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Nacque il 15 maggio 1904 a Firenze, figlio primogenito di Edmo,
agente di cambio, e della veneziana Iginia Levi.
La famiglia paterna, dedita ad attività bancarie, apparteneva
all'alta borghesia ebraica di Livorno; la madre era sorella del
filosofo e storico Alessandro Levi e di Olga Levi, moglie del
deputato socialista Claudio Treves. Il G. si formò, dunque,
in un ambiente di ebraismo prevalentemente secolarizzato, fortemente
legato ai valori e alle tradizioni del nuovo Stato italiano,
all'interno di un'élite unita da fitti rapporti familiari: in
quest'ambito strinse rapporti duraturi con i cugini Paolo e Piero
Treves, con Carlo Levi, figlio di una sorella di C. Treves, con
Nello Rosselli, nipote di Alessandro Levi.
Vissuto fra Firenze e Livorno fino al 1916, si trasferì poi
con la famiglia a Roma e vi frequentò gli ultimi due anni del
ginnasio al Tasso. Nel 1918 seguì i suoi a Milano, dove il
padre aveva aperto un ufficio di agente di cambio, e prese a
frequentare il liceo Berchet fino al diploma (1921); si iscrisse poi
alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Roma
(ma la frequentò il minimo indispensabile, continuando a
risiedere a Milano) e vi si laureò in filosofia del diritto,
con G. Del Vecchio, nel dicembre 1925.
La sua fu, tuttavia, una formazione essenzialmente extraaccademica
e, in senso alto, di autodidatta, di lettore e ricercatore
infaticabile di libri, ben presto di esperto bibliofilo. In questa
solitaria esplorazione trovò un saldo punto di riferimento e
di orientamento nello storicismo crociano, che gli fornì una
generale visione della realtà e un'etica conseguente, quasi
una nuova religione, rigorosamente immanente: soprattutto dalla
"filosofia della pratica" ricavò orientamenti decisivi,
proprio per la dignità spirituale nuova, indipendente,
idealmente anteriore ai canoni dell'etica, che essa cercava di dare
a una vasta gamma di attività umane come l'economia e la
politica, l'amore e il costume, il sentimento e le leggi, la tecnica
e le passioni.
L'opera pubblicistica del G. inizia nel febbraio 1923 sulle colonne
de La Giustizia, il giornale del Partito socialista unitario,
diretto dallo zio Treves, in cui tenne una rubrica di recensioni,
"Cronache di coltura", firmate con lo pseudonimo di Don Ferrante.
Dopo la soppressione del quotidiano, nel novembre 1925,
continuò quest'attività sul Quarto Stato, il
settimanale di P. Nenni e C. Rosselli uscito in una trentina di
numeri fra il marzo e l'ottobre 1926, e soprattutto sul quotidiano
Il Lavoro di Genova, diretto dal vecchio riformista G. Canepa e per
anni sostanzialmente tollerato dal regime. Importante fu infine la
collaborazione, dal 1926 al 1933, alla rivista milanese Il Convegno
di E. Ferrieri, dove, fra l'altro, il G. si distinse come uno dei
primi "teorici del cinema" in Italia, cercando (negli stessi anni di
G. Debenedetti e prima di C.L. Ragghianti) di mobilitare l'estetica
crociana per la comprensione e la valutazione della nuova forma
d'arte.
Durante gli anni di guerra e poi ancora nel 1924, negli Elementi di
politica, B. Croce aveva portato una critica insistente alle
ideologie giusnaturalistiche e umanitario-illuministiche, che si
poneva consapevolmente nel solco di alcuni dei suoi "autori" come
G.W.F. Hegel, K. Marx, G. Sorel e H. von Treitschke. Proprio questi
teorici del "realismo" politico, dello Stato come forza,
costituiscono l'interesse originario del G. storico delle idee, che
ad essi dedicava la tesi di laurea, discussa alla fine del 1925.
