Ecco allora, nei primi anni, la nascita dei primi centri
industrializzati, dislocati in punti strategici della nazione; col
passare degli anni e dei secoli, poi, le prime industrie si
rivelavano inappropriate, in quanto la produzione dei beni, di
qualsiasi tipo ma principalmente quelli alimentari, risultava
inadatta per affiancare e supportare il fabbisogno che cresceva via
via negli anni.
Qualche profonda innovazione, nell’ambito industriale, si ebbe
allora per poter fornire in modo sufficiente tutti i servizi e i
beni che la popolazione presentava; dal XX secolo, superate le
necessità primarie, le industrie cominciarono a produrre beni
per quel tempo “di lusso”, e in particolare, dopo le invenzioni dei
motori e di altri beni secondari, delle automobili che, prime fra
tutti i prodotti, spinsero per le grandi innovazioni tecnologiche
industriali che poi, col tempo, si espansero e innovarono anche
tutti gli altri settori. E, a fianco delle innovazioni tecnologiche,
non mancarono ovviamente le innovazioni organizzative, per produrre
sempre di più in tempi minimi e al minimo costo per
l’azienda.
Tra le innumerevoli trasformazioni in ambito industriale
verificatesi, allora, sul finire del secolo diciannovesimo ce ne
sono alcune di particolarmente importanti che segnarono la storia
industriale, tra queste si segnalano le innovazioni organizzative
che applicano le idee di F. Taylor. Egli, infatti, creò le
basi per una "organizzazione scientifica del lavoro", con lo scopo
di rispondere alle esigenze espresse dai
nascenti gruppi industriali americani,
prima fra tutte un’utilizzazione più razionale
della grande massa di forza lavoro priva di ogni qualifica.
Il principio fondamentale su cui si basava il "Management
Scientifico" di Taylor consisteva nella rigida divisione fra lavoro
intellettuale e manuale e nella parcellizzazione del lavoro manuale.
Come egli stesso scrisse: "L'attività di studio e di
pianificazione della produzione spetta esclusivamente ad un apposito
ufficio; il compito degli operai deve essere limitato all'esecuzione
di mansioni predeterminate, scomposte con criteri scientifici in
operazioni semplici e banali eseguite con utensili standardizzati ed
in tempi cronometricamente stabiliti". L'obiettivo della
parcellizzazione del lavoro fu di limitare o annullare la
discrezionalità dei vecchi sistemi di lavoro che, secondo
Taylor, rappresentava la fonte maggiore di spreco e di inefficienza.
Questi concetti trovarono applicazione
pratica nella produzione di massa,
al cui sviluppo contribuì in maniera decisiva
l'industriale Henry Ford. Questo nuovo metodo di produzione,
nonostante abbia avuto comunque una
sua crisi come descritto nella
presente tesi, segnò fortemente la storia
industriale e si propose come punto di partenza per ulteriori
modifiche e innovazioni che portarono ad modelli che tutt’ora si
utilizzano in aziende di tutto il mondo. Questa tesi, appunto, si
propone di descrivere le fasi della nascita di questa corrente
industriale individuandone le innovazioni e le modifiche rispetto ai
metodi utilizzati nelle industrie prima della sua nascita, i punti
chiave e le idee base che la portarono in quegli anni ad essere la
miglior strategia. In seguito verrà trattato anche il suo
decadimento, quindi il post-fordismo, le cause per le quali questo
modello decadde, descrivendo in particolare le nuove strategie e
organizzazioni di produzione che presero piede negli anni a seguire.
Capitolo 1
Il Taylorismo, idea di base per la nascita del Fordismo
Per ben capire il funzionamento del Fordismo, è necessario
rifarsi alla teoria che permise la sua nascita e la sua
applicazione, nonché la sua successiva espansione, ovvero il
Taylorismo.
[rect]Verso la fine del 1700 Adam Smith (1723-1790), uno dei
fondatori della scienza economica moderna, individuò diversi
vantaggi offerti dalla divisione del lavoro in termini di
accresciuta produttività.
Nella sua opera "La ricchezza delle nazioni" del 1776, Adam Smith
mostra come scomponendo la produzione in una serie di operazioni
elementari si ottengono un quantitativo di prodotto per unità
di tempo nettamente maggiore: l'esempio proposto è quello
degli spilli.
Scomponendo la produzioni di spilli per dieci operai, ciascuno
adibito a mansioni specializzate e diverse, il tasso di
produttività aumentava da 20 a 4.800 spilli
giornalieri: ciascun lavoratore produceva una quantità di
merce 240 volte superiore a quello di un operaio isolato.
Le ragioni di tale incremento sono da ricercare principalmente
nell'aumento dell'abilità manuale (specializzazione) di
ciascun lavoratore e nel minore tempo per passare da una fase
all'altra del lavoro.
Ad Adam Smith non sfugge tuttavia come l'estrema divisione del
lavoro, all'interno di un ciclo produttivo, comporta anche effetti
negativi. L'eccessiva semplificazione e ripetitività dei
gesti non sviluppa l'immaginazione riducendo, nel contempo, lo
sviluppo intellettuale del lavoratore.
Le osservazioni compiute da Adam Smith, trovarono un loro compiuto
sviluppo sessant'anni più tardi ad opera di Frederick Winslow
Taylor.
Il Taylorismo, appunto, è stata una teoria economica
dell'organizzazione scientifica del lavoro, elaborata all'inizio del
Novecento dall'ingegnere statunitense Frederick W. Taylor
(1856-1915)
che la applicò nell'industria metallurgica Bethlehem Steel
Co. e la illustrò in alcuni importanti scritti.
Essa si fondava sul principio che la migliore produzione si
determina quando a ogni lavoratore è affidato un compito
specifico da svolgere in un determinato tempo e in un determinato
modo. Qualsiasi operazione del ciclo produttivo industriale
può dunque essere scomposta e studiata nei minimi
particolari: è questo, secondo Taylor, il compito dei
manager, che sulla base delle verifiche empiriche devono stabilire
qual è il compito specifico di ogni lavoratore, in quanto
tempo lo deve svolgere e in che modo lo deve svolgere.
Così è possibile arrivare alla razionalizzazione del
ciclo produttivo, ossia alla finalizzazione a criteri di ottimalità
economica, attraverso l'eliminazione degli sforzi inutili,
l'introduzione di sistemi di incentivazione, la gerarchizzazione
interna e la rigorosa selezione del personale.
L'applicazione pratica di questi principi aprì la strada alla
prima catena di montaggio: di fatto dunque modificò tutta
l'organizzazione del lavoro nelle industrie. Nel nuovo sistema
produttivo fu la figura dell’operaio che ne risultò
particolarmente trasformata, cui il taylorismo tolse ogni tipo di
discrezionalità: mentre in precedenza egli poteva scegliere i
tempi e i modi del suo lavoro, con l'introduzione delle nuove
procedure fu costretto a adattarsi ai ritmi e ai metodi scelti dai
dirigenti. Proprio per questo il taylorismo è stato fin
dall'inizio duramente contestato dal movimento dei lavoratori e dai
sindacati. Ciò che dovrebbe, secondo Taylor, spingere gli
operai ad adattarsi alle nuove condizioni di lavoro è
l'incentivo economico reso possibile dalla maggiore
produttività: ogni qual volta l'operaio riesce a completare
il proprio compito in modo esatto ed entro il tempo prestabilito,
egli percepisce una maggiorazione variante dal 30 al 100 per cento
rispetto alla propria paga base. Anche questa versione strettamente
economicista del lavoro è stata contestata dai sindacati, che
d'altra parte Taylor, tutto proteso verso la massima efficienza e il
massimo profitto, considerava inutili, nocivi e destinati alla
dissoluzione.
Parlare oggi di Taylorismo evoca in ogni persona di media cultura,
un’idea negativa, che designa lavori ripetitivi, parcellari e
standardizzati. Nel complesso, si può dire che con le sue
proposte Taylor si prefiggeva non solo una rivoluzione nel modo di
lavorare ma anche e soprattutto una rivoluzione nel modo di
comandare.
Mentre in pieno 800 le fabbriche che superavano il migliaio di
dipendenti erano relativamente rare, verso la fine del secolo vi fu
un’espansione produttiva. Così l’espansione dell’industria
richiedeva un reclutamento sempre più largo di manodopera. I
figli del proletariato industriale formatosi negli anni precedenti
non erano più sufficienti a soddisfare il crescente bisogno
di forza lavoro. Si ricorse quindi al reclutamento di masse
contadine.
Masse di ex contadini polacchi, irlandesi, italiani si aggiunsero a
neri, messicani, portoricani dando luogo a un’importante offerta di
lavoro “dequalificato”. Quando si parla di dequalificazione di massa
provocata dal taylorismo si pensa in genere al mestiere perduto
degli operai qualificati.
Va anche osservato che la manodopera era estremamente mobile, sia
perché le imprese non garantivano alcuna sicurezza di
impiego, sia perché i lavoratori erano continuamente alla
ricerca di un lavoro migliore.
La strategia su cui puntare per battere la concorrenza era vista
nella riduzione dei costi, più che nella qualità e
nell’innovazione dei prodotti. Si aveva così la certezza che
indovinata la formula di un prodotto, la sua fabbricazione poteva
continuare per anni senza grosse varianti.
Il sistema con cui si otteneva la produzione in fabbrica era
largamente conosciuto come Drive System (ovvero sistema della
spinta) nel quale gli operai erano continuamente spinti a muoversi
più in fretta e a lavorare più duramente.
Taylor intende il suo metodo come scientifico perché composto
da un certo numero di principi generali che possono essere applicati
in varie maniere. Egli vuole attuare una completa rivoluzione
mentale che dovrà coinvolgere tutte le componenti sociali
impegnate nel lavoro di fabbrica, dal padrone all’ultimo manovale.
Per aumentare la produttività occorre aumentare il rendimento
della manodopera, e quindi affidarsi all’ O.S.L. (organizzazione
standardizzata del lavoro); infatti l’equazione maggiore rendimento
è uguale a maggiore benessere per tutti.
Inoltre Taylor, per spiegare il rallentamento della produzione,
sostiene che la maggioranza degli uomini hanno una istintiva
tendenza a prendersela comoda, e questa tendenza si traduce in un
rallentamento sistematico della produzione. Il lavoro operaio, egli
sostiene, è talmente vasto e complesso che occorre uno studio
approfondito da condurre con metodologie scientifiche.
Infatti una moderna direzione d’impresa non può limitarsi a
sollecitare la produzione fatta con metodi tradizionali, lasciando
che gli operai se la organizzano a loro piacimento. Per ottenere
risultati ottimali, una moderna direzione d’impresa deve assumere su
di sé gran parte dei compiti che fino ad allora venivano
lasciati agli operai. Questi ultimi devono soltanto eseguire in modo
scrupoloso e sistematico il Task (obiettivo), cioè tutto
ciò che la direzione ha stabilito.
L’obiettivo di Taylor è quello di conseguire un aumento della
produzione di almeno un ordine di grandezza rispetto agli standard
precedenti. Il nuovo metodo che Taylor applica è il Task
Management. Ogni giorno verrà stabilito un determinato
ammontare di lavoro, che gli operai dovranno eseguire senza
apportarvi diminuzioni né aumenti.
L’immenso vantaggio del Task Management è, secondo Taylor,
quello di ottenere un lavoro standardizzato e uniforme con una resa
prevedibile e con un rendimento doppio talvolta triplo di quello
ottenuto con i vecchi sistemi. La forza innovativa di questo
principio può essere ricondotta alla rigida separazione tra
Progettazione ed Esecuzione del lavoro.
Possiamo dunque evidenziare questa differenza: mentre nel “Cottimo”
è il lavoratore a darsi da fare per fare più in
fretta, nell’OSL il lavoratore deve eseguire rigorosamente quanto
è prescritto.
La paga più alta va quindi considerata come un premio di
rendimento che percepirà solo chi esegue per intero la
produzione fissata secondo i metodi previsti. In caso di mancato
raggiungimento del Task vi sarà una diminuzione del salario.
L'O.S.L si presenta come una costruzione organica volta ad affermare
il primato dell'organizzazione d'impresa. Esso consiste nel
presupposto che per ogni problema esiste una soluzione ottimale che
può essere raggiunta soltanto mediante l'adozione di metodi
scientifici di ricerca .
Per Taylor , la via migliore (One Best Way), si pone come un
imperativo universale a cui devono sottostare sia i dipendenti sia i
datori di lavoro. Con l'O.S.L., sostiene Taylor, il potere personale
e l'arbitrio scompaiono e ogni argomento grande o piccolo diventa un
problema per la ricerca scientifica. Egli, in nome della scienza,
afferma il primato dell'organizzazione.
L'idea di Taylor consisteva nel superare l'amatorialità dei
manager suoi contemporanei: attraverso lo studio scientifico del
lavoro e la cooperazione tra dirigenza qualificata e operai
specializzati riteneva infatti possibile organizzare un proficuo
rapporto, in cui ambo le parti avrebbero ottenuto vantaggi. La sua
ipotesi consisteva essenzialmente nel supporre l'esistenza di una
sola "via migliore" ("one best way") per compiere una qualsiasi
operazione.
La teoria di Taylor si occupò inizialmente di un ambito
prevalentemente produttivo. Il suo metodo prevedeva lo studio
accurato dei singoli movimenti del lavoratore per poter ottimizzare
il tempo di lavoro secondo i seguenti passi principali:
./ considerare un gruppo di 10/15 operai, versati nel lavoro da
analizzare;
./ studiare l'esatta serie dei movimenti componenti
l'operazione che ogni operaio applica allo stato attuale;
./ determinare il tempo necessario per ogni movimento e
determinare se esiste una via più veloce per compierlo;
./ eliminare ogni movimento lento o inutile;
./ elencare la serie ottima dei movimenti così determinata.
Taylor propose, inoltre, di applicare una riorganizzazione anche
nella direzione dello stabilimento, con la creazione di un
"dipartimento programmazione" e la creazione di una serie di otto
capi funzionali che presidiassero le diverse funzioni aziendali:
./ addetto agli ordini di lavoro e ai cicli;
./ addetto alle schede di istruzione;
./ addetto ai tempi e ai costi;
./ caposquadra;
./ addetto alla velocità di esecuzione;
./ addetto alla manutenzione;
./ ispettore;
./ addetto ai rapporti disciplinari.
Riassumendo, le ipotesi fondamentali del Taylorismo furono:
1. Il task management o
organizzazione per compiti;
2. Il reclutamento e la
selezione scientifica dei lavoratori;
3. L’instaurazione di rapporti
collaborativi tra direzione e manodopera;
4. La ristrutturazione della
direzione aziendale, con la separazione tra le fasi di ideazione e
esecuzione.
L'ipotesi della "One best way" venne tuttavia criticata, e tra le
critiche quella che sono dovute al fatto che il suo metodo sia
altamente analitico ma scarsamente sintetico, in quanto guarda
pochissimo al coordinamento dell'attività degli operai.
Taylor si preoccupò di migliorare l'efficienza industriale,
ma prestò scarsa attenzione alla vendita dei prodotti
realizzati.
Il Taylorismo rappresentava un'organizzazione scientifica del lavoro
con l'obiettivo di intensificare la produttività del lavoro.
Essa si basava su una serie di principi che dovevano essere
necessariamente applicati dalla direzione d'impresa. Questa
razionalizzazione produttiva implicava dunque un profondo
ripensamento nel modo di lavorare: mettere in atto un processo di
produzione continuo e progressivo comportava uno straordinario
sforzo organizzativo, affidato ai tecnici e agli ingegneri in grado
di pianificare l'avanzamento del prodotto attraverso i reparti.
Il Fordismo rappresentò invece, per certi versi, un
superamento dell'organizzazione scientifica del lavoro (scientific
management) che metteva l'operaio nella condizione di lavorare al
meglio,
senza più l'illusione tayloristica di insegnargli l’ipotesi
"one best way". La produzione di massa con il sistema di Ford diede
da subito risultati eccezionali, tagliando enormemente i tempi e i
costi di produzione e quindi i prezzi di vendita. Il passaggio al
Fordismo, il quale aveva comunque tra i suoi punti cardine gli
ideali Tayloristi, prevedeva un totale adattamento di tale pensiero
alla realtà delle industrie, introducendo poi altri concetti
e differenziandosi dal Taylorismo proprio per la sua tendenza a
essere direttamente e semplicemente impiegabile nelle industrie
dell’epoca.
