La non-rivoluzione italiana.
1796-1799
di Paolo Quintili
www.swif.uniba.it
Il nodo storico del
"giacobinismo", alle origini dello stato moderno e dell'Italia
contemporanea.
Il periodo giacobino ha
svolto un ruolo importante nell'azione e nell'immaginario dei
democratici radicali italiani.
Al vecchio canto dei Lazzaroni di Napoli che Croce ricorda nel
saggio La Rivoluzione napoletana del 1799 : "A lu suonu de li
violini/Sempre a morte a' Giacobbini…" , fa eco il verso del
"plebeo" Belli alla vigilia del '48, La morte co' la coda: "Cqua nun
ze n'essce: o ssemo ggiacubbini,/ O ccredemo a la lègge der
Ziggnore...". Da un sommario riesame delle formulazioni proposte al
convegno all'Università di Roma "La Sapienza" (20-23 ottobre)
su "Universalismo e nazionalità nell'esperienza del
giacobinismo italiano", emerge la cifra costante della scissione tra
i "due popoli" che caratterizza tanta parte della cultura politica
progressista italiana: da una parte, le élites
rivoluzionarie, "illuminate" ma isolate, dall'altra un popolo
lontano, estraneo agli entusiasmi, alle motivazioni del rivolgimento
politico importato d'oltralpe. Un popolo, dunque, pericoloso alleato
delle classi conservatrici. L'argomento del convegno sul triennio
repubblicano 1796-1799 fa pendant all'incontro di Napoli (28-30
ottobre), presso l'Istituto italiano per gli studi filosofici: "Il
giacobinismo europeo e la fondazione dello stato moderno" dove la
questione è affrontata da un'angolatura filosofico-giuridica.
Non che a Roma non si siano poste questioni "filosofiche" e non si
sia pensato a quanto il termine "giacobino" subisce, nel linguaggio
politico corrente. È un destino analogo a quello del termine
"libertino" in ambito filosofico-morale: è il discorso
dell'altro, sono gli avversari del movimento che affibbiano ai
nemici un'etichetta infamante ancor oggi carica di passioni,
faziosità, oggetto di polemiche non troppo lontane nella
storia italiana. Coloro che vissero quell'esperienza rivoluzionaria,
abortita sul nascere, amarono definirsi per lo più "patrioti"
o italiani "repubblicani" tout court.
Il triennio delle "Repubbliche sorelle" volute da Bonaparte e da
altri generali - Cisalpina, Cispadana, Napoletana, Romana - legate
alle alterne vicende dell'esercito francese in Italia, è
dunque passato alla storia come il "triennio giacobino" non senza
una forzatura di senso, in parte legittima, che ha spinto
provocatoriamente M. Verga nel suo intervento ad auspicare che se ne
possa (e se ne debba) anche fare a meno. Abbandoniamo la dizione
"giacobinismo", pensiamo ad altre categorie storiografiche se non
altro per non dar adito agli eterni avversari di tutto ciò
che è in odore di "rivoluzionario" di parlare di questo
convegno come dell'ennesima testimonianza della "crisi della
sinistra", e magari dar materia ad un prossimo libro di E. Galli
della Loggia. L'attuale stagione storiografica, ha sottolineato
Verga, favorisce i revisionismi perché "è stagione
arida, che non costruisce, non inventa da spinte, desideri e bisogni
civili forti, temi storiografici nuovi". C'è da chiedersi
perché manca oggi la spinta ideale che portò ad
esempio Franco Venturi a pubblicare negli anni '60 per la Ricciardi,
una collana di scritti degli Illuministi italiani; quella fu
un'operazione culturale di notevole rilevanza anche politica.
Quanto agli anni giacobini, potremmo chiamarlo "triennio
repubblicano" con tutta ragione e con buona pace di Galli della
Loggia, riavviando in termini nuovi il dibattito politico sul senso
del radicalismo politico in contesto italiano. Prima va rinnovato il
modo di studiare il triennio come momento di svolta e
d'instaurazione di nuove categorie politiche: nazione, patria,
cittadinanza qui ripensate - ad esempio, rileva C. Capra, da "luogo
natio" e appartenenza regionale, "patria" inizia ad indicare
l'appartenenza civica ad una nazione unitaria - e riassorbite poi in
chiave moderata (che sarà la dominante) durante l'età
risorgimentale.
I repubblicani radicali inventano letteralmente un'identità
italiana unitaria, durante il triennio, come nel resto d'Europa,
essendone stati i più intransigenti e "astratti" fautori.
Verga ha ricordato anche la "debolezza dell'altro popolo", la
borghesia italiana, in quegli anni di lotte. La tesi
dell'"astrattezza" dei giacobini è di vecchia data, risale al
celebre Saggio di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana. Ma ad
osservarla più da vicino, quell'astrattezza si rivela essere
anche un più fine senso della realtà degli scopi
rivoluzionari da raggiungere, che verranno poi riprogrammati dalle
stesse élites moderate. G. Verucci ha introdotto la Tavola
rotonda "Il giacobinismo, il Risorgimento e l'Europa", ricordando il
lavoro pionieristico di D. Cantimori. Il movimento giacobino
è definito come un insieme di aspirazioni, ideali, bisogni,
sentiti, rozzamente espressi al tempo e rimasti a lungo dimenticati
a causa di un vieto conformismo storiografico. Il triennio e il
periodo napoleonico non rappresenterebbero le "origini del
Risorgimento" ma della stessa Italia contemporanea, e si tratta di
due concetti da tenere distinti (C. Capra).
