú quei tempi, non son piú quei tempi... Dacché si son formate queste società segrete operaie, dacché si va seminando l'odio tra le classi, è una disgrazia nascere nei nostri panni. Anche l'elemosina sembra un'ingiuria adesso, e i Galiassi, che oggi scrivono queste letterine, domani metteranno la dinamite sotto il portone.

- Oh caro signor conte, lei corre troppo... interruppe Fabrizio, ridendo...

- Ti dico che si precipita. Tu non hai sentito a dir nulla, n'è vero? In questa casa tu sei piú vecchio di me e devi volermi bene.

- Lo domanda, signor conte?

- Non sospetti che possa essere quel servo di stalla, che abbiamo licenziato tre anni fa...?

- Or fa un anno che è andato in America.

- Ma dall'America si ritorna - disse sospirando il buon uomo, che all'idea d'un viaggio in America si sentiva venir le vertigini. - Dall'America si ritorna: e poi si lascia sempre a casa qualcuno...

- Conosco questa gente, stia sicuro. Solamente sarà prudenza non dir nulla di questa lettera, né alla contessa né alla contessina...

- Sicuro, sicuro! le donne si lasciano facilmente impressionare. Anzi bisognerà stare attenti che non facciano loro qualche brutto scherzo nella strada... Ahimè, si precipita! È una cosa che dobbiamo trattare fra te, me e il Riboni... Dovresti chiamarlo, se c'è...

- Tornerà stasera. Ora beva il suo brodo e non ci pensi.

- Portalo via, non mi va giú - disse restituendo la scodella, con una mesta espressione di abbattimento. - Guasterei anche quella poca colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si precipita!

- Non ci pensi piú. Vedrò io il signor Riboni - disse Fabrizio, facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di servizio.

- Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un povero affamato.

- Se lei comincia a dare, non si salva piú. Queste lettere è meglio fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore.

- Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio gendarmi in casa. Ve lo comando! - gridò, alzandosi quanto era lunga la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul «Dizionario dei sinonimi». - Non voglio intrighi, deposizioni, arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! - Mai la paura d'un uomo aveva parlato con piú coraggio. Fabrizio finse acconciarsi e disse:

- Come vuole, signor conte... Del resto, creda pure, che quando non si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per la stufa.

- E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non voglio pettegolezzi... Come si semina si raccoglie! – brontolò parlando con sé stesso - Per certa gente è già una grande colpa il nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita...

Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita in tempo di questa nuova minaccia.

Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità, in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli sarebbe stato cosí facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio, e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei sentimenti piú sacri.

«Io non so scrivere» gli diceva «e mi manca l'arte di esprimere tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è cosí gran male che non possa essere superato da una piú grande speranza. I mali vengono piú dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti, cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi.

«Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che in fondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto...» A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto.

- Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto... Non parlatene con nessuno... Ah mio Dio, non abbiamo finito!


IX

UNA VISITA INASPETTATA


Seguirono due o tre giorni di agitazione, pieni di sinistri presentimenti, di reciproci inganni, in cui ciascuno dovette fingere di ignorare quel che era scritto a ciascuno sul viso. Don Lorenzo, per quanti sforzi acrobatici facesse fare alla sua tremante volontà, per quanto sferzasse un coraggio che non era mai stato, non che esercitato, nemmeno preso in considerazione, non poteva nascondere a Cristina, alla figliuola, a quei di casa il grande sgomento, come si nasconde un librettucciaccio proibito. A colazione, a pranzo, non gli riusciva quasi d'assaggiar nulla, o tutt'al piú, se si sforzava di inghiottire una mezza fetta di galantina, o una gamba di pollo, se le sentiva lí inchiodate sullo stomaco come un errore d'ortografia. Molto meno si poteva pretendere ch'egli si distraesse nei giri de' suoi periodi... Altro che «Discorso preliminare»! altro che «la tradizion del passato»! Vipere e scorpioni, minaccie, ricatti per il momento; domani sarebbero state bombe e pugnali.

Non potendo pigliarsela con Galiasso, si sfogava a brontolare o perché la stanza era fredda, o perché il brodo era lungo, o perché Giacinto non scriveva mai, o perché l'Istituto veneto gli aveva lasciato scappare tre errori di stampa; e, messo sulla strada delle malinconie, cadeva a parlare delle teorie sovversive, che distruggono ogni sentimento di religione e di rispetto. La figura torbida di Galiasso, ch'egli s'immaginava con un ceffo di bravaccio, cieco d'un occhio, per tre o quattro giorni entrò a frastornare le sue occupazioni e i suoi stessi pensieri, sia ch'egli pigliasse in mano un libro od un giornale, sia che arzigogolasse colla penna nei complicati incisi del suo «Discorso preliminare», sia che parlasse con quei di casa o coi pochi amici che venivano a fargli passare la sera. In mezzo ai discorsi e alle distrazioni non cessava mai dentro di lui il lungo monologo contro i tempi e contro le idee sovversive: aggrottava le ciglia, i gesti gli scappavano involontariamente, e, inconsapevolmente, faceva sentire a sé stesso il ritornello, che non cessava di martellargli il cuore: «Si precipita».

La contessa, per non essere obbligata a chiedere e a dare delle spiegazioni incresciose, fingeva di non accorgersi di questi suoi patimenti, e questa sua noncuranza riusciva di maggior pena al povero conte, che nelle tribolazioni amava d'essere consolato e amorosamente contraddetto. Dopo aver ruminato un pezzo nel suo segreto, pensò che Giacomo Lanzavecchia poteva essergli di qualche aiuto, essendo il luogo detto il Sasso del Pin, indicato da Galiasso, poco lontano dalle Fornaci, sulla stradetta che mena al "Roccolo" di Don Andrea. Colse il momento, che la contessa e la figliuola erano fuori ad assistere a una pia conferenza del santo Cenacolo (un'altra francioseria introdotta da poco tempo dai gesuiti), si chiuse nello studio, fece accendere la lucernetta, che anche di pieno dí aiutava a rischiarare il nesso delle idee, si raccolse, passò due volte la mano sulla fronte per rimuovere le ultime titubanze, che facevano sempre di lui l'uomo piú indeciso del mondo, prese una faccia oscura, severa, d'uomo oltraggiato, che conosce i doveri suoi e cominciò a scrivere: «Carissimo Giacomo, deve esistere in cotesti paesi un cotal nominato Galiasso o Galeazzo, persona veramente dedita a cattivi maneggi, non saprei dire se piú bisognosa o perversa, la quale mi ha in questi giorni trasmessa una lettera, vero oltraggio ortografico, con cui vien chiedendo una non misera somma a mo' di minaccia o di ricatto. Comeché io possa...»

- Signor conte - disse Fabrizio entrando col suo passo soffocato: - questo signore ha una lettera di presentazione per la signora contessa, ma siccome non può fermarsi a Cremona che poco tempo, domanda il permesso di dir una parola al signor conte...

Il conte accostò il biglietto, che Fabrizio gli offrí, al lume della lucerna e lesse il nome dell'avvocato Genesio Brognòlico.

- Brognòlico! - ripeté, rimpicciolendo gli occhi come chi cerca di fissarsi in qualche cosa, che vede e non vede. - Non è quel nostro radicalone rosso di là, che insieme al farmacista ha fondata la Società operaia?

- Precisamente, quel pancione. Dice che ha una lettera del signor conte di Breno.

Don Lorenzo, a cui balenò subito l'idea che questa visita inaspettata potesse avere qualche relazione col fatto del famigerato Galiasso, parendogli che convenisse abbondare nelle cerimonie e, ove fosse opportuno, farsi dell'avvocato radicale un difensore, ordinò che entrasse. Si mosse anche lui, girò due poltrone in modo che l'una guardasse l'altra, collocò la lucernetta sulla sponda della scrivania in cima a un muro di libri e movendo incontro al suo avversario politico e amministrativo, con tutto quel buon garbo, che non si spende mai tanto volentieri come quando si tratta d'un avversario:

- Qual buon vento, - esclamò - signor avvocato, a Cremona?...

Un uomo fatto a guisa di un pallone aereostatico, a cui fossero state attaccate due gambe, e sul quale fosse stata messa una testa arruffata, riempí tutto il vano dell'uscio. Gli occhi eran nascosti da un paio di lenti affumicate, che mettevano due macchie scure e fisse nello scompiglio d'una zazzera e d'una barba bianco-sporco-rossiccia. Vestito di panno oscuro, colle mani insaccate in due otri di pelle, colla grossa catena d'oro, risplendente sull'equatore di quel globo, che viaggiava come un galleggiante, l'avvocato Brognòlico salutò il conte con un inchino alla rovescia, che gli fece cacciare indietro la testa leonina e sporgere una protuberanza, che non avrebbe mai potuto piegarsi diversamente.

- Perdonerà Eccellenza, se non potendo disporre che di poco tempo, tra una corsa e l'altra, oso interrompere i suoi preziosi studi. Vengo a nome dell'onorevole di Breno, che ha visto il Sottoprefetto e che mi ha dato questa lettera aperta, per la signora contessa.

- Caro avvocato, si accomodi - disse don Lorenzo, al quale non capitava troppo spesso l'onore di sentirsi chiamare Eccellenza. E mentre l'altro scendeva a poco a poco a riempire lo spazio vuoto del seggiolone, il conte corse, brontolando, sulla lettera aperta di don Lodovico di Breno, che sonava in questi precisi termini:

«Gentilissima signora contessa,

«Ho sudato tre camicie e un farsetto a persuadere questi signori del Vessillo democratico a non sollevare un putiferio. C'eran già le mine cariche e non mancava la voglia di farle saltare. Però, a furia di reciproche concessioni, ci siamo accordati in un non intervento. La direzione del Vessillo incarica l'egregio avvocato Brognòlico di liquidare in via amichevole la parte materiale in un compenso corrispondente ai danni, che questa neutralità porta al giornale. E veramente è giusto riconoscere che questi signori si mostrarono discreti e ragionevoli, quando si pensa all'autorità che uno scandalo di questa natura avrebbe dato a tutto il partito. Direi quindi di transigere fin dove si può. Fulvia ha scritto a Giacinto, dandogli notizie di queste pratiche...»

A questo punto don Lorenzo non ci vide piú. Il suo turbamento però non gli impedí di ritrovare l'egregio avvocato Brognòlico, che pareva addormentato nella poltrona.

- Credo di capire qualche cosa... non tutto però... In che cosa posso servirla, avvocato? - disse, mettendosi anche lui a sedere, con un fare timido e trepidante, sull'orlo della sua poltrona.

- L'onorevole di Breno ha avuto la bontà di leggermi questa lettera e siam perfettamente d'accordo. Aggiungerò che ieri ho veduto anche Monsignor vescovo. - L'avvocato credeva che per farsi capire bastasse accennare a questi nomi, senza bisogno di scendere a troppi ingrati particolari.

- Come sta Monsignore?- chiese ingenuamente il conte.

- Anche Sua Eminenza pienamente d'accordo coll'onorevole di Breno...

- Hanno fatta la pace?

L’avvocato, a questa domanda cosí fuori d'intonazione, rimase un po' perplesso, come accade spesso ai furbi, quando si trovano al cospetto d'una cosa troppo semplice, che si dipana da sé. Si sforzò di rispondere che l'aspetto di Monsignore gli era parso buono; poi soggiunse subito per venir presto all'argomento della visita:

- Stamattina ho parlato con Ferrazzi.

- Ferrazzi... - fece il conte, corrugando la fronte e cercando, con uno sguardo interno, se nel magazzino delle cose viste c'era un nome cosi... - Quale? il canonico Ferrazzi, che ha scritto qualche cosa sulla basilica di San Pietro in Oro?

- No, no, Ferrazzi, il direttore del Vessillo... - ribatté l’avvocato con una certa forza impaziente per far capire al conte ch'era informatissimo d'ogni cosa e che con lui si poteva discorrere liberamente. - Ho parlato con Ferrazzi in seguito al colloquio avuto coll'onorevole di Breno e con Monsignore, e gli ho dimostrato che, in ultima analisi, gli conveniva accettare un accordo, perché in queste guerricciuole di scandali e di personalità non ci si guadagna, né da una parte nè dall'altra. Egli voleva sostenere che in momenti di lotte elettorali un partito non può buttar via nemmeno una cartuccia senza defezionare la bandiera...

Il conte, che seguiva con un viso fermo ed attonito questo preambolo, sempre nella speranza che da una parte o dall'altra avesse a saltar fuori il famoso Galiasso, non poté a meno di inarcare un poco le ciglia a questo mostruoso defezionare la bandiera, che puzzava di gergo giornalistico lontano un miglio. L’avvocato non se ne accorse, ma, volendo venir presto a una perorazione, che gli permettesse di concludere e di partire colla corsa delle tre e mezzo tirò avanti:

- Ferrazzi mi dimostrò che molte spese eran già fatte, che si era dovuto dare dei contrordini ai corrispondenti e ai reporters, modificare tutto il piano generale, perché, se prima l'onorevole di Breno, che si poteva sperare combattuto dai clericali, aveva i piedi d’argilla, ora li ha di bronzo; permodoché – (l'avvocato caricò di voce questo suo avverbio favorito) - una campagna contro di lui sarebbe per il nostro partito un mezzo disastro, per cui, tutto sommato, faressimo, come si dice, un buco nell'acqua.