Capitolo 2
Henry Ford e il Fordismo
Come già anticipato in precedenza, l’avvento di nuovi metodi
organizzativi del lavoro nacquero in seguito a numerosi cambiamenti
nella società e dopo determinate condizioni che si imposero
nelle “industrie” del tempo.
I fattori che hanno permesso il superamento della produzione
artigianale e l’affermazione della produzione di massa su larga
scala sono:
./ Sviluppo di nuove tecnologie, ossia macchine specializzate (o
dedicate) capaci di compiere una sola o un numero limitato di
operazioni, adatte alla realizzazione di prodotti standardizzati;
./ Aumento delle dimensioni delle imprese, che assumono una
struttura verticalmente integrata, caratteristica fondamentale
della produzione di massa;
./ Aumento della disponibilità di lavoratori poco qualificati
(emigranti e persone che lasciano le campagne);
./ Stabilità e prevedibilità dell’ambiente economico e
del mercato (che favoriva la produzione di beni di massa).
I principali fattori che vedevano svantaggiosi i metodi di lavoro
tradizionale rispetto agli ideali Tayloristi-Fordisti erano:
./ Assenza di figure manageriali vere e proprie;
./ Assenteismo e lentezza dei processi lavorativi;
./ Carenza di metodi organizzativi appropriati.
Pertanto l’avvento delle nuove idee di organizzazione miravano
principalmente ad ottenere una politica aziendale che potesse, in
qualche modo, eliminare gli svantaggi elencati poco sopra. Il
Taylorismo, descritto nel capitolo 1, e la sua applicazione pratica
con il Fordismo ebbe sicuramente un ruolo importante per il
passaggio alla nuova corrente.
La differenza tra Fordismo e Taylorismo risiede nel fatto che,
principalmente, il Fordismo ricorse maggiormente, anche per ragioni
storiche, alla tecnologia e quindi alla trasformazione delle
operazioni di montaggio, che trova nella catena di montaggio lo
strumento della sua realizzazione. Si ha quindi una visione di
questo nuovo ideale come più concreto più applicabile
e maggiormente competitivo rispetto a quello che, invece, poteva
sembrare soltanto un metodo scientifico.
Il fordismo si può definire come il prodotto congiunto di:
./ nuove modalità di organizzazione della produzione
(taylorismo);
./ un modello di mercato radicalmente rinnovato (consumo di
massa da parte di produttori diretti).
2.1 Henry Ford e il fordismo americano
Ingegnere e progettista, Henry Ford nasce a Dearborn, Michigan
(USA) il 30 luglio 1863. Figlio di agricoltori di origine irlandese,
dopo aver ricevuto soltanto una formazione elementare, inizia a
lavorare come macchinista tecnico in un'industria di Detroit. Non
appena i tedeschi Daimler e Benz cominciano a immettere sul mercato
le prime automobili (verso il 1885), Ford si interessa
all'invenzione e incomincia a costruire i propri prototipi.
Tuttavia, i primi falliscono in fase di sperimentazione a causa di
un'iniziale scarsa conoscenza della meccanica.
Il suo successo arriva con il suo terzo progetto, introdotto nel 1903: la Ford Motor Company. L'idea nuova è quella di
costruire automobili semplici e poco costose destinate al consumo
voluminoso della famiglia media americana. Fino ad allora
l'automobile era considerata un oggetto di fabbricazione artigianale
e dal costo proibitivo, destinato ad un pubblico molto limitato. Con
il modello T, Ford rende l'automobile un oggetto alla portata della
classe media, introducendola nell'era del consumo di massa; con essa
contribuisce ad alterare drasticamente le abitudini di vita e a
mutare l'aspetto delle città, dando vita a quella che da
molti è stata definita "la civiltà dell'automobile"
del secolo XX.
La chiave del successo di Ford risiede nella procedura per ridurre i
costi di fabbricazione: la produzione in serie, ben nota anche come
fordismo. Questo metodo, ispirato dal metodo di lavoro delle
macellerie di Detroit utilizzato da Ford e i suoi soci per la prima
volta nel 1913, consistite nell'installare una linea di produzione
con cinghie di azionamento e guide per fare scorrere il telaio
dell'automobile fino alle posizioni dove gruppi successivi di operai
con mansioni specifiche si occupano delle varie fasi di lavorazione,
fino a arrivare a rifinire completamente l'automobile. Il sistema
delle parti intercambiabili, già introdotti molto tempo prima
in fabbriche americane delle armi e degli orologi, abbassano
ulteriormente il prezzo di produzione e riparazioni.
La fabbricazione a catena, con cui Ford rivoluzionerà
l'industria dell'automobile, è una scommessa
pericolosa, perché l'unica condizione
di successo possibile è che
sussista una
richiesta in grado di assorbire la sua voluminosa produzione; le
dimensioni del mercato nordamericano offrono fortunatamente una
struttura propizia, ma in più Ford valuta
correttamente
la
capacità
di
acquisto
dell'uomo
medio americano. I costi
di addestramento del lavoro manuale vengono ridotti, tanto che la
dequalificazione del lavoro manuale elimina l'attività
scomoda di rivendicazione dei sindacati interni (basati sulla
qualifica professionale dei relativi membri), che sono le uniche
organizzazioni sindacali che a quel tempo avevano forza negli Stati
Uniti.
Allo stesso tempo, la direzione dell'azienda acquisisce un controllo
rigoroso sul tasso di lavoro degli operai, regolato dalla
velocità di "stampo" dei telai fino alla linea di produzione.
La riduzione dei costi consente tuttavia a Ford di elevare gli
stipendi per gli operai, ottenendo un ottimo tornaconto a livello
sociale: con il relativo stipendio di cinque dollari al giorno si
assicurava un gruppo soddisfatto, per niente in conflitto con
l’imprenditore, al quale poter imporre completamente rigorose norme
di comportamento, sia all'interno che all'esterno della fabbrica.
Gli operai di Ford entrano, grazie agli alti stipendi che ricevono,
nella soglia della classe media, diventando consumatori potenziali
del prodotto, come le automobili, che Ford vende. Grazie a questi
metodi di impresa prende piede negli Stati Uniti una vera e propria
trasformazione sociale.
Nel 1924, anno successivo alla produzione record del famosissimo
modello T (introdotto nel 1908 e modello più venduto nella
storia degli autoveicoli) si assiste all'apertura del Ford Airport a
Dearborn, voluto da Edsel Ford, primogenito di Henry, che investe
personalmente nella Stout Metal Airplane Company. Nel 1931 apre la
Dearborn Inn, uno dei primi alberghi aeroportuali al mondo. Sono i
primi passi della Ford nel settore dell'aviazione.
Nel maggio del 1943 Edsel, che aveva assunto negli anni '20 la
presidenza del gruppo Ford, muore, lasciando vacante il posto di
presidente, posto che viene temporaneamente assunto ancora da Henry.
Questi però è ormai malato (ha un primo infarto nel
1938). Mantiene le redini fino a quando il nipote Henry II finisce
di prestare servizio in Marina e assume la massima carica, sotto la
supervisione di Harry Bennet, consigliere e fedele compagno di
avventure di Henry Senior.
Henry Ford, al di là della vita aziendale, riorienta i suoi
sforzi verso altre cause di minor successo: naufraga in primo luogo
negli sforzi di supporto ai pacifisti contro la I guerra
mondiale (1914-1918); viene presto screditato anche per altre meno
encomiabili campagne, come la propaganda anti-semita che si sparge negli anni '20 o nella
lotta contro i sindacati negli anni '30.
Si ritira a vita privata nel 1945 e muore nella notte del 7 aprile
1947 nella sua tenuta di Dearborn per un'emorragia cerebrale tra le
braccia della moglie, consegnando alla leggenda le sue invenzioni
che ancora oggi sfrecciano sulle strade di tutto il mondo.
I concetti elaborati da Taylor, dunque, trovarono applicazione
pratica nella produzione di massa, al cui sviluppo contribuì
in maniera decisiva l'industriale Henry Ford. La fabbrica di
automobili realizzata da Ford incorporava una serie di innovazioni
legate tra loro che cambiarono radicalmente il modo tradizionale di
produzione, consentendo di abbattere i costi rispetto a quelli delle
fabbriche tradizionali.
Oltre all’organizzazione scientifica del lavoro, le innovazioni
fondamentali per l’aumento della produttività furono:
./ la progettazione dell’automobile in funzione delle esigenze
produttive;
./ l’introduzione dei principi dell'intercambiabilità
completa dei pezzi e della facilità di incastro.
Divenne allora possibile fornire al consumatore prodotti in grande
quantità, poco differenziati e a prezzi abbordabili. Il
"modello T" fu la prima automobile realizzata secondo i nuovi
metodi. Essa fu prodotta in un’unica versione di color nero e
venduta corredata di un libretto di istruzioni per le
riparazioni e la manutenzione, compilato immaginando che
l'acquirente tipo fosse un contadino con pochi attrezzi e con una
scarsa conoscenza meccanica.
Prima dell'affermazione dei principi sopra esposti e dello sviluppo
conseguente della linea di flusso (vedi sotto), le macchine nelle
fabbriche venivano disposte in base alla loro funzione. Ad esempio,
i torni venivano raggruppati in un'area, le molatrici in un'altra e
i trapani in un'altra ancora. Per produrre era necessario spostare i
materiali e i semilavorati attraverso la fabbrica in lotti (lotto =
insieme di prodotti uguali), nelle diverse zone dove subivano le
necessarie lavorazioni. Il layout era dunque di tipo funzionale. Ad
ogni prodotto del lotto veniva attuata la lavorazione richiesta, e
poi il lotto nel suo insieme veniva spostato verso la successiva
lavorazione. L'aggiunta di nuove macchine non aumentava il tasso di
produzione nell'unità di tempo (la produttività), ma
solo la sua scala.
L'aumento del traffico e delle scorte di prodotti semilavorati
creava inoltre diseconomie e aumentava la complessità della
programmazione. Per aumentare l'efficienza fu necessario sostituire
il layout basato sul raggruppamento di macchine funzionalmente
simili con un layout basato su un flusso sequenziale (layout
lineare). L'idea fu quella di disporre le macchine nell'ordine delle
operazioni che esse consentono, in modo da non dover trasportare i
lotti da un reparto ad un altro.
In questo modo sono evitati trasporti e scorte intermedie, in quanto
i prodotti si muovono direttamente da una macchina all'altra.
Si arrivò alla fine dell’ ‘800 a collegare macchine
specializzate funzionalmente distinte in una singola macchina
complessa che prendeva il materiale a un estremo e spingeva il
prodotto lavorato all'altro estremo.
Le prime tecnologie di processo continue furono realizzate nelle
industrie della raffinazione e della distillazione che utilizzavano
gas e materiali liquidi. Poi fu creata una macchina che
rivoluzionò la produzione di sigarette. Mentre prima un
lavoratore altamente specializzato poteva produrre 3.000
sigarette al giorno, una macchina Bonsack riceveva il tabacco su un
nastro, lo prendeva, lo comprimeva, lo avvolgeva nella carta e
depositava le sigarette all'altro estremo. Ogni macchina produceva
120.000 sigarette al giorno. Il costo di 1.000 sigarette scese da 60
a 10 centesimi.
Non sorprende che le prime due imprese ad adottare la macchina di
Bonsack dominarono l'industria delle sigarette nei loro paesi
(rispettivamente l'Inghilterra e gli Stati Uniti).
La progettazione di complesse macchine integrate capaci di aumentare
radicalmente la produttività divenne una sfida per gli
ingegneri meccanici in tutte le industrie. Henry Ford ebbe l'idea
rivoluzionaria di applicare il principio del flusso a un'industria
che richiedeva l’assemblaggio di un gran numero di componenti
complessi.
Nella primavera del 1913 gli ingegneri di Ford segmentarono il
processo di produzione del magnete in 29 operazioni complementari
attuate da 29 diversi lavoratori. Nel processo ciascuna operazione
fu meccanizzata e il flusso dei materiali fu accelerato. Il tempo
necessario a produrre un magnete scese da 20 a 13 minuti. Esso fu
prodotto su una linea di assemblaggio che però non si
muoveva. I lavoratori stavano allineati lungo un piano di
scorrimento mentre svolgevano ciascuno sempre la stessa operazione
su ogni prodotto e poi lo spingevano avanti al lavoratore successivo
per il compito seguente.
Il caso del magnete suggerisce una relazione positiva tra
complessità del processo e dimensione dell'impianto. Mentre
con il vecchio metodo al banco di lavoro un'officina con una persona
poteva assemblare il magnete, la massimizzazione del tasso di output
sulla linea a flusso comportava 29 operazioni connesse e 29
lavoratori affiancati. Inoltre la logica della massimizzazione della
produttività comportava grandi investimenti in macchinari e
meccanismi di trasferimento.
Nel giro di un anno gli ingegneri di Ford applicarono ed estesero il
principio della linea di flusso (flowline) all'assemblaggio dei
motori e delle trasmissioni e allo stesso assemblaggio finale.
Nell'estate del 1913, in un esperimento, il telaio di un automobile
di modello T fu spinto lentamente attraverso la fabbrica, e il tempo
richiesto per l'assemblaggio fu diminuito da 13 ore a poco meno di
6. Nel gennaio 1914 fu installato il primo nastro trasportatore in
movimento che faceva passare l'automobile davanti agli operai fermi.
Ciò diminuì ulteriormente il tempo richiesto per
l'assemblaggio da 6 ore a 1 ora e 30 minuti. Contestualmente la
specializzazione dei compiti portò il ciclo di lavoro medio
di un montatore fermo alla catena a 1 minuto e 19 secondi.
Tale parcellizzazione comportava un livello di addestramento
insignificante, il che consentiva di utilizzare una manodopera
(spesso costituita da immigrati) priva di qualsiasi istruzione e per
lo più incapace di comprendere l’inglese. La nuova
organizzazione permise un aumento straordinario della
produttività del lavoro, non solo perché la totale
familiarità con una singola operazione permetteva all'operaio
di eseguirla più rapidamente, ma anche perché era
stata raggiunta ormai la completa intercambiabilità dei
pezzi. Nel caso del modello T, la produttività aumentò
di 11 volte.
Ford era riuscito a realizzare anche l'intercambiabilità
della manodopera, portando agli estremi l'idea della divisione del
lavoro. L'operaio non doveva ordinare i pezzi, procurarsi attrezzi,
ripararli, controllare la qualità del suo lavoro o anche solo
capire ciò che il suo vicino stava facendo. Ogni elemento di
discrezionalità era stato cancellato, in funzione del
controllo e della produttività. Il contenuto del lavoro era
stato reso infimo e l’alienazione che ne risultava era totale.
Inoltre gli operai erano continuamente posti sotto tensione dalla
velocità della linea, che incalzava i lavoratori. Questi sono
gli aspetti che in genere portano a esprimere giudizi negativi sul
sistema di produzione adottato da Ford.
Tuttavia, grazie agli aumenti di produttività, egli fu in
grado di aumentare drasticamente i salari, per trattenere i
lavoratori. Il successo gli consentì inoltre di aprire nuovi
stabilimenti, offrendo così molti nuovi posti di lavoro.
Da allora i livelli salariali iniziarono a essere direttamente
correlati ai guadagni di produttività consentiti dalle nuove
tecniche di produzione di massa. I sindacati cominciarono ad
assumere un importante ruolo istituzionale nel promuovere la
partecipazione dei lavoratori alla distribuzione dei frutti del
progresso tecnico. Quindi, in una situazione spesso vicina alla
piena occupazione, si vennero a creare le condizioni ideali per la
formazione di una domanda di massa da parte di una classe sociale
che vedeva aumentare il suo potere d'acquisto diventando in grado di
assorbire i prodotti standardizzati delle fabbriche fordiste.
Il fordismo non è stato quindi solo un modo di produzione, ma
anche un modello di regolazione sociale in cui si sono saldati, in
un circuito virtuoso, produzione di massa e consumo di massa,
così che le potenzialità offerte dal nuovo sistema
tecnico-produttivo hanno potuto pienamente dispiegarsi.
Il modello produttivo appena descritto non si presta a essere
rappresentato in termini di funzione di produzione. Non ha senso
pensare di misurare di quanto aumenta il prodotto totale aumentando
le ore di lavoro (o il numero di lavoratori) applicate ad una
quantità fissa di capitale.