Per dare una valutazione adeguata del loro pensiero, il giovane G.
volle risalire al romanticismo della prima metà
dell'Ottocento, concepito come la matrice di codeste teorie, per
intendere il quale gli parve poi necessario compiere un ulteriore
passo indietro, verso le idee del Settecento europeo cui i teorici
romantici della politica, e poi i "realisti" a lui più
vicini, si erano opposti e contro le quali avevano polemizzato
aspramente: così la tesi di laurea si venne configurando come
un'analisi della filosofia politica illuministica e
postilluministica, fino a Hegel, a Marx e a Treitschke.
Nel settembre 1927, il G., che da oltre un anno lavorava a Milano in
uno studio legale, sottopose la sua tesi a Croce e questi ne
procurò la pubblicazione presso Laterza. Si prevedevano due
volumi, il primo sulla "politica" dell'Illuminismo e la sua crisi,
che doveva giungere a J.G. Fichte e ai teorici reazionari del
periodo della Restaurazione; un secondo, di cui sembra che fossero
già pronti i capitoli su Hegel e Marx, fino ai "realisti"
posteriori. Ma poi il libro, che si intitolò La politica del
Settecento. Storia di un'idea e che uscì nell'agosto 1928, si
chiuse col decennio 1770-80 e con lo Sturm und Drang.
La genesi condizionava l'impostazione dell'opera: più che uno
studio complessivo della filosofia politica del secolo decimottavo,
quello del G. era un tentativo di ricercare nell'Illuminismo le
deficienze e i fermenti che avrebbero prodotto il romanticismo
politico dei teorici della forza, da lui giudicati, da un punto di
vista strettamente filosofico, superiori ai pensatori del secolo
precedente: ne risultava un'attenzione preponderante all'Illuminismo
francese, il vero obiettivo della polemica posteriore. La
sottolineatura della superficialità filosofica di
quest'ultimo e la ribadita superiorità della critica
hegeliana fecero sì - come testimoniò Canepa nella sua
recensione (Il Lavoro, 28 dic. 1928) - che "qualcuno in queste
pagine sentisse un sapore "reazionario"". Ma il G. era su d'un altro
ordine di idee: tenendo presente le pagine crociane degli Elementi
di politica, poteva ribadire l'"impoliticità" del Settecento,
il suo scarso contributo alla filosofia politica, ma riconosceva la
grande e positiva importanza pratica delle idee settecentesche, che
avevano aperto un mondo nuovo (si vedano, per es., le pp. 113-117
sulla "tolleranza").
Il successo del libro e l'intenzione di ampliare la ricerca per
quello che doveva essere il secondo volume resero necessaria una
stagione di studio all'estero: presentato da L. Einaudi e da Croce,
il G. ottenne una borsa speciale della Rockefeller Foundation per i
due anni accademici 1929-30 e 1930-31, da trascorrere a Berlino,
Londra e Vienna. Giunto a Berlino il 12 sett. 1929, frequentò
il seminario di F. Meinecke per il semestre invernale 1929-30
dedicato alle origini dello storicismo nel sec. XVIII; dall'aprile
1930 al luglio 1931 visse a Londra, dove seguì le lezioni di
H. Laski, B. Russell e altri alla London School of economics;
dall'agosto all'ottobre 1931, a Vienna, entrò in contatto con
lo storico A. Pribram (e conobbe Herma Schimmerling, che doveva
diventare sua moglie). In corrispondenze giornalistiche per Il
Lavoro, per il Secolo XX e per L'Illustrazione italiana (raccolte a
cura di S. Gerbi in Germania e dintorni (1929-1933), Milano-Napoli
1993) descrisse vivacemente la frenetica Berlino degli ultimi mesi
della Hochkonjunktur, prima che la "grande crisi" compromettesse
irreparabilmente i fragili equilibri della Germania di Weimar, e la
molto più sobria Londra dell'era MacDonald. Ma fu soprattutto
il contatto con Meinecke e l'approfondimento della conoscenza dei
contributi tedeschi sul romanticismo a segnare il proseguimento del
suo lavoro.