Il conte, che non respirava nemmeno, sempre in attesa di veder sbucare Galiasso, e che aveva inghiottito in pace il reporter, non poté non protestare con un addolorato batter di ciglia contro questo barbino faressimo, che sconnetteva le piú legittime coniugazioni. Ma l'amico, migliore della sua grammatica, tirava via come un violino:

- Ad onta di tutto questo, anzi in forza di tutto questo, è naturale che i miei amici del Vessillo non possino digerire questa sconfitta, come se fosse un uovo fresco; poiché si deve perdere, dicono, facciamo strage dei Filistei... - Brognòlico cercò di ammorbidire questa minaccia biblica, accompagnandola con una risata bonaria e con un colpetto di mano leggiero leggiero, che lasciò cadere su un ginocchio del conte. – È naturale, vede adunque Eccellenza, che que' miei amici scapestrati si servino di quel segreto che hanno in mano, come di una fiche de consolation.

- Amici scapestrati? - disse in cuor suo il conte. - Dunque Galiasso non è che il capo dei ladri.

- Il signor conte è troppo amico della pace per star a guardare un quattrino di piú o di meno.

- Scusi, avvocato... - interruppe con uno sforzo penoso il conte. - Sa lei quel che mi hanno scritto?

- So tutto e son venuto apposta a Cremona per accomodare questa faccenda.

- Conosce anche questo Galiasso?

- Chi sia non so, ma conosco benissimo la famiglia Lanzavecchia, so dov'è la ragazza.

- Crede lei dunque che con un centinaio di lire una volta tanto si possano persuadere questi signori scapestrati a...

- Io credo, signor conte, che ella non abbia un senso troppo esatto della gravità della situazione - osservò con forzata benevolenza il mediatore della pace. - Se Ferrazzi dichiara la guerra, è un uomo che sa tener bene la penna in mano.

- Oh sí, me ne sono accorto... - scoppiò a dire buffonchiando il conte, che aveva sotto gli occhi il famoso L'orenzo.

Brognòlico a questi sgambetti, a questa diplomatica impassibilità del conte, dubitò per un momento o di essere arrivato troppo tardi, cioè a cose già accomodate, o di avere a che fare con un politicone raffinato, e che sapeva rappresentare a meraviglia la sua parte di gonzo. La sua grande furberia gl'impediva d'immaginare il caso d'un uomo, che di furberia non ne aveva né punto, né poco. Temendo rimetterci anche le spese del viaggio, si affrettò a sparare tutte le batterie di guerra, nella speranza d’intimorire col rumore quelli che non poteva ferire colla mitraglia.

- Senta, Eccellenza, - riprese, attaccandosi colle due mani alle spranghe degli occhiali - a parte la questione personale, creda pure che se Ferrazzi... o altri... – (e tenendo la mano sollevata in aria aspettò un istante per dar tempo al conte di capire quel che egli credeva che l'altro fingesse, per una politica sopraffina, di non capire) - se Ferrazzi... o altri mettesse alla luce questa storia, sarebbe una vera degringolade per tutto il partito cosí detto ben pensante. La tensione dei partiti del nostro Collegio è tale che basta una goccia d'acqua a far traboccare un mare d'inchiostro. Se lor signori non trovano il modo di appianare la cosa sulla modesta base concordata dall'onorevole di Breno e da Monsignor di San Zeno, garantisco che questa primavera portiamo un deputato radicale massonico a Montecitorio. Uno scandalo in casa Magnenzio, compromettendo i piú bei nomi dell'aristocrazia, farà perdere vent'anni di lavoro al partito clericale. Noi abbiamo le nostre Società operaie fortemente organizzate, e, se tre o quattro giornali vogliono divertirsi, lo scandalo Magnenzio, San Zeno, Lanzavecchia, abilmente lanciato, in quindici giorni fa il giro di tutta Italia. Siccome sono amico politico non solo di Ferrazzi, ma ho qualche relazione all'Estrema, so quel che si può fare, quando c'è l'interesse di fare. D'altra parte, ho molta stima per l'onorabilità e la rispettabilità della sua casa, caro signor conte; conosco anche il signor Giacomo Lanzavecchia e so che uomo è; finalmente son uomo anch'io, so capire e compatire questi peccati di gioventú; anzi, è il caso di dire: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la politica non ha viscere di pietà; quando ha fame divora, se non altro, anche i suoi figli. Permodoché, tutto sommato, vale a dire, tenuto conto degli interessi morali da una parte, degli interessi pubblici dall'altra, io credo che, in ultima analisi, noi dovressimo proprio venire a una soluzione pacifica. Ci vuol pazienza, caro conte, il mondo va pigliato com'è. Pensi che nel grosso del pubblico non c'è nulla che faccia tanta impressione come un romanzetto galante tra un elegante della jeunesse dorée e una povera ragazza del popolo. Le figlie del popolo, che servono ai piaceri dei ricchi, è un tema non ancora sfruttato, molto piú in questo caso, in cui c'è modo di battere insieme al blasone anche l'eroismo d'un ufficiale di cavalleria, che, mentre gli altri vanno a farsi ammazzare in Africa, resta a casa ad abbracciare e sedurre le cameriere... Perdoni, don Lorenzo, se oso dare al cuore d'un padre queste crudeli trafitte; ma è bene che ella abbia sott'occhio tutto quel che si può dire e tutto quel che domani potressimo stampare. Qualora, invece, si cercasse di accomodare lo strappo inter nos, senza bisogno di testimoni e di reciproche scritture, né venti, né venticinque mila lire devono parere una somma esorbitante.

A questa lunga e corrente esposizione dell'avvocato Brognòlico, don Lorenzo, tenendo le mani appoggiate ai ginocchi e gli occhi immobili nel volto del suo interlocutore, prestò un'attenzione che andò di sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia, di curiosità in curiosità, di paura in paura come proverebbe un villano ignorante davanti ai prodigi diabolici d'un abile prestigiatore. Partito col desiderio di conoscere chi fosse il famigerato Galiasso, prima trovò che il brigante era un giornalista, poi che il giornalista era d'accordo col deputato, il quale, non capiva bene in qual modo, se l'intendeva col vescovo per minacciare qualche cosa di grosso, non a lui, pover'uomo, ma a qualcuno de' suoi, che aveva abbracciata una cameriera. E quel ch'era piú bello ancora, le tremila lire di Galiasso diventavano, strada facendo, ventimila, venticinquemila... Nello sforzo che egli faceva dentro di sé per entrare nello spirito di questo strano racconto, in cui vedeva, peggio che nelle Metamorfosi d'Ovidio, un brigante trasformarsi in un narciso e un framassone in una mitria, tutte le rughe del volto confluirono sulla sua fronte, le grosse ciglia bianche formarono come un cespuglio spinoso sopra il naso, la sua carnagione andò oscurandosi come sotto una nuvola, che passasse davanti al globo della lucerna. E di mano in mano che l'avvocato andava pesando il pro ed il contro, riferendosi con certezza a fatti che erano ignoti a uno di loro, il povero conte si sentí inondare da una fredda paura, da un febbrile sgomento, che gli tolse la capacità di rispondere.

Quando il Brognòlico cessò di parlare, don Lorenzo rimase lí colle mani sui ginocchi, gli occhi attenti ad aspettare il resto della curiosa storia. Vedendo che l'avvocato non aveva piú nulla a dire e che ora toccava a lui, proprio a lui, di parlare, alzò lentamente una mano, che tenne sollevata un pezzo in aria, mosse le labbra entro una frase sconnessa, in cui passò ancora una volta il nome di Galiasso, e, allungato il braccio tremante fino a toccare il bottone del campanello, a Fabrizio che comparve sull'uscio, chiese:

- È tornata la signora contessa?

- Sí, signor conte.

- Digli che l'aspetto qui.

Nel breve intervallo che rimasero ancor soli, l'avvocato, che stava studiando l'effetto della sua proposta sulla cera appannata del conte, interpretando il suo silenzio come un freddo e disdegnoso risentimento, cercò di raddolcire la sua proposta, dicendo che non si sarebbe mai fatta una questione di numeri, che, con un po' di deferenza dalle due parti, si sarebbero facilmente messi d'accordo.

Donna Cristina era appena tornata dalla conferenza, quando Fabrizio venne ad avvisarla che il conte aveva bisogno di parlarle. Al nome dell'avvocato Brognòlico, ch’essa conosceva come un suo nemico nato, vale a dire quanto un giacobino deve essere nemico di un aristocratico, indovinò quel che poteva essere accaduto. Fabrizio non osò disingannarla. Si può immaginare che cuore fosse il suo, quando con passo rotto, con una pesante spossatezza di tutto il corpo, entrò nello studio del conte

- Guarda un po’, Cristina, se sai spiegare questo biglietto del deputato di Breno - Il conte, in piedi dietro la scrivania, indicò col tagliacarte d'avorio l’avvocato, che all'entrare della contessa si era tirato in piedi anche lui e stava in attitudine rispettosa: - Presento il signor avvocato Galeazzi: voglio dire Ferrazzi...

- Brognòlíco - corresse l'altro; il quale, volendo in poche parole far capire alla signora lo scopo e l'importanza del suo mandato, si affrettò di soggiungere: - Signora contessa, vengo a nome di Monsignor vescovo.

Il conte, sempre in balía d'un tremito convulso, toccando ora un libro, ora un calamaio, ora una penna, come se cercasse con questi contatti materiali di scaricare una corrente di elettricità, agitando il tagliacarte in aria, domandò volgendosi alla contessa:

- Devi tu qualche cosa a Monsignore? ti sei forse impegnata in qualche obbligazione politica? chi è che abbraccia le cameriere in casa mia? Si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che si búggera in questa casa? mi scrivono lettere minacciose, vengono in casa mia a farmi delle proposte disonoranti, mi oltraggiano in ciò che mi resta di piú nobile, e non mi è dato nemmeno sapere a chi devo dir grazie. E che c'entrano i giornali coi fatti miei? Io non li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di Villalta? - Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. - Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei popolo servono ai piaceri dei padroni...

La contessa, non potendo piú sostenersi sulle gambe, si lasciò cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia.

Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre piú acceso in viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor piú candidi i capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato all'Ateneo di Bergamo il suo «Discorso preliminare»:

- Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo dica pure a chi l'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi, non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono dire con Dante: la vostra miseria non mi tange...

E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato, nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che, sorreggendolo, gl'impedí di cadere. La contessa gettò un grido spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore, sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite, che parevano invocare un po’ di carità, un po' di compassione. Agli squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes, che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in disparte l'avvocato, definí con lui in un discorso concitato e positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un biglietto per il ragioniere Riboni.

- Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente... - Ma la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire. Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due anticamere, uscí sullo scalone, si fece indicare da un servo lo studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli, avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza: «La miglior politica non è quella che corre, bensí quella che arriva a tempo».


X

CELESTINA VA IN CERCA DI GIACOMO


Dal giorno del suo arrivo a Buttinigo eran passati quindici giorni, senza che Celestina ricevesse notizie di Giacomo, e cominciava a pensare ch'egli l'avesse dimenticata, dopo averla sprezzata e maledetta; ma poteva anche essere malato, morente di dolore. In questo stato di crudele incertezza non poteva durar piú. Capiva che le signore, oltre a carpirle le lettere e a tenerla rinchiusa come una prigioniera, cominciavano a inventare pretesti per mandarla ancora piú lontano, in mano d'altra gente, come si fa quando si vuol perdere una persona. Era necessario che vedesse Giacomo. Anche a costo d'essere battuta e respinta da lui, voleva buttarsi a' suoi piedi, fargli sentire come l'avevano sorpresa, tradita, martirizzata; e poi non le sarebbe importato nulla di morire su una strada, in mezzo ad una campagna; ma non l'avrebbero sepolta viva in un ospizio, dopo averla trascinata all’ultima disperazione.

Quantunque a questo nuovo tranello sentisse quasi una lama fredda passare in mezzo al cuore, pure un sentimento quasi d'indignazione le impedí di avvilirsi e di piangere. Simulò un contegno freddo, rassegnato; alle carezzevoli dimostrazioni di donna Adelasia non oppose che un silenzio umile e rispettoso; ma l'idea di cercare uno scampo con una fuga s'impossessò con tanta forza del suo spirito che per alcuni giorni non seppe pensare ad altro, come se quest'idea avviluppasse ogni altro sentimento e rendesse sterile ogni altra considerazione.

Si può aggiungere che in questa nuova speranza e nello sforzo mentale di preparare i mezzi per deludere la vigilanza delle sue carceriere, il suo cuore, provò quasi un senso di riposo e di distrazione da ogni altro dolore, una specie di esaltazione fantastica, che scosse il suo spirito inoperoso e stanco.