Il rapporto tra lavoro (L) e capitale (K) non è flessibile,
ma determinato da una certa tecnologia produttiva. Formalmente, L/K
è costante nel breve periodo. Ciò implica che non sia
possibile misurare la produttività marginale del lavoro, ma
solo la produttività media, nel contesto della produzione
industriale moderna, in quanto non si può far variare L
tenendo fisso K e misurare il contributo particolare delle
successive dosi di L.
Se la domanda nel breve periodo non consente un pieno utilizzo delle
capacità produttive (ossia delle capacità delle
fabbriche di produrre certi livelli di produzione), si diminuiscono
le ore in cui lavoro e capitale insieme sono attivi e di conseguenza
cala il livello produttivo. Inversamente si opera quando la domanda
aumenta.
In generale nel corso del tempo (quindi nel lungo periodo) vengono
apportati miglioramenti tecnologici che consentono di ridurre le ore
di lavoro impiegate e aumentare la produttività media. E’ il
livello della produttività media che determina la
capacità delle imprese di pagare salari più o meno
alti: in altre parole, nel lungo periodo i salari sono legati alla
produttività
media del lavoro, che a sua volta è determinata dalle
tecnologie e dai metodi organizzativi impiegati.
Il concetto di funzione di produzione e di flessibilità nella
combinazione dei fattori nel breve periodo può avere senso
per la produzione di mele o per la produzione agricola più in
generale. Se voglio aumentare il raccolto di mele, impiego
più lavoratori e faccio raccogliere anche le mele più
difficili da raccogliere, per cui la produttività marginale
è decrescente.
Tali concetti possono avere senso anche nella produzione di nuove
conoscenze. Se si vuole intensificare la guerra al cancro, si attua
un crash program, finanziando moltissimi programmi di ricerca e
quindi anche quelli meno interessanti presentati dai ricercatori
meno brillanti. Oppure nell’edilizia, nel caso di piccole imprese
artigianali che operano con un’organizzazione di pochi addetti non
codificata e tecniche produttive rudimentali.
In questi casi può non essere irrealistica l’idea distinguere
il contributo marginale del lavoro e misurarne la
produttività marginale, che sarà decrescente. Sono
casi in cui non è applicata una organizzazione del lavoro
prefissata e codificata, ma tutto sommato permangono metodi
organizzativi “artigianali”, largamente flessibili.
Se non ha senso l’idea della produttività marginale
decrescente nella produzione industriale, non ha neanche senso
l’idea di una curva di domanda di lavoro che deriva dalla
produttività marginale in valore
[...]
Un ultima osservazione riguarda il fatto che:
I. la produttività
oraria del lavoro resta costante quando scende la produzione, in
quanto diminuiscono le ore di lavoro e di impiego del capitale in
corrispondenza del calo produttivo;
II. invece la
produttività del lavoro, misurata sul numero di lavoratori,
diminuisce, in quanto il numero di dipendenti in genere non viene
diminuito nel breve periodo sulla base di un temporaneo calo della
domanda.
Una nuova fase, dunque, si apre con l’avvio della produzione di
serie, basata sull’introduzione estesa di un nuovo tipo di macchine:
le macchine speciali.
Queste compiono poche o una singola operazione, non richiedono
importanti e diversi interventi di regolazione, e funzionano con
continuità: sono dunque veloci e non flessibili. La
conseguenza è che gran parte del lavoro richiesto è
più semplice di quello dell’operaio di mestiere.
In questa nuova fase aumentano infatti gli operai non o poco
qualificati: un breve tirocinio li rende capaci di svolgere
adeguatamente la loro mansione. Nel suo caso più spinto, la
nuova divisione tecnica del lavoro è organizzata come
lavorazione a catena: “un tipo di organizzazione del lavoro per cui
le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o a un multiplo
o sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza
interruzione tra loro e in un ordine costante nel tempo e nello
spazio” [A. Touraine, L’evoluzione di lavoro operaio alla Renault,
1955].
La catena di montaggio fu applicata da Ford alla produzione di auto
su grande scala, a partire dal 1913. Da qui anche l’uso
dell’espressione fordismo per questa nuova fase dell’organizzazione
industriale, dove la fabbrica è interamente progettata a
partire dal sistema delle macchine.
Il fordismo accentuò la segmentazione del lavoro e
finì per cancellare il “mestiere”. Ford introdusse varie
innovazione nelle sue fabbriche:
./ forme di compartecipazione agli utili;
./ riduzione della settimana lavorativa;
./ adozione di salari giornalieri più alti del suo
tempo.
Nella sua strategia, basata sulla riduzione del prezzo
dell’automobile per la conquista di un mercato di massa, introdusse
il concetto di pagamento a rate. Il vanto di Ford era che “chiunque
può avere una Ford T di qualsiasi colore, purché sia
nera”. Questo sintetizza piuttosto bene che cosa sia la tecnologia
della catena di montaggio fordista: un prodotto standardizzato, ma
costruito a un prezzo basso per renderlo accessibile alle masse.
Gli industriali come Ford erano inoltre consapevoli della perdita di
soddisfazione nel lavoro, così pagavano dei salari più
elevati della media e offrivano dei bonus come compensazione.
Ford impiegava anche degli studiosi del comportamento e dei
sociologi per studiare il modo di migliorare la produttività
quando il lavoro era ripetitivo e non specializzato. Forse non
sorprende sapere che Ford era contro i sindacati: egli vedeva il suo
lavoratore ideale in un uomo sposato, con famiglia e con dei mutui
da pagare, che voleva guadagnare denaro per avere un buon tenore di
vita e che non doveva essere critico a proposito delle condizioni di
lavoro.
L’idea che il denaro è la ragione chiave per cui la gente
lavora era allora assai diffusa: sociologi come J.H. Goldthorpe e D.
Lockwood, nella loro ricerca sull’industria automobilistica
britannica, avevano descritto questo atteggiamento come un
“orientamento strumentale al lavoro” (www.appunti
discienzesociali.it).
La catena di montaggio, come lo scorrimento continuo di un sistema
di ganci e carrelli, trasferiva l’oggetto in lavorazione davanti ai
singoli operai, i quali eseguivano mansioni talmente limitate da non
permettere loro di capire in quale fase della produzione fossero
impegnati. Il lavoratore fu così ridotto a esecutore di gesti
ripetitivi e rapidi tipici della produzione in serie: divenne in un
certo senso servitore piuttosto che utilizzatore della macchina.
Come detto in precedenza, fu introdotto il cottimo differenziale che
consisteva in un sistema retributivo calcolato e diversificato sulla
base della quantità di lavoro svolto. Il cottimo
contribuì a migliorare i salari, ma al tempo stesso condusse
ad accelerare ulteriormente i ritmi di lavoro e talvolta a creare un
ambiente di esasperata competizione tra i lavoratori stessi.
La razionalizzazione produttiva ebbe come conseguenze il notevole
aumento della quantità di beni prodotti e la diminuzione del
loro prezzo. Questo aspetto, unito al miglioramento salariale
derivante dal cottimo, creò nuove condizioni di mercato. Alla
produzione di massa fece seguito il consumo di massa, grazie anche
alla diminuzione dei costi di trasporto e a tecnologie a più
alto rendimento. I consumi migliorarono considerevolmente la
qualità della vita nei paesi industrializzati:
l’alimentazione divenne più ricca e variata, le condizioni
igieniche più sicure.
Tuttavia la società fu spinta a omologarsi nei gusti e nelle
scelte, a perdere l’identità e la particolarità delle
comunità ristrette. Ciò rappresentò una fonte
di malessere sociale dalle grandi conseguenze.
L'industria, infatti, non trovava ostacoli alla sua espansione se
non nella sua medesima capacità di produrre. Ma anche
l'esiguo potere d'acquisto dei redditi delle masse popolari di
inizio secolo rappresentava un ostacolo. L'industria fordista lo
superò erogando alti salari e introducendo un servizio
sanitario e di prevenzione nelle fabbriche, uno per ogni livello di
inquadramento, che riduceva i costi per la salute di operai e
impiegati, tecnici e dirigenti. I lavoratori si trasformavano da
produttori in “consumatori” del loro stesso prodotto: infatti
producevano una merce e percepivano un salario adeguato per
comprarla. Le merci prodotte venivano vendute a sempre minor prezzo
in forza dell'automazione e della produzione in serie, mettendo
così in condizione i 'produttori-consumatori' di acquistarne
sempre di più.
Il modello produttivo fordista identificava i diritti dei cittadini
con le esigenze del mercato: veniva riconosciuto il diritto di
cittadinanza solo a coloro che erano collocati all'interno del mondo
produttivo, in funzione della loro capacità di produrre.
Nella filosofia fordista la produzione produce il mercato, ossia la
fabbrica produce ciò che si 'deve' comperare, genera i
consumi, e con i consumi le mode, i costumi, le abitudini, i vizi e
i vezzi, i modi di vivere e di pensare, e con essi le pseudo e le
vere culture. Ed effettivamente in questo modello quanto usciva
dalla fabbrica si piazzava sul mercato. Come diceva Ford, "tutto
ciò che si produce si vende". Il Fordismo sanziona il primato
della fabbrica sul mercato, dell'offerta sulla domanda. E in effetti
le fabbriche non producono quello che i consumatori desiderano
comperare, ma i consumatori comprano quello che le fabbriche
decidono di produrre. Si può affermare quindi che la fabbrica
produce la società. Dunque la fabbrica è luogo
centrale di decisioni strategiche: vi si decide cosa produrre,
quanto produrre, con quali tempi e con quali modi. Ma come si
pianifica la produzione in fabbrica, si può anche pianificare
l'organizzazione sociale. Se la società si identifica con
essa, può essere progettata a partire da come è
progettata la fabbrica.
L'eventuale disordine può essere riordinato generalizzando i
principi organizzativi delle strutture di fabbrica. La fabbrica
fordista era un luogo di scontro prevedibile fra due entità
contrapposte, perché portatrici di due interessi antagonisti:
quello dell'impresa era di massimizzare la resa del lavoro, mentre
quello degli operai era di minimizzarne l'erogazione.
Nella fabbrica fordista la distanza degli interessi dei lavoratori
dipendenti da quelli della proprietà è data come
naturale, accettata come un fattore antropologico.
La tradizionale figura del padrone della fabbrica, che con gli
operai aveva un rapporto personale e diretto, era stata sostituita
da quella astratta e lontana della società per azioni, in cui
uomini sconosciuti e lontani disponevano delle sorti dei dipendenti.
La conseguenza di ciò fu che spesso l’intero agglomerato
urbano divenne una sorta di appendice della fabbrica: nacquero le
“one company town”, città gravitante intorno alla sua
fabbrica più importante dalla quale dipendeva interamente la
maggior parte della popolazione.
I metodi fordisti possono essere considerati, infine, una
combinazione di alcuni elementi:
./ l'organizzazione produttiva taylorista;
./ la
meccanizzazione spinta dei processi
produttivi (in seguito all'introduzione
della catena di montaggio);
./ la standardizzazione dei prodotti finali.
I due capisaldi del fordismo, dunque, erano il paradigma industriale
tayloristico, accompagnato da una spinta automazione (riflesso della
meccanizzazione) e la concessione di retribuzioni più elevate
di quelle mediamente riconosciute dalla prassi delle relazioni
industriali dell'epoca.
Questo ultimo aspetto, come già osservato, non era
però conseguenza di una qualche forma di filantropia, ma
semmai era l'espressione di una lungimiranza socio-economica,
poiché era la premessa della produzione di massa, ossia il
volano dell'economia di consumo (una classe operaia povera non si
può permettere neppure la più spartana utilitaria).
Ma i due capisaldi erano connessi anche sul piano funzionale: la
potente razionalizzazione del ciclo produttivo aveva come
prerequisito un'intensa sottomissione delle maestranze alla
disciplina organizzativa (quasi maniacale) del fordismo, che
arrivava a calcolare con esattezza i minimi movimenti corporei del
dipendente. Questo regime alienante doveva trovare almeno una forma
di riparazione nel salario più generoso, che saggiamente
infatti veniva assegnato all'operaio Ford.
Molti commentatori ritengono che il fordismo sia stato
caratteristico dell'industria occidentale dal 1945 fino agli anni
settanta, e che sia stato collegato al sorgere dei maggiori paesi
produttori
d'auto. Il fordismo è associato, sul piano della dottrina
logistica industriale, al particolare modello territoriale
dell'attività economica, detto divisione spaziale del lavoro,
in cui vi è una separazione spaziale tra il luogo di sviluppo
del prodotto (centro di ricerca e sviluppo) e gli effettivi centri
di montaggio standard di un prodotto. Il modello rimase dominante
del mondo industrializzato fino agli anni sessanta e settanta,
quando il conformismo dei consumatori fu intaccato dal crescente
numero di disegnatori, pensatori, e consumatori stessi. E
così si sono venuti a creare termini come post-industriale,
post-fordismo e mercato di nicchia. Il fordismo è stato
parte, come componente tecnologica, del momento di efficienza che ha
caratterizzato l'età del progresso americano. Dopo l'inizio
della Grande depressione, la politica americana fu quella di tenere
alti i salari nella speranza che il fordismo avrebbe risolto la
crisi.
2.2 Fordismo in Europa
Secondo lo storico Charles S. Maier, il fordismo in Europa è
stato preceduto dal taylorismo - una teoria sociologico-industriale
del lavoro disciplinato e organizzato, basato su studi (almeno
formalmente ispirati al rigore scientifico) dell'efficienza umana -
e dal sistema di incentivi (Maier, Charles S, “Between Taylorism and
Technocracy: European Ideologies and the vision of Industrial
Productivity”). Il taylorismo attrasse gli intellettuali europei
fino alla Grande Guerra.
Dal 1918, tuttavia, l'attenzione si spostò sul fordismo, che
prevedeva la riorganizzazione dell'intero processo produttivo su
concetti come linea di assemblaggio, standardizzazione e mercato di
massa. Ma con la grande depressione si compromise la visione
utopistica della tecnocrazia americana. Tuttavia il predominio con
cui gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale
ravvivò l'ideale. Sotto l'ispirazione di Antonio Gramsci
(secondo cui il fordismo significa intensificare il lavoro, dopo
averlo reso meccanicamente ripetitivo, per promuovere la
produzione), i marxisti fondarono il concetto di fordismo negli anni
trenta, e negli anni settanta elaborarono il post fordismo.
Antonio e Bonanno (Antonio, Robert J. and Bonanno, Alessandro, "A
New Global Capitalism? From 'Americanism and Fordism' to
'Americanization-globalization.”) tracciano lo sviluppo del fordismo
e delle successive fasi economiche, dalla globalizzazione alla
globalizzazione neoliberale durante il ventesimo secolo,
enfatizzando il ruolo ricoperto dall'America nella globalizzazione.
Tali autori sostengono che il fordismo raggiunse, nei decenni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, il culmine
nel dominio americano e nell'affermarsi del consumismo di massa, ma
collassò con le crisi politiche e culturali degli anni
settanta.
Con il progresso tecnologico e la fine della guerra fredda si entrò nella fase neo-liberale della globalizzazione degli anni novanta. Loro evidenziano gli elementi negativi del fordismo, come l'inegualità economica perdurata comunque, e i relativi problemi culturali di sviluppo sorti che inibiscono gli scopi della democrazia americana.
2.3 Fordismo in Unione
Sovietica
Lo storico Thomas Hughes (Hughes, Thomas P., “American Genesis: A
Century of Invention and Technological Enthusiasm 1870-1970”) ha
dettagliatamente spiegato in che modo l'Unione Sovietica
abbracciò con entusiasmo negli anni venti e trenta il
fordismo e il taylorismo, importando esperti americani di entrambe
le scuole e affidando ad aziende americane la costruzione di parte
delle sue strutture industriali.
I concetti di piani quinquennali e di controllo centralizzato
dell'economia possono essere direttamente rintracciati
nell'influenza del taylorismo sul pensiero sovietico.
Hughes cita Stalin (Hughes, Thomas P., “American Genesis: A Century
of Invention and Technological Enthusiasm 1870-1970”): l'efficienza
americana è quella forza che non conosce né riconosce
ostacoli; che una volta iniziato una missione, anche se di poco
conto, la continua fino al compimento; senza l'efficienza USA
è impossibile un lavoro serio e costruttivo... la
combinazione di rivoluzione russa con l'efficienza americana
è l'essenza del leninismo.