E. Leso, con ottimi esempi, ha mostrato come in quel periodo nasca
il vocabolario politico italiano moderno. In particolare, nella
semantica di "politico" e "politica" si sono avuti spostamenti di
senso rilevanti (lo si vede nel significato moderno assunto dalla
locuzione "parlare di politica"), legati al riconoscimento di nuovi
soggetti per la politica (una base più ampia di
partecipazione), di nuovi oggetti (aspetti della vita di tutti i
cittadini che hanno valenza politica: diritto alla sussistenza,
all’assistenza ecc.), della molteplicità dei centri del
potere (potere usato al plurale, specializzazione semantica della
parola "governo"). Il lessico politico tradizionale si detecnicizza
per il nuovo investimento affettivo che lo tocca ("repubblica",
"democrazia", "popolo") e altri lessici speciali vengono
politicizzati ("barbarie", "apostolato", ecc.). Questo tema
dell’affettività del politico, inaugurato dai giacobini,
torna in vari interventi, a cominciare da quello di C. Capra.
L'acquisizione del concetto di cittadinanza anche da parte dei
gruppi femminili, secondo Verucci, è un'eredità forte
del periodo giacobino passata all'Italia contemporanea, come lo fu
la libertà dei culti nella Cisalpina, l'intervento dello
Stato in ambiti di tradizionale competenza ecclesiastica: assistenza
sociale, beneficenza, istruzione ecc. Non è un caso che il
grande polverone odierno sulla "parità" scolastica viene
sollevato nel momento di maggiore debolezza storica di quello
"Stato" immaginato dai repubblicani del triennio. L'immagine che poi
del giacobinismo si forgiarono gli uomini del Risorgimento, secondo
Verucci, pare essere quella della grande Rivoluzione francese e dei
suoi jacobins piuttosto che del triennio italiano.
A proposito dell’Italia del sud, G. Giarrizzo ha rimarcato il ruolo
dei philosophes nella costruzione del movimento, organizzati in
logge segrete e orditori di congiure. Nella particolare situazione
italiana, il cambiamento progettato dai giacobini meridionali tra il
'92 e il '94 è quasi sempre di natura terroristica: una
dittatura militare guidata dalle élites. Questo elemento,
insieme alle congiure, contraddistingue il movimento ed è un
importante legato settecentesco al Risorgimento. Insurrezione,
dittatura, governo provvisorio e quanto segue. Bisogna sfatare,
secondo Giarrizzo, la leggenda che vuole il '99 e la caduta della
Repubblica napoletana, come l'anno in cui venne meno allo stato
meridionale la sua classe dirigente, fatta fuori dalla
controrivoluzione. E' vero il contrario, in special modo per il caso
siciliano, in quanto fu da quell'esperienza di governo che vennero
fuori nuove categorie politiche e nuovi modelli di
"governamentalità". Il problema è dunque quello di
costruire una cultura di governo come eredità di un certo
modello di diritto pubblico. La cultura politica dei rivoluzionari
non era sommaria, competenze tecniche, militari, politiche e
giuridiche si coniugavano bene, allora, e tuttavia non si ponevano
nel contesto di un semplice problema di "Stato" ma di governo
repubblicano. Certi modelli della cultura repubblicana si
affermarono nel corso del decennio 1770-80, senza tuttavia produrre
vere e proprie competenze di "governo". Ma, come insegnò
Hegel, segreto ammiratore dei rivoluzionari, il paradosso della
Rivoluzione consisté proprio in questo: non si impara a
nuotare se non gettandosi in acqua e, innanzitutto, il diritto
rivoluzionario s'afferma nel momento in cui riconosce che ogni
diritto nasce da un atto di non-diritto, che appare tale solo al
tempo in cui esso viene compiuto.
F. Della Peruta ha ricordato, a tal proposito, le idee del giovane
Mazzini nel biennio '31/32, un Mazzini poco noto, il quale riteneva
che il movimento rivoluzionario italiano doveva liberarsi dei ceppi
della tirannia seguendo le orme dell'"antica Rivoluzione" compreso
il Terrore con la sua "dura necessità" per spezzare il gioco
delle "congiure dei preti aiutati dall'oro inglese". Si comprende
perché il termine stesso "giacobino" diviene presto una
parola pericolosa, da usare con cautela per definire il triennio
repubblicano. Come ha ricordato G. Galasso, questo senz'altro non si
riduce a congiure e terrorismo, ma presenta una geografia politica
molto più complessa: moderati, liberali, democratici radicali
si disputano un terreno d'azione autonoma ristretto, dominato
dall'alternarsi delle vicende militari.