Nei giorni che precedettero le feste di Natale si mostrò alacre, docile, volonterosa; ma nel segreto del suo animo andava preparando i mezzi della fuga, cosa facile in una casa aperta come quella in cui l'avevan collocata, non custodita che dalla buona fede di chi l'abitava e dal rispetto dei vicini. Le pie signore nella loro timida debolezza non pensavan nemmeno che una ragazza potesse uscir sola e mettersi sola per una strada; molto meno questo dubbio poteva entrare nell'animo del Rebecchino e delle altre persone di servizio, che non conoscevano i segreti motivi di questa schiavitú. Essa avrebbe potuto uscir dalla porta ed incamminarsi per un sentiero in qualunque momento, tanto di giorno come di notte; il coraggio solo di saperlo fare avrebbe levato alle signore ogni voglia di inseguirla. Dopo aver scartato molti progetti, si fermò in uno, che piú d'ogni altro le si presentò sicuro. Ogni martedí sul far della mezzanotte soleva uscire dalla corte rustica il cosí detto cavallante della casa, soprannominato il Pasqua, col carro della roba che le signore e altri proprietari del paese mandavano a Monza ed a Milano ai loro amici e corrispondenti. Piú volte Celestina era stata svegliata dal rumore grosso del carro rotolante sul selciato del cortile e dallo scalpitare del mulo nel gran silenzio della notte. Sentiva lo sgangherato portone dell'orto cigolare sui cardini, poi un gran sbattere. Vagolava per un istante un lume nell'aria, il rauco brontolío delle ruote perdevasi a poco a poco nella lontananza, e tutto tornava in silenzio... Il pensiero che essa avrebbe potuto fuggir da questa parte, in un'ora in cui tutti dormivano, col vantaggio d'aver molte ore per sè, prima che alcuno si accorgesse della sua scomparsa, si impose come il piú naturale, e non stette a cercare altre vie. Sapeva che il Rebecchino era solito attaccare la chiave dell'uscio che mette nel cortile a un chiodo infisso nel battente. Non si trattava dunque che di scendere al primo rumore, aprir l'uscio, mettersi in coda al carro, protetta dall'oscurità, e svoltar subito per la strada opposta a quella che il Pasqua soleva far battere alla bestia. Ma non parendole ancora un giuoco abbastanza sicuro, pensò di cercare anche un pretesto per allontanare i sospetti e per ingannare il vecchio cavallante. Fece un grosso involto con un fazzoletto, in cui mise alcune sue vesti e una scatola, strinse i gruppi del fagotto, che nascose sotto il letto, e si preparò ad aspettare la sera. Fu una giornata eterna quel benedetto martedí! Donna Gesumina venne una volta a leggerle una lunga Enciclica papale intorno alla santificazione della festa: poi le raccontò quel che a Milano un Comitato di pie signore intendeva di fare per imporre ai negozianti e ai rivenditori l'obbligo del riposo festivo. Celestina l'ascoltò benevolmente e lasciò che la signora mettesse anche il suo nome in una lunga lista, che monsignor Vicario doveva trasmettere a Roma. Queste pie preoccupazioni, accostate al grande e affannoso pensiero che le faceva il cuore duro e pieno di dolori, non potevano aver nemmeno la forza di irritarla; ma servirono invece ad accorciare il tempo, interminabile dell'aspettativa. Piú tardi venne di sopra anche Menico, il figlio del Pasqua, con in braccio un gran fascio di rami d'edera e di lauro fresco, con cui le due signore solevano ogni anno, nella settimana di Natale, costruire il presepio nel vano d'un armadio. Celestina fu lieta di poter aiutare la vecchia Costanza a levare da una cesta, a sciogliere dai loro involucri di carta, a nettar dalla polvere i pastori di terra cotta, le statue del Bambino, della Madonna, il bue, l'asinello, che facevano di quel presepio una delle poche meraviglie di Buttinigo.

- Quest'anno aggiungeremo anche un molino mobile, vedrai - disse donna Gesumina. - Le monache della Noce non hanno un presepio piú bello. La vigilia vengono qui tutte le ragazzine e i bambini del paese colle loro mamme; e si dànno tre noci e una mela a ciascuno; ma prima si cantano le litanie.

Un fuggevole senso di pentimento, un mezzo rimorso, venne una volta a indebolire le sue disposizioni. La sua scomparsa non poteva che turbare queste sante feste dell'innocenza e della pace, e procurare alle povere signore un grandissimo spavento. Se invece avesse mandato i suoi progetti a qualche giorno dopo le feste? Ma rifletté che piú tardi non sarebbe stata sicura di trovare Giacomo a casa. Poteva ella passare il giorno di Natale come una prigioniera in casa altrui, senza aver nessuna notizia de' suoi, nella cupa tristezza di chi si sente abbandonata?

Dopo aver risposto, come gli altri giorni, al rosario della servitù nella grande cucina, verso le nove e mezzo accompagnò di sopra donn'Adelasia, portò l'acqua nella camera di donna Gesumina, dette e ricevette la buona notte, ridiscese in cucina a provvedersi d'un mazzetto di zolfanelli, si assicurò che la chiave dell'uscio fosse attaccata al suo chiodo. Finalmente, quando le parve che tutti fossero ritirati nelle loro stanze, calzò le scarpe di vitello sopra un paio di calze pulite, indossò un giubbetto di lana e il vestito piú pesante della festa, intascò la corona del rosario, il suo libretto di preghiere, una collana di granata e il borsellino con tutto il denaro regalato dalla contessa, si ravviò i capelli, si affaccendò piú che non abbisognasse a mettere in bell'ordine il letto, le sedie, il telaio dei ricami, il cestello delle sete e dei gomitoli, in modo che le signore avessero a ritrovare tutto a posto. Quando ebbe finito, sentí sonar le undici. Aveva ancora un'ora da aspettare. Spense il lume, s'inginocchiò a fianco del letto, si dispose a raccogliere la mente in qualche preghiera: ma l'anima non suggeriva nulla, come se la coscienza fosse già partita. Rimase però sempre in ginocchio, colla testa sprofondata nelle coltri in atto di pregare, perché il Signore e la Madonna vedessero il suo stato e l'aiutassero in questo passo. E intanto cercava di riandare nella mente la traccia della strada che avrebbe dovuto battere per arrivare alle Fornaci. Fino alla Madonnina della Noce la conduceva la solita strada del molino; al di là passa la grossa strada provinciale, nè poteva sbagliare se camminava sempre verso i monti. Rifacendo i conti a memoria, calcolò che, se la carrozza della contessa aveva impiegato meno di due ore a venire dal Ronchetto alla Madonnina, questo voleva dire che, partendo a mezzanotte e camminando sempre, lei avrebbe potuto essere alle Fornaci sul far del giorno. Se anche non ci fosse stato Giacomo, la zia Santina non l'avrebbe lasciata morir di freddo sulla strada, no povera zia, cosí buona! E forse anche la Lisa non avrebbe avuto il coraggio d'incrudelire contro una disgraziata. Le stesse bruscherie gelose della invidiosa cugina sarebbero state quasi una musica per le sue orecchie, quando avesse potuto ríposare nel pensiero d'essere nella casa de' suoi parenti. Del resto, facessero pur di lei quel conto, che si può fare di una poveretta senza meriti e senza diritti; la tenessero pure in casa come l'ultima delle serve, avrebbe lavorato per tutti, senza piú alzare gli occhi in faccia a nessuno; ma non dovevano permettere che queste signore la facessero chiudere in un ospizio, forse in compagnia di cattive traviate, o che la mandassero lontano, in paesi sconosciuti, tra gente brutale, senza timor di Dio, che l'avrebbero forse maltrattata, o fatta morire a tradimento.

Abbandonandosi senza ritegno alla corrente dei pensieri, che nel silenzio e nell'ombra della notte risonavano nel suo capo in una specie di gorgo, correva a immaginare colla fantasia sconvolta le piú terribili insidie da parte di questi signori, che temevano in lei un parlante testimonio dei loro peccati, e che avrebbero avuto della sua morte un sollievo immenso. Che cosa vale la vita d'una ragazza, che nessuno conosce, che nessuno difende? Se non ci sono piú nei palazzi i trabocchetti, dove una volta si facevano sparire le persone, non mancavano ai signori altri trabocchetti di ogni sorta per sopraffare i poveri. Non l'aveva forse la contessa intronata di parole e di promesse per metterla nelle mani di queste vecchie, che ora volevano seppellirla viva in un ospizio?

Da questi pensieri, in mezzo ai quali errava la sua immaginazione sgomentata, fu tolta dal fragore del carro, che il Pasqua stava allestendo nella corte per la partenza. Si mosse, fece due volte il segno della santa croce, si alzò, trangugiò un mezzo bicchier d'acqua per sciogliere l'amarezza della bocca, avvolse le spalle e la testa in uno scialle bigio di lana, prese da di sotto il letto l'involto, che vi aveva preparato; e, dopo aver soffiato sulla candela, si mosse per uscire. Allo sparire del lume, la finestra si disegnò nella luce umile della luna, che dal mezzo di un cielo rigido, solcato da leggerissime ale di nuvole bianche, incombeva sulla campagna immersa nella neve. Celestina fu assalita da un panico immenso. Per poco il cuore ricusò d'obbedire alla volontà, che fin allora aveva comandato con tanta forza. La sua energia oscillò un breve istante in uno di quei dubbi dolorosi e tremendi, da cui, come dal fulcro d'una bilancia delicatissima, dipende spesso il male e il bene di tutta una vita. A sospingerla sottentrò la riflessione che per lei non vi poteva essere un male che fosse peggiore del perdere per sempre il suo Giacomo e del lasciarsi seppellir viva; e che ogni passo, in qualunque senso si faccia, per uscir dalle braci, non può essere un passo perduto. Spinse l'uscio e stette ad ascoltare ancora un momento sul pianerottolo. Quando fu persuasa che dormivano tutti, scese al buio la piccola scala di servizio, tenendosi attaccata alla parete. Guidata dal chiarore, che entrava da una mezza finestra, raggiunse l'uscio di cucina, cercò, palpando, la chiave, l'infilò nella toppa, provando al rumore che fece nel girare, quasi uno scricchiolamento in tutte le ossa; stette a sentire se alcuno dava segno di vita: e coperta dal rumore che facevan di fuori nel caricare, uscí nel cortile. Il Pasqua finiva d'attaccare il mulo, aiutato dal suo ragazzetto, che rischiarava con una lampadina la stalla. Affogato in un ferraiolo di schiavina, col cappuccio calato sulla testa, il vecchio cavallante lasciò qualche ordine al figliuolo, che si curvò ad accendere la lanterna a vento sotto la traversa del carro. Una luce giallognola e oleosa si sparse sul biancore lucente della neve e proiettò l'ombra incappucciata del vecchio, ingrandita come quella di un gigante delle tenebre, sul muro livido e muto del palazzo. La bestia istigata dalla voce sepolta del padrone, cominciò a raspare sul terreno per cercar sotto la neve il sasso; il carro si mosse, ballottando la lanterna e portandosi seco le ombre in una danza sconvolta.

Quando fu per uscir dal portone e per svoltare, Celestina uscí dal suo nascondiglio, traversò il cortile; aspettò che Menico tornasse per rinchiudere, e, andandogli incontro gli disse, fingendo una certa apprensione:

- O Menico, avete dimenticato questo fagotto, che va alle monache.

Menico prese l'involto dalle sue mani e chiamando: - O pà, - corse dietro al carro. La giovane colse quel momento e voltò a sinistra. Camminando in fretta lungo il muro del brolo, uscí sulla strada del molino. Non era ancora sonata la mezzanotte, quando cominciò a camminare verso la strada della Madonnina della Noce, che apparve ben presto in fondo al viale in una massa densa, resa piú oscura dal riflesso vivo della campagna. Tirava una brezza acuta, quale può mandar giú la montagna in dicembre; ma essa se ne difese imbacuccandosi fin sopra agli occhi nel grosso scialle di lana e affrettando il passo. L'idea del trovarsi sola, di notte, per una strada deserta tutta piena di neve, in un paese sconosciuto, questa sola idea, che qualche mese prima, passando in sogno, l'avrebbe risvegliata in un sudor freddo, ora non le incuteva piú nessuna paura. Non c'è nulla, che abitua cosí presto al male, quanto la minaccia del peggio: e anch'essa ritrovava nella necessità delle cose quella forza misteriosa, che meraviglia cosí spesso la nostra stessa presunzione. I ladri, le ombre dei morti, che vanno attorno per il mondo, gli orrori dell'oscurità, gli spauracchi delle ombre, i gemiti, i fischi, che escono dai profondi silenzi della notte, le reminiscenze delle fiabe spaventose udite raccontare dalle comari, i terrori addensati nello spirito umano da secolari pregiudizi passati in lei per eredità, non mai scossi, che non si possono scuotere del tutto nemmeno dai piú forti, tutto questo era sempre qualche cosa di piú sopportabile in paragone di quel che gli uomini avevano fatto e volevano fare di lei. La notte, non limpida del tutto, era però rischiarata dal quarto abbondante di una luna, che le nuvole sparse per il cielo e più accumulate verso i monti non riuscivano a nascondere; e quella luce fredda, quieta, che scivolava sulla neve, eccitandone i segreti splendori, dava alla notte e alla solitudine un non so che di tenero, di seducente, o almeno di non cattivo, che parlava con una certa indulgenza all'anima primitiva della giovine. Quando, uscita dal viottolo del mulino, si trovò davanti la strada provinciale, larga, piana, rotta dai lunghi solchi delle ruote, che pareva correre senza fine al piede dei monti oscuri; e quando, fissando questi monti avvolti nelle nuvole, li vide lontani lontani, rimpiccioliti, sprofondati nella lontananza, un senso di nuovo terrore e di scoraggiamento ghermí il suo cuore. Il suono improvviso e pesante delle ore, scoccando sulla sua testa dal vicino campanile, ruppe quel breve istante di titubanza e di inerzia, che l'aveva fermata nel mezzo della strada, l'incoraggiò a continuare. A spingerla aiutò la vista d'un alto carro, che lentamente lentamente, col moto ondeggiante d'una barca che si avanza, veniva dalla parte di Bergamo, dondolando una lanterna sulla neve.

L'idea d'aver dietro di sé in un momento di pericolo questo appoggio la sostenne. Volendo però stargli davanti per sfuggire alle questioni curiose dei carrettieri, si affrettò a riprendere il suo cammino nella direzione dei monti, che la chiamavano.