Hughes descrive come entrambe le parti, quella sovietica e quella
americana, scelsero di ignorare o negare il contributo delle idee
dell'esperienza americana nello sviluppo e nella crescita di potere
dell'Unione Sovietica. I sovietici lo fecero perché
desideravano porsi al mondo come gli artefici del proprio destino,
che nulla dovevano ai rivali. Gli americani lo fecero perché
non desideravano ammettere il proprio apporto alla creazione
dell’URSS, il loro più potente avversario.
Capitolo 3
La crisi del fordismo e il post-fordismo
3.1 Le cause della crisi del
modello fordista
Paradigma socio-economico dell’età dell’oro dello sviluppo
occidentale e dell’URSS negli anni 1945-1970 il modello fordista va
in crisi agli inizi degli anni ’70. Si tratta di una crisi a cui
concorrono vari fattori e che coinvolge sia gli elementi del
paradigma ristretto che quelli del paradigma estensivo, che
rigardò tutti i punti principali del modello fordista.
In questi anni si raggiunge nei paesi più sviluppati la
saturazione del mercato di base dei beni industriali durevoli
(dall’automobile agli elettrodomestici) e la domanda si attesta sui
più contenuti volumi generati dalla sostituzione del
prodotto. L’assioma fordista della possibilità di crescita
indefinita dei volumi di produzione va dunque in crisi, e con essa
l’assunto di base dell’economia di scala che a volumi sempre
crescenti corrisponderanno costi industriali e prezzi al consumo
sempre decrescenti e con la generazione sempre di nuova domanda.
La produzione di massa entrò fortemente in crisi quando sul
mercato cominciarono ad affacciarsi imprese che realizzavano
prodotti ad alto livello scientifico e tecnologico. Inoltre il
mercato veniva a dominare la produzione perché i consumatori
richiedevano beni sempre più diversificati.
Oltre alla saturazione del mercato di base dei prodotti industriali,
un altro evento mina gli assiomi del paradigma fordista della
crescita: lo shock petrolifero mette in crisi l’idea dell’infinita
disponibilità degli input del sistema produttivo e dei loro
prezzi progressivamente decrescenti grazie all’aumento dei volumi
produttivi.
Lo shock petrolifero produce una crisi delle risorse infatti: la
quadruplicazione del prezzo del petrolio mostra che gli input del
sistema produttivo non sono inesauribili, non procedono a prezzi
sempre inferiori, e per di più il loro abuso crea problemi
ambientali. Esso causa inoltre un’iperinflazione che sposta la
centralità dell’azione governativa dall’occupazione alle
politiche di bilancio, facendo mancare un elemento fondamentale
della regolazione economica e sociale.
La conflittualità sociale degli anni a cavallo del 1970 manda
in crisi il progetto di controllo della classe operaia. La grande
fabbrica, che ha fornito l’humus naturale del processo di
sindacalizzazione operaia, è la culla di questi conflitti e
gli svantaggi dei grandi numeri (la concentrazione produttiva e la
conseguente concentrazione degli operai), iniziano a essere
considerati maggiori dei vantaggi.
In sintesi di possono cogliere, tra i fattori di crisi del modello
fordista, quelli qui sotto indicati:
./ Saturazione del mercato dei beni di massa;
./ Accresciuta concorrenza dei paesi di nuova
industrializzazione, con più basso costo del lavoro nelle
produzioni più semplici e di minore qualità;
./ Impennata dei prezzi del petrolio e delle materie prime;
./ Fine del regime di cambi fissi (e maggiore
instabilità sul mercato internazionale);
./ Esplosione della conflittualità industriale nei primi anni
’70.
La crisi del modello fordista si manifesta diversamente nei vari
paesi, a seconda delle capacità del contesto istituzionale di
frenare il conflitto industriale e di mantenere una politica di
regolazione della domanda tale da garantire condizioni di maggiore
stabilità (in ogni caso, anche in contesti di tipo
neocorporativo le tendenze di trasformazione del fordismo non sono
state frenate).
Oltre a quelli elencati, altri motivi che hanno mandato via via in
crisi questo modello sono legati alla maggiore domanda di beni di
maggiore qualità nei paesi ricchi, vuoi per l’aumento dei
redditi, vuoi per il formarsi di nuovi gruppi sociali istruiti che
sviluppano nuovi stili di vita e modelli di consumo. Ciò
contrae ulteriormente lo spazio per il mercato dei beni di massa
tradizionali (la domanda è sempre più sostitutiva
piuttosto che aggiuntiva).
Un secondo elemento che favorisce e incentiva il tentativo di
spostarsi verso una produzione più diversificata e di
qualità è dato dall’introduzione delle nuove
tecnologie elettroniche (calcolatori, macchine a controllo numerico)
che permettono di programmare il macchinario in modo da poterlo
utilizzare per compiti e prodotti diversi. Ciò consente un
sensibile abbassamento dei costi della produzione flessibile, per
cui diventa possibile produrre beni non standardizzati di elevata
qualità, in serie limitate, a costi più bassi.
In tal modo è possibile vendere beni di elevata
qualità, prodotti in quantità limitate e soggetti a
rapido cambiamento, per i quali i consumatori sono disponibili a
pagare prezzi più elevati, sfuggendo anche alla concorrenza
dei paesi a più basso costo del lavoro concentrato in
produzioni di massa, più semplici e di bassa qualità.
Naturalmente, questo non vuol dire che la produzione di massa e il
modello fordista siano abbandonati dalle imprese dei paesi
più sviluppati. Da questo punto di vista sono da prendere in
considerazione due tendenze che possono variamente combinarsi tra
loro: l’uso delle nuove tecnologie per riadattare il modello
fordista e la spinta alla multinazionalizzazione (per cui le grandi
imprese della produzione di massa, investendo direttamente
all’estero e specie nei paesi in via di sviluppo, cercano di
ritrovare le condizioni di vantaggio prima presenti nei paesi
più avanzati: un mercato in crescita e condizioni di
più basso costo del lavoro).
In conclusione, si può dunque rilevare che, specie a partire
dagli anni ’70, si è assistito a un processo di
diversificazione e pluralizzazione dei modelli produttivi. Su questo
fenomeno influisce in misura significativa il contesto istituzionale
nel quale le imprese operano. Per comprendere i motivi per cui
alcuni paesi o alcune regioni si sono riadattate più
rapidamente e più efficacemente non basta dunque guardare il
livello macroeconomico e al ruolo dello stato, ma occorre prendere
in considerazione l’interazione tra imprese e ambiente sociale nel
quale esse sono inserite. Ed è proprio su questo terreno che
si sviluppa una ripresa della sociologia economica anche a livello
micro, che analizza in particolare i rapporti tra contesto
istituzionale e nuovi modelli produttivi flessibili.
Il risultato dell’azione congiunta dei molteplici fattori di crisi
del paradigma socio-economico fordista è una rapida
diminuzione dei profitti e quindi una crisi del
modello di accumulazione fordista.
3.2 La reazione alla crisi
Il superamento del modello fordista non avviene mediante la
teorizzazione e applicazione di un nuovo modello, ma piuttosto come
esito di una serie indipendente di trasformazioni adottate per
rispondere alla crisi degli anni ’70.
A rendere possibili queste risposte fu la presenza di nuove
condizioni, senza le quali queste trasformazioni non sarebbero state
possibili. Esse infatti presuppongono:
./ l’esistenza di un nuovo modello tecnologico che supporti una
produzione flessibile (automazione programmabile) e soprattutto
decentrata (reti di comunicazione)
./ un processo globalizzazione economica, connesso a una maggior
rapidità e economicità dei trasporti, che permetta sia
di inseguire i fattori produttivi laddove si presentano nelle
condizioni migliori, sia di cogliere la domanda ovunque essa si
presenti.
./ un processo di privatizzazione (anche del rapporto di lavoro)
quale può emergere solo da una nuova politica economica, essa
stessa prodotto dell’imporsi di nuove ideologie (neoliberismo)
All’idea di una governabilità politica del sistema economico
mondiale si sostituisce l’idea del primato del mercato, considerato
(più o meno idealmente) come il risultato di tutte le azioni
economiche e, contemporaneamente, come il criterio di misura della
loro efficacia. Inizia conseguentemente la deregolamentazione
(deregulation) di ogni forma di controllo sui flussi prima monetari
e successivamente (e nell’ordine) finanziari, degli investimenti e
dei prodotti.
Alla saturazione dei mercati occidentali, che progressivamente
diventano mercati di sostituzione, si risponde con una logica
produttiva non più centrata sulle economia di scala, ma sui
risparmi interni alla produzione, in grado cioè di abbassare
il punto di pareggio tra capitale investito e volumi di produzione,
rendendo questa adattabile alla fluttuazione della domanda in modo
da evitare quelle crisi di sovrapproduzione che sempre avevano
accompagnato le crisi cicliche del sistema capitalistico. Si doveva
inoltre cambiare la logica del prodotto da consumare: se ormai i
beni durevoli erano posseduti dalla maggior parte della popolazione,
bisognava accelerare i tempi di sostituzione rendendo obsoleti i
beni già posseduti (centralità dell’innovazione
tecnologica interna al prodotto, il quale è in grado di
fornire sempre nuove prestazioni, sostituendo la vecchia
obsolescenza da usura con la obsolescenza tecnologica), oppure
puntare ad una sostituzione/moltiplicazione del prodotto attraverso
la sua personalizzazione (il che
corrisponde, in una circolarità
causa-effetto, al processo di individualizzazione della società degli anni ‘80: dai consumi
sociali o famigliari – elettrodomestici - a quelli individuali -
telefonini, televisione per ogni membro della famiglia, home video,
consumi per il corpo, etc.). Tutto questo comporta una produzione
flessibile.
La produzione flessibile porta a politiche restrittive di bilancio.
Il problema dell’inflazione e le nuove difficoltà incontrate
dalle politiche keynesiane nell’ottenere la piena occupazione e il
rilancio dei consumi, cambiano le direttive delle politiche
economiche le quali ora pongono al primo posto il pareggio di
bilancio e quindi il contenimento delle spese pubbliche (in primis
quelle sociali e quindi il sistema di welfare su cui si era retto il
modello di consenso all’interno del paradigma fordista).
Lo shock petrolifero che mette in crisi il paradigma della crescita
senza vincoli, genera una richiesta di innovazione tecnologica in
grado di garantire un minor consumo energetico e questo devia parte
dei capitali verso investimenti strutturali o in beni capitali
riducendo le risorse destinabili ai consumi privati (in definitiva
ai salari).
Il controllo della classe operaia attuato mediante la contrattazione
e la ridistribuzione del surplus, entra in crisi sia per la
riduzione del surplus stesso sia a causa della nuova stagione di
conflittualità che si apre alla fine degli anni ’60. Questo
comporta una serie di risposte a livello sia politico che economico.
La lotta contro il sindacato per la riduzione dei suoi spazi e del
suo peso si accompagna a processi di ristrutturazione tecnologica e
aziendale. Mediante i primi si punta alla riduzione del bisogno di
manodopera all’interno dei processi produttivi (robotizzazione),
indebolendola non solo numericamente ma anche come rilevanza
produttiva (la minaccia della sua sostituzione). Mediante la seconda
si persegue una frantumazione dell’azienda stessa, riducendo la
compattezza della manodopera. Sarà proprio la Ford negli anni
Settanta a studiare le dimensioni migliori per una fabbrica, il
punto di equilibrio tra produttività dell’impresa e sua
“gestibilità”, individuando in circa 10.000 operai la
dimensione massima, oltre la quale la peggior gestibilità
della fabbrica dal punto di vista dei rapporti di lavoro, riduce
ogni vantaggio in termini di integrazione della produzione (questo
naturalmente ancora dentro a un processo produttivo fordista,
centralizzato e non a rete, che sarà messo ben più
duramente in crisi nel modello postfordista degli anni ’80 e ’90).
Alle politiche economiche keynesiane si sostituisce un neoliberismo
monetarista che punta a uno “stato minimo” (nel senso di minimo
intervento statale), che interviene in economia esclusivamente
attraverso il controllo della moneta e in buona sostanza si riduce
alla funzione di strumento di supporto per il corretto svolgimento
delle dinamiche di mercato, limitandosi a
garantire allo stesso una solida
unità di misura per lo
scambio (una moneta solida, per l’appunto).
Negli anni ’80 le economie delle società occidentali
usciranno trasformate dall’applicazione di questi nuovi principi e
l’entrata nel postfordismo sarà un elemento acquisito.
3.3 Il post-fordismo
Effetto della reazione alla crisi del fordismo e delle nuove scelte
di politica economica, a partire dagli anni ’80 emerge un nuovo
quadro paradigmatico, il postfordismo, le cui caratteristiche
aiutano a descrivere sia il nuovo assetto dell’impresa che la
società nel suo complesso, esattamente come avveniva per il
paradigma fordista.
[...]
Se la razionalizzazione, ovvero il controllo del processo
produttivo, come della società, era il cuore del progetto
dell’impresa fordista (e della modernità nel suo complesso),
l’adattamento lo è dell’impresa postfordista (e della
postmodernità). Una rinuncia alla governabilità della
complessità che lascia libero spazio alla riorganizzazione
continua.
Tra i molti concetti, “flessibilità” è forse la parola
chiave più caratterizzante. Alle innumerevoli rigidità
del fordismo (nei compiti, nel processo di produzione, nella
quantità e nel tipologia dei prodotti, nelle relazioni
aziendali, etc.) il postfordismo sostituisce altrettante
flessibilità:
./ della manodopera, flessibile nelle mansioni come nella presenza;
./ del prodotto, personalizzandolo grazie all’ampio ricorso a
macchine programmabili in grado di modificare i processi di
lavorazione e rendere economica la produzione per piccoli lotti;
./ delle quantità produttive, grazie al ricorso al subappalto
e alla manodopera impiegata a tempo determinato, che permettono di
incrementare o decrementare la produzione con facilità.
La flessibilità diventa una filosofia pervasiva, che negli
anni ’90 occupa non solo l’azienda, ma tutta la società, la
cultura, perfino il modello educativo.
Se l’economia di scala non può più essere il modello
attraverso cui garantire i profitti, se l’abbassamento del
break-even point (il punto pareggio: cioè il volume minimo di
produzione dopo il quale iniziano i profitti) diventa necessario,
allora prioritaria è la riduzione dei costi. La complessa
burocrazia aziendale generata tra i colletti bianchi, dalla
gerarchizzazione e specializzazione funzionale della fabbrica
fordista deve essere smantellata, così come progressivamente
ridotto tutto il personale, e ridotti al minimo i costi fissi. Ma
non solo l’apparato interno dell’azienda deve dimagrire, anche il
corpo dell’azienda stessa, attraverso pratiche di outsorcing
(esternizzazione: subappalti e rete di fornitori), limitando la
produzione diretta al core-business, cioè quelle
attività centrali dove maggiore è la sua
specializzazione e quindi più alta la sua produttività
e competitività.
La sequenza rigida delle operazioni basata su un sistema di macchine
fisso deve essere sostituita dalla possibilità di variare la
sequenza a seconda delle diverse produzioni, delle trasformazioni
continue del prodotto. Internamente all’azienda questo è reso
possibile dalle nuove tecnologie, ma ancora di più è
reso possibile dalla riprogettazione del ciclo completo di
produzione tra le aziende. Un nuovo prodotto (o semplicemente il
passaggio da una piccola serie all’altra) deve essere rapidissimo, quindi la riprogrammazione delle linee
produttive e delle forniture deve essere in tempo reale: questo
è permesso dalle nuove reti di comunicazione interne ed
esterne .
La grande fabbrica cessa di essere il modello produttivo base, per
dissolversi in una miriade di unità produttive di minori
dimensioni e maggiore specializzazione. La gerarchia funzionale
viene a cadere: tutte le aziende coinvolte infatti diventano
autonome cellule produttive di un processo (al punto che alcuni
autori parlano del passaggio da una taylorizzazione delle funzioni
interne all’azienda a una taylorizzazione delle aziende: la
specializzazione flessibile), ricomponibili come pezzi di un lego,
non strutturati gerarchicamente ma che possono, a seconda delle
modalità con cui vengono combinati, produrre figure
(prodotti) diversi (e questa ricombinazione richiama nuovamente la
programmabilità). La metafora non deve però essere
fraintesa: l’orizzontalità gestionale non significa che non
esista una gerarchia economica in base alla quale le aziende leader,
i marchi, sono in grado di controllare gli altri pezzi della
produzione piegandoli alle proprie esigenze.