Il tema della "rivoluzione passiva", una delle materie
caratteristiche del contendere storiografico, si basa su un
confronto col modello francese dell’89 che spesso si presenta nella
veste di un paradigma irrigidito. Questo confronto non sembra sia
stato riconsiderato, se non da P. Viola, col suo discorso sulla
mancanza di uno scontro politico violento, anzi sulla "poca
politica" che si vede nell’Italia di quel periodo. In fondo, qui
è implicito il presupposto che senza lo scontro politico
molto ridotta diviene anche la possibilità di creare un
consenso più ampio, un rapporto attivo tra i gruppi dirigenti
e i ceti popolari, i quali potrebbero in quel caso schierarsi con i
radicali, come in Francia prima della caduta di Robespierre. La
questione della costruzione di un "consenso popolare" anima anche
l’intervento di M. Caffiero sul tentativo di organizzare una nuova
religione repubblicana, tema che richiama di nuovo l’attenzione
sull’insufficienza politica e "affettiva" di un atteggiamento
puramente pedagogico dei repubblicani verso il popolo. Sempre che si
volesse coinvolgerla veramente, questa "plebe", con tutte le
conseguenze che ciò avrebbe comportato: tale coinvolgimento
interessava, per lo più, i "patrioti" (oltre che, sull’altro
fronte, i controrivoluzionari), non certo i francesi direttoriali o
i moderati italiani da cui, di fatto, dipesero le sorti delle
Repubbliche sorelle.
C. Capra ha puntato il dito con acume sulla scissione dei "due
popoli" - dicotomia che si diffrange in vario modo:
plebe/intellettuali ricchi/poveri, colti/illetterati -, centrando
l'analisi sul "carattere degli italiani". Quanto è stato
rilevato da diversi autori, da Martinelli a Romeo, è sempre
un oggetto di critica; quel "carattere" italiano, variamente
definito, è ritenuto un elemento d’arretratezza dei
rivoluzionari italiani nei confronti dei compagni degli altri paesi.
Nasce qui una sorta di coscienza schizofrenica che fu anche quella
del "Leopardi antitaliano" : il riconoscimento di un passato di
grandezza, dell'esistenza di individualità straordinarie, di
fronte all'apprensione di un presente collettivo "senza speranze".
"Il peso del destino futuro", secondo P. Viola, sta quindi nell'aver
lottato in un luogo e in un ruolo vuoto; i giacobini italiani non
sapevano esattamente come né dove costruire una nazione
unitaria. Il peso del destino passato - i decenni di lotta culturale
e politica dei movimenti filosofici, enciclopedisti in testa -
giocò positivamente sul destino presente dei rivoluzionari
francesi. Non così per gli italiani. Questi difendono, dal
punto di vista del passato (riformista), un progetto di costruzione
futura della patria unitaria che non si sa tuttavia dove costruire.
Non si va mai al di là di una discussione sui progetti, su
come adattare il concetto del diritto al "carattere degli italiani",
lasciato ad un futuro da determinare, che pesa. Nel frattempo, un
opuscolo gesuita filosanfedista definisce l'equazione, falsa ma che
avrà gran futuro: ateismo=giacobinismo=patriottismo. I
patrioti sembrano esser consapevoli del ritardo nell'azione
organizzativa e che il progetto costituzionale è proiettato
in un pesante, indeterminato futuro a cui si rimette il finale
compimento. L. Guerci tuttavia non è d’accordo con Viola
sull’assenza di lacerazioni politiche forti tra gli stessi radicali
italiani e sul criterio discriminante del conflitto violento, a suo
avviso insufficiente per misurare la "quantità di politica"
presente nel triennio. Proprio perché secondo Guerci le
differenze politiche ci sono, e sono forti (il carattere "passivo"
della rivoluzione è occasione di lucidità), è
d’accordo sull’uso che definisce "proprio" del termine giacobino:
è la parte radicale del movimento democratico.
Quello che conta è la definizione chiara, sul modello del
biennio' 92/94, del binomio libertà/uguaglianza, motore del
giacobinismo italiano. La "fraternità" è cosa lontana,
l'impossibilità di farne discorso rinvia al problema dei due
popoli e della natura passiva della rivoluzione. Il campo semantico
sovversivo non si definisce in modo compiuto, le differenze teoriche
non prendono corpo in un dibattito politico che scivoli in una
guerra di popolo consentita. Ma quello che più colpisce sono
i connotati sotto i quali si presenta l'idea stessa di
"libertà". Nulla di giuridico né di costituzionale,
né libertà dei moderni (B. Constant), né
libertà degli antichi, né libertà d'ancien
régime (quella di tutelare le proprie gerarchie e
comprensioni del mondo, consuetudini e diritti di parte). In molti
giacobini è operante un'idea puramente filosofica,
individualista, di libertà dell'uomo in società:
"libertà di pensare ciò che appartiene al suo diritto
e di migliorarsi" (Compagnoni, professore di diritto).
È questa l'idea che marcò, più di ogni altra,
la solitudine e l'inefficacia della battaglia rivoluzionaria
italiana.