A destra e a sinistra taceva la campagna nella sua gelida inerzia; ma questo silenzio avrebbe finito collo sgomentarla, se, oltre al soffio del suo respiro non fosse arrivato di tempo in tempo a sostenere il suo coraggio il rumore spezzato del carro che la seguiva, a cui, col raccorciare un poco il passo, cercava di accompagnarsi, appoggiandosi a quel rumore amico, che rappresentava per lei gli ultimi aiuti del mondo: cosí il bambino che si sveglia per un brutto sogno, si riaddormenta al rumore dell'arcolaio, che gli parla della mamma. E andò cosí tre o quattro chilometri, senza incontrar anima viva, sempre nella strada aperta, sempre col pensiero e coll'occhio rivolto a quei monti, che non mutavano di aspetto. Intanto pensava:

- Prima che a Buttinigo possano pensare a me, io sarò quasi alle Fornaci. Troverò Giacomo? egli non può non tornare a casa a passar le feste, specialmente quest’anno di disgrazia. Se la zia non mi volesse ricevere andrò a cercar un ricovero in qualche cascinale, finché Giacomo non torni; e se anche lui non mi vuol ricevere e mi serra l'uscio in faccia, andrò a cercar lavoro a Brivio, a Lecco, in qualche filatoio, andrò a far la serva, a lavar la biancheria dei soldati, a cercar, se Dio vuol cosí, la carità sulle strade; ma in un ospizio non ci vado a farmi rinchiudere, a morire disonorata, arrabbiata come una cagna...».

Col capo circondato da questi pensieri, come da uno sciame irritato di vespe, camminava sull'orlo della strada, dove la neve era già stata battuta da altri passi, fissando lo sguardo a qualche gruppo di piante lontane, che vedeva disegnarsi coi rami duri e neri sullo sfondo dell'aria, provando nel suo muoversi rapido e nel calore che andava sviluppandosi dal suo corpo giovine e robusto, un senso quasi di soave energia. Dopo quattro mesi di sottili angoscie e di spasimi, durante i quali la volontà degli altri aveva fatto ogni sorta di strazi di lei, avviluppandola di fili invisibili, ubbriacandola di false dolcezze e di carezze e di moine snervanti, ora, finalmente, si sentiva libera, padrona di sé e dei suoi dolori, libera di soffrire e di morire a modo suo.

Il calore del corpo, eccitato dall'andar lesto e faticoso su di una strada rammollita, dopo aver con una segreta delizia rianimato i suoi spiriti, cominciò a salire in un'afa soffocante alla testa, chiusa nel pesante scialle di lana. Lo lasciò andare sulle spalle, e provò un vero refrigerio a camminare cosí a testa nuda. Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare... Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere.

Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo... Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere... oh allora... chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d’una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava.

La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il desiderio che la memoria.

Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada.

Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili.

Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa.

Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla «Frulin», un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo, che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui «Frulin» non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco?

Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste.

Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravano i capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente un capanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada.

Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti.

La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere a sé stessa, quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: - Cerestina, c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere... era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo... mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo.

Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola poco lontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.


XI

GIOBBE E LE SUE TRIBOLAZIONI


- Il dottore seguita a dire che tu devi mangiare e tener da conto le forze - ripeteva la rnamma Santina nel metter davanti al suo convalescente un tegame di buon fritto di cervello, in cui aveva fatto saltare alcune creste. Dopo avergli versato un bel calice di vino vecchio di Marsala, di quel che bevono soltanto i signori, riprendeva a dire: - Il meglio che tu possa fare è di non pensare piú a quella meschina che in mezzo alla sua disgrazia può dire d'essere caduta nella bambagia. Tu non puoi raccogliere certe eredità e... amen, di' anche tu: Sia fatta la volontà del Signore. Don Angelo mi ha domandato se, a cose finite, avrei difficoltà a ricevere Celestina in casa. Ho risposto che dipenderà dalle circostanze. Naturalmente non siamo in caso di mantenerla, molto piú se non tornerà sola. Don Angelo assicura che Celestina avrà quel che ha diritto di avere, e quasi voleva ch'io dicessi una somma. Ho risposto: no, no: son cose che regolerete meglio con Giacomo. Ho detto bene? Ho accettato per il momento qualche soccorso, perché non si sapeva piú dove dare del capo. I bisogni son molti e quest'anno, in medici e medicine, si è spesa una dote; ma desidero che in questa faccenda dica tu la prima parola, perché l'affronto e il danno è stato piú tuo che nostro. La Lisa ha sentito dire alla fontana, da una donna, che fu a servire in casa Fulgenzi, come in una contingenza simile s'è potuto chiedere fin centomila lire, - mangia, benedetto figliuolo, - ma non tutte le circostanze sono uguali; e non bisogna nemmeno abusare delle disgrazie. Credo invece che convenga mostrarsi discreti e ragionevoli, non solo per riguardo a questi bravi signori, che sono i piú castigati, ma anche per semplificare un accordo. Meglio stornello in mano che tordo in frasca. Siano trenta, siano quaranta, quel che importa è che si metta tutto sotto un mucchio di cenere e che non se ne parli piú. Con questi denari, non solo si potrebbe provvedere alla disgraziata, che non ha piú che questa casa; ma c'è anche questa povera diavola della Lisa, che ha sempre lavorato per tutti. A proposito della quale ti devo dire che si è fatto avanti il Bogellino, figlio del fattore del Ronchetto. Ha finito il servizio militare e cerca moglie. Sai che la Lisa non gli è mai dispiaciuta. Se non si è fatto avanti prima, è perché sapeva che i Lanzavecchia litigavano coi debiti e col fallimento; ma, quando si potesse assicurare alla Lisa una parte della sostanza di vostro padre, anche su una piccola ipoteca, il Bogellino dice che la sposerebbe subito. E io vedrei volontieri, dico la verità, questo matrimonio, perché la Lisa non va d'accordo con Battista; e se domani dovessi ripigliare in casa la Celestina, dice che non resta un minuto in questa casa, ma va a servire un curato di montagna. Il vecchio Bogella non ci vede quasi piú e aspetta di cedere la fattoria al figliuolo, che è stato tenuto al battesimo dal conte. Tutti lo chiamano Bogellino, perché hanno cominciato a chiamar Bogella suo padre; ma il suo vero è Lorenzo Limonta, il nome del conte. La contessa sarebbe disposta ad aiutarci anche in questa circostanza, se si combina; ma non si può dare la ragazza in camicia, - bevi, benedetto ragazzo. - Quando io mi sono maritata, ho portato le mie trenta paia di calze, le mie ventiquattro camicie di tela fatte in casa, e ventiquattro camicie di tela forestiera, dodici sottane, sei vestiti, quattro di lana, uno di seta, uno di cotone e ottomila svanziche. Sarebbe un vantaggio di poter fare gli acquisti nell'inverno, quando si può aver la roba a buon mercato, cosí il matrimonio potrebbe farsi in principio di primavera. Don Angelo conosce un mercante di Bergamo, un galantuomo, che avrebbe giusto rilevato in questi giorni una camera da letto per duecento sessanta lire, col suo letto matrimoniale, il cassettone col marmo, due tavolini da notte e la seggiola col cuscino elastico... È un'occasione da non lasciar scappare... Anche Angiolino avrebbe bisogno d'un paio di calzoni...

A questo genere di discorsi, che la vecchia Santina trovava modo di ripetere e di far entrare in testa a quel benedetto figliuolo, Giacomo non rispondeva mai nulla; ma lasciava capire che per conto suo non avrebbe impedito né allo zio prete di accettare tutto quel che nella sua coscienza di prete credeva onesto d'accettare, né alla Lisa di sposare chi voleva, né alla mamma di ripigliare Celestina in casa, se Celestina non desiderava che questo: gli affari di casa non lo riguardavano piú. Egli non aveva, o credeva di non avere più la forza né di combattere, né di resistere. Dopo che il suo cuore aveva cessato di muoversi, come se il dolore ne avesse paralizzato le forze, poco gli poteva importare che gli altri sfruttassero e accomodassero la sua disgrazia ai bisogni del loro egoismo. D'un cavallo morto è sciocchezza non trarre tutto il profitto che si può. Perfino quel che vi poteva essere di piú grottesco, in queste rattoppature della coscienza coll'avarizia, non aveva la virtú di farlo sorridere. È giusto che ognuno pensi a sé; l'errore è nel credere che si possa vivere d'idee; e molto meno si può vivere d'idee inutili! Dal momento che aveva trovato quel posto a Pallanza, non aspettava che di mettersi in forze, poi avrebbe dato un addio per sempre alla casa di suo padre, non piú sua, al passato, ai libri... Al finir della supplenza avrebbe fatta domanda per aver qualche altro posto, in fondo alla Sicilia, o in Sardegna, un di quei posti che nessuno vuole, che sembran fatti apposta per seppellirvi un uomo, dove arrivi sconosciuto, non desiderato, senz'obbligo di dar conto di te, dove con un poco di pazienza puoi arrugginirti del tutto in una cinica inerzia di spirito, o in un meccanismo di occupazioni, che, se non è la morte, è per lo meno idiotismo laureato.

Stava una mattina raccogliendo alcuni pochi libri in una cassetta (quei pochi che dovevano servire al mestiere) quando l'uscio fu spinto bel bello e comparve nella luce della loggetta la figura tozza e strapazzata del Manetta, ch'era venuto per dir qualche cosa anche lui al povero sor Giacom. Il vecchio fornaciaio, che aveva veduto nascere e crescere tutti i figliuoli della casa e che nella sua rugosa scorza abbruciata dal sole e dal fuoco poteva dirsi il genio affumicato delle fornaci, non aveva potuto rimanere di pietra alle disgrazie, che da qualche tempo tempestavano le tegole dei Lanzavecchia. Dopo la morte del povero sor Maver, pareva che il diavolo, sceso per la canna del camino, si fosse seduto sul seggiolone del pà. La storia della povera Cerestina non era da credere; e se in conseguenza diretta anche il sor Giacom deliberava di morire, a lui Manetta non restava che di andar a sonare il violino. Quando un uomo ha lavorato tutta la vita, è dura, oltre al veder crepare gli altri, di dover finire come un cane rognoso su un pagliaio. Era questo il discorso che gli stava sul cuore di fare al sor Giacom, per dimostrargli che di mali ce n'è per tutti e che il peggio rimedio è quello di non volerli portare.

- Lei dirà, sor Giacom, ch'io ho buon tempo e che non tocca a me di fare il professore - disse il vecchio fauno, tenendo sollevato il cappello sull'osso della testa per tutto il tempo che durò il gran discorso: - Per grossa è stata grossa; e quando ci penso, mi vien voglia di bestemmiare, com'è vero che ho ricevuto il battesimo. È il vizio che fa gli uomini cattivi; e quel che mantiene il vizio è la troppa pietanza. Ma don Angelo dice che la Provvidenza non si addormenta mai e bisogna crederci. Dal momento che questo Monsignor vescovo ci mette lui le mani dentro, saprà ben trarne fuori qualche ingrediente per far buona la bocca. Il tempo è un vecchio sarto, che rattoppa anche al buio. Se va la combinazione, mi raccomando anche per me, che sono ormai da vendere per ferro frusto. Non si desidera mica mangiar manzo e mostarda, diodedei! A settant'anni non sono i peccati di gola che fan paura; ma c'è che l'asino è stracco come una vacca, parlando con poco rispetto; né lavorare si può, quando si hanno i conti da aggiustare colla vecchia Caterina. Far conti sulla cassa di risparmio? caro vita! è come voler scaldarsi a un fuoco spento, perché ai calzoni del povero, dice quello, il sarto si scorda di fare le tasche. Il male piú grosso è che, quando uno si è fatta l'abitudine di mangiare tutti i giorni, è difficile che muoia d'inappetenza. Per conseguenza diretta, se domani si vendono le fornaci, come sento dire, a qualche grossa ditta di Bergamo, è probabile che nessuno voglia prendere un uomo cosí rovinato nel telaio. E non faccio per dire: ma di pesi ne ha sollevati in vita sua questa carcassa di corpo, che ora scricchiola come una cesta. Vede la chiesa di Calusco quanti mila mattoni? Ebbene son passati tutti per queste due mani, che ora stentano a stringere il pane. Lei sa che cosa è la filosofia, e dirà che io sono una bestia e che della gente ce n'è fin troppa al mondo, peggio che le mosche d'estate; ma si vorrebbe morire nel suo letto, non su una strada: che ne dice, sor Giacom? Se mi buttan via perché son vecchio e scassinato, addio bella! non mi resta che di andar a quattro gambe come quel poveraccio del Foppa, che è uno sproposito di Dio. Chi ha provato il tossico sa che cosa vuol dire bocca amara; chi ha patito sa che cosa vuol dire patire. E se lei dice una buona parola al vescovo, o alla sora contessa, o a Don Angelo, tanto che non mi buttino ai cani, pregherò sempre per il suo pà, per la povera Cerestina, che, se dovesse morir oggi, non la tocca nemmeno le fiamme del purgatorio, tanto è bianca nella sua coscienza che non piú questa neve che viene dal cielo. Lo so io il bene che gli voleva la Cerestina. L'ho scoperto io questo amore, quando lei andò col Garibaldi; e se Dio mi dicesse: Manetta, metti la mano nella fornace accesa! com'è vero che questa è carne viva, giuro che ve la tengo il tempo di tre salveregine.

Il vecchio fornaciaio stese il braccio affumicato e nocchioruto e lo tenne sollevato col pugno in aria, come se aspettasse veramente il giudizio di Dio.

Giacomo, che all'assalto di questa nuova tenerezza sentiva farsi il cuore sempre piú debole, strascicando a fatica le parole, anzi parlando piú coi segni che colla voce, fece intendere che fin che ci sarebbe stato pane pei giovani, non sarebbe mancato ai vecchi.