Il decentramento e l’orizzontalità però non si
affermano solo nell’organizzazione tra le imprese, ma anche al loro
interno: alla rete gerarchica interna all’azienda e alla conseguente
deresponsabilizzazione del personale subordinato, si sostituisce una
maggior orizzontalità dei rapporti e anche maggior autonomia
di decisione: l’operaio o la squadra sono chiamati a prendere
decisioni, a loro sono affidati obiettivi, più che funzioni,
la rete gerarchica interna non viene certo soppressa, ma ogni
reparto è molto più autonomo e si rapporta più
direttamente con gli altri reparti.
La pianificazione fordista chiedeva tempi lunghi e grandi
investimenti, possibili solo dentro un mercato controllato (o
perlomeno prevedibile), l’impresa postfordista non pianifica, ma
reagisce alle fluttuazioni dei mercati, alle sue mode (certo non
spontanee, ma non controllabili da alcun soggetto singolo). Essa
deve quindi sposare una filosofia di sviluppo che colga e risponda
alle esigenze in tempo reale. La velocità di reazione
(capacità di variare il prodotto, di adeguarsi ad un aumento
della domanda o a una sua diminuzione) diventa fattore centrale
nella competizione.
3.3.1 La crisi del fordismo-taylorismo
Dunque, dopo avere portato la produttività del lavoro e la
produzione di massa a livelli tali da elevare nettamente i redditi e
da inondare il mondo di beni e di servizi, il modello di produzione
e di consumo taylor-fordista è entrato in crisi con gli anni
settanta, e da allora evolve verso un modello chiamato per
convenzione post-fordista. Il cuore del cambiamento è questo
passaggio storico, non quello dall’industria ai servizi o dalla
società industriale alla società post- industriale,
tant’è vero che novità quali il just-in-time, il
telelavoro, l’outsourcing e i call center vengono tutte dal nuovo
modello sul quale si impernia oggi l’industria. Rispetto al taylor-
fordismo, il post-fordismo è qualcosa che va oltre
anziché qualcosa d’altro: infatti il passaggio in atto si
deve sia al successo sia alla crisi del modello taylor-fordiano.
Questo passaggio sta sostituendo un mondo del lavoro piuttosto
uniforme, com’era quello del Novecento con un universo di lavori
assai diversificati che si diffondono in senso spaziale e si
disperdono in senso temporale, e che sono svolti da soggetti i quali
operano alle dipendenze oppure in modo autonomo o con posizioni
miste. Cresce inoltre il numero e cala la dimensione dei luoghi dove
si lavora, per cui si trovano ovunque spezzoni di lavoro e persone
che lavorano; crescono inoltre i tipi di orario e calano le
sincronie fra gli orari, per cui si trovano sempre più
persone che lavorano in ore insolite e con calendari complicati,
anche nella stessa sede. Tutto ciò comporta effetti positivi
come la de-massificazione del lavoro, ma può anche comportare
conseguenze che preoccupano i sindacati, come la
“de-solidarizzazione” dei lavoratori. Lo scenario che si prospetta
è quello di una "società dei lavori", parecchi dei
quali cangianti o sfuggenti, anziché di una "società
del Lavoro" centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di
stabilità quale l’Occidente capitalistico e non solo aveva
avuto nel secolo scorso.
È una transizione lunga che sembra passare quasi inavvertita
perché non mostra cesure nette. I suoi sviluppi, resi
necessari dalle trasformazioni dell’impresa e resi possibili dalle
innovazioni della tecnologia, erano del resto insiti nel medesimo
meccanismo di creazione e di soddisfazione dei bisogni. È
come l’automobile, che in un secolo è cambiata moltissimo ma
continua ad avere un motore, una carrozzeria, un volante e delle
ruote. Infatti non è una transizione riconducibile a
variabili esplicative quali il liberismo e le privatizzazioni, che
potrebbero anzi esserne la conseguenza; né a tendenze quali
la globalizzazione o la finanziarizzazione, che non hanno generato
ma soltanto accelerato tali sviluppi. E neppure alle scelte di
specifiche forze sociali o leadership politiche, le quali non
avrebbero comunque potuto mutarne la componente strutturale e
l’ampio respiro storico.
Quel che cambia deriva soltanto in parte dall’aver messo congegni e
apparati nuovi al posto di quelli vecchi. L’aspetto più nuovo
è l’integrazione orizzontale fra mercati, dimensioni delle
imprese e tecnologie che accresce la reattività delle imprese
rispetto alle incostanze e alle turbolenze del mercato. Del resto le
tecnologie odierne sono tali che ciascuna impresa può trovare
soluzioni proprie e peculiari per risolvere il medesimo problema.
L’inizio si può far coincidere con il primo shock
petrolifero, avvenuto nel 1973, anche se i primi segnali di crisi
erano comparsi già in precedenza nell’industria
automobilistica, quella stessa che aveva trainato lo sviluppo
capitalistico per tutto il Novecento. Alle radici della crisi
stavano le crescenti rigidità nei rapporti che l’impresa
intratteneva con il mercato e con il lavoro.
Da un lato la domanda dei consumatori e la competizione con i
concorrenti erano sempre meno gestibili con la produzione di massa,
perché le difficoltà ad affrontare le turbolenze
aumentavano mentre i vantaggi derivati dalle economie di scala
diminuivano. Un sintomo di malessere stava nei costi dello
stoccaggio di prodotti finiti e nell’ampiezza delle scorte di
manodopera. Alle oscillazioni della domanda e agli intoppi della
produzione le imprese ponevano rimedio con "polmoni" che eludevano
il problema costituito da strutture e da meccanismi troppo rigidi.
Dall’altro lato aumentavano sia le difficoltà a reperire
personale sia le contestazioni all’organizzazione taylor-fordista
simboleggiata dalla "catena" di montaggio, per cui le imprese erano
costrette a "raschiare il fondo del barile", a ridurre i ritmi di
lavoro, ad allentare la disciplina di fabbrica. In Italia vi furono
casi clamorosi (specie alla Fiat) mentre negli Usa il governo diede
conto dell’insoddisfazione operaia nel rapporto Work in America.
Queste tensioni esterne e interne provocarono fasi di crisi e
processi di ristrutturazione che finirono col mutare l’impresa e il
sistema stesso delle imprese. Una delle soluzioni cui si fece
ricorso invano fu l’intensificazione tecnologica. La Fiat
investì somme consistenti in una "robotizzazione" spinta
(www.ilibridiemil.it), per eliminare dagli stabilimenti le
operazioni più contestate, e fece sorgere un’intera fabbrica
"integrata" ove si impiegavano avanzatissime tecnologie labour
saving. Tuttavia la meccanizzazione e l’automatizzazione non erano
sufficienti a soddisfare la variabilità quantitativa della
domanda e la diversificazione qualitativa dell’offerta, ormai
necessarie sul mercato. Oltretutto richiedevano notevoli immobilizzi
di capitale e accrescevano le rigidità anziché
ridurle. Il problema non era il risparmio di lavoro bensì la
gestione dell’impresa nei suoi nuovi rapporti con il mercato, per
cui occorrevano soprattutto innovazioni organizzative che rendessero
più versatili sia l’impresa sia il lavoro.
3.3.2 L’avvento della
produzione snella
La via d’uscita alla crisi del taylor-fordismo è venuta da
una offerta assai differenziata e continuamente variata, quella che
per esempio ha dato un mercato planetario al marchio Benetton.
Mentre nell’Ottocento si produceva e si consumava per piccoli lotti,
e nel Novecento per grandi serie, ora si produce e si consuma per
grandi serie di piccoli lotti. L’impresa cerca di raggiungere la
massa dei consumatori inseguendo il singolo acquirente: si passa
pertanto – come dice A. Chandler – dalla "scala" allo "scopo"
(Chandrel, A., “L’evoluzione dell’impresa”). Questo nuovo paradigma
industriale pone dunque la propria dinamica nelle mani del cliente,
che decide sull’utilità marginale dell’ultimo articolo
ordinato. All’impresa ciò crea notevoli incertezze e richiede
una flessibilità, una reattività, una
versatilità mai viste.
Un esempio è il procedimento just-in-time. Quando il
rappresentante di commercio che visita i negozi da rifornire
teletrasmette l’ordine del rivenditore, un calcolatore aggiorna
istantaneamente i dati di tutti i materiali e i componenti
necessari, e invia dettagliati impulsi all’amministrazione, ai
fornitori, ai reparti e ai servizi perché provvedano a
fabbricare, assemblare, inscatolare, fatturare e spedire al
più presto il prodotto a destinazione. (Nel supermercato
quell’ordine viene dato automaticamente man mano che scendono delle
giacenze di magazzino). Ciò capovolge la tipica logica del
flusso taylor-fordista: anziché essere spinta dall’alto, la
produzione è tirata dal basso.
Si dice che "l’impresa respira" proprio perché tutto, a
cominciare dal fabbisogno di lavoro, si allinea in tempo reale agli
ordinativi pervenuti. Al limite, il circuito si chiude quando per un
lavoratore temporaneo scatta la missione urgente che deve soddisfare
l’ordinativo urgente fatto poco prima da lui stesso come
consumatore. Il post-fordismo è questo rispecchiarsi
vicendevole del lavoratore nel consumatore. Tutte le novità
si compendiano dunque in un meccanismo adattivo che si pungola da
sé.
Le scelte del singolo consumatore determinano una incredibile
variabilità della domanda che innova profondamente le basi di
mercato dell’industria. L’evolversi del modo di produrre dalla mass
production alla lean production è quindi un grande
cambiamento nella storia sociale. La necessità di rispondere
a ogni oscillazione del mercato pone infatti all’impresa
ineludibili bisogni di flessibilità operativa, costringendola
a farsi leggera, agile e snella. Ciò ribalta la logica delle
economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è vero
che diminuisce la dimensione media dell’impresa per numero di
addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul
totale, e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando
in orizzontale.
La maggiore flessibilità operativa e la maggiore
reattività agli shock, tipiche della piccola dimensione, sono
state favorite dalle tecnologie della comunicazione, che hanno
offerto mezzi e opportunità per ridurre il divario
strutturale e il dislivello competitivo rispetto alla grande
dimensione. Ciò alimenta una demografia d’impresa
inopinatamente vivace, che connota tutto lo scenario dei
cambiamenti. La nati-mortalità delle imprese, soprattutto
quelle più piccole, è vorticosa non soltanto nella new
economy. Ovunque il saldo è quasi sempre positivo
perché ne nascono più di quante se ne chiudono, ma la
loro vita è più breve perché sono più
frequenti le cessazioni, le acquisizioni, le cessioni, le fusioni.
Si arriva a forme di volatilità invero spinte. Ci sono
micro-imprese che sorgono e si strutturano intorno a
un’attività a termine o a uno specifico obiettivo, e che si
contraggono fin quasi alla dimensione zero una volta che cessa
l’attività o che l’obiettivo viene raggiunto. Così
funziona tanta industria dell’intrattenimento, della cultura, delle
vacanze, della devozione, della "convegnistica", che del resto sta
espandendosi in modo impetuoso. Rispetto alle molte imprese
diventate flessibili grazie a una struttura a stella o a ragnatela,
queste sembrano addirittura virtuali: infatti talune durano lo
spazio di una singola occasione d’attività e impiegano quasi
soltanto manodopera a giornata o a prestazione. La globalizzazione
ha accelerato su scala mondiale questi processi, che non hanno
investito soltanto il sistema delle imprese manifatturiere
private ma un po’ tutte le attività economiche di mercato.
Dopo avere trasformato il modus operandi del taylor-fordismo e aver
abbandonato la logica della produzione di massa per reagire alle
difficoltà e alle turbolenze, le imprese chiedono la massima
flessibilità del lavoro e la massima deregolazione del
mercato del lavoro. In tal modo reagiscono anche alle
rigidità che il trade-off fra modello taylor-fordista e
"cittadinanza industriale" aveva introdotto nel lavoro e nei
mercati, quando li aveva uniformati alla produzione di massa.
Ciò sta mettendo in causa il modello di regolazione sociale
(chiamato da taluni "compromesso fordista-keynesiano") che
compensava o risarciva la piena subordinazione con la piena tutela.
3.3.3 Il contributo del modello
giapponese
All’origine della produzione snella (lean) c’è una lontana
scelta della fabbrica di camion giapponese Toyota, che si era
proposta di superare la ristrettezza del proprio mercato nazionale facendo dell’auto un bene personalizzato di assoluta qualità.
Diversificare a tal punto i singoli esemplari e costruirli con "zero
difetti" richiedeva uno snellimento e un affinamento
dell’organizzazione produttiva così drastico da contrapporsi
alla produzione di massa occidentale e da superare gli standard
qualitativi tedeschi.
La chiave stava nel just-in-time, che ha rivoluzionato non soltanto
i rapporti con il mercato ma la filosofia stessa della produzione.
Abolire le scorte di beni semilavorati e finiti per mettere in
fabbricazione soltanto quel che è stato già ordinato
dai clienti richiede infatti di affrontare le situazioni e di
risolvere gli eventuali problemi nel momento stesso in cui si
presentano. Ciò elimina scappatoie e rinvii, assicurando la
continuità dei flussi produttivi e soprattutto il
miglioramento continuo dell’organizzazione. Perciò impegna
moltissimo il management e i lavoratori.
Tale modo di procedere induce a perseguire l’aumento della
produttività mediante una sequenza incrementale di piccole
modifiche o di modeste innovazioni, senza grosse novità o
macchinari costosi. Questa tecnologia "frugale" che elimina gli
sprechi introduce dunque un’altra differenza sostanziale della
produzione lean rispetto a quella fat, o pingue. Inoltre ogni
singolo comparto dell’apparato produttivo diventa autonomo per
integrarsi con gli altri orizzontalmente, in modo da accrescere
l’elasticità del tutto. Così l’impresa abbrevia i
tempi per approvvigionarsi dei componenti, per allestire e mettere
in opera i nuovi tipi (set-up), per riconvertire una lavorazione
(switch-time), per attraversare il flusso produttivo dal principio
alla fine (lead-time). E le scansioni si fanno più rigorose
proprio perché cresce l’interdipendenza di tutti i vari
settori e apparati.
Il processo lavorativo viene a sua volta rivoluzionato da una
combinazione di risorse tecniche e umane che, accompagnata da un
capillare flusso di informazioni e da una minore distanza fra chi
dirige e chi esegue, elimina la cristallizzazione delle competenze e
privilegia il lavoro di gruppo. Tre sono le maggiori novità
nell’uso del lavoro. Innanzitutto le maggiori imprese garantiscono
una sicurezza d’impiego anche in tempo di crisi, per cui ottengono
una produzione elevata e una cooperazione leale. Inoltre la carriera
e le ricompense sono collegate assai più all’anzianità
aziendale che non all’attività svolta. Infine l’ampliamento
delle mansioni, mai attecchito in Occidente, stimola i lavoratori
stessi a coltivare una propria polivalenza professionale.
Richiamandosi a taluni precetti confuciani e a una concezione
comunitaria dell’impresa, senza fuoriuscire dal taylor-fordismo, il
Giappone ha saputo insomma prestare attenzione al lavoratore proprio
chiedendogli quel contributo di qualità e di impegno di cui
l’Occidente si è privato in nome del taylor-fordismo.
Produzione snella just-in-time e cooperazione lavorativa
polifunzionale costituiscono dunque il nocciolo originale del
modello giapponese, teorizzato da T. Ohno come modello Toyota. Per
realizzare tutto ciò il Giappone ha reso paradigmatica l’idea
europea, nata negli stabilimenti Bata, secondo cui chi lavora
è il cliente di chi viene prima e il fornitore di chi viene
dopo; e ha saputo implementare le tecniche del controllo statistico
di qualità, e il concetto stesso di "qualità totale",
appresi dagli esperti americani E. Deming e J. Juran che nel proprio
paese furono apprezzati troppo tardi.