Si ebbe innanzitutto una dilatazione della materia: Meinecke
attirò la sua attenzione su J. Möser, praticamente
sconosciuto in Italia, e il G. decise così di introdurlo
(insieme con J.G. Hamann, J.G. Herder e I. Kant) in un capitolo
sulle origini del romanticismo; intendeva poi trattare il periodo
della Rivoluzione francese, gli inglesi (E. Burke, W. Godwin, A.
Young), il primo romanticismo tedesco (Novalis), l'esperienza
napoleonica e gli idéologues francesi, Fichte, A. Müller
e il risollevarsi della Prussia e, infine, la Restaurazione e Hegel.
Di tutto questo vasto disegno, fu portato a termine e pubblicato
solo quello che avrebbe dovuto essere trattato nel primo capitolo,
così ricco di materiale da occupare l'intero volume: La
politica del romanticismo. Le origini (Bari 1932).
In esso il G. si poneva il problema di una definizione più
esauriente del "romanticismo" e della sua "politica", che non si
limitasse alla identificazione, da lui compiuta in precedenza, con
le teorie realistiche della politica: sulla base di evidenti
suggestioni meineckiane, il suo carattere distintivo veniva ora
indicato nell'abbandono di una considerazione generalizzante e
astrattiva delle forze storico-umane e nella considerazione del loro
carattere individuale, nell'affermarsi di quelle che Croce, in un
saggio del 1931, aveva chiamato le "due scienze mondane": l'estetica
e la politica. Per delinearne le origini, era quindi necessario
ricostruire i vari momenti attraverso cui, nel corso del Settecento,
si era compiuta la "scoperta dell'utile": la tesi fondamentale del
libro del G. era che tale "scoperta" provenisse al primo
romanticismo, soprattutto attraverso la mediazione di J. Möser,
dal riemergere di temi tipici del libertinismo tardosecentesco, che
lo avrebbero reso immune dalle ideologie della "ragione" e dei
"lumi", dal loro umanitarismo e universalismo. Nell'ambito di tali
idee, il G. attribuiva grande importanza alla cosiddetta "ipotesi di
Beverland", il libertino olandese che aveva sostenuto (nel 1678) che
il peccato originale era consistito nella cognizione carnale di Eva
da parte di Adamo. Del dibattito intorno a questa tesi eretica, che
aveva impegnato sia Hamann, sia Herder e Kant, il G.
ricostruì minutamente la storia in Il peccato di Adamo ed
Eva. Storia della ipotesi di Beverland (Milano 1933), mostrando come
in esso si fosse fatto strada il rifiuto dell'eterna maledizione
quale presupposto indispensabile di un esplicito riconoscimento
delle attività terrene e politiche e del loro valore.
Al ritorno dal suo grand tour europeo (messo a frutto anche per
alcune esperienze bancarie), il G. ricevette da R. Mattioli,
direttore centrale della Banca commerciale italiana (Comit),
l'offerta di diventare capo dell'ufficio studi della banca: il
1° marzo 1932, iniziò dunque l'attività che
avrebbe proseguito (dopo l'interruzione dal 1938 al '48) fino al
1970. Proprio allora l'ufficio veniva riorganizzato e potenziato per
rispondere alle esigenze crescenti della banca: il G. lo
attrezzò per lo studio comparativo dei sistemi bancari e per
l'analisi dei mercati e della congiuntura. Nel 1938, in
collaborazione con la Banca d'Italia e sotto la supervisione di G.
