Luigi Carlo Viero


DAL FORDISMO AL POST- FORDISMO


(Tesi di laurea in Ingegneria gestionale, 2011)



Indice

Introduzione   

Capitolo 1: Il Taylorismo, idea di base per la nascita del Fordismo   

Capitolo2: Henry Ford e il Fordismo   

    2.1    Henry Ford e il fordismo americano  
    2.2    Fordismo in Europa  
    2.3    Fordismo in Unione Sovietica   

Capitolo 3: La crisi del fordismo e il post-fordismo   
    3.1    Le cause della crisi del modello fordista   
    3.2    La reazione alla crisi   
    3.3    Il post-fordismo   
    3.3.1    La crisi del fordismo-taylorismo   
    3.3.2    L’avvento della produzione snella   
    3.3.3    Il contributo del modello giapponese   
    3.3.4    La riduzione delle dimensioni aziendali   
    3.3.5    Le trasformazioni strutturali dell’impresa   
    3.3.6    Mercati del lavoro e struttura professionale   
    3.3.7   
    3.3.8    I nuovi contenuti del lavoro   
    3.3.9    I nuovi rapporti di lavoro   
    3.3.10    Post-fordismo e società dei lavori   
    3.4    Post-fordismo nel caso Toyota   
    3.4.1    La McDonaldizzazione   

INTRODUZIONE.

Secondo molti esempi storici, una grossa crescita urbana di un paese vede, come conseguenza principale, una contestuale grossa crescita economica del paese stesso. Negli Stati Uniti, per esempio, a partire dal 1700 fino ai giorni nostri, per ovvi motivi legati alla crescita prepotente della popolazione del dopo colonizzazione, il tasso di urbanizzazione è passato da un 12 % ad un 66 %, passato da circa 12 milioni a oltre 300 milioni di abitanti.
Una così imponente urbanizzazione non può che ripercuotersi sulla necessità di creare, attorno ad una società del genere, un insieme di sistemi che collaborino a una continua crescita, ma, soprattutto, permettano di sostenere, nel fabbisogno giornaliero, ogni singolo individuo di una società che cresce nel breve periodo in modo sensibile.
È quanto accadde, appunto, negli Stati Uniti agli inizi del ‘900; un aumento così grande da richiedere la creazione di metodi nuovi di produzione che, ovviamente, nei primi anni di tale sviluppo non esistevano ancora, un nuovo metodo di organizzazione civile ma anche lavorativo, una continua innovazione tecnologica che permetta di sostenere e fornire i servizi necessari.  Agli inizi del ‘900 furono invece altri i punti cardine per lo sviluppo della civiltà e per un suo miglior sostentamento: lo sviluppo di leggi e regolamenti, la creazione di posti di lavoro legato all’industrializzazione, e via via tutte quelle linee guida che per una civiltà, una volta diventata numerosa, ha bisogno di avere per permettere la sua sopravvivenza.

Ecco allora, nei primi anni, la nascita dei primi centri industrializzati, dislocati in punti strategici della nazione; col passare degli anni e dei secoli, poi, le prime industrie si rivelavano inappropriate, in quanto la produzione dei beni, di qualsiasi tipo ma principalmente quelli alimentari, risultava inadatta per affiancare e supportare il fabbisogno che cresceva via via negli anni.

Qualche profonda innovazione, nell’ambito industriale, si ebbe allora per poter fornire in modo sufficiente tutti i servizi e i beni che la popolazione presentava; dal XX secolo, superate le necessità primarie, le industrie cominciarono a produrre beni per quel tempo “di lusso”, e in particolare, dopo le invenzioni dei motori e di altri beni secondari, delle automobili che, prime fra tutti i prodotti, spinsero per le grandi innovazioni tecnologiche industriali che poi, col tempo, si espansero e innovarono anche tutti gli altri settori. E, a fianco delle innovazioni tecnologiche, non mancarono ovviamente le innovazioni organizzative, per produrre sempre di più in tempi minimi e al minimo costo per l’azienda.

Tra le innumerevoli trasformazioni in ambito industriale verificatesi, allora, sul finire del secolo diciannovesimo ce ne sono alcune di particolarmente importanti che segnarono la storia industriale, tra queste si segnalano le innovazioni organizzative che applicano le idee di F. Taylor. Egli, infatti, creò le basi per una "organizzazione scientifica del lavoro", con lo scopo di rispondere  alle  esigenze  espresse  dai  nascenti  gruppi  industriali  americani,  prima  fra  tutte un’utilizzazione più razionale della grande massa di forza lavoro priva di ogni qualifica.

Il principio fondamentale su cui si basava il "Management Scientifico" di Taylor consisteva nella rigida divisione fra lavoro intellettuale e manuale e nella parcellizzazione del lavoro manuale. Come egli stesso scrisse: "L'attività di studio e di pianificazione della produzione spetta esclusivamente ad un apposito ufficio; il compito degli operai deve essere limitato all'esecuzione di mansioni predeterminate, scomposte con criteri scientifici in operazioni semplici e banali eseguite con utensili standardizzati ed in tempi cronometricamente stabiliti". L'obiettivo della parcellizzazione del lavoro fu di limitare o annullare la discrezionalità dei vecchi sistemi di lavoro che, secondo Taylor, rappresentava la fonte maggiore di spreco e di inefficienza.

Questi  concetti  trovarono  applicazione  pratica  nella  produzione  di  massa,  al  cui  sviluppo contribuì in maniera decisiva l'industriale Henry Ford. Questo nuovo metodo di produzione, nonostante  abbia  avuto  comunque  una  sua  crisi  come  descritto  nella  presente  tesi,  segnò fortemente la storia industriale e si propose come punto di partenza per ulteriori modifiche e innovazioni che portarono ad modelli che tutt’ora si utilizzano in aziende di tutto il mondo. Questa tesi, appunto, si propone di descrivere le fasi della nascita di questa corrente industriale individuandone le innovazioni e le modifiche rispetto ai metodi utilizzati nelle industrie prima della sua nascita, i punti chiave e le idee base che la portarono in quegli anni ad essere la miglior strategia. In seguito verrà trattato anche il suo decadimento, quindi il post-fordismo, le cause per le quali questo modello decadde, descrivendo in particolare le nuove strategie e organizzazioni di produzione che presero piede negli anni a seguire.

Capitolo 1

Il Taylorismo, idea di base per la nascita del Fordismo

Per ben capire il funzionamento del Fordismo, è necessario rifarsi alla teoria che permise la sua nascita e la sua applicazione, nonché la sua successiva espansione, ovvero il Taylorismo.
[rect]Verso la fine del 1700 Adam Smith (1723-1790), uno dei fondatori della scienza economica moderna, individuò diversi vantaggi offerti dalla divisione del lavoro in termini di accresciuta produttività.
Nella sua opera "La ricchezza delle nazioni" del 1776, Adam Smith mostra come scomponendo la produzione in una serie di operazioni elementari si ottengono un quantitativo di prodotto per unità di tempo nettamente maggiore: l'esempio proposto è quello degli spilli.
Scomponendo la produzioni di spilli per dieci operai, ciascuno adibito a mansioni specializzate e diverse, il tasso di produttività aumentava da 20 a 4.800 spilli
giornalieri: ciascun lavoratore produceva una quantità di merce 240 volte superiore a quello di un operaio isolato.
Le ragioni di tale incremento sono da ricercare principalmente nell'aumento dell'abilità manuale (specializzazione) di ciascun lavoratore e nel minore tempo per passare da una fase all'altra del lavoro.
Ad Adam Smith non sfugge tuttavia come l'estrema divisione del lavoro, all'interno di un ciclo produttivo, comporta anche effetti negativi. L'eccessiva semplificazione e ripetitività dei gesti non sviluppa l'immaginazione riducendo, nel contempo, lo sviluppo intellettuale del lavoratore.
Le osservazioni compiute da Adam Smith, trovarono un loro compiuto sviluppo sessant'anni più tardi ad opera di Frederick Winslow Taylor.

Il Taylorismo, appunto, è stata una teoria economica dell'organizzazione scientifica del lavoro, elaborata all'inizio del Novecento dall'ingegnere statunitense Frederick W. Taylor (1856-1915)
che la applicò nell'industria metallurgica Bethlehem Steel Co. e la illustrò in alcuni importanti scritti.
Essa si fondava sul principio che la migliore produzione si determina quando a ogni lavoratore è affidato un compito specifico da svolgere in un determinato tempo e in un determinato modo. Qualsiasi operazione del ciclo produttivo industriale può dunque essere scomposta e studiata nei minimi particolari: è questo, secondo Taylor, il compito dei manager, che sulla base delle verifiche empiriche devono stabilire qual è il compito specifico di ogni lavoratore, in quanto tempo lo deve svolgere e in che modo lo deve svolgere.

Così è possibile arrivare alla razionalizzazione del ciclo produttivo, ossia alla finalizzazione a criteri di ottimalità economica, attraverso l'eliminazione degli sforzi inutili, l'introduzione di sistemi di incentivazione, la gerarchizzazione interna e la rigorosa selezione del personale.

L'applicazione pratica di questi principi aprì la strada alla prima catena di montaggio: di fatto dunque modificò tutta l'organizzazione del lavoro nelle industrie. Nel nuovo sistema produttivo fu la figura dell’operaio che ne risultò particolarmente trasformata, cui il taylorismo tolse ogni tipo di discrezionalità: mentre in precedenza egli poteva scegliere i tempi e i modi del suo lavoro, con l'introduzione delle nuove procedure fu costretto a adattarsi ai ritmi e ai metodi scelti dai dirigenti. Proprio per questo il taylorismo è stato fin dall'inizio duramente contestato dal movimento dei lavoratori e dai sindacati. Ciò che dovrebbe, secondo Taylor, spingere gli operai ad adattarsi alle nuove condizioni di lavoro è l'incentivo economico reso possibile dalla maggiore produttività: ogni qual volta l'operaio riesce a completare il proprio compito in modo esatto ed entro il tempo prestabilito, egli percepisce una maggiorazione variante dal 30 al 100 per cento rispetto alla propria paga base. Anche questa versione strettamente economicista del lavoro è stata contestata dai sindacati, che d'altra parte Taylor, tutto proteso verso la massima efficienza e il massimo profitto, considerava inutili, nocivi e destinati alla dissoluzione.