Ma capiva sempre piú che l'opera sua era finita; non solo, ma ch'egli era piú d'impedimento che di aiuto. Forse era meglio ch'egli affrettasse la sua partenza. Quando la battaglia è perduta, al vinto non resta che di ritirarsi. Durando il bel tempo secco, ben coperto dal tabarro del pà, si fece accompagnare una mattina da Angiolino in timonella fino alla stazione di Cernusco e mandò via la sua poca roba per Pallanza. Nell'andare volle che si passasse per strade meno battute, quantunque la gran neve caduta facesse i luoghi quasi deserti. E anche procurava di rintanarsi nelle pieghe del mantello e di nascondere il viso sotto le tese larghe del cappello, non tanto per la paura del freddo, quanto perché immaginava che la gente, riconoscendolo, dovesse dire: «To', colui che si lascia rubar l'amorosa e par che si rassegni!».

Nel ritornare dalla stazione fece fermare la timonella davanti al camposanto, e senza discendere girò l'occhio sulle croci, che allargavano le braccia sulla neve. In mezzo alle croci quasi soffocate e sepolte, un mucchietto di neve piú alto degli altri, segnato da un piccolo piolo rustico, era tutto quanto oggi parlava ai vivi di un Mauro Lanzavecchia.

- Sei morto a tempo, pover’uomo! - mormorò a mezza voce Giacomo, mentre Angiolino colle mani nel cappello recitava il suo requiem di cuore.

- Amen! - soggiunse Giacomo, quando Angiolino s'ebbe fatto il segno di croce. - Questa primavera penseremo a mettergli una croce di sasso.

- Sí - soggiunse Angiolino, con quel tono un po' acerbo, che mostrava da qualche tempo in qua. - Sí, ma vogliamo mettergliela del nostro, n'è vero?

- Cioè...? - fece Giacomo ch'era lontano dal capire.

- Voglio dire, non coi denari che vengono dal Ronchetto.

A questa improvvisa rimostranza, che uscí sbadatamente dall'anima rustica del ragazzotto, Giacomo arrossí con tanto fuoco che sentí per un pezzo il calore della vergogna durare sulla pelle e quasi bruciargli la radice dei capelli.

- Il povero pà non ha mai voluto l'elemosina di nessuno e nemmeno a me piace di mangiare il pane sporco.

- Perché, perché il pane sporco? - balbettò fievolmente Giacomo.

- Lo dicon tutti eh! - soggiunse Angiolino, menando un colpo di frusta alle orecchie della grigia. - Tu sei troppo buono: ma io non l'avrei finita cosí.

- Di chi intendi parlare? - interrogò smarrito il fratello filosofo.

- Non farmelo nominare. Per me avrei fatto il conto che avesse finito di respirare l'aria di queste parti.

- Chi ti ha parlato di queste cose?

- Chi? chi? come se non lo sapessero le campane. Basta! tu sai leggere il latino e può essere che, dal lato del messale, la ragione sia tua; ma io gliel'avrei data una coltellata nel ventre.

Nel dire queste fiere parole, il ragazzotto, che mandava scintille dagli occhi, lasciò andare un'altra bieca frustata al capo della povera grigia, che s'impennò, balzò e prese la corsa. Il corpo forte ed elastico del piú giovane dei Lanzavecchia, scosso dall'ira, fremeva in tutti i muscoli, comunicando al sedile sospeso della timonella un moto convulso, che faceva tremar Giacomo nelle pieghe grosse del tabarro.

La grigia si arrestò sudata e spumante nella corte. Angiolino saltò a terra e la condusse verso la stalla. Giacomo, che pareva schiacciato dall'umiliazione, gli andò dietro, e quando quello ebbe legata la bestia, mettendogli una mano dolcemente sul petto, gli disse:

- Sai quel che hai detto, Angiolino?

- Lo so, non è da cristiano; ma bisognerà pure aggiustarla in qualche maniera. Celestina è una nostra sorella eh?... e noi le vogliamo bene... - Ora la fiamma divampò sul volto del ragazzo, che fremeva tutto sotto la mano pallida del fratello.

- Son io, non tu, son io nel caso, che devo aggiustarla... - pronunciò faticosamente Giacomo, alzando un dito, che tremava nell'aria.

- Non importa chi sia, Giacomo: purché non si dica che noi mangiamo il pane sporco.

- Non si dirà - scappò detto al povero filosofo, che parve rianimarsi in un improvviso coraggio. - Non si dirà... ma son io che devo aggiustarla.

- Fa conto che io sia con te, Giacomo: anche fino all'inferno - soggiunse il giovinetto, che sputò per disprezzo di qualcuno sul muro.

- Non si dirà, non si dirà - andava ripetendo macchinalmente la forza d'argomentazione, mentre il convalescente si trascinava su per la scaletta.

Fu ancora una brutta notte, una vera notte d'inferno! Le parole sconsiderate d'Angiolino non avevano ridestato il vecchio uomo, se non per dargli la coscienza della sua vergognosa incapacità. Angiolino, sí, parlava come un forte. Egli invece, avviluppato da considerazioni filosofiche e morbose, s'era lasciato disarmare della forza naturale, che fa operare coraggiosamente per il bene contro il male: e trascinavasi in una meschina inettitudine, permettendo che i suoi mangiassero il pane sporco. Angiolino lo faceva piangere di rabbia. Questo ragazzo quasi analfabeta, che lavorava per la sua mamma, che pregava cosí fervorosamente per i suoi morti, che non avrebbe esitato a dar l'animo al demonio, purché fosse ristabilita una legge di giustizia, era un rimprovero vivente alla sua gretta acquiescenza. - Quando la Lisa gli portò in camera la cena, lo trovò quasi morto di freddo.

- Tu hai fatto male a uscir stamattina; lo dicevo poco fa alla mamma. - Prese a cantare la ragazzona: - Che bisogno c'era di mandar via proprio quest'oggi la tua roba? par che la tua casa ti bruci sotto i piedi. Invece quel che importa adesso, piú di ogni altra cosa, è che tu stia bene, prima per te e poi per tutti gli altri. Chi ci aiuta, se tu non ci aiuti? È stata una grande disgrazia, e veramente tu non la meritavi; povero Giacomo, cosí buono come sei: ma da una disgrazia non dobbiamo mica cavarne cento. E ora mangia, sforzati di bere una goccia di vino. Questo me l'ha portato per te ieri il Bogellino del Ronchetto. È vin di Mondonico di cinque anni fa, fatto dal vecchio Bogella, che ne ha una cantina piena. T'ha parlato la mamma di quel che c'è in aria? Se ti pare che io abbia fatto qualche sacrificio per questa povera casa, dovrai compatire se desidero mettermi a posto. Qui finirei coll'essere la zia senza denti, o col mangiare un pane, che non mi vorrà passare quel giorno che madamisella tornasse in casa a comandare piú di prima. Ti parevo troppo ingiusta, quando dicevo che madamisella non era fatta per noi: sarà stata una disgrazia, ma a me non è capitata. Comunque non sarò io che starò ad ingrassare sui peccati degli altri. Questo matrimonio invece arriva a tempo, come l'arca di salvazione. Lo zio prete ne avrebbe già parlato alla contessa: e quando tu non avessi nulla in contrario, si potrebbe fare questo carnevale. Non è l'anno d'allegria, no di certo: ma il povero pà, se dà un'occhiata in qua, vorrà ben perdonare, se non lasciamo finire l'anno di triste condizione. Queste non sono allegrie, cara Madonna! son rimedi da far passare la miseria... Mangia dunque: non lasciarti prendere dall'ipocondria; son già troppe le tribolazioni senza bisogno di andarle a cercare col lanternino.

Giacomo si sforzò di mangiare; ma nel mettere in bocca il pane, gli risonò nell'animo con una violenza irrefrenabile la frase di Angiolino: Che non si dica che noi si mangia il pane sporco... Uno stringimento della gola, una nausea nervosa dello stomaco gli fece sputare nella cenere il boccone, che egli non sapeva né rompere, ne inghiottire. Sentendosi il cuore pesante e tormentato, cosí ch'egli temette per un momento di non potere piú trascinarlo innanzi, né potendo togliersi dalle ossa i brividi, prima ancora che la giornata fosse scura del tutto, andò a letto e pregò che lo lasciassero quieto.


XII

POVERA FRULIN!


Si rannicchiò nelle coperte, sprofondò il capo nel cuscino; ma l'immagine di Angiolino gli tornava davanti colla baldanza alquanto oltraggiosa d'un rivale. Questo ragazzo aveva parlato semplicemente come un uomo che ama; mentre i libri, l'analisi, l'aristocrazia dei pensiero, la ripugnanza per il lavoro che logora le mani, l'ebbrezza cercata e ripetuta dalle astratte speculazioni avevano snervata la volontà del filosofo. Ecco, ecco: dopo di non aver saputo né prevedere, nè impedire il male, ora non sapeva nemmeno respingerlo, ma vi languiva sopra, miseramente, di obbrobrio a sé e agli altri, non più uomo, ma spoglia vuota d'ogni energia, non piú savio, ma cadavere mummificato d'un filosofo morto d'inazione.

Chi disprezza l'opera sua lascia libero il campo ai predoni. I piccoli egoismi s'affollano come mosche sul cadavere dell'imbelle. Ecco il castigo dell'orgoglio! ed era naturale che nel mal esempio si guastasse anche la virtú dei buoni. È sul terreno dei doveri trascurati che piú crescono le erbe velenose del male.

Fu solamente verso le quattro del mattino che il povero afflitto poté addormentarsi, abbattuto dalla sua stessa fatica. Sognò cose meno torbide, cose lontane, in cui entravano le camicie rosse dei garibaldini, il lago di Garda, le montagne del Tirolo e certi viottoli angusti e sdrucciolevoli, per cui passava una compagnia di soldati sotto un'acquerugiola fina, fredda, noiosa; finché gli parve di arrivare a un certo podere, dove bisognò piantare le tende... Fu allora che intese per la prima volta chiamare: Giacomo, Giacomo!

Gli pareva di stringersi nella meschina coperta, di rannicchiarsi sotto la tenda umidiccia, cercava di riprendere sonno, quando di nuovo sentí la voce che lo chiamava. Stava per rispondere: presente: e in quella alzò la testa dal cuscino. Riconobbe che aveva dormito e sognato. Cominciava appena ad albeggiare.

- Giacomo! - risonò di nuovo la voce, dalla parte della corte.

«Chi mi chiama?» domandò mentalmente, senza alzare la testa.

- Oh il mio Giacomo, sono io...

- Sei tu? Dio, Dio, è lei... - disse a voce alta mettendosi a sedere sul letto, come se si sentisse afferrato da una forza non umana.

- Giacomo, senti, sono la tua Celestina - chiamava la voce dolente con una intonazione di tenerezza.

- Non sogno, Dio! è lei... - Prese i vestiti dalla sedia, se li indossò in fretta, mentre andava ripetendo macchinalmente: - Dio, è lei. Sei tu? - gridò aprendo la finestra e sporgendo il capo a cercar nella corte.

Il giorno era appena chiaro, di quella prima luce che lotta ancora colla pigrizia della notte: ma il riflesso vivo della neve aiutava a far vedere le facciate delle case e i contorni degli oggetti. Giacomo cercò lungo il muro e vide la figura di una donna, ritta in piedi, colla mano sul paletto dell'uscio.

- Sei tu? o Madonna, aspetta che vengo...

Calzò le scarpe, avvolse la gola scoperta in una sciarpa di lana, uscí sulla loggetta, scese nel buio passaggio della scala, attraversò a tentoni la cucina fredda come una ghiacciaia, fece saltare l'arpione dell'uscio, andò fuori...

- O Giacomo, non mi cacci via? - La voce di Celestina aveva in sé qualche cosa di ridente. Giacomo aprí le braccia, strinse quel povero corpo indurito dal freddo, fracido di pioggia, le impedí di gridare mettendole una mano sulla bocca: - Taci, dormono: entra. Sei proprio tu?

- Sí, sono io, proprio io: tu non mi cacci via...

- Da dove vieni? sei venuta sola?

- Sono scappata. Lasciami morir qui, Giacomo.

Egli la fece entrare e nell'oscurità dell'uscio, che richiusero dietro di sé, i due promessi sposi si baciarono, si carezzarono, piansero, mescolarono le loro lagrime, si strinsero cuore su cuore, per finir di soffrire tutto quel male, che non aveva piú parole, che non comprendevano piú, che li travolgeva come un grosso fiume, verso una profondità, in cui non senza un'idea di contentezza sentivano che c'era la fine di tutto.

- Tu sei malata, tu hai la febbre... - disse Giacomo, quando sentí il povero corpo guizzare nelle braccia in un tremito violento e convulso.

- No, sto bene, Giacomo - rispose, sempre colla sua voce ridente la poverina.

- Vieni, che accendo il fuoco. Sei scappata? sola, di notte? che cos'hai fatto? Sei venuta da Buttinigo fin qui a piedi? - Giacomo, che tremava anche lui di freddo e di emozione, dopo aver cercato gli zolfanelli sulla pietra del camino, accese un moccoletto, tolse dal cassone un gran fascio di sottili stramaglie, l'ammucchiò sul focolare, vi appiccò il fuoco, e, quando la fiamma cominciò a farsi strada e a crepitare, trasse la Celestina a sedere sulla cassapanca, le tolse dalle spalle lo scialle impregnato d'acqua, le asciugò col fazzoletto la testa grondante e, vedendola rianimarsi al calore della fiamma, si domandò se per caso non fosse ancora uno strano sogno. Chi sa misurare la grossezza del filo che intercede tra la verità e il sogno? e chi non ha visto, sognando, la segreta anima delle cose?

- A Imbersago ho dovuto aspettare quasi una mezz'ora che la chiatta del porto venisse a portarmi di qua: pioveva e non mi sono accorta. Ma ora sto bene: questa fiammata è il paradiso.