Il capitalismo occidentale prese coscienza del nuovo formidabile
competitore dopo molti anni durante i quali sembrava soltanto
copiare le tecnologie e i prodotti. Un vero shock ci fu quando negli
Stati Uniti ebbero successo le auto "compatte", sfornate sul posto
dai fabbricanti giapponesi, proprio mentre i tre giganti locali –
General Motors, Ford e Chrysler – erano assillati da una
produttività declinante. Un famoso rapporto del Massachusetts
Institute of Technology accusò di miopia i grandi manager
americani, perché incapaci di adeguarsi al paradigma
emergente.
Dopo lo stupore dei primi anni ottanta, l’industria di tutto il
mondo ha cominciato a prendere spunto dal modello giapponese,
importandone e soprattutto "ibridandone" taluni aspetti
organizzativi e molti i meccanismi produttivi.
3.3.4 La riduzione delle
dimensioni aziendali
A cavallo fra gli anni sessanta e gli anni settanta ci fu chi
pronosticò una cesura nella continuità organizzativa e
nella dinamica imprenditoriale fino ad allora assicurate dalla
grande impresa e dalla produzione di massa. Secondo P. Drucker
(Drucker, P., “Aspettando l’avvento della nuova organizzazione”),
noto esperto americano di management, si sarebbe invertita la
tendenza al travaso fra imprenditori e manager. Nell’impresa gli
imprenditori sarebbero tornati "a un livello più alto",
perché avrebbero imparato a capire la dinamica della
tecnologia, del mercato, dell’organizzazione. Secondo E. Schumacher
(Schumacher, E. F., “Piccolo è bello”), economista
dell’industria mineraria britannica, si sarebbe altresì
riequilibrata l’importanza della piccola e della grande dimensione
organizzativa perché l’impresa minore avrebbe stimolato la
creatività e l’autonomia così come quella maggiore
aveva assicurato la precisione e la conformità.
Sia la previsione di un’ "era del discontinuo" sia lo slogan small
is beautiful stavano per essere convalidati in due paesi molto
diversi: negli Stati Uniti, dalla fungaia di piccole imprese sorte a
Silicon Valley per iniziativa di imprenditori di nuovo tipo, dotati
di scarsi capitali ma con idee avanzate; in Italia, dai distretti
industriali dove una nuova leva di imprenditori "venuti dalla
gavetta" trasformava tante fabbrichette in sistemi produttivi a
rete. Mentre per le imprese start- up l’incubatore era stato il
sapere high-tech dell’università di Stanford, per quelle
della terza Italia era stata la "specializzazione flessibile" su
nicchie di mercato. In ambedue i casi la principale risorsa dello
sviluppo locale stava dunque nella capacità di valorizzare le
conoscenze, le competenze e le subculture offerte dal contesto.
Quelle esperienze anticiparono alcuni requisiti del lavoro
post-fordista, basato su una combinazione di autonomia individuale e
di cooperazione collettiva. La dimensione più efficiente
degli impianti e il minor numero di addetti per unità
aziendale avevano abbattuto infatti i tipici effetti di
concentrazione e di massificazione della fase taylor-fordista, ma
soprattutto avevano reso più elastico l’apparato produttivo e
un po’ più appagante il modo di lavorare. In tal modo la
piccola impresa contrassegnò il futuro del lavoro,
così come avevano fatto quella media nell’Ottocento e quella
grande nel Novecento.
A livello aggregato, il ritorno dell’imprenditore e la rinascita
della piccola impresa sono stati evidenziati nelle statistiche a
partire dagli anni ottanta. Anche se non erano mai spariti dalla
scena dei paesi industriali, compresi gli Stati Uniti, la loro
inattesa ricomparsa provocò all’inizio incredulità e
sconcerto perché nell’impresa taylor-fordista il numero degli
addetti e il peso dei manager non potevano che crescere: da un lato
c’era la legge delle economie di scala e dall’altro il passaggio
"dalla proprietà al controllo". Oltretutto, queste
novità si affacciavano con tratti non sempre accettabili,
tipo economia sommersa e lavoro nero, persino dove il mondo del
lavoro era ben organizzato e rappresentato, come in Italia a Carpi o
a Sassuolo. Poi, nel giro di un ventennio, paesi con una struttura
produttiva completamente diversa come l’Italia e l’Inghilterra hanno
superato i tre milioni e mezzo di imprese, due terzi delle quali
costituite da ditte individuali: tale è stato l’abbattimento
delle dimensioni medie aziendali e la moltiplicazione degli
imprenditori come ceto.
Queste novità post-fordiste smentiscono le previsioni troppo
lineari sugli sviluppi del capitalismo industriale, pur provenendo
dal medesimo alveo del taylor-fordismo. Infatti la creazione di
nuove piccole imprese da parte di nuovi imprenditori è stata
sospinta dalle grandi imprese attraverso successive fasi di
"decentramento produttivo".
Il passaggio di staffetta è iniziato quando molte grandi
imprese, messe alle strette dagli aumentati costi del greggio e
delle retribuzioni, e dalla diminuita governabilità degli
stabilimenti e dei mercati, hanno affidato all’esterno, oppure
ceduto ad altri, determinate operazioni o lavorazioni. Quei segmenti
di produzione e di organizzazione, quegli spezzoni di lavoro e di
tecnologia di cui le imprese maggiori si liberavano, perché
meno convenienti o più contestati, dimostravano che il
taylor-fordismo aveva dato il massimo: una macchina possente e
dinamica era diventata rigida e goffa, se non altro perché la
standardizzazione e la burocratizzazione limitavano le
capacità di reazione e di innovazione, tipiche invece delle
imprese minori. Come per effetto di una forza centrifuga, tanto
l’affidamento all’esterno quanto la cessione ad altri hanno
determinato un calo della dimensione aziendale, sia procurando
più lavoro alle imprese minori a cui quella maggiore
già ricorreva, sia stimolando la nascita di nuove imprese,
spesso incoraggiate e talvolta aiutate per l’occasione.
La disseminazione sul territorio di imprese minori che ricevevano
maggiori ordinativi e di imprese start-up già provviste di
ordinativi hanno poi diffuso e generalizzato fenomeni quali
l’esternalizzazione, la subfornitura, l’outsourcing e lo spin-off.
Nei contesti più dinamici ciò ha accelerato la
nati-mortalità delle imprese, ha riorganizzato l’economia del
territorio e ha creato reticoli produttivi integrati: è
così che le zone industriali del Nord-est italiano, del
Rhône-Alpes francese, del Baden-Württenberg tedesco e
della "Route 128" in Massachusetts sono diventate casi di scuola.
A questo passaggio di staffetta sono poi subentrati massicci
smagrimenti di personale (o riduzioni di taglia: downsizing), che
negli Stati Uniti hanno investito quasi tutte le mille
imprese-leader censite dalla rivista Fortune. Le dimensioni
aziendali medie sono altresì diminuite nelle imprese che
hanno delocalizzato una parte delle proprie attività in
stabilimenti o impianti situati in altri paesi. Le "cittadelle del
lavoro" continueranno quindi a diminuire e i luoghi di lavoro a
snellirsi. Infatti dalle grandi fusioni e dalle grandi acquisizioni
nascono gruppi enormi ma strutturati su imprese più piccole
di quelle che avevano dominato il secolo scorso: negli Stati Uniti,
la società di lavoro temporaneo Manpower vanta più
dipendenti e più sedi del gigante automobilistico General
Motors.
Del resto, le nuove cattedrali del consumo, cioè gli
ipermercati e i mall che attorniano le città, hanno pochi
addetti pur coprendo volumetrie maggiori delle vecchie cattedrali
della produzione, gli stabilimenti storici che oggi diventano musei
o università.
3.3.5 Le trasformazioni
strutturali dell’impresa
Il modello post-fordista ha richiesto a imprenditori e manager un
diverso modo di gestire e di intendere l’impresa e la sua stessa
natura, nell’accezione data da R. Coase (Coase, R. H., “The nature
of the firm”) nel 1937. L’impresa – ha detto M. Crozier (Crozier,
Michel & Friedberg, Erhard “L'acteur et le système. Les
contraintes de l'action collective”) – deve "ascoltare", deve
"apprendere". Molte sono infatti le novità, a cominciare
dagli schemi di funzionamento. L’elefantiasi dimensionale e
l’autosufficienza aziendale sono eredità del passato che sono
state sostituite dalla snellezza e dall’apertura. Le forme di
organizzazione favoriscono l’autonomia e al tempo stesso la
comunicazione delle parti, ribaltano i rapporti fra funzioni "di
produzione" e funzioni "di servizio", mutano le relazioni con
l’indotto dei fornitori e con le istituzioni finanziarie.
Ma la novità cruciale è un’altra. Il processo di
integrazione, che per oltre un secolo era stato realizzato dentro
l’impresa, ha invertito la direzione di marcia: l’integrazione si
sta ora realizzando tra le imprese. Ciò ha posto fine alla
separatezza organizzativa e produttiva dando all’insieme una
maneggevolezza e una elasticità mai viste. Mentre le imprese
minori cercano di strutturarsi localmente come se fossero una sola
grossa impresa, quelle maggiori si ristrutturano come se fossero un
insieme di piccole imprese. Beninteso, tutte quante allacciano anche
relazioni con altre imprese, esterne al contesto locale o nazionale.
L’impresa ha cominciato a specializzarsi, aprendosi ad apporti
esterni anch’essi specializzati. Le relazioni di mercato sono state
internalizzate come mezzo di regolazione organizzativa. Ciò
integra maggiormente l’impresa nel contesto locale, con il quale il
trade-off è più consistente o più sostanziale
di ieri, e al tempo stesso la collega più strettamente al
contesto globale. L’impresa cessa di essere autarchica e concentra
gli sforzi su quel che le riesce meglio e le rende di più:
anziché fare, compra. Quindi il concetto di servizio diventa
una coordinata di produzione. Del resto, chi potrebbe oggi chiedere
all’impresa di fare da sé, di produrre in casa tutto il
possibile con manodopera propria, come faceva ieri? La Fiat di Melfi
è una società chiamata Sata che produce in proprio,
per il modello "Punto", appena sette componenti su cento: tutto il
resto, pari a due terzi del valore dell’auto, viene fornito
dall’indotto locale oppure acquistato sul mercato esterno.
Conciliare la variabilità della domanda con la
stabilizzazione della manodopera è difficile per tutte le
imprese, grandi e piccole. Ognuna riduce quindi al minimo il
personale diretto alle proprie dipendenze (core-workers) e impiega
manodopera indiretta fornita temporaneamente da ditte esterne
(contingent-workers). Quelle maggiori scorporano inoltre questo o
quel ramo di attività per cederlo ad altre società, talvolta create
o aiutate ad hoc e spesso operanti in modo stabile dentro l’impresa
stessa.
Tutte si dotano di personale stabile e di personale fluttuante:
tanto l’impresa maggiore, che di solito è il committente
principale, quanto le imprese sussidiarie, le ditte di pulizia,
perfino le aziende "in grigio" o "in nero".
Il cambiamento è notevole. Secondo i vecchi schemi di
funzionamento, la migliore combinazione dei fattori produttivi era
che l’impresa integrasse ogni attività in verticale al
proprio interno, mentre oggi si integra ogni attività in
orizzontale con l’esterno. Se ieri nella topografia d’impresa non
c’era quasi posto per entità estranee, oggi è normale
la presenza di imprese esterne con le quali si intrattengono stretti
legami funzionali e operativi. Quelle che offrono servizi di
vigilanza, pulizia, manutenzione, trasporto, stoccaggio, logistica,
informatica e così via non sono sui generis né tutte
di comodo, e spesso rientrano nei vigenti sistemi di relazioni
industriali e di normative contrattuali. Né la loro funzione
è sempre ancillare. Alcune dispongono di un avanzato
know-how, molte non sono affatto piccole e talune sono anzi
così grandi da offrire servizi a imprese che sono più
piccole di loro.
Così, entro le stesse mura possono operare gomito a gomito
lavoratori diretti e indiretti, stabili e fluttuanti, facenti capo a
società diverse. All’indotto esterno si aggiunge insomma un
indotto interno. Questa disarticolazione, chiamata anche
"terziarizzazione", ha conseguenze che preoccupano i sindacati
perché possono generare disparità di trattamento fra
lavoratori operanti nella stessa impresa o addirittura nella stessa
sede. Ne fanno le spese i dipendenti "ceduti" dall’impresa
principale a una esterna, e magari chiamati a svolgere il vecchio
lavoro; o i lavoratori esterni "prestati" da un’impresa fornitrice e
chiamati a svolgere una delle attività rimaste all’impresa
principale.
3.3.6 Mercati del lavoro e
struttura professionale
Anche la struttura dei mercati del lavoro si complica, introducendo
elementi di diversificazione che vanno al di là delle
segmentazioni già conosciute e che delineano scenari sia di
"atomizzazione" sia di "individualizzazione". Ciò deriva
dalla crescente selettività dal lato della domanda, sia in
termini di flussi giacché le assunzioni si fanno col
contagocce, sia in termini di requisiti, tant’è vero che il
tipico motto del Novecento, "non siete pagati per pensare", è
stato ormai sostituito dallo slogan "la qualità dipende da voi". Ma
ciò deriva anche da una maggiore selettività dal lato
dell’offerta, per motivi sia oggettivi, quali l’innalzamento
dell’istruzione e la lievitazione dei redditi, sia soggettivi, quali
la maggiore riluttanza a spostarsi e la maggiore attenzione allo
status. Ad esempio gli italiani rifiutano i lavori duri, rischiosi,
sporchi o umili, svolti oggi dagli immigrati (e ieri dagli italiani
stessi, quando emigravano). In questo caso l’offerta proveniente dai
paesi più poveri può rendere meno tesi i mercati del
lavoro, anche se non è facile regolare i flussi migratori in
base alla domanda.
L’incontro è reso inoltre difficile da vari fattori: dalla
diversa influenza del contesto, giacché la domanda tende a
territorializzare i profili professionali e le competenze richieste
mentre l’offerta tende a socializzare gli stili e le aspettative di
vita; dal diverso orientamento alle opportunità,
giacché per l’impresa contano la flessibilità e il
turn-over mentre per il lavoratore contano la stabilità e le
garanzie; e infine dai diversi ostacoli incontrati nelle proprie
scelte, giacché l’impresa trova difficile fare previsioni
mentre il lavoratore trova difficile orientarsi.
A livello macro, il convoglio delle professioni si allunga e si
fraziona: un turn-over assai vivace sta creando più mestieri
di quanti ne distrugge, con prospettive di carriere più
discontinue. Forse anche per questo non sembra esserci una netta
ascesa della professionalità media ma piuttosto una gamma
più estesa di skill, resa necessaria dall’intreccio fra
domande e tecnologie vecchie e nuove. Infatti servono professioni
nuovissime come quelle dell’informatica e professioni stagionate
come quelle della carpenteria. Insieme a knowledge workers e
specialisti di e- business, continua infatti a esserci un assoluto
bisogno di chi costruisce stampi, di chi salda a elettrodi, di chi
affetta le carni, di chi assiste gli anziani, di chi custodisce le
banche. Tutto ciò crea dei gap o aumenta le incoerenze fra
sistemi professionali e sistemi produttivi.
A livello micro, l’atomizzazione del mercato e l’individualizzazione
dei profili esasperano il mismatch qualitativo e quantitativo
perché, a prescindere dall’efficienza o meno dei servizi
all’impiego, pubblici o privati, i tradizionali canali di selezione
e di reclutamento della manodopera non sembrano più bastevoli
e neppure adatti. E la proliferazione di siti per la ricerca del
lavoro o del lavoratore via Internet, ancora caotica e
disfunzionale, dà conto assai meglio del problema che non
della soluzione. Così, quote consistenti di assunzioni
passano attraverso le reti informali attivate dai lavoratori stessi,
dalle loro famiglie e dai loro conoscenti. Ciò rende
più forti quei sistemi di relazione che M. Granovetter
(Granovetter M.,” Azione economica e struttura sociale. Il problema
dell’embeddedness”) ha chiamato "legami deboli", e più deboli
quei sistemi allocativi che, istituzionali o mercantili, un tempo
erano forti.
Sia le organizzazioni dei lavoratori sia quelle degli imprenditori
trovano pertanto difficile captare, registrare, veicolare e
rappresentare questa pulviscolare diversificazione fra i lavori. I
governi stessi stentano a promuovere in modo sistematico politiche
attive di orientamento, di formazione e di riallocazione del lavoro.