Mortara, uscì un'opera fondamentale in tre volumi: L'economia
italiana nel sessennio 1931-1936 (Roma 1938), alla cui realizzazione
collaborarono, fra gli altri, S. Campolongo e U. La Malfa, che
sarebbe succeduto al G. nel 1938. Questa intensa attività
frenò la sua personale ricerca scientifica: il progetto sulla
politica del romanticismo non ebbe sviluppi, nel 1933
conseguì tuttavia la libera docenza in storia delle dottrine
politiche, di cui tenne anche due corsi all'Università di
Milano dal 1936 al 1938.
Perduto il posto alla Commerciale per le leggi razziali del 1938, il
G. accettò l'offerta di Mattioli di trasferirsi in
Perù presso un'affiliata, il Banco italiano - Lima, poi Banco
de crédito del Perú, del cui ufficio studi il G.
divenne responsabile nel 1940. In un primo tempo fu incaricato di
compiere uno studio sulla situazione economica del Perù in
occasione del cinquantennio del Banco: al volume, che poi
uscì senza il nome dell'autore per i tagli e le omissioni cui
era stato costretto (El Perú en marcha. Ensayo de
geografía económica, Lima 1941), seguirono saggi e
articoli di carattere professionale. Tra il 1945 e il 1946, il G.
lavorò intensamente a un altro, più ampio lavoro sul
Perù per la Oxford University Press, che doveva intitolarsi A
portrait of Peru. Per diversi motivi, il volume, praticamente
pronto, non vide allora la luce: le parti ancora vitali sono state
pubblicate postume distribuite in due libri, Il mito del Perù
(Milano 1988) e Il Perù: una storia sociale. Dalla conquista
alla seconda guerra mondiale (ibid. 1994), entrambi a cura di S.
Gerbi.
Ma soprattutto il G., in questa fase della sua attività,
cominciò a riflettere sui contraccolpi che le scoperte
geografiche prima, l'emergere del continente americano poi, avevano
provocato nella coscienza europea. In particolare isolò due
momenti: quello immediatamente successivo alla scoperta e l'altro,
che si apre intorno alla metà del secolo decimottavo, le cui
propaggini giungono quasi ai primi del ventesimo. A quest'ultimo
dedicò, già nel periodo peruviano, un lavoro (Viejas
polémicas sobre el Nuevo Mundo. Comentarios a una tesis de
Hegel, Lima 1943) che doveva essere il nucleo originario di La
disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica: 1750-1900
(Milano-Napoli 1955; nuova edizione a cura di S. Gerbi, ibid. 1983).
Alla metà del Settecento G.-L. Leclerc de Buffon aveva
rilanciato la tesi, già presente nei secoli precedenti,
dell'inferiorità biologica delle specie animali dell'America,
mentre nel 1768 l'illuminista abate C. de Pauw aveva esteso tale
condanna all'uomo americano, indigeno o immigrato. Ne era seguito un
secolare dibattito: reagirono fermamente altri illuministi
nostalgici del "buon selvaggio", i gesuiti latino-americani cacciati
dai loro paesi e quasi tutti i padri fondatori degli Stati Uniti (T.
Jefferson); ma altri, anche storici della statura di W. Robertson e
filosofi come Kant e Hegel, avevano accolto, sia pure con qualche
perplessità, l'ipotesi del Pauw. Il G. segue questa
discussione e rintraccia echi della "calunnia" (e le reazioni
polemiche che essa aveva suscitato) in poeti, romanzieri,
naturalisti, pubblicisti europei e americani fino alla fine
dell'Ottocento, in un puntiglioso catalogo in cui trovano il loro
posto personaggi di differente statura intellettuale, provenienza
geografica e orientamento culturale.
Nel decennio peruviano, il G. accumulò materiale anche per
l'altra ricerca che vide la luce solo trent'anni più tardi:
La natura delle Indie Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonzalo
Fernández de Oviedo (Milano-Napoli 1975).
In essa prendeva in esame lo sviluppo della conoscenza del nuovo
continente in Europa attraverso le relazioni, i testi geografici, la
memorialistica, dal Diario di Colombo (1492) alla pubblicazione nel
1526 del Sumario de la