Antonio Piromalli
Storia della letteratura italiana, Cap. 14,
http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=14
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Capitolo 14: Società e cultura nell'età napoleonica
Paragrafo 1: L'età delle rivoluzioni e i giacobini
La Rivoluzione francese sconvolge l'ordine degli assolutismi
politici, dei vecchi assestamenti, i propositi riformatori. E anche
se l'azione napoleonica assume una direzione di conservatorismo
sociale, determinando la soluzione moderata della rivoluzione, la
nascita in Italia dal 1796 al '99 di repubbliche democratiche
accelera il processo di trasformazione della società. La
cultura illuministica diffusa negli Stati italiani aiuta le simpatie
verso la rivoluzione, e nelle repubbliche democratiche (la prima
sorge a Reggio Emilia nel 1796) si viene maturando la prima idea di
coscienza e di indipendenza nazionale come conseguenza
dell'abbattimento di regni e principati, della diffusione delle
ideologie egualitarie, dei concetti di unità politica e
libertà.
La campagna di Napoleone in Egitto e l'intervento degli austro-russi
cancella le repubbliche democratiche e la più atroce reazione
si ha a Napoli — dove nel 1799 era nata la Repubblica — con
l'impiccagione e l'imprigionamento di patrioti. Il ritorno di
Napoleone comporta l'annessione alla Francia di una parte dei
territori dell'Italia centro-settentrionale, la formazione del Regno
d'Italia, del Regno di Napoli assegnato a Giuseppe Bonaparte e, dal
1808, al valoroso Gioacchino Murat. Dopo la caduta di Napoleone tale
assetto è completamente modificato dagli austriaci i quali
restaurano i vecchi regni e principati.
La Rivoluzione di Francia suscita in Italia opposizione ai governi e
ai ceti dominanti, ma la mancanza di un centro politico
rivoluzionario e la diversità delle situazioni locali non
rendono possibile una aggregazione politica anche se qua e là
sorgono agitazioni e tumulti delle masse contadine. Emblematica
è a Rionero in Basilicata nel 1793 la protesta della folla
che impedisce all'adunanza comunale di ripartire l'imposta da pagare
alla Regia Corte gridando: «Ma che pagamenti e fiscali, che
Regia Corte! Volimo fa come li Francise!».
Il movimento patriottico giacobino, costituito da intellettuali
delle città, interpreti di interessi della borghesia, delle
masse contadine e di qualche frazione di aristocrazia, si propone il
problema del «risorgimento» d'Italia al di fuori del
riformismo e sulla base rivoluzionaria di un rinnovamento politico e
sociale, nazionale e democratico. Questo importante movimento si
forma negli anni 1789-95 e opera politicamente nel triennio 1796-99
in cui i giacobini radicali pongono come problema fondamentale
quello della partecipazione del popolo al rinnovamento (riforma
agraria e abolizione dei vincoli feudali) mentre i giacobini
moderati, portatori dell'ideologia della borghesia, cercano di far
accettare al popolo la libertà dell'industria e la difesa
della proprietà.
I limiti di classe del giacobinismo moderato si riflessero
soprattutto come preoccupazioni costituzionalistiche e legalitarie e
impedirono al popolo di partecipare alla rivoluzione, che esso vede
come rivoluzione borghese perché non modifica le strutture in
favore delle sterminate masse di sottoproletari della terra. La
stessa sfiducia avranno, dopo l'unità d'Italia, le masse
contadine nel nuovo governo difensore della grande proprietà
agraria; e daranno luogo al fenomeno del brigantaggio. Al tempo dei
giacobini le masse popolari erano ancora sotto il peso
dell'avvilimento di secoli di dispotismo, influenzabili dai
controrivoluzionari che sotto il simbolo paurosamente reazionario
della Santa Fede (1799) utilizzarono a fini di restaurazione
elementi sottoproletari. Ma soprattutto le idealità dei
giacobini radicali, il mito di uno Stato italiano unitario e
repubblicano, la rivoluzione di classe, erano ben lontani dai
propositi dei francesi che della situazione italiana intendevano
servirsi diplomaticamente, nel gioco della loro politica, nelle
trattative con l'Austria.
Il movimento giacobino non riuscì, per la componente
legalitaria, a rendere rivoluzionarie le masse e cadde per opera
della reazione del '99 ma anche per il predominio che ebbe l'idea
del compromesso borghese, uno dei tanti compromessi disfacitori che
incontriamo nella nostra storia nei momenti cruciali, che sempre si
richiamano a paure determinate da fallimenti precedenti favorendo
l'acquattamento politico e sociale. Nel movimento giacobino si
raggrupparono uomini di tutti gli Stati italiani — i centri
dell'Italia giacobina erano Milano, Bologna, le città
emiliane, Napoli, Roma — i quali, crearono la prima idea di
Risorgimento nazionale. Essi elaborarono per primi una nuova
concezione della vita, della cultura, della letteratura che
interessava la partecipazione del popolo; e quelli tra di loro che
scamparono alla reazione crearono nell'Ottocento, sulla base delle
idee rivoluzionarie, una corrente di pensiero democratico oppositore
della restaurazione politica e religiosa e accompagnatore del nostro
Risorgimento.