Ne risentono quindi gli assetti delle relazioni industriali, le
tradizioni e le prassi della partnership, e perfino i rapporti fra
le sfere della contrattazione e della legislazione.
3.3.7 I nuovi contenuti del
lavoro
Le novità più cospicue sono però altre, e
vengono da movimenti profondi che investono innanzitutto la natura
della prestazione, cioè la qualità del lavoro. Con
quali effetti? I contenuti si fanno meno manipolativi e più
cognitivi, i compiti tendono a essere meno esecutivi ed estranianti,
più cooperativi e coinvolgenti, e le conoscenze sono in
genere meno specialistiche e più polivalenti. Fra i requisiti
richiesti le attitudini stanno diventando importanti quasi come le
competenze, cosicché certe doti "femminili" quali la cura, la
relazionalità e l’attenzione contano più di ieri
mentre contano meno di ieri la manualità e la fisicità
stessa del lavoro. Le prescrizioni operative non sono più
inderogabili e inflessibili come ieri, per cui il lavoro tende a
essere meno livellato e standardizzato, quindi meno piatto e
impersonale.
Poiché le tecnologie dell’informazione favoriscono tutti i
processi generati dalla produzione snella, un numero sempre maggiore
di persone, in ogni tipo di lavoro, lavorerà anche
fisicamente in rete e dovrà quindi "prestare attenzione" e
sviluppare una "consapevolezza di rete". Nessun lavoratore e nessuna
impresa possono chiudersi in sé stessi perché il post-
fordismo produce e richiede maggiore flessibilità, sia
funzionale che mentale. Del resto la qualità del prodotto
richiede lavoratori la cui adattabilità cresca oltre la
rotazione delle mansioni e l’allargamento dei compiti rivendicati
invano dal movimento per la "qualità della vita di lavoro"
negli anni settanta.
Il risultato generale è una maggiore autonomia anche per chi
lavora alle dipendenze. Se ne ha riscontro nella
discrezionalità operativa, che oggi offre maggiori gradi di
libertà perfino nell’esecuzione di lavori manuali
standardizzati. Ma se ne ha riscontro soprattutto nella richiesta al
singolo lavoratore di individuare gli intoppi e di risolvere i
problemi che sorgono, mentre prima gli si vietava ogni iniziativa.
Connaturata al post-fordismo come necessità e come
virtù, questa nuova autonomia è del resto imposta dalla
qualità del prodotto e del servizio, e dipende innanzitutto
dalla cooperazione intelligente dei lavoratori, vale a dire quella
inestimabile partecipazione nel lavoro che la Fondazione di Dublino
chiama "partecipazione diretta".
La tendenza alla crescita di autonomia nel lavoro è da
ritenersi più realistica della tendenza alla crescita dei
lavoratori autonomi (in Italia più qualitativa che
quantitativa). Essa modifica la natura stessa della prestazione,
seppure nel quadro di una persistente dominanza del rapporto
subordinato. Considerata infatti la renitenza delle imprese a
introdurre forme di partecipazione collettiva dei lavoratori, le
stock option e i fondi previdenziali non bastano a scardinare il
sistema del lavoro salariato.
Si consideri tuttavia che l’autonomia cresce in senso funzionale,
non totale. Non è attingibile dal singolo, tant’è vero
che funziona e che vale soltanto nell’ambito del gruppo o del
flusso, e proprio per questo nega il concetto stesso di un lavoro
individuale svolto in autonomia. Qualsiasi scenario di autonomia
è errato se ignora che il lavoro è in rete. Infatti
non è una autonomia sospesa nel vuoto e neppure vincolata da
rigidi sbarramenti, bensì condizionata da uno sterminato
sistema di riferimenti.
Rispetto a ieri il lavoratore, dipendente o autonomo che sia,
dispone di molti più mezzi e modi per operare ma lo fa entro
un reticolo di parametri, costituiti da informazioni, procedure e
segnali, assai più fitto e più solido della "gabbia di
acciaio" a cui M. Weber (Weber M.,” Il metodo delle scienze
storico-sociali”) aveva assimilato il meccanismo capitalistico. Il
sistema di riferimenti entro cui tutti ormai lavorano – camionista,
paramedico, financial promoter, web manager – è assai
più complesso di quello dell’epoca taylor-fordista. È
una catena leggera e inafferrabile ma straordinariamente cogente.
Nel post-fordismo tutti i lavori sono destinati a stare dentro
questo reticolo, portatore di libertà e di costrizione in
maniera del tutto nuova.
Incombe un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso,
perfino concitato, e una tensione continua, poco importa se si
è dipendenti o indipendenti. Ciò apre prospettive
prima impensabili: nel secolo scorso i sociologi studiavano
l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività,
mentre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità
e incertezze che stressano il lavoratore anziché abbatterlo.
Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era
la rigidità, oggi la flessibilità. Molti lavoratori
soffrivano l’uniformità, il livellamento e la massificazione
dei compiti mentre oggi soffrono perché i loro compiti
cambiano in fretta, crescono in fretta, evolvono in fretta.
Ma nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo. Anche se
diminuisce l’esecutività e cresce la cooperazione, non tutto
il lavoro è meno esecutivo, e non dappertutto è
più cooperativo: la transizione è in corso e il nuovo
non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene. Per
questo, il nuovo contiene molti aspetti ambigui: basta pensare ai
supermercati Carrefour, ai fast- food Mc Donald’s e a molti call
center; oppure al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli
infortuni continuano.
Nell’area degli impieghi regolari gli ambienti di lavoro e la
condizione lavorativa tendono comunque a migliorare anche nei paesi
in via di sviluppo; tecnologie labour saving e progettazioni
ergonomiche consentono di ridurre ancora la fatica e le
malformazioni. È invece meno facile ridurre gli infortuni e
le "morti bianche" dove è più debole la cultura
della sicurezza, cioè nelle piccole imprese che sopportano
minori sforzi, spese e controlli, e nella cosiddetta economia
sommersa che ricalca e amplifica gli elementi negativi dell’impresa
minore.
3.3.8 I nuovi rapporti di
lavoro
Altrettanto profondi e non meno ambivalenti sono i movimenti che
trasformano i termini della prestazione, cioè i rapporti di
lavoro. Questi tendono a diventare: innanzitutto meno subordinati e
più autonomi (perfino nel lavoro dipendente, come abbiamo
appena visto); inoltre meno durevoli, data la crescita dei contratti
a tempo determinato e il calo quelli a tempo indeterminato; e infine
meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro si
avvia a essere più circoscritto e assai più
articolato, perfino individualizzato.
L’impresa si è fatta flessibile e si aspetta che il
lavoratore sia altrettanto flessibile. L’elasticità della
prestazione al mercato si ottiene con modalità di impiego che
intaccano il modello di lavoro a tempo pieno e a durata
indeterminata perché prevedono orari più corti, durate
più corte, o tutt’e due. Fra piena stabilità e piena
instabilità dell’occupazione si è creato ormai un
continuum analogo a quello che c’è fra piena occupazione e
piena disoccupazione. Al tempo stesso nascono o crescono rapporti di
lavoro che rendono meno nitida la distinzione fra dipendenti e
indipendenti. Basti citare il lavoro autonomo "di seconda
generazione", basato su requisiti professionali anziché
patrimoniali, di chi in Italia presta "collaborazioni coordinate e
continuative": è un gruppo eterogeneo che può essere
tutelato soltanto in modo generico, mentre negli Stati Uniti gli
indipendent contractors sono un gruppo omogeneo.
Quel che più colpisce è l’impetuosa crescita dei vari
tipi di contratti a termine e di lavoro temporaneo – o "interinale"
(interimaire) o "in affitto" o "a chiamata" (on call) – attraverso i
quali le imprese impiegano temporaneamente chi non trova lavoro, o
desidera un’occupazione saltuaria, oppure non era attivo, e possono
così aggirare i tradizionali vincoli, legislativi o
contrattuali, alla flessibilità "numerica". In Europa la
maggioranza delle assunzioni è coperta da rapporti che danno
luogo a combinazioni assai diverse nei tragitti lavorativi e nei
profili di carriera: c’è chi lavora a termine o a chiamata
per periodi abbastanza lunghi e chi viene assunto stabilmente dopo
una o due reiterazioni o "missioni". Si teme pertanto che venga
eroso lo stock dei contratti a tempo indeterminato, che tuttavia
comprende più di otto occupati su dieci e che resterà
il nucleo portante, come lo è tuttora negli Stati Uniti.
Uno scenario di "precarizzazione", una condizione di
instabilità che mantenga i lavoratori in uno stato di
soggiacenza, non conviene neppure alle imprese. A esse serve tanta
stabilità quanta è compatibile con la competizione, e
questo significa tenersi lavoratori efficienti anziché
licenziarne e assumerne di continuo. Molte imprese prestano infatti
maggiore attenzione alla risorsa umana, usano con cautela gli
smagrimenti e incentivano la permanenza in azienda con forme di
"fidelizzazione": in cambio della mobilità totale da posto a
posto, i fabbricanti d’auto degli Stati Uniti hanno garantito
l’impiego a vita ai dipendenti con almeno dieci anni di
anzianità. Ma vi sono anche imprese che ricorrono al
temporary management, cioè impiegano dirigenti con rapporto
"interinale".
La vera novità sta nel fatto che i contratti a termine stanno
soppiantando il tradizionale periodo di prova per diventare la
modalità normale di ingresso al lavoro. Così come il
part-time, essi sono ovunque correlati positivamente al tasso di
occupazione, e contribuiscono oltretutto a femminilizzare il mondo
del lavoro. Certo vi sono delle imprese che li usano per tenere
sotto ricatto chi lavora evitando un’assunzione stabile, ma molte
altre imprese hanno effettivamente bisogno di un periodo più
lungo di quello previsto dai contratti tradizionali: una conferma
che la domanda di lavoro è più selettiva, e che le
scorte di manodopera sono state sostituite dai lavori a termine e a
chiamata.
Queste novità destabilizzano i tradizionali rapporti di
lavoro e i sindacati temono che possano alterare gli equilibri
contrattuali, travolgere i sistemi di relazioni industriali,
indebolire i profili di tutela, disarticolare le solidarietà
fra i lavoratori. Uno dei rischi è la polarizzazione fra
lavoratori stabili e lavoratori fluttuanti, ma il più sentito
è la "precarizzazione" cioè la fine del "posto fisso"
che per molti europei è quasi un diritto di cittadinanza:
infatti il senso di instabilità che si avverte è ancor
prima culturale che sociale. In un paese a disoccupazione endemica
come
l’Italia, questo era un modello di protezione che, basandosi sul
diritto al lavoro sancito dalla Costituzione, tutelava soprattutto i
capo-famiglia maschi adulti, impegnando lo Stato come occupatore di
seconda istanza mediante l’estensione del settore pubblico e
parapubblico.
Peraltro, la stabilità d’impiego oggi rimpianta in Europa
è più un mito che una realtà visto che nel
Novecento ci furono una grande crisi e una grande disoccupazione, e
che soltanto per un quarto di quel secolo ci si era avvicinati alla
piena occupazione e a un vero welfare state. Molti lavorarono per
tutta la vita nello stesso posto semplicemente perché era
l’unico che avevano trovato, e ciò poteva farne un’occasione
d’oro ma anche un lavoro forzato. In avvenire assai pochi
lavoreranno tutta la vita nello stesso posto, pochi nella medesima
impresa e parecchi cambieranno anche mestiere. Tuttavia, chi
potrebbe oggi proporre a un giovane o a una ragazza di passare venti
o trenta anni nella stessa azienda e magari tutta la vita nel
medesimo mestiere? Né si può loro proporre una vita
vorticosa tutta ispirata all’imperativo della flessibilità.
Mentre la natura della prestazione tende dunque a cambiare in meglio
perché è soggetta a minori vincoli e consente maggiore
discrezionalità, i termini della prestazione tendono a
cambiare in peggio perché la tutela tradizionale non
può coprire impieghi più instabili e tragitti
più discontinui. Per questo il mercato può apparire
oggi minaccioso come la tecnologia nel secolo scorso: allora ci si
interrogava sulle conseguenze umane del macchinismo industriale, e
adesso ci si interroga sulle conseguenze del lavoro flessibile.
3.3.9 Post-fordismo e
società dei lavori
La transizione in corso non comporta né la sparizione del
lavoro né la fine dei posti, ma intacca le certezze sociali
perché può mettere a repentaglio i compromessi
raggiunti nel Novecento. Se la tutela del lavoro tende a peggiorare
mentre la qualità tende a migliorare, è perché
era pensata per un altro lavoro e per un altro lavoratore. Essa
può portarsi al livello della qualità soltanto se
viene modellata su un lavoro e un lavoratore con maggiore autonomia
e con maggiore responsabilità quali il post-fordismo sta
preparando. Nuovo lavoro è lavorare in rete, senza scorte e
giusto in tempo. Nuovo lavoratore è chi lavora in più
ruoli, in più posti, in più attività.
Le conseguenze culturali, sociali, psicologiche e antropologiche
sono rilevanti. Inseguendo il consumatore e
trattando il lavoratore come individui
singoli, il post-fordismo propone un
modello di autodirezione diverso dall’eterodirezione imposta dal
taylor-fordismo. Lavorare con meno vincoli e più
opportunità, ma anche con maggiore responsabilità e
maggiori rischi, è forse l’altra faccia
dell’individualismo di massa innescato
dalla produzione snella just-in-time.
Ogni lavoratore si trova immerso in un modo meno ferreo e più
fluido nel sistema dei rapporti economici. Il post-fordismo fa
infatti emergere nel mondo del lavoro altrettante diversità
quant’erano state le uniformità introdotte dal
taylor-fordismo. La gabbia entro cui funzionava la società
del lavoro era forte e visibile, mentre la ragnatela entro cui si
colloca la attuale società dei lavori è fitta e
impalpabile. Se ieri era il "Lavoro" maiuscolo che teneva insieme la
società, oggi è la società che tiene insieme i
tanti lavori, attraverso un reticolo di snodi orizzontali
anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali.
Una conseguenza del tutto inattesa verrà dal contrasto fra la
maggiore qualità e la minore tutela del lavoro, e – di
conseguenza – fra la maggiore implicazione interna e la minore
copertura esterna del lavoratore: il lavoro cesserà infatti
di perdere importanza e concorrerà alla formazione
dell’identità sociale più di quanto si prevedesse
negli ultimi decenni del Novecento, quando la riduzione del tempo di
lavoro e l’aumento del tempo libero erodevano gli effetti identitari
della relativa stabilità d’impiego e della discreta tenuta
dei mestieri. Non è una novità di poco conto.
Pochi vedono nel post-fordismo la prospettiva di una vera e propria
fine del lavoro salariato, ad esempio attraverso una "economia della
partecipazione". Del resto, perfino negli Stati Uniti sono pochi gli
imprenditori e i manager disposti ad associare tangibilmente i
propri dipendenti al futuro dell’impresa. C’è invece chi vede
nel prossimo futuro promesse di liberazione quali una
individualizzazione del lavoro e del rapporto di lavoro, cui
tenderebbe la cosiddetta "fuga dal lavoro subordinato", che è
spesso una scelta necessitata anziché voluta.
Di certo si sta affacciando un mondo dove i lavori stanno
soppiantando il lavoro, per cui la discontinuità d’impiego e
di carriera, involontaria o volontaria, può diventare normale
per un numero sensibilmente maggiore di soggetti, anche con posto
stabile. La costruzione dell’identità professionale tende
quindi a basarsi su più posti, più ruoli e più
mestieri perché ciascuno di loro (al limite, ciascuna
missione di lavoro temporaneo) aggiunge una porzione di esperienza,
di formazione, di sapere. L’identificazione sociale attraverso i
lavori seguirà quindi tragitti più complessi
perché meno rettilinei e più personali, con
sovrapposizioni e dissociazioni fra la sfera del lavoro e le altre
sfere dell’esistenza. Ciò darà luogo a identità
composite in senso diacronico, diverse cioè da quelle plurime
in senso sincronico a cui solitamente alludono i sociologi.