- Hai camminato tutta la notte nella neve?

- Sempre. Era cosí bello... Fu nel discendere verso il porto per un sentiero gelato e liscio come un vetro che son due volte sdrucciolata... ma non è nulla... Ora sto bene qui accanto a te.

Giacomo dallo squallido disordine delle vesti, che portavano i larghi segni dello strapazzo e del fango, e piú ancora dell'animazione eccessiva, quasi nervosa, che spingeva la poveretta a ridere e a celiare sulla sua avventura, fu tratto a pensare che lo strano viaggio non fosse andato senza pericoli e senza spaventi.

Le scarpe, le calze erano una pietà. Il fango impiastricciava le balzane, i gomiti, il volto fin sopra i capelli. C'era sulla fronte qualche riga di sangue. Al bagliore dei fuoco gli occhi di lei risplendevano d'una luce fissa e cristallina, che pareva mirar lontano. Le braccia avevan bisogno di stirarsi: il corpo pareva desiderare d'annidarsi in quella gran fiamma, che riempiva il camino. Pure, con tutto questo, essa era contenta d'essere arrivata, e parlava sempre con voce elevata, ridente, piena d'infantile contentezza.

Giacomo cercò nell'armadio la bottiglia della vecchia acquavite, che il povero pà soleva versare nel caffè.

- Bevi, questa ti farà bene: ti scalderà lo stomaco.

Essa prese il bicchierino colla mano traballante e tracannò il liquore con avidità, come se fosse latte. Le sue gote si rianimarono subito d'un calore interno.

- Grazie della carità. Come sei buono, Giacomo!

- Togliti le scarpe: fai pietà - pregò con voce sommessa.

- Hai ragione: ho i piedi rotti. Fu un grande andare... - E con docile obbedienza lasciò che colla lama del temperino egli tagliasse le stringhe e aiutasse a levar le povere scarpe, che non erano più scarpette da ballo. Le tolse anche le calze, che parevan state in molle e volle che asciugasse i piedi nudi alla fiamma. Celestina lasciò fare con una infantile accondiscendenza, provando nella gioia fisica di quel calore, che la ristorava, qualche cosa di lieto e di splendido, che correva ad accendere tutti gli spiriti della vita.

Cominciò a raccontare con tono eccitato e molto sconnesso le avventure della sua fuga: come avesse ingannato le due signore, perché lei in un ospizio non ci voleva andare: si era accorta che volevan seppellirla viva: disse anche come da qualche tempo le mettevano nel pane, che aveva un sapore amarognolo, una piccola goccia di veleno per farla morire a poco a poco. Allora pensò di fuggire: uscí di casa dietro il carretto del Pasqua e s'era incamminata per quella benedetta strada lunga lunga lunga, tutta coperta di neve. Una volta incontrò il Manetta, che le disse: È arrivato il Garibaldi... Allora s'era consolata tutta: ma alcune donne, che andavano al mercato di Merate, la volevano condurre con loro per raccomandarla alla Madonna del Bosco, dove c'è un lupo che mangia i bambini... Ma essa capí che volevano farla perdere, perché eran streghe travestite. - Il portolano d'Imbersago, quando mi vide comparire cosí, come se fossi stata pescata allora dall'Adda, non voleva a tutti i costi trasportarmi dall'altra parte. C'era una nebbia, ve'... Provò a chiamare un ometto colla barbetta rossa, che voleva sapere chi aveva colta la castagna, chi l'aveva sbucciata e mangiata. Io dissi a quei due burloni che avevano buon tempo e feci vedere un cinque franchi. Allora si persuasero a portarmi di qua. L'acqua era verde come una biscia. Poi non ebbi piú paura di nessuno, perché sapevo che di qua c'eri tu, Giacomo; ma devo aver perduto il borsellino colle sessanta lire della contessa. Credi che abbian potuto rubarmelo quei vecchi? l'ometto dalla barbetta rossa, se non era il diavolo colle scarpe, era uno de' suoi figliuoli piú vecchi... - La febbricitante, mentre raccontava cosí, a spizzico, sconnessamente, non cessò dal togliersi le forcine dai capelli, che sciolse interamente e spremette colle mani, fissando con un sorriso di tenerezza il suo Giacomo. A un tratto, come se venisse meno ogni motivo di gioia, si rannuvolò, strinse nella mano convulsa una treccia e rimase immobile, cogli occhi fissi sulla brage, simile all'immagine simbolica dell'afflizione. - L'Adda era verde come una biscia, - ripigliò colla voce di chi parla in delirio - ma quando fui al di qua del fiume, non ebbi piú paura di nulla. Di qua ci sei tu, Giacomo; tu sei il mio Gesú. - E sporgendo un piede nudo verso la fiamma, soggiunse con dolorosa ironia: - L'ometto dalla barbetta rossa voleva che lo sposassi; ma io gli dissi: «Levatevi la scarpa: fate vedere il piede. Certo era il diavolo».

Detto questo, appoggiò la testa stanca al palmo della mano, chiuse gli occhi, abbandonò il corpo e, se Giacomo non era pronto a riceverla fra le braccia, stramazzava nelle fiamme, rotta dal sonno e dallo strapazzo. Egli lasciò che posasse la testa dolente sulla sua spalla, la sorresse col braccio, circondandola, le ricoprí colla sciarpa i piedi, e se la tenne addormentata un pezzo, rannicchiandosi nell'angolo del vecchio camino, mentre la fiamma si spegneva a poco a poco nella cenere e cresceva la luce bianca del dí a schiarire le cose. Il gallo cantò. Poco dopo, cominciarono le campane a sonare l'avemaria, rompendo l'aria muta e ghiacciata con una specie di domestica cantilena. Era proprio Celestina, che dormiva sulla sua spalla colle labbra aperte a un inerte sorriso, sotto i colpi di piccoli fremiti. Era lei, era la sua povera Celestina, che gli parlava coi gemiti del suo dolore assopito.

E nel carezzarne i capelli, sentiva uno strano bisogno di ripeterle cose dolci e soavi; come se tra lor due non fosse mai discesa alcuna fatalità.

Nella luce ardente di questo istante presente impallidivano i ricordi del passato. Alla realtà l'animo commosso non sapeva opporre che una morta resistenza. La ragione non parlava piú, finalmente, in lui, ma dall'anima sua buona e commossa traboccava la santa pietà, la santa forza operosa che libera e redime.

Che cosa diventano i piccoli argomenti della piccola logica davanti all'onda di quel sentimento di amore e di carità?

- Tu sei il mio Gesú - essa aveva detto nell'invocare la sua misericordia; e forse parlava veramente al suo cuore una carità piú grande del mondo, quella che Gesú recò sulla croce e che vinse contro le leggi del mondo.

- O povera «Frulin» - le andava ripetendo, parlandole sommessamente nei capelli: - Che cosa hanno fatto di te? perché ti hanno ridotta cosí? che male abbiamo fatto noi due per essere cosí puniti?

L'ascoltava essa? pareva che uno spirito vegliasse nell'oscurità profonda di quel sonno letale, che impiombava le sue palpebre e snervava tutte le sue forze, perché alle parole carezzevoli rispondeva talvolta un breve corrugare delle ciglia, un movimento languido delle labbra, che cercavano ancora un sorriso. Di mano in mano che la luce si diffondeva nella stanza e i pensieri della realtà entravano a dominare la sua commozione, Giacomo, nel contemplare quel povero corpo rattrappito nelle sue braccia, quei piedi nudi illividiti, le vesti sciupate, i capelli cascanti sul viso arso dalla febbre, non seppe più trattenere il pianto. Credeva che fosse inaridita per sempre la fonte delle lagrime, e invece se le sentiva colare tiepide e larghe nei solchi del viso, le vedeva scorrere come un vero lavacro dagli occhi suoi sul viso e sulle mani della disgraziata...

- Povera Celestina, povera «Frulin»! se ti vedesse lo zio Mauro, che ti voleva tanto bene... Perché dovevo provare questo dolore? no, no, non avrei mai creduto che si andasse cosí lontano nella via del patimento. Se non si muore di questi mali, è segno che veramente c'e in noi qualche cosa che non può morire.

Cosí parlava o credeva di parlare a lei, ma in fondo non faceva che ascoltare sé stesso. E intanto non osava muoversi per paura di rompere quel breve momento di riposo e di benedetta dimenticanza, che la ristorava. Pensava che, perché la poverina avesse avuta l'audacia di fuggir da una casa ospitale di notte, e di mettersi tutta sola per una strada piena di neve, affrontando i pericoli e gli sgomenti di un viaggio cosí pauroso, questo voleva dire che la febbre dei suoi mali l'aveva eccitata fino al delirio. Ne' suoi discorsi, nel suo stesso ridere festoso c'era già qualche cosa di troppo, di oscuro, di irregolare; e questa febbre cresceva spaventosamente ad abbracciarla, la faceva gemere nel sonno, emanava in una vampa rovente, in cui cominciava ad ardere egli stesso, come di un fuoco che si propaga...

Finalmente sentí muovere nella stanza di sopra gli zoccoletti della Lisa, che poco dopo sonarono sulla loggetta. Aspettò ch'ella venisse dabbasso e, quando la vide entrare in cucina, le fece un richiamo colla mano.


XIII

QUOD DEUS CONJUNXIT..


- Guarda, fa piano; è Celestina...

La Lisa alzò le mani, aprí la bocca e rimase senza fiato, immobile, senza poter trovare tra cento parole, quella che valesse ad esprimere in una volta la meraviglia, il disprezzo, la gelosia e anche un certo senso serpeggiante di compassione, che suscitò in lei l'improvvisa presenza di madamisella in casa sua.

- Ha una febbre terribile, - continuò sottovoce Giacomo - va ad avvertire la mamma; fate scaldare un letto.

«Quando son malate...» ebbe una gran voglia di dire la Lisa; ma dalla faccia di Gesú crocifisso, con cui le aveva parlato Giacomo, capí che non era il momento di pigliarsi di queste soddisfazioni di stomaco. Tornò di sopra e cinque minuti dopo le due donne rientrarono insieme.

- Sicuro ch'è malata questa pover'anima... - disse pietosamente la mamma Santina tenendole una mano sul capo. - Il meno che si possa fare è di metterla subito in letto e di chiamare il dottore. Mentre raccolgo un po' di brace nello scaldino, tu Lisa, prepara il letto nella stanza di Giacomo. Da dove vien fuori questa povera martire?

La Lisa, che, dalla roba giudicò lo strapazzo della creatura, non osò replicare, ma tornò di sopra a stendere un materasso sul letto, nella stanza che occupava Giacomo prima di passare in quella dello zio prete, sforzandosi di vincere colla furia dei movimenti un'agitazione, in cui il suo risentimento bisbetico si azzuffava col presentimento pauroso di qualche nuova disgrazia.

- Non ci manca che questa - cominciò a brontolare dentro di sé, mentre stirava i lenzuoli sul letto. - Càpita in una bella condizione, se Dio vuole! Se si deve giudicare dalle scarpe e dalle calze, madamisella non ha viaggiato in carrozza, ma ha camminato abbastanza per arrivare a tempo per farsi curare da noi, come se non ne avessimo abbastanza dei fastidi nostri; già, finirà col guastare anche quelle poche feste di Natale. Questo, si sa, è l'ospedale degli invalidi. Finito l'uno, comincia l'altra, e noi, s'intende, ci dobbiamo prestare per tutti, gratis et amore, se dobbiamo guadagnarci un bel posto in paradiso. Per loro il buon tempo, la filosofia, i buoni bocconi, i complimenti, la corte dei signori, e quel che segue, fin che il buon tempo dura; quando la festa è finita, si torna a casa a farsi curare; e allora allon donc, tocca a noi far pezze della pelle per medicare le loro piaghe. Sarebbe bella che, dopo aver fatto quello che ha fatto, madamisella venisse a morir qui, proprio a tempo per liberare da ogni obbligazione quei bravi signori, che l'hanno rovinata! uscir lei dai fastidi e lasciar a noi le spese del funerale. Non mi stupirei che lo facesse, perché è sempre stato nel suo carattere di guastare le combinazioni...

Mamma Santina entrò in quella collo scaldino. Pallida e tremante di emozione, quando la Lisa cominciò a voler far sentire le sue ragioni, troncò ogni discorso col dire:

- Fosse la figlia di nessuno, quel che importa è che la povera figliuola sia assistita; non sei cristiana?

- Non neghiamo la nostra carità nemmeno ai cani; ma io direi di scrivere subito, a buon conto, allo zio prete, per avvertirlo del fatto e per indurlo a conchiudere qualche cosa con quella benedetta contessa. Sapete che Giacomo non è uomo da risolvere una questione. Teme sempre di mancar di rispetto alla gente, la quale poi lo ripaga nel bel modo che s'è visto; e non vorrei che, a furia di aver misericordia agli altri, ci riducessimo a morir noi disperati come ladri. Se questa disgraziata deve ammalarsi in casa, bisognerà pure che qualcuno pensi alle medicine. Sarebbe bello che toccasse a noi di far la penitenza de' suoi peccati...

La Lisa non avrebbe finito cosí presto dal predicare, se la mamma, facendole un vivo segno colle mani, non l'avesse avvertita che Giacomo stava per entrare.

Questi s'era presa Celestina sulle braccia e raccogliendo le sue forze a un'estrema fatica, veniva su per la scaletta col peso lento della persona, che rovesciata sulla sua spalla, nel languore pesante di un corpo morto, lasciava cadere le braccia incapaci in un desolante abbandono. I capelli umidi e sciolti scendevano sul volto, velando i lineamenti già irrigiditi e mettendo una striscia quasi funebre sul candore marmoreo, mentre i piedi ignudi, che uscivano dalla povera gonna, davano alla giovine una tristezza d'infinita miseria, di vittima spenta che portassero a seppellire.