Tra i giacobini italiani il pisano Filippo Buonarroti (1761-1837),
amico di Robespierre, partecipò a Parigi alla congiura di
Babeuf (o degli Eguali) e tentò ad Oneglia un esperimento
avanzato di governo democratico. Nell'opera Congiura per
l'eguaglianza sostenne inflessibilmente che la libertà
dipende dall'eguaglianza di vita e di godimento dei diritti politici
da parte dei cittadini:
L'eguaglianza naturale a cui si mira è l'uniformità
dei bisogni […]. Dall'integrale ripartizione dei beni e del potere
nascono tutti i disordini […]. Proprio a trattenere entro giusti
limiti la ricchezza e la potenza degli individui devono tendere le
istituzioni di una società degna di tal nome.
Uno dei problemi più importanti della cultura giacobina
(zona, come ha detto Giuseppe Petronio, in cui «per i critici,
scorazzano ancora i leoni») è quello dell'educazione
rivoluzionaria del popolo per mezzo dei giornali.
Paragrafo 2: Novità della cultura giacobina: il dialetto in
funzione rivoluzionaria (Mannu, Cardone, Calvo). F. S. Salfi. Le
correzioni di Cuoco
L'età giacobina non offre arte «pura» ma le
più specifiche manifestazioni culturali sono la satira, la
protesta, sorrette da precise ragioni teoriche oltre che politiche.
Il giacobinismo ebbe un carattere popolare, ha rappresentato una
misura politica della nostra cultura e si è manifestato
intensamente nel teatro, nel giornale, in una letteratura poetica
espressa in dialetto come autentica produzione del popolo
rivoluzionario.
Già gli intellettuali appartenenti al movimento illuministico
avevano creato una cultura (e una opinione pubblica) più
concreta di quella dell'età dell'Arcadia e avevano
sperimentato nuovi strumenti di comunicazione (gazzette, fogli
volanti). Inoltre avevano acquistato coscienza del loro ruolo
pedagogico e culturale, di guida nella società e in molti di
essi si era verificato uno scatto psicologico e politico che li
aveva trasformati in intellettuali attivi. Il tardo-arcade Aurelio
Bertola, diventato giacobino, ad esempio, nel proporre un piano
repubblicano di pubblica istruzione, così scriveva:
Il popolo ha un'enorme benda agli occhi: facciamo di strappargliela:
abbia egli un'idea di ciò che egli è stato, di
ciò che egli è, di ciò che deve egli essere:
questa fatale ignoranza fomentata segretamente e con mezzi terribili
dai nemici nati del pubblico ben essere, questa ignoranza che fa
continua guerra ai salutari effetti della provvidenza di chi
governa, questa lo espone, anzi lo getta in braccio alle insidiose
sorprese di male intenzionati che trovano una facilità senza
pari di poter calcare di gagliarde impressioni su questa cerea
superficie. Alla Municipalità di Venezia, per ovviare o
metter riparo a siffatto male è stato, ne' di passati,
proposto da uno de' suoi comitati di procacciare le più
accreditate gazzette patriottiche e di spargerle in luoghi
determinati perché il popolo vi legga i suoi interessi
politici e commerciali […], Ma, e non si potrebbe egli compilare un
foglio, il qual contenesse il succo spremuto da' molti e migliori
fogli patriottici, e versar poi codesto licor salutare nel seno
della nostra gente e purgarla de' pregiudizi ed animarla di nuova
vita veracemente repubblicana?
Nel Bertola giacobino, come in altri, erano i motivi di lumi e
istruzione per il popolo; in altri era una fede mitica nel popolo e
in altri ancora mancava il realismo della strategia politica o era
presente il rischio di cadere nell'astrattezza. Però negli
intellettuali giacobini più avanzati la polemica letteraria
sinuosa e vischiosa cede allo scontro ideologico-politico (di
politica culturale) tra rivoluzionari e controrivoluzionari.
Furono i giacobini i primi intellettuali nuovi i quali ruppero con
forza ideologica le acque stagnanti del quietismo, si vennero
collegando con gli altri rivoluzionari francesi ed europei e con le
loro ideologie. Essi per primi infransero le incrostazioni del
feudalesimo, dell'assolutismo, della controriforma e diedero il loro
contributo anche teorico oltre che politico e pragmatico con
progetti di riforme (Girolamo Bocalosi, Matteo Galdi, Francesco
Saverio Salfi, Giuseppe Gioanetti, Lorenzo Mascheroni etc.), con la
letteratura, con il teatro, con la poesia. Coloro i quali fanno
coincidere i concetti di popolo e rivoluzione sono soprattutto il
romano Enrico Michele L'Aurora, il napoletano Vincenzo Russo; in
Toscana Francesco Maria Gianni interpretava le tendenze moderate,
nel Veneto Melchiorre Cesarotti esprimeva le paure dei moderati.
Esiste una letteratura giacobina in lingua ma la letteratura
dialettale delle gazzette, delle sceneggiate, dei dialoghetti, dei
canti di protesta, oltre a essere più viva, ha un particolare
significato poiché rappresenta una scelta democratica di
politica culturale. Con tale scelta programmatica i rappresentanti
più responsabili del movimento giacobino si collegavano con
le classi subalterne in rivolta nelle città e nelle campagne,
con i gruppi che operavano sulle montagne dove le persecuzioni e le
malversazioni li avevano imbrigantati, con gli artigiani e i
contadini.
