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Storia dei fratelli Rupe
L'imponente saga dei Rupe venne stesa in momenti diversi. Un primo
volume, I fratelli Rupe, uscì nel 1932; seguirono poi Potenza
dei fratelli Rupe (1934) e Passione dei fratelli Rupe (1937). Dopo
una serie di ristampe, i tre romanzi vennero riuniti per la prima
volta nel 1958, in un volume della collana «Omnibus»,
sotto il titolo complessivo Storia dei fratelli Rupe (Per
l'occasione, l'autore riprese in mano il progetto dell'opera,
all'epoca non ancora conclusa - nell'«Avvertenza al
lettore» della prima edizione Ceschina si parlava infatti di
una quarta parte - e decise di ampliarlo partendo dall'epilogo. A
distanza di circa ventotto anni, perciò, secondo le parole
dello stesso Rèpaci, «considerando come già
scritto quello che era soltanto proposto nelle mie scalette, ho
portato i Rupe a vivere e a lottare nei dieci anni della "guerra
fredda" arrivando ai giorni che stiamo attraversando. La storia dei
Rupe si trova così scritta nella parte iniziale e in quella
finale, che resterà a decantare nel cassetto della mia
scrivania finché tutto sarà compiuto». Una volta
ultimate le «mezze ali», il ciclo verrà infine
alla luce nel suo assetto definitivo; ovvero quattro tomi pubblicati
tra il 1969 e il 1973: Principio di secolo; Tra guerra e
rivoluzione; Sotto la dittatura; La terra può finire.
Soltanto il primo tomo, Principio di secolo», è stato
ripubblicato (1983).
Rèpaci ha sintetizzato assai efficacemente, in una premessa,
i motivi che presiedono alla composizione dell'opera, ribadendo in
particolare l'intreccio inscindibile tra fatti privati ed eventi
storici fino alla risoluzione degli uni negli altri: «La
struttura ampia, per non dire grandiosa, della Storia, è tesa
ad allargare la testimonianza dei Rupe nella resa corale di tutta
un'epoca». Pertanto, il gruppo familiare protagonista è
attraversato dalle grandi vicende collettive, ma se ne fa
consapevole parte attiva, perché questo è il suo
destino; non a caso ad essere presentata ai lettori è
«un'epopea», e tale era il senso di un primo
sopratitolo, poi scomparso, «Fatalità
contemporanea». Lo scopo principale è senz'altro di
«riaffermare la responsabilità degli uomini di fronte
agli avvenimenti che anch'essi, per parte loro, contribuiscono a
determinare». Rèpaci rivendica dunque il proprio ruolo
di antesignano del "realismo socialista" di ascendenza lukacsiana,
in base ai cui dettami l'opera era stata in parte modificata nella
nuova edizione: «Il trionfo del realismo e della letteratura
impegnata di questi anni hanno dato ragione ai Fratelli Rupe e a
quel tipo di narrazione che io, solitario e temerario battistrada,
avevo annunziato». Tuttavia, il romanzo è anche la
storia di un apprendistato letterario. Il narratore della Storta,
all'inizio una voce distante, ma comunque partecipe, poco alla volta
s'incarna nell'ultimo nato, Leto, che è oltretutto
l'estensore degli stralci diaristici seminati qua e là nel
racconto. La terza persona narrante e la prima narrata si alternano
così sulla pagina fino a un'apparente ricomposizione finale,
quando Leto, divenuto scrittore, decide di stendere le memorie della
propria «jenia», ovvero della stirpe che altro non
è poi se non la famiglia Rèpaci. L'autore ha infatti
indotto i lettori a proiettare la tetralogia su uno sfondo
autobiografico dedicandola ai suoi cari («che ispirarono
questa storia»), e precisando più volte che
«l'uomo e lo scrittore che ne registra i fatti e i sentimenti
procedono affiancati in un continuo rilancio dalla vita all'arte,
dall'arte alla vita».