- Come l'hanno conciata, pover'anima - scappò detto alla Lisa, quando, deposta sul letto la malata, dette mano a svestirla; e male resistendo alla violenza della naturale compassione, gli occhi le si fecero grossi di pianto.

Giacomo ordinò con tono frettoloso e sostenuto che la mettessero a letto, mentre egli andava a chiamare il dottore. Uscí e corse, cosí come si trovava, a capo nudo, col petto mezzo scoperto, in cerca del Brandati.

Celestina si lasciò svestire senza dar segno di vita. Era un letargo di piombo fuso e colato in un corpo di ghiaccio.

- Non vede domattina - pronosticò don Angelo crollando malinconicamente la testa.

- Nel suo stato lo strapazzo fu troppo - soggiunse la levatrice, che il dottore aveva dovuto far venire in fretta.

- Santa Madonna, che brutto Natale! - La Santina nascose il volto nel grembiale, e dopo aver asciugati gli occhi grondanti, si volse al prete: - Glielo dite voi, don Angelo, a quel povero figliuolo?

- Dov'è?

- Dabbasso, in studietto. Da ventiquattro ore non par piú un uomo vivo.

- Vado io a pigliarlo.

Lo zio prete scese lentamente la scaletta e andò in cerca di Giacomo. Lo trovò nello stanzino, che serviva di studio, seduto in una vecchia sedia di cuoio, col capo curvo e colle braccia incrociate sul petto, cogli occhi fissi sul suolo, in una attitudine di attonita tranquillità.

Nella luce grigia, che entrava dai nudi vetri della finestra, che dava sulla vignetta, il suo volto reso quasi trasparente dai mali, compariva ancor piú delicato e giovanile. Ma tutta la testa, sotto il cespuglio d'una chioma fatta folta e lasciata incolta, aveva un'espressione di bellezza forte e resistente.

Di fuori il vento strappava i rami della vecchia vite appoggiata al muro, e nella bianchezza della neve svolazzavano per la vignetta alcuni corvi. Il cielo attraverso agli alberi e ai pergolati spogli appariva d'un azzurrino purissimo; e in quel cielo fermo e lieto, che si sprofondava nell'infinità, pareva che lo spirito di Giacomo attingesse le ragioni della sua persuasione.

Don Angelo, nel passare dalla cucina, vide Battista in un angolo tra la credenza e il muro, in piedi, colle spalle appoggiate al legno, colle braccia nascoste sotto il gabbano, col testone basso, in un'attitudine di colpevole punito. Angiolino invece, che non poteva star fermo nelle sue smanie dolorose, dopo essere uscito cinquanta volte a cercare un sollievo al suo patimento in qualche occupazione materiale, s'era messo a sedere sopra un sacco di cruschello e stava lí, colla testa curva sui ginocchi, coi pugni stretti, colla gola strozzata da un dolore furioso, che non osava farsi sentire. Insieme alla pietà per la povera Celestina e per il povero Giacomo, fremeva in lui un rancore che non voleva morire; e intanto gli pareva che qualche cosa di vivo e di palpitante si distaccasse dal cuore. Senza che egli potesse capire, in Celestina, piú che la sorella, rimpiangeva lo svanire d'un misterioso incanto.

Dopo il pieno scampanare della benedizione, un lungo silenzio si diffuse per la casa, per la corte spopolata, per tutta la campagna lucente al sole. Una luminosità gioiosa si spargeva in quel pomeriggio di Natale senza nuvole e senza nebbia e correva sulle creste dei monti, che riflettevano splendori d'argento nella tremula trasparenza dell'aria.

Raggruppati su un vecchio trave, accanto al muro del portico, il Manetta e alcuni uomini delle fornaci discorrevano accorati con mezze frasi nel tenore morto d'un suffragio. Parlavan di lei, di Giacomo, del caso, dei mali, che vengono senza farsi cercare; poi da capo a crollar la testa ed asciugar gli occhi col ruvido palmo della mano. Una volta fece una rapida comparsa tra il chiaro e il fosco il signor della Rivalta; domandò qualche notizia e scomparve colla stessa furia. Forse c'era a casa chi lo aspettava con ansiosa curiosità. Forse correva anche lui dietro a un suo incanto... Sulla loggetta era un rapido incontrarsi di donne che non parlavan piú per rispetto alla morte.

- Giacomo, - disse la voce grave di don Angelo con quell'intonazione un po' alta ed estranea, di cui si servono i preti, quando sentono di parlare in nome di una forza superiore - abbi pazienza, povero Giacomo; per lei forse è meglio cosí. Non andiamo a investigare la volontà di Dio, ma lasciamola passare. Puoi venir di sopra?

- Le avete detto il mio pensiero? - chiese il nipote con voce altrettanto ferma.

- Gliel'ho detto. Quasi non voleva accettare; ma quando capí che per lei non c'è piú nessun'altra speranza in questo mondo e che non potrebbe avere da te una consolazione piú grande, ha detto con gioia di sí. Ma bisogna far presto.

Giacomo si mosse sotto la guida d'un segreto pensiero, che lo sorreggeva. Il vecchio prete, che nei suoi settant'anni maturi poteva dirsi stagionato contro i tocchi della tenerezza, gli passò il braccio nel braccio e volle accompagnarlo su per gli scalini.

- Allora faccio venire i testimoni - disse quando furono sulla loggetta. Giacomo entrò nella stanza vicina, e ne uscí pochi minuti dopo coi capelli ravviati e con indosso il vestito nero, pronto per la cerimonia. Ebbe ancora un assalto di smarrimento momentaneo; ma il Brandati e lo zio lo presero in mezzo e lo menarono nella stanza della moribonda.

La mattina le avevano portato la Comunione. Ardevano ancora sul tavolino le due candele benedette in mezzo ad alcuni fiori, che Angiolino s'era fatto dare dal giardiniere del Ronchetto. Alcune donne stavano in ginocchio, accanto al muro, col viso in lagrime. Battista e Angiolino, ai piè del letto, parevano non veder piú nulla.

La cerimonia cominciò.

- Voi siete i due testimoni - disse ai due giovani la voce di don Angelo, che conservava in mezzo a quello scompigliato silenzio un'intonazione d'ordine e di comando. Si mise al collo la stola rossa, aprí un libro dagli orli dorati, fece il segno della croce.

Dopo aver letto sottovoce alcune preghiere in latino, si chinò sull'assopita, per dirle piano all'orecchio:

- Celestina, figliuola, c'è qui il tuo Giacomo, che ti vuole sposare.

La giovane aprí languidamente gli occhi, li girò per la stanza. Un umile sorriso scosse e tremolò sulle sue labbra riarse dalla febbre infettiva, che la divorava.

- Mi ascolti, figliuola? - tornò a dire don Angelo. Essa fece colle palpebre un piccol segno di sí. E il prete con accento piú sostenuto: - È contento il qui presente Giacomo Lanzavecchia di sposare la qui presente Celestina Benetti?

- Sí - rispose Giacomo con un'espressione e un tono di voce che, sfuggendo di mezzo ai brividi dell'anima, risonò con una dolcezza singolare.

- È contenta... Sei contenta, Celestina, di sposare il tuo Giacomo? - sussurrò don Angelo, curvandosi un poco sulla testa della malata, mal resistendo anche lui questa volta alla violenza delle cose.

La morente, che seguiva coll'occhio luminoso la santa cerimonia, disse un «sí» chiaro, ridente, che radunò tutte le speranze sfiorite della povera anima sua.

Stese la mano stanca, mentre la mamma Santina, che non riusciva a inghiottire tutte le sue lagrime, cercava di mettere nella mano di Giacomo il vecchio anello d'oro, che le aveva dato quarant'anni fa il suo Mauro.

Il figliuolo, il quale non vedeva innanzi a sé che un barbaglio di cose bianche, aiutato dai vecchi, che mescolavano colle sue le loro mani tremanti, mise l'anello nuziale nel dito della sua promessa. Poi si lasciò cadere in ginocchio e restò come morto. Celestina sollevò la mano e gliela posò sul capo.

- Quod Deus coniunxit homo non separet - recitò il prete, ritrovando la sua voce naturale. Poi continuò le altre parole del rito mentre cercava di avvolgerli nella sua benedizione.

Piangevano tutti, in silenzio, non senza qualche segreta consolazione. Celestina, fissati gli occhi in viso alla mamma Santina, parve chiedere qualche cosa. La mamma sollevò un poco colle mani la testa di Giacomo:

- Perdona, Giacomo - disse con un filo di voce - perdona, perdona...

Fu questo l'ultimo sforzo d'una vita che fuggiva già lontano come fugge un'ombra all'avvicinarsi di una gran luce.

Don Angelo senza pensare a cambiar stola, voltò alcune pagine del libro, che contiene in poco spazio l'eterna leggenda delle gioie e dei dolori che passano, e cominciò a leggere le orazioni degli agonizzanti, a cui risposero i presenti, stando inginocchiati.

La poverina spirò ai primi tocchi dell'avemaria sul finire di quel Natale che doveva essere per lei cosí bello e cosí felice.

Giacomo si alzò e venne condotto fuori. Non piangeva. Un sentimento di serena convinzione, starei per dire di umiltà soddisfatta, gli permetteva di essere il meno scosso e il meno turbato di tutti. Sentiva confusamente che qualche cosa era finito, per cedere il posto a qualche cosa di più grande, che non avrebbe potuto trovar posto poco prima nell'anima sua.


XIV

IL ROSARIO DEL FILOSOFO


Per tutto il tempo che le campane accompagnarono col suono lento ed uguale il funerale della vittima, Giacomo non fece che ricamare i suoi pensieri nella cenere del camino, stando seduto, coi piedi sulla pietra, col braccio appoggiato al ginocchio, colla testa appoggiata al palmo della mano, nella penombra crescente della fredda cucina.

La gente, che per un bisogno logico dello spirito non può fare a meno di cercare alle cose che accadono la ragione che le muove, avrebbe potuto domandargli che significato voleva avere per lui questo matrimonio in articulo mortis, tanto in faccia a Dio, come in faccia agli uomini: e che cosa accomodava, che cosa giustificava, che cosa santificava? E non sapendo trovarla questa ragione, la gente poteva supporre ch'egli vi avesse almeno qualche particolare vantaggio.

Fortunatamente Giacomo non era piú obbligato a rispondere a nessuno, nemmeno a sé stesso. Viaggiando molto lontano nella dolorosa esperienza, egli era uscito molti passi dalla strada delle ragioni solite e camminava, calpestando le idee accessorie, con un sentimento ignoto al senso comune, verso una Idea, che metteva finalmente nel suo spirito la pace dell'uomo vittorioso.

Nella coscienza del suo dolore cercava di misurare le forze, come chi sa che dovrà rimettersi in cammino al nuovo spuntare del dí per una via maestra, dopo aver perduto molto tempo e stancate molte illusioni in un labirinto di sentieri dirotti ed oscuri. Sí, non senza qualche meraviglia, assisteva egli stesso all'umiliazione del suo orgoglio. Non senza qualche curiosità andava cercando da dove gli venisse questa pace insieme a tanta forza di rassegnazione, di umile rinuncia, quasi di consacrazione de' suoi mali. Non gli veniva certo dalla cenere del suo libro abbruciato; non dall'eloquenza del vecchio prete, che gli aveva parlato di leggi immutabili; non dalla necessità, che stringe e costringe i piccoli bisogni e i piccoli egoismi umani in un affamato sofisma.

Era tanto immerso in questa ricerca che non si accorse subito, quando i suoi, di ritorno dal funerale, dopo aver lasciata Celestina sotto la neve, rientrarono a poco a poco, in silenzio, e presero posto, chi qua chi là, nella stanza già annerita dall'ombra della sera.

Insieme a quelli di casa entrarono anche gli uomini e le donne di servizio, coi lavoratori delle fornaci, e tutti presero posto, come gente vinta, sulle panchette, sui sacchi, sui trespoli accostati al muro. Il vecchio Manetta venne a cercare il suo posto sulla pietra stessa del camino, ai piedi del sor Giacom.

- Vedi, Giacomo? - disse la voce sonora dello zio prete, mentre la mamma Santina attaccava una lampadina accesa davanti a un quadretto. - Siam qua tutti a recitare il rosario per quella figliuola, che è morta come un angelo, col desiderio che si perdonasse: va bene, Giacomo?

Questi mosse una mano e cercò quella grossa e forte dello zio.

Allora il prete sedette a capo della tavola e, levata una corona dalla tasca, intonò il primo atto dei misteri dolorosi colla sua voce alta e vigorosa, che andava avanti come per aprire una strada: e dietro seguivano confusamente, piú intralciate e nascoste, le altre voci diverse, proprio col disordine di un branco di pecore, che si affollano dietro un pastore grande e robusto.

Giacomo per le sue convinzioni filosofiche non poteva rispondere a una preghiera non sua. Tuttavia tutte le volte che il prete, con un accento quasi di maggior insistenza, ripeteva: Requiem aeternam dona ei, Domine... non sapeva rifiutarsi d'associare la sua voce e la sua volontà alle altre, che invocavano la pace alla poverina.

«Chi può dire» pensava in cuor suo «che i morti non ascoltino le voci dei vivi? Non aveva egli già avviata l'opera della pace, quando aveva benedetta col suo amore l'agonia della disgraziata? Celestina era morta colla consolazione che l'amor del suo Giacomo la seguisse anche di là. In questa certezza aveva sorriso all'oscuro mistero, come se col morire non l'aspettasse il letto umido della fossa, ma l'amplesso dello sposo.