I giacobini con il dialetto instaurano un nuovo rapporto tra
intellettuali e popolo, tra avanguardia politica e masse: le nuove
proposte nascono da una vita culturale di base. Il dialetto,
strumento di istruzione per il popolo (perché ad esso
accessibile), serve per la comunicazione diretta con i proletari di
città e campagna, per esporre ad essi la tematica
politico-sociale: la condizione di sfruttati e perseguitati, la
necessità della liberazione.
Del bisogno di usare il dialetto si rendeva ben conto,
politicamente, Eleonora Fonseca Pimentel la quale sul Monitore
napoletano (febbraio 1799) ringraziava un cittadino patriota il
quale sul giornale del 15 de lo mese che chiove (febbraio) aveva
pubblicato una civica arringa in dialetto napoletano. La Fonseca
dichiarava che con una parte del popolo (la plebe) non esisteva
possibilità di intesa perché non si aveva «con
essa un linguaggio comune»; per questa mancanza di intesa la
plebe diffidava dei patrioti (talvolta li vedeva come borghesi, come
suoi nemici). Perciò, concludeva la Fonseca «ogni buon
cittadino, cui per la comunione del patrio linguaggio, si rende
facile il parlarle e 'l commischiarsi fra lei, compie con ciò
opera non solo utile, ma doverosa».
Anche nella cultura i rivoluzionari dissacravano gli idoli,
rompevano le scale di valori tipiche del senso comune culturale
classico-moderato, cattolico, aristocratico, il dialetto era una
scelta fatta per rigettare la vecchia cultura iniziatico-accademica
ed era, soprattutto, funzionale ai progetti di istruzione pubblica
rivoluzionaria. Esso ha toni razionali e severi o satirici, è
rivolto a moltitudini di oppressi e indugia nel racconto di fatti
scandalosi che corrono sulla bocca di tutti.
L'inno Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio
Mannu (1758-1839) di Ozieri fu cantato la prima volta nella
sollevazione sarda del 1796: pubblicato in Corsica, giunse poi
clandestinamente in Sardegna. Il poeta illumina il popolo e lo
esorta a muovere contro i feudatari e i «tirannos
minores», ponendosi dal punto di vista del popolo-vittima:
«estirpare sos abusos», «gherra, gherra a
s'egoismu», «gherra a sa prepotenzia» e a
«sos oppressores». Il Mannu interpreta lo stato degli
oppressi e di tutta la patria sarda, illumina le ragioni della
protesta (squilibri tra ricchezza dei feudatari e miseria generale,
ingiustizia sostanziale), tocca il sentimento popolare, lo indirizza
verso l'azione.
Questa «marsigliese sarda» giacobina fu scritta nella
lingua comune agli oppressi della nazione sarda diventata schiava
dei feudatari e dei loro ufficiali di giustizia; essa fa risaltare
le usurpazioni delle terre comuni e dei villaggi da parte di poche
famiglie di prepotenti, gli smisurati tributi che servono a
mantenere il fasto, le amanti, le carrozze, i vizi dei baroni, le
portantine e il lusso delle baronesse. Il contadino vassallo lavora
tutto il giorno cibandosi meno del cane del padrone, i baroni
s'imparentano con le famiglie ricche locali, rapinano oro, argento,
tutte le risorse e perfino i più importanti documenti.
L'inno del Mannu conclude esortando a cogliere il momento favorevole
e a ribellarsi. In esso si riflette il grande movimento isolano
antifeudale e antipiemontese e i motivi della rivolta saranno
sentiti come propri dai sardi anche nelle altre rivolte
dell'Ottocento: così, ad esempio, nella rivolta nuorese
dell'aprile del 1868 quando al grido di «a su connottu»
(«al conosciuto») contadini e pastori nuoresi si
richiamavano alle usanze conosciute e improvvisamente sovvertite ma
anche al concetto di «eredità e quasi di bene di
famiglia».
Il radicalismo giacobino ha una potente espressione in Il Te Deum
dei Calabresi (1797-1800) di Gian Lorenzo Cardone (1743-1813) di
Bella in Basilicata. In Calabria la costituzione delle
municipalità repubblicane fu spesso accompagnata dal canto
del Te Deum e forse all'inutilità di tale prassi (considerato
che la Provvidenza non vede e non sente: «Mó nun bidi
mó nun senti?! | Vuoi durmiri eternamenti?!») si
richiama ironicamente il Cardone che scrisse la seconda parte
dell'inno dopo la caduta della Repubblica partenopea.
Cardone svuota il concetto di Dio provvidente e avente cura delle
cose create, mette in evidenza il prevalere delle ingiustizie e
l'innalzamento improvviso di uomini e donne conosciuti come viziosi
e corrotti. Nel suo canto predominano l'ironia nei riguardi della
divinità e il disprezzo della tirannide borbonica:
Chi si merita na funi,
fierru, focu, lampu e truonu,
Tu 'ngrannisci e Tui pirduni,
Granni Deu [
]
Laudamu, laudamu lu Deu d'Abramu!