Ciò rende necessaria una rete protettiva leggera e
universalistica che assista il lavoratore nella transizione di posto
o di carriera, aiutandolo a valutare il proprio potenziale e a
ricollocarsi in modo adeguato; che certifichi i passaggi compiuti
negli itinerari di lavoro e di formazione; che accompagni i periodi
di mobilità con attività di formazione o di
"tutoraggio" in vista del reimpiego; che metta a frutto
l’anzianità maturata negli impieghi temporanei presso la
medesima impresa; che ricomponga i vari spezzoni di occupazione
dipendente o autonoma agli effetti della carriera assicurativa,
aiutando a ricoprire o consentendo di riscattare i vuoti. È
necessario quindi che rimanga una traccia dei tragitti che, da un
impiego all’altro, costruiscono l’identità
socio-professionale dei singoli: traccia di cittadinanza che
può consistere in una anagrafe generale del lavoro o in un
libretto elettronico del lavoratore. (Negli Stati Uniti chiunque
lavora dispone di un social security number). Questa è la
prima tutela dell’individuo lavoratore, il primo elementare diritto
di una sicurezza sociale adatta al capillare universo dei lavori.
Si pongono interrogativi a cui è difficile rispondere. Ci si
chiede ad esempio se possano essere valorizzati gli spazi di
autonomia individuale e diversificate le forme di tutela dei
lavoratori senza abbandonare il cammino storico della
solidarietà e dell’uguaglianza. Così pure, ci si
chiede se una tutela che si fa al tempo stesso più leggera e
più universalistica debba proteggere anche i lavori non
tipici, non istituzionali, non subordinati: cioè se si vada
verso una cittadinanza del lavoro sans phrase che si situerebbe agli
antipodi di quella del Lavoro maiuscolo, tipico del Novecento.
È chiaro che il sistema delle tutele va ridisegnato,
innanzitutto con la legislazione, in ambito nazionale ma soprattutto
internazionale. L’Unione europea ricopre in tal senso un ruolo
decisivo perché costituisce già ora un riferimento
mondiale per la protezione del lavoro nella moderna economia di
mercato. Sebbene la contrattazione fra partner sociali abbia
egregiamente soddisfatto in molti paesi l’esigenza di conciliare la
cittadinanza con il mercato, nella fase post- fordista essa
assumerà probabilmente un’impronta diversa dal passato.
È inevitabile che, passando dal Lavoro ai lavori, la
copertura data dai tradizionali contratti di lavoro diventi
più circoscritta non tanto (o non soltanto) perché nel
frattempo si allarga l’area dell’autotutela individuale, ma
perché il focus della regolazione si sposta verso il livello
aziendale e quello territoriale, e perché aumentano nel
contempo gli spazi coperti dalla regolazione bilaterale in campi
come la formazione dei lavoratori, l’incontro domanda-offerta, la
sicurezza sui luoghi di lavoro.
Mentre la società dei lavori si afferma a livello mondiale,
non è prevedibile un brusco declino
del ruolo dei sindacati, i quali stanno del resto presentandosi ex
novo o cominciando ad affermarsi sulla scena di molti paesi in
sviluppo, specie nel Sud-est asiatico. Al restringersi della
tradizionale area di tutela del lavoro operaio-industriale-fordista,
corrispondono infatti bisogni di tutela nuovi, tutti da delineare e
da costruire, nell’area del lavoro post-fordista, discontinuo,
atipico. Perfino in un rapporto di lavoro individualizzato, dove il
lavoratore sembrerebbe potersi tutelare da sé grazie al
proprio potere contrattuale, perfino in questo caso il sindacato
può offrire qualche forma di ausilio se non di tutela vera e
propria.
Nella società dei lavori ci saranno dei lavoratori che hanno minori bisogni di tutela ma ce ne saranno molti altri che hanno maggiori bisogni di tutela, da parte del sindacato o da parte dello Stato o di entrambi. Rispetto al passato, non si tratta soltanto di tutelare meglio i diritti ma anche le "sorti" dei singoli, nelle concrete realtà dei mercati del lavoro e dei luoghi di lavoro. L’istanza stessa della partecipazione all’impresa, che poggia sulla maggiore partecipazione nel lavoro, verrebbe frustrata se predominasse l’insicurezza e l’instabilità.
3.4 Ancora qualche esempio: Toyota e McDonald
Possiamo aggiornare la storia senza fine dell’organizzazione del
lavoro industriale con la sfida maggiore portata al fordismo in anni
più recenti. Con post-fordismo, come abbiamo visto, ci si
riferisce alla crescita della diversità dei prodotti e alla
produzione flessibile che non può essere ottenuta con la
catena di montaggio.
La produzione di massa ha portato al consumo di massa, con la crescita delle esigenze dei consumatori, così ora il concetto “per chiunque, qualsiasi colore, purché nero” non è più appropriato in un mondo altamente competitivo.
Con
l’aumento dell’individualismo e del senso di identità
attraverso il consumo, le aziende hanno dovuto venire incontro ai
nuovi bisogni fornendo varietà e diversità in
moltissimi tipi di prodotti.
Le automobili sono un buon esempio di questo fenomeno. Si tratta del
sistema Toyota che ha rivoltato come un vestito vecchio
l’organizzazione che ai suoi tempi aveva pensato Henry Ford. La
produzione di massa, standardizzata, era basata sull’idea che si
sarebbero trovati clienti per tutto ciò che si produceva;
nella nuova situazione si tratta di avvicinarsi alla condizione di
produrre soltanto quello che è già richiesto dal
cliente. Ciò rende necessaria una rivoluzione organizzativa.
Nel fordismo le decisioni su cosa e quanto produrre sono fissate
dalla direzione “a monte”: i componenti, prodotti in fabbrica o da
fornitori esterni, (ingranaggi, sedili, e così via),
affluiscono a magazzini, e da qui passano all’assemblaggio lungo la
catena. Se le auto non si vendono subito, vengono parcheggiate in
piazzali in attesa di esserlo, mentre i componenti prodotti in
eccesso si accumulano: nelle nuove condizioni di mercato questo
può avvenire con frequenza.
Rovesciando lo schema organizzativo, è l’ordinazione di un
certo numero di auto pervenuta agli uffici commerciali che mette in
moto lungo la linea produttiva la richiesta dei diversi componenti,
i quali vengono allora prodotti solo nella quantità
necessaria. In fabbrica non circola nessun componente che già
non si sappia a che auto è destinato: è la cosiddetta
produzione just in time, espressione di solito non tradotta con la
quale si intende che nel corso dell’assemblaggio dell’automobile
ciascun componente arriva alla linea di montaggio nel preciso
momento in cui ce n’è bisogno e solo nella quantità
necessaria.
Il cambiamento di ottica si accompagna a molte altre innovazioni
organizzative. Ricordiamo ancora il principio
della auto attivazione, applicato alle macchine, agli operai e
alle linee produttive: in caso di errore della macchina che sta operando questa
si ferma automaticamente; allo stesso modo, in caso di anomalie
riscontrate in una fase di lavorazione manuale il lavoratore
interrompe la linea. I controlli di qualità non sono dunque
solo alla fine di una linea produttiva, che funziona sempre senza
interrompersi. L’autoattivazione permette di intervenire senza che
gli errori si ripetano e accumulino, con tempestività e alla
radice.
Il sistema Toyoya, meno sprecone e più capace di adattarsi al
mercato, richiede un gioco di squadra da parte di tutti. Macchine
automatiche, robot e macchine a controllo numerico sono utilizzate
perché permettono elasticità, ma fattori di
elasticità sono anche uomini addestrati a più compiti,
in grado di percepire e realizzare direttamente i continui
aggiustamenti necessari ai processi di produzione, e le squadre che
gestiscono autonomamente singole aree di produzione, coordinandosi
fra loro secondo i principi del just in time. Il sistema Toyota
richiede molta responsabilizzazione e partecipazione da parte di
tutti. La garanzia del posto di lavoro a vita e differenziali fra
paghe di operai e di dirigenti più bassi che in Occidente
sono due esempi delle motivazioni a partecipare che lo rendono
possibile.
Dopo aver seguito l’evoluzione del lavoro industriale dal taylorismo
alla fabbrica integrata, è possibile ancora porsi una
domanda: come queste evoluzioni hanno in sostanza migliorato le
condizioni di lavoro o le hanno peggiorate, lo hanno mediamente
arricchite o impoverite, quanto a contenuti, partecipazione,
professionalità? Su questo interrogativo ci sono state forti
discussioni e diverse ricerche che hanno cercato di verificare
ipotesi con dati. In conclusione, la tesi di una continua
dequalificazione del lavoro è stata smentita. Sembra infatti
che, con il passaggio alle nuove forme di organizzazione, in media
si possono riscontrare un miglioramento della qualificazione
professionale e maggiori ambiti di autonomia nello svolgimento delle
attività lavorative.
I successi ottenuti hanno sollecitato altrove imitazioni e
adattamenti. Espressioni come “fabbrica integrata”, “qualità
totale”, “produzione snella” sono entrate nell’uso per indicare
l’organizzazione “alla giapponese”. In realtà, sia
l’organizzazione che il sistema di motivazioni escogitati in
Occidente sono piuttosto degli ibridi, nati dall’innesto su
esperienze e condizioni precedenti. Del resto, anche il sistema
Toyota è in continua evoluzione: per esempio, i controlli di
linea secondo il principio della auto attivazione sono stati
alleggeriti ed è stato reintrodotto il controllo di
qualità finale. Con l’aggravarsi della crisi anche il
principio del lavoro “a vita” è stato accantonato per certe
categorie di dipendenti, pur rimanendo una cura particolare del
rapporto di lavoro.
3.4.1 La McDonaldizzazione
Se è certamente vero che l’industria è diventata
più flessibile e che c’è maggiore diversità e
una più vasta gamma di prodotti, l’idea che ci sia una
situazione di lavoro totalmente diversa per tutti i lavoratori
è una questione aperta. Ci sono ancora migliaia di lavoratori
che svolgono lavori ripetitivi nelle fabbriche. In alcuni casi, la
scelta del consumatore e la diversità hanno avuto come
conseguenza nuove forme di lavoro ripetitivo in luoghi differenti
del pianeta. L’alimentazione e la ristorazione ne sono un ottimo
esempio, con le imprese multinazionali di hamburger e fast-food che
si fanno concorrenza in ogni città e paese per soddisfare i
consumatori. Queste imprese hanno introdotto nella ristorazione di
massa metodi di produzione sul modello della fabbrica e sono
diventati imperi globali da miliardi di dollari di fatturato, con
filiali nelle maggiori città di tutto il mondo, da Mosca a
Melbourne, da New Delhi a New York.
Che cosa vuol dire lavorare per una impresa globale di fast-food?
Per il tipo di lavoro offerto (part time con orari flessibili) la
paga e le condizioni possono essere ragionevoli, perciò
rappresenta un’attrazione per lavoratori giovani, studenti e donne
con figli piccoli. Il turnover della manodopera è piuttosto
elevato, ma i nuovi assunti ricevono una formazione immediata. Tutti
i prodotti vengono preparati e parzialmente cotti in fabbriche
centralizzate, quindi distribuiti ai punti vendita al dettaglio per
il semplice stadio finale che consiste nel riscaldarli e preparare per il consumo. Si usa la
tecnologia per semplificare al massimo le mansioni, così la
richiesta di specializzazione da parte del lavoratore è
bassa.
I dipendenti ricevono una formazione “American – style”, con
tecniche di attenzione al cliente che impongono per esempio il
sorriso e le frasi di benvenuto e di commiato. “Buona giornata!” e
“Buon appetito” si possono sentire in una grande varietà di
lingue e di accenti nei vari paesi del mondo, anche se il sorriso
può essere fatto a denti stretti! La divisione del lavoro,
legata alla divisione della produzione, viene applicata alle
mansioni più semplici e a precise quantità di
produzione: i Big Mac hanno esattamente lo stesso identico gusto in
qualsiasi posto vengano acquistati.
George Ritzer (Ritzer, G., “Il mondo alla McDonald's”), indica che
c’è stata una “McDonaldizzazione” della società in
quanto questi metodi di produzione, stile manageriale e
comportamento dei dipendenti hanno contagiato tutti i tipi di
situazioni lavorative, dai bar al trasporto ferroviario,
dall’insegnamento all’assistenza sociale.
Praticamente in tutte le maggiori industrie nel mondo viene fornita
una precisa documentazione in manuali ufficiali che riportano le
mansioni e le procedure da seguire. Inoltre è prevalente
l’enfasi sul comportamento di benvenuto e l’attenzione al cliente.
La logica della “McDonaldizzazione” consiste nella crescente
espropriazione di attività, capacità e relazioni umane
al posto delle quali si introducono strumenti tecnologici
sofisticati. Il senso della razionalizzazione contenuta nel modello
McDonald’s è quello di garantire efficienza,
calcolabilità, prevedibilità e controllo del servizio.
L’efficienza del servizio viene garantita mediante “lo sforzo per
scoprire i mezzi migliori per conseguire qualsiasi fine desiderato”.
Così i lavoratori nei ristoranti di fast-food chiaramente
debbono lavorare in modo efficiente; per esempio, gli hamburgers
sono assemblati, e talvolta cotti, come nella linea di montaggio. I
clienti da parte loro desiderano, questo almeno ci si aspetta da
loro, acquistare e consumare i loro pasti in modo efficiente. La
consegna attraverso uno sportello è il modo migliore di
ottenere il cibo da parte dei clienti; di distribuirlo da parte
degli addetti.
La calcolabilità implica l’attenzione alla quantità.
Il tempo di lavoro è predeterminato per aumentare la
velocità del servizio. Gli addetti non gradiscono questi
aspetti dell’organizzazione del lavoro e si verifica un notevole
turn-over. Resistono i lavoratori part-time, teen-agers e,
generalmente, lavoratori non sindacalizzati. Solo la forza lavoro di
basso costo dura per un anno e più. La velocità del servizio va a scapito della
qualità del cibo. Infatti, per preparare un buon pasto
occorre tempo.
La prevedibilità è assicurata mediante una doppia ma
convergente procedura: una per gli addetti e l’altra per i clienti.
Perciò, quando il cliente entra, gli addetti domandano cosa
vuole ordinare. Da parte sua il cliente deve sapere cosa vuole o
deve essere rapidamente in grado di saperlo leggendo la lista.
Infine, ci si aspetta da lui che ordini, mangi, paghi e se ne vada
velocemente.
Il controllo è affidato alle tecnologie non umane. Nello
stesso tempo tali tecnologie controllano gli impiegati e li
sostituiscono. Ritzer (Ritzer, G., “Il mondo alla McDonald's”) fa
l’esempio della friggitrice automatica. Quando le patatine sono
fritte la friggitrice emette un suono e le tira automaticamente
fuori dall’olio bollente. I clienti da parte loro sono controllati
dagli addetti alle macchine. Il risultato è che la
friggitrice rende impossibile avere le patatine ben fritte.
Infine, l’irrazionalità della razionalità. Il processo
di razionalizzazione incorporato nei servizi McDonald’s e nei loro
simili, comporta una serie di irrazionalità sostanziali. Ad
esempio, il servizio del cibo da un chiosco è rapido ed
efficiente per McDonald’s; esso crea, però, una lunga fila di
persone o di macchine in attesa. Il servizio, inoltre, comporta una
riduzione della varietà e delle possibilità di
selezione, con notevoli effetti di omogeneizzazione del gusto e
della dieta.
La “McDonaldizzazione della società” comporta effetti
più ampi sulla qualità delle relazioni sociali. Per
questa ragione McDonald’s diventa un simbolo di un processo di
disumanizzazione delle relazioni sociali. Il “modello McDonald’s” si
estende infatti alla cura della persona, alla salute (i McDoctors),
all’alta educazione, all’intrattenimento, alle vacanze, alla
costruzione delle abitazioni. Il senso di questa applicazione del
modello McDonald’s alla gestione della vita quotidiana degli
individui è quello della creazione di una weberiana “gabbia
d’acciaio”, nella quale alla fine restano rinchiusi pure coloro che
per profitto e convenienza l’hanno promossa.
La sempre più crescente diffusione del modello McDonald’s crea effetti di omogeneità non solo nella vita delle persone, ma anche nel mondo vegetale. La riduzione delle varietà, infatti, colpisce anche le materie prime (soprattutto le patate nel caso di McDonald’s) che devono essere di qualità e grandezza prefissata per poter entrare nel circuito produttivo. Gli agricoltori (quando la produzione agricola non è parte della catena di un grande marchio) sono costretti a selezionare certe varietà a scapito di altre, se vogliono accedere al mercato e realizzare un reddito.