- Et lux perpetua luceat ei... - ripeteva il coro delle anime sincere. E Giacomo, che si lasciava trascinare dalla forza di tante voci umane, come da un'onda, che lo sospingesse molto lontano, scopriva finalmente che anche a lui questa nuova pace veniva dall'opera dell'amore e della pietà. Col non rifiutare a lei una benedizione aveva provveduto anche a sé: perché il bene che fai è quello che ti porta. In questa coscienza dell'uomo buono e benefico, insieme alla pace, siede la santità della vita.

- Et lux perpetua luceat ei... - ripeteva il coro degli umili. Egli intanto non cessava dal meravigliarsi, vedendo come nessun apparato di dottrine occorreva a produrre questi dolci miracoli; ma basta a raggiungere i piú alti ideali un'anima semplice, che affidi a un affetto sincero. Nessun sapiente aveva sorriso mai alla morte con tanta dolcezza come Celestina nell'ora estrema. Egli le aveva schiuso un paradiso. Cosí la forza degli affetti ci riporta alla natura: e per questa via, non per altre, ci accostiamo a Dio e Dio ci viene incontro.

- El lux perpetua luceat ei... - rispondeva il filosofo nella pia umiliazione del suo spirito. - La Scienza? - chiedeva poi a qualcuno, che andava allontanandosi da lui. - La Scienza, che non può mai essere piú grande del nostro orgoglio, sta di contro alla verità della vita come un piccolo e ruvido scoglio di contro all'immensità dei mare. Oh le infinite estensioni del mare! Il mare ha forze inesauribili, che non si consumano per urtare che facciano contro un povero sasso.

Tocca a chi ha avuto la visione dell'infinito, tocca a chi sente dentro di sé il fluttuare divino di quest'onda instancabile, il purificare le miserie della terra e risanare i deboli, che il destino condanna alle angustie dell'egoismo.

Tutta l'umanità dotta ed indotta naviga per questo misterioso mare senza sponde. Forse è una barca sola, che ci trasporta tutti nella direzione di una Volontà; e poco importa che tu segga a prora o a poppa. Ben poca cosa è qualche passo, che tu muova sul ponte della barca nella direzione del viaggio comune o nel senso inverso. Tutti approderemo o prima o dopo alla stessa riva.

Il Manetta, che stava, come si è detto, seduto sulla pietra del camino, stretta la lucida testa nelle mani ruvide e logorate dalla terra, quando tutti si mossero per rispondere al de profundis, si alzò dolorosamente anche lui, e tentennando, cercò di inginocchiarsi in terra. Giacomo, a cui parve che il povero vecchio si umiliasse per lui, gli porse la mano, che il fornaciaio strinse nella sua e si recò al petto con pietosa tenerezza. E, dal modo col quale il vecchio servo prese a rispondere al salmo, il padrone vide lo sforzo affannoso d'un'anima, che vola al soccorso di un'altra.

Giacomo s'intenerí. Nuove lagrime presero a scendere inaspettate nei solchi inariditi, in cui eran passate le lagrime dell'odio e della disperazione. Il gran discorso del vecchio lavoratore gli ripassò nel cuore, e con un senso quasi di rimorso si domandò: «Che cosa ha procurato a costui la filosofia da Talete in poi? ben ha potuto talvolta seminare il disprezzo degli uomini e indurre la disperazione nei cuori; ma tutte le statue di Aristotile non valgono un pezzo di pane. E tutta la psicologia non vale le lagrime d'un orfanello. Va, va, o filosofo, semina l'idea tua nell'opera tua.»

Improvvisamente si sentí battere un gran colpo alla porta.

- Chi è? - chiese don Angelo, interrompendo la salmodia; poi soggiunse nel silenzio generale: - Andate a vedere.

La Lisa un poco esitante si mosse, tirò il paletto dell'uscio e aprí un battente, che lasciò passare, insieme a un soffio d'aria cruda, un leggiero fantasma di luna.

- Un telegramma - disse la voce del procaccia.

- È per te, Giacomo - soggiunse la Lisa, mentre Angiolino si accostava colla lampadina.

Giacomo colle mani che fuggivano ruppe il dispaccio, lo scorse cogli occhi, poi con voce accorata, che sentiva la mortificazione, lesse in modo che tutti potessero intendere:

«Povero babbo morto oggi alle cinque. Preghi e faccia pregare per lui, per noi. Enrichetta.»


XV

LA MORALE PRATICA DELLA STORIA


Don Lorenzo moriva sulle prime pagine di quel suo gran «Discorso preliminare», che probabilmente non avrebbe mai avute le ultime, anche se l'autore, incontentabile nella sua delicatezza stilistica, fosse campato gli anni di Matusalemme. Lo stile piú perfetto dev'essere quello che non si scrive, perché nulla nuoce tanto alla perfezione quanto la necessità di conchiudere. E senza conchiudere se ne andò, pover'uomo, da questo mondo, colla coscienza di non aver fatto nulla di male, portando seco l'amarezza di quel dolore assassino, che l'aveva ucciso. Poche, sempre le stesse, furono le sue parole nei brevi giorni che, assalito nuovamente dal suo male, stette indeciso tra la vita e la morte. - Si precipita!... - aveva cominciato a dire; e non seppe dir altro. Nell'angustia del suo spirito, nella struttura arida e tutta grammaticale del suo giudizio, non seppe, prima di chiudere gli occhi, elevarsi a un sentimento di incoraggiamento, di compassione, di compatimento, né trovare una parola nemmeno antiquata, che sonasse per donna Cristina come un sospiro di benevolenza. Il pover'uomo non trovò nel suo abbattimento la forza di risvegliare nemmeno quella gran bontà, che aveva sempre sonnecchiato in lui. E cosí, dopo aver tanto cercata la pace in vita sua, moriva in una mezza collera cogli uomini e con sé stesso, benedetto dal buon canonico Ostinelli, che accettò di esprimere (la buon'anima gli perdoni) in una sua iscrizione alla buona, tutte le belle qualità che ornavano il suo spirito e che non impedirono a un Magnenzio di Villalta d'essere quasi un uomo inutile.

Giacinto, chiamato in fretta al letto di morte, partiva, subito dopo la disgrazia, per l'Africa, mentre già cominciavano a venire di là grosse notizie di guerra.

Intanto gli affari delle fornaci si rialzavano colla mediazione dello zio prete e sotto gli auspici di una solida ditta bergamasca, che, rilevando i crediti del signore della Rivalta, assicurò pane e lavoro a Battista ed Angiolino, e permise alla mamma Santina di continuare a bere il suo caffè nel seggiolone del pà. Anche il matrimonio della Lisa fu definitivamente conchiuso; e cosí fu dimostrato quel che don Angelo Lanzavecchia non cessa mai di ripetere, cioè che le cose del mondo, come le noci, si accomodano da sé nel paniere tanto piú presto quanto maggiori sono le scosse del viaggio.

E speriamo che in quest'opinione torni anche il sor Francesco, l'oste della Fraschetta, se, come si dice, per intercessione della contessa e di Monsignore, i giudici vorranno usargli dell'indulgenza. Fu un gran sussurro quel giorno che i carabinieri si presentarono all'uscio dell'osteria, non per bere il solito vin bianco, ma con un mandato di cattura! Si parlava d'un complotto ordito tra lui e non so quali vagabondi per cavar denari al conte Lorenzo colla minaccia di scandalose rivelazioni. Si volle che la lettera del famoso Galiasso fosse stata scritta coll'inchiostro lungo dell'osteria; ma non si è potuto dimostrare. E, siccome ciò che non si può dimostrare non ha nessun dovere d'essere vero, cosí possiamo sperare che il buon Francesco esca dall'intrigo e torni presto a fabbricare il suo vino, magari anche coll'uva.


XVI

BISOGNA COMINCIARE DA CAPO


Il tempo continuò quell'inverno piuttosto bello, con brevi nevicate seguite da giorni stupendi di sole. Giacomo, che una piú serena coscienza avviava a considerare le debolezze umane come nella sua carità le deve giudicare il buon Dio, aveva ottenuto di poter restare alle fornaci fin dopo le feste dell'Epifania. Sperava di trovare nella quiete di Pallanza, nella bellezza del lago, nel rifiorire non lontano della primavera quell'energia fisica, di cui il suo spirito aveva bisogno per andare avanti. Le scosse eran state troppe e troppo forti, perché il suo intero organismo, per quanto robusto, non avesse a sentirsene come scassinato e rotto. Frequenti vertigini di capo gli davano spesso allucinazioni d'immagini bianche svolazzanti nell'aria, di cui non si spaventava, conoscendo per gli studi fatti, fin da quando preparava la sua laurea di psicologia, che i nervi mal nutriti ed esauriti fanno facilmente questi scherzi curiosi.

A Pallanza, poiché la mamma preferiva rimanere accanto al suo Mauro non avrebbe condotto che Blitz, il povero Blitz, il povero pessimista sporco...

La vigilia dell'Epifania mentre stava sciacquando il vecchio gamellino sul davanzale della finestra (la campagna bianca splendeva tutta in un barbaglio di sole), sentí la voce del Manetta, che lo chiamava dalla corte e che, mostrando una lettera orlata di nero, gli disse:

- L'ha portata un ragazzo dal Ronchetto per lei, sor Giacom.

In un biglietto scritto in matita donna Cristina Magnenzio avvertiva che si sarebbe fermata al Ronchetto soltanto alcune ore. Il biglietto non diceva nulla di piú: non chiedeva nulla. Ma Giacomo non ebbe neppure un istante di titubanza. Si vestí in fretta, e s'incamminò per la breve strada del "Roccolo" verso la villa, colla volontà desiderosa di chi va a compiere una promessa. Coll'animo pieno di parole giunse al cancello che trovò aperto. Entrò nel grande giardino, tutto vestito di neve, sotto i bianchi rami, che si cristallizzavano nella luce opalina del cielo.

Raggiunse il viale dei carpini, che disegnavano nella selva incantata una specie d'anfiteatro di marmo. Qui s'era incontrato con Celestina un giorno in cui il suo cuore era ancor tenero di speranze e di sogni.

Ora questo povero cuore pareva assiderato anche lui in una pace profonda.

Il freddo che usciva dai boschi e dalla terra, mandò al suo capo una di quelle vertigini, contro le quali mal resisteva da qualche tempo. L'immagine bianca, che svolazzò davanti, lo ingombrò un istante come se passasse per impedirgli la strada. Si fermò, aspettò che svanisse l'allucinazione, e, seguendo sulla neve le tracce fresche d'una carrozza, arrivò col respiro corto, fremendo in un piccolo moto convulso, fino all'atrio del palazzo che si spiegava luminoso al sole. Nel cortile vide la carrozza ferma e alcuni uomini, tra cui Fabrizio, che nella pesante livrea di panno nero pareva diminuito e invecchiato di dieci anni.

- Dov'è? - chiese.

- È qui, nello studio del conte...

Il vecchio servitore avrebbe voluto cominciare un rimpianto, ma Giacomo, senza aspettare che l'altro andasse avanti ad annunciarlo, obbedendo ancora a quel comando interiore, che gli faceva forte il pensiero, attraversò l'atrio, passò nel salotto da pranzo, tutto chiuso e scuro, dove le sedie intorno alla tavola nuda parevano aspettare qualcuno, che non sarebbe piú tornato, e si diresse verso la biblioteca.

La contessa, che era venuta a ritirare alcune carte, stava seduta allo scrittoio, nascosta dai volumi, che facevano una specie di baluardo sulla tavola; né egli la vide subito, né essa sentí subito il suo passo smorzato dal panno del tappeto. Quando la signora si mosse nella luce fredda della finestra, fu quasi un incontrarsi improvviso, che li fece trasalire entrambi in una scossa dolorosa. Dacché non si eran piú riveduti, cioè dopo lo straziante colloquio nella sala verde, la loro vita era passata attraverso a feroci dolori, che premevano sul cuore di tutti e due, che non potevano piú tacere.

Nel rivedersi, dopo i tragici eventi, come due fatali ambasciatori della morte, gettarono un sommesso grido lagrimoso, quasi d'ambascia che si schiude.

Nel chiaror pallido, che la selvetta coperta di neve e il campo candido del giardino riverberavano sugli scaffali, la contessa si avanzò nella sua pesante gramaglia che faceva comparire piú scarna e marmorea la grande pallidezza del volto.

La donna era vinta, ma non prostrata.

Al disopra di tutti gli avvilimenti parlava in lei alta la coscienza del suo ideale.

Nel movere qualche passo verso Giacomo, che veniva a portarle il perdono della vittima, fu essa la prima a stendergli le mani. Con un sorriso morto, che oscillò negli angoli della bocca come una timida ironia, donna Cristina cercò di respingere quel gran bisogno di piangere, quel fremito di follia, a cui la trascinava il pensiero della sua sconfitta e della sua povera casa precipitata.

- O Giacomo - proruppe con voce malata, movendo la testa con un lento abbandono, mentre colle braccia tese si attaccava al collo del giovane. - O Giacomo, perché non siamo morti noi?

Giacomo impallidí. Le palpebre velarono la luce de' suoi grandi occhi cerulei. Attese che il doloroso istante passasse e sentendo a un tratto ridestarsi il suo cuore in una nuova e misteriosa dolcezza con una voce in cui scorrevano lagrime invisibili:

- Oh contessa! - esclamò - c'è qualche cosa di piú santo della morte.

E riaperti a fatica gli occhi come chi si sveglia da un lungo e faticoso letargo, si recò la mano della signora alle labbra, mormorando:

- Forse bisogna cominciare da capo.