Nella seconda parte (1800) sono oggetto di satira l'onnipotenza e
l'imperscrutabilità divine nonostante le quali hanno
trionfato i sovrani disumani, Acton, il cardinale Ruffo, ministri di
polizia, ladroni, traditori, prostitute: gli eletti sono «li
mostri | na scrufazza ca nn'accidi, | Lazzaruni e Santafidi!»
e quanti altri per i quali sarebbero necessari «...lu boia |
cu nu fierru e na capizza!»); l'uomo giusto «campa
affrittu e arruinatu», chi pratica la giustizia invece di
andare avanti «va arreti».
Il canto di Cardone rappresenta la critica ideologica più
avanzata e radicale al potere borbonico nei suoi connubi con altri
poteri disumani, falsamente religiosi, soprattutto all'unione di
trono e altare. Il moto rivoluzionario era stato abbandonato dalla
borghesia con base terriera, la reazione sanfedista aveva trionfato
ed esaltava con i lazzaroni la forca e il boia.
In Piemonte il torinese Edoardo Calvo (1773-1804) fin dai primi
scritti scrolla da sé ogni impalcatura colta e va alla
ricerca di modi discorsivi e quasi trascurati. Nei versi sulla vita
di campagna esalta la semplicità e la santità della
vita contadina e rifiuta i modi di quella cittadina. I versi sono
recitati nella loro discorsività quasi sciatta ma il Calvo
non bada agli autonomi valori letterari; eppure dalla densità
degli oggetti ammucchiati nella descrizione delle attività
della vita contadina emergono uno spessore e una concretezza che
derivano da una visione reale.
Nel Passaport d'ij aristocrat, che fu il primo suo scritto in
dialetto, Calvo esorta i patrioti repubblicani a liberarsi dai
tiranni, ricorda ad essi in quali modi gli aristocratici (quegli
stessi che, un secolo dopo, con letteraria nostalgia di decadente
sopravvissuto Guido Gozzano esalterà col pianto estetico alla
gola) hanno sfruttato e massacrato le classi dei poveri e dei
lavoratori. Nei suoi ottonari Calvo collega il motivo
dell'oppressione con quello della rivendicazione della
libertà e della giustizia violenta: «Pendie tuit
attacà un trav». Più tardi egli canterà
nelle favole le speranze dei patrioti, le loro delusioni per il
malgoverno dei Francesi.
Il quadro della cultura italiana di fine Settecento risulta
incompleto se privo della specificità espressiva giacobina
dialettale e rivoluzionaria che rappresenta un momento breve ed
essenziale di democrazia popolare; momento eccezionale ed eroico in
un paese che è stato sempre mantenuto nell'immobilismo e
nella divisione dall'egemonia del predio e del guadagno esercitata
dall'aristocrazia e dalla borghesia.
Il giacobinismo di fine Settecento, presentato dalla cultura
ufficiale come una confusa proposta estremistica, settaria e
avventuristica, non ebbe seguito per il frazionamento politico, per
la profondità dello schieramento reazionario, per i limiti di
conservazione che forze — le quali dovevano essere oggettivamente
alleate — posero allo sbocco rivoluzionario. La critica avversa al
movimento politico-culturale giacobino ha salvato, in sostanza, la
facciata della vecchia letteratura e convalidate irrazionali
preclusioni e paure.
Il Risorgimento italiano e la sua cultura non furono il superamento
del 1799; nella vicenda risorgimentale sono i segni e le prove delle
mancate soluzioni: le sopravvivenze politiche moderate, le
conciliazioni e i trasformismi anche culturali. Dopo l'Unità
tali residui patogeni si riveleranno ancora, in Italia, come
elementi di mistificazione, anche se le altre nazioni avranno
segnato una via di sviluppo moderno; in ogni caso in Italia
giacobinismo e rivoluzione culturale saranno i bersagli di governi
trasformisti, di regimi autoritari, della cultura accademica e di
ogni pedagogia e dialettica ufficiale.
Gli avvenimenti rivoluzionari danno luogo a una letteratura
dialettale o in lingua che esprime l'adesione alla causa giacobina o
a quella controrivoluzionaria. Prima della venuta dei Francesi e
della Repubblica partenopea a Napoli fu composto un Inno a S.
Gennaro (1794) in cui si lamenta la povertà popolare:
In due regni così ricchi
dove piove ognor la manna
ci ha ridotti la Tirannia
a soffrir la povertà […]
Si vorrebbe far la guerra
con il popolo francese
che ci libera a sue spese
Nel 1794 in versi anonimi bergamaschi si ricorda a Venezia che se
non si osservano i patti ogni suddito può diventare libero
come in Francia:
A Venezia gh'è i Paroni
perché nu li avemo fati […]
No ve pare? No ve piase?
Gh'è i Francesi, recordeve.
Anche a Brescia si canta (1797) contro la tirannide di Venezia:
E i diritti conquistati
or dal Popolo sovrano
sosterrem colla spada alla mano,
col coraggio d'un libero cuor.
Nella stessa Venezia (1797) è condannato il governo
oligarchico:
La politica severa
d'un antico reo dominio,
andò alfine in esterminio,
e si deve festeggiar.