Il ciclo dei Rupe consta di dodici libri, ripartiti in quattro tomi
di circa mille pagine l'uno. Inserita in una solida struttura di
taglio ottocentesco, la saga - le vicende di una numerosa famiglia
calabrese, declassata dalle origini medio-borghesi a un livello
sottoproletario - è scandita dalle tappe principali di
sessant'anni di storia italiana. Il primo blocco, ambientato tra
l'inizio del secolo e il 1914, si apre con la morte del patriarca
Antonio Rupe. Il suo ultimo sguardo ci presenta, in rapida
carrellata, la moglie amorevole e coraggiosa, Donna Maria del
Patire, e i figli: tra questi spiccano il primogenito Mariano, Cino
e Pietro. Sia pure nelle diverse attitudini, alla politica, al
giornalismo, alla letteratura, alla scienza, tutti i fratelli
presentano un medesimo carattere: sono eroi, animati da una lucida
coscienza della loro condizione sociale e determinati a cambiarla a
ogni costo. Il nucleo familiare oppone perciò una resistenza
compatta all'arretratezza di un milieu provinciale e angusto,
dominato dalla meschinità dei proprietari terrieri, del
parroco, dei carabinieri, dell'agente delle tasse; partecipa alle
lotte contadine (Mariano e Cino sono tra i capi); scampa al
terremoto del 1908; sopravvive infine alla guerra di Libia.
Riconquistata Calimera, la grande proprietà sottratta anni
addietro al padre attraverso imbrogli giudiziari, i fratelli Rupe
iniziano l'ascesa sociale e le peregrinazioni in giro per il mondo.
Mariano approda a Montecitorio; Tristano raggiunge una fama
letteraria internazionale; Orsa sposa Giorgio Salemi, aggregando
alla «jenia» dei Rupe un altro «capitano
rivoluzionario»; allo stesso modo Gilda, a Parigi, si lega a
Sckielji, scultore e leader bolscevico. Sulla mobilitazione francese
per la guerra ormai imminente, cui Cino partecipa come inviato
speciale di un grande giornale, viene sospeso il racconto.
Il secondo blocco va dal 1915 al 1918. Accanto alle figure di
Mariano, Cino e Nèoro, impegnati nella polemica
anti-interventista e poi nelle trincee della Carnia e del Carso,
s'impone il personaggio di Leto, il fratello minore che vive da
protagonista l'esperienza di Caporetto e ne fa un bilancio
impietoso. Gilda e Sckielji partecipano alle giornate rivoluzionarie
dell'Ottobre rosso. Chiudono la narrazione le tormentate
vicissitudini del primo dopoguerra, ma soprattutto la scomparsa di
tre protagonisti dalla scena romanzesca. Ai sopravvissuti è
affidato il compito di colmare il vuoto causato dall'epidemia di
"spagnola", generando il nuovo Mariano, il nuovo Nèoro, la
nuova Anita.
Il terzo blocco (1919-1939) si apre con l'avvento del fascismo a
Roma, favorito dalla «viltà dei governi
borghesi», e ha come protagonisti Leto e Cino. I due finiscono
in carcere per cospirazione contro il regime e strage, ma riescono a
salvarsi grazie alle pressioni dell'opinione pubblica. Cino emigra,
per continuare da Parigi la lotta contro lo Stato totalitario; Leto
resta in Italia, conosce Albertina, futura compagna di vita, mentre
la sua carriera di scrittore procede verso la fama, malgrado la
condizione di «sorvegliato speciale». Il sipario cala
sulla partecipazione di Cino alla guerra civile spagnola e
sull'invasione tedesca della Polonia.
L'ultimo blocco, che parte dal 1939, ripercorre gli eventi
significativi del secondo conflitto mondiale, la svolta di
Stalingrado (celebre ed emblematico il ritratto di Stalin:
«Nella fiamma di Stalingrado il georgiano gigantesco
buttò tutti i suoi misfatti, tutti i suoi errori,
raggiungendo la catarsi storica se non quella dell'uomo») e la
Resistenza, cui prendono parte tutti i Rupe superstiti. Si
contendono poi la scena Leto e Anita, figlia di Cino. Il primo,
dalle colonne del settimanale «L'Epoca», partecipa
all'impegno culturale degli anni Cinquanta; la seconda si consacra
alla missione di «Partigiana della pace», che la
porterà a ricevere il premio Nobel dopo una strenua campagna
contro la minaccia atomica. Tocca al diario di Leto, negli ultimi
capitoli, ripercorrete l'allunaggio del 1969 lo scontro coloniale in
Algeria, il Vietnam e la crisi cubana, per finire con le
contraddizioni irrisolte del '68 e il rinnovato timore di uno
scontro nucleare, lasciando al lettore il compito di contraddire
all'affermazione titolo: La terra può finire.
Le ultime righe svelano il disegno circolare e la duplice funzione,
di narratore e personaggio, che vi ha tenuto Leto. Ad apparire,
improvvisamente, è il fantasma di una donna, di una
«vecchia silana» che «indossa l'abito da
bara». Invocata da Leto quale nume tutelare dell'impresa
narrativa («Possa venire a rischiarare il mio tavolo da lavoro
mentre inizio la lunga marcia»), si rivelerà infine
come sua madre, Donna Maria del Patire: «Mi prende per mano,
mi conduce alla scrivania e detta: "Muore Antonio Rupe. Dieci figli
lascia, dieci orfani. Son tutti al letto di morte, come immagini
attorno ad un altare. Leto, il più piccolino, è in
fasce. Vede, l'innocente, morir suo padre, e sorride..."».
Il primo romanzo, I fratelli Rupe, si guadagnò il premio
Bagutta nel 1932. Ciascun tomo dell'edizione completa mondadoriana
ebbe prefatori di rilievo, rispettivamente Giuseppe Ravegnani,
Francesco Flora, Geno Pampaloni, Franco Antonicelli. In particolare
Ravegnani, già in un intervento del 1936, aveva insistito
sull'unicità dell'esperienza dell'autore, soprattutto se
confrontata con il clima letterario coevo. Contrario all'elzevirismo
e alla prosa d'arte, «egli, nel mezzo di una letteratura
essenzialmente intellettualistica e controllata, mostra di non
temere né le imposizioni né i gusti del tempo»,
opponendo la propria energia fabulatoria a «ogni molle
sinuosità, ogni sussurrata e trasparente fantasia».
Più tardi, Giacomo Debenedetti indicava decisamente in
Rèpaci il «figlio di una poetica che, con tutte le sue
prese di posizione da parte del realismo, non può non tener
conto degli acquisti tecnici e strumentali di cui andiamo debitori
alle grandi esperienze decadentistiche».
L'edizione definitiva fu arricchita da una silloge di giudizi
critici posti alla fine del quarto tomo. A sancire la
storicità dell'evento furono chiamate le testimonianze di
autorevoli firme, da Salvatore Quasimodo a Giuseppe Ungaretti, da
Galvano Della Volpe a Natalino Sapegno. Pur non sottraendosi alla
doverosa, per quanto imbarazzata, apologia e anzi azzardando qualche
ardito paragone (Galvano Della Volpe giunse a parlare di «
affreschi balzacchiani»; altri non si peritarono di chiamare
in causa Victor Hugo e Romain Rolland, mentre per Antonio Altomonte
«la manifesta simpatia per una jenia di eletti, quale risulta
quella dei Rupe, ha molti punti in comune col bonapartismo politico
di Stendhal. Ma con in più qualcosa di esagitato, di
visionario, di straripante») , non poterono fare a meno di
rilevare l'eufemistica «torrenzialità» della saga
e a farne intravedere l'innegabile presunzione.