Parlare oggi di Taylorismo evoca in ogni persona di media cultura, un’idea negativa, che designa lavori ripetitivi, parcellari e standardizzati. Nel complesso, si può dire che con le sue proposte Taylor si prefiggeva non solo una rivoluzione nel modo di lavorare ma anche e soprattutto una rivoluzione nel modo di comandare.
Mentre in pieno 800 le fabbriche che superavano il migliaio di dipendenti erano relativamente rare, verso la fine del secolo vi fu un’espansione produttiva. Così l’espansione dell’industria richiedeva un reclutamento sempre più largo di manodopera. I figli del proletariato industriale formatosi negli anni precedenti non erano più sufficienti a soddisfare il crescente bisogno di forza lavoro. Si ricorse quindi al reclutamento di masse contadine.

Masse di ex contadini polacchi, irlandesi, italiani si aggiunsero a neri, messicani, portoricani dando luogo a un’importante offerta di lavoro “dequalificato”. Quando si parla di dequalificazione di massa provocata dal taylorismo si pensa in genere al mestiere perduto degli operai qualificati.
Va anche osservato che la manodopera era estremamente mobile, sia perché le imprese non garantivano alcuna sicurezza di impiego, sia perché i lavoratori erano continuamente alla ricerca di un lavoro migliore.

La strategia su cui puntare per battere la concorrenza era vista nella riduzione dei costi, più che nella qualità e nell’innovazione dei prodotti. Si aveva così la certezza che indovinata la formula di un prodotto, la sua fabbricazione poteva continuare per anni senza grosse varianti.

Il sistema con cui si otteneva la produzione in fabbrica era largamente conosciuto come Drive System (ovvero sistema della spinta) nel quale gli operai erano continuamente spinti a muoversi più in fretta e a lavorare più duramente.

Taylor intende il suo metodo come scientifico perché composto da un certo numero di principi generali che possono essere applicati in varie maniere. Egli vuole attuare una completa rivoluzione mentale che dovrà coinvolgere tutte le componenti sociali impegnate nel lavoro di fabbrica, dal padrone all’ultimo manovale.
Per aumentare la produttività occorre aumentare il rendimento della manodopera, e quindi affidarsi all’ O.S.L. (organizzazione standardizzata del lavoro); infatti l’equazione maggiore rendimento è uguale a maggiore benessere per tutti.

Inoltre Taylor, per spiegare il rallentamento della produzione, sostiene che la maggioranza degli uomini hanno una istintiva tendenza a prendersela comoda, e questa tendenza si traduce in un rallentamento sistematico della produzione. Il lavoro operaio, egli sostiene, è talmente vasto e complesso che occorre uno studio approfondito da condurre con metodologie scientifiche.

Infatti una moderna direzione d’impresa non può limitarsi a sollecitare la produzione fatta con metodi tradizionali, lasciando che gli operai se la organizzano a loro piacimento. Per ottenere risultati ottimali, una moderna direzione d’impresa deve assumere su di sé gran parte dei compiti che fino ad allora venivano lasciati agli operai. Questi ultimi devono soltanto eseguire in modo scrupoloso e sistematico il Task (obiettivo), cioè tutto ciò che la direzione ha stabilito.

L’obiettivo di Taylor è quello di conseguire un aumento della produzione di almeno un ordine di grandezza rispetto agli standard precedenti. Il nuovo metodo che Taylor applica è il Task Management. Ogni giorno verrà stabilito un determinato ammontare di lavoro, che gli operai dovranno eseguire senza apportarvi diminuzioni né aumenti.
L’immenso vantaggio del Task Management è, secondo Taylor, quello di ottenere un lavoro standardizzato e uniforme con una resa prevedibile e con un rendimento doppio talvolta triplo di quello ottenuto con i vecchi sistemi. La forza innovativa di questo principio può essere ricondotta alla rigida separazione tra Progettazione ed Esecuzione del lavoro.

Possiamo dunque evidenziare questa differenza: mentre nel “Cottimo” è il lavoratore a darsi da fare per fare più in fretta, nell’OSL il lavoratore deve eseguire rigorosamente quanto è prescritto.
La paga più alta va quindi considerata come un premio di rendimento che percepirà solo chi esegue per intero la produzione fissata secondo i metodi previsti. In caso di mancato raggiungimento del Task vi sarà una diminuzione del salario.
L'O.S.L si presenta come una costruzione organica volta ad affermare il primato dell'organizzazione d'impresa. Esso consiste nel presupposto che per ogni problema esiste una soluzione ottimale che può