A Genova si cantò L'indegno aristocratico per celebrare
l'albero della libertà:
Or che innalzato è l'albero,
s'abbassino i tiranni,
da suoi superbi scanni
scenda la nobiltà […]
Già reso uguale e libero,
ma suddito alla legge,
è il popolo che regge:
sovrano ei sol sarà.
Molto diffusi furono nell'Italia meridionale i canti antigiacobini
esaltanti il cardinale Ruffo («lo papa santu»),
l'impiccagione di Eleonora Fonseca Pimentel:
A lu suono le campane
viva, viva li pupulane!
A lu suono de li violini,
sempre morte a' Giacobini!;
[...]
È venuto lo papa santu,
ch'ha portato li cannoncini
p'ammazzà li giacobini […]
È venuto lo francese
co no mazzo de' carte 'mmano:
liberté, égalité, fraternité,
tu rubbi a me, io rubbo a tte;
[...]
'A signora donna Dianòra
che cantava 'ncoppa 'o triato,
mo' abballa 'mmiez'o mercato […]
Viva 'a forca 'e Mastu Donato
Sant'Antonio sia priato.
La presenza francese in Italia ha profonde ripercussioni nella
modificazione delle strutture sociali, nei rapporti fra le classi,
nella creazione — attraverso i quadri amministrativi — di nuovi ceti
sociali, nell'abolizione dei feudi, del patrimonio ecclesiastico.
L'eversione dei feudi in Italia meridionale (1806) abolisce la
vecchia e nuova aristocrazia terriera e crea una borghesia agraria
che si sostituisce alla nobiltà acquistandone i possedimenti.
La fondamentale beneficiaria dei mutamenti fu la borghesia, il
popolo proletario rimase nella condizione di affamato di terra e di
pane, i rapporti agrari rimasero quali erano.
Nella cultura correnti diverse si incrociano, italiane ed europee,
vecchio e nuovo coesistono, idee moderne sono rivestite di
espressioni antiquate. Gli esuli napoletani (Francesco Lomonaco,
Francesco Saverio Salfi) sono intermediari importanti per la
formazione di un ideale unitario italiano.
Salfi (1759-1832) cosentino visse a Napoli a contatto con gli
illuministi e affrontò il problema del rapporto fra Stato e
Chiesa (difesa dello Stato, ritorno alla religione apostolica) in un
quadro di cultura intesa come capacità di intervenire nella
realtà, di dare ordine alle idee, di creare principi
razionali. Dopo la Rivoluzione francese l'abate Salfi diventò
giacobino partecipando alla lotta politica anche con il suo teatro
di ispirazione alfieriana: così in Corradino (1790), Virginia
bresciana (1797), Pausania (1801).
Segretario del Governo provvisorio della Repubblica napoletana
scampò al patibolo e fu esule nella Cisalpina e in Francia, a
contatto con altri esuli di formazione illuministica e massonica
insieme coi quali svolse attività clandestina. Dopo Marengo
torna in Italia, insegna al ginnasio di Brera, nel 1814 è a
Napoli, l'anno seguente a Parigi consigliere di Murat. Dalla Francia
segue le vicende italiane, delinea il programma di una federazione
italiana, nel 1831 prepara un movimento insurrezionale in Italia e
scrive con Filippo Buonarroti un programma in cui è auspicato
il sorgere dell'Italia «Repubblica una e indivisibile dalle
Alpi al mare».
Illuminista, sensista, giacobino, patriota, Salfi colloca Telesio
all'inizio della tradizione italiana di libero pensiero e vede
Galilei come il grande attore del naturalismo progressista.
Collaborò al Termometro, progettò una riforma
dell'insegnamento medio, scrisse sul terremoto del 1783,
continuò la Histoire littéraire d'Italie di
Pierre-Louis Ginguené.
Vincenzo Cuoco (1770-1823) di Civitacampomarano nel Molise, esule
scampato alla caduta della Repubblica napoletana, critica dal punto
di vista della concretezza politica e dei suoi studi intorno a
Machiavelli e Vico i rivoluzionari francesi e giacobini. Nel Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801) Cuoco, studioso
di diritto ed economia, contestava ai rivoluzionari la fiducia nelle
teorie derivate «dalla più astrusa metafisica»,
la scarsa conoscenza delle condizioni del popolo, l'adesione dei
giacobini a un modello straniero.
Cuoco indicava anche il distacco tra la minoranza rivoluzionaria e
le esigenze delle plebi rimaste passive. Non già che Cuoco
vedesse l'insufficienza del programma giacobino da cui era assente
la riforma agraria (ed era naturale perché i capi giacobini
moderati miravano a difendere la proprietà) ma perché
il suo punto di vista era quello del moderato, legalista, riformista
e gradualista borghese. Infatti lo storico propone una accorta
educazione della coscienza popolare in senso nazionale, armonizzata
con le tappe del rinnovamento politico.
Saranno queste le idee liberali della borghesia moderata, cattolica,
fautrice di una nazione italiana avente la tradizione del primato
morale e culturale e non necessitata a imitare le idee provenienti
dalla Francia. I motivi nazionali rimasero anche nel Platone in
Italia (1805), romanzo archeologico disorganico il cui tema è
la formazione di una coscienza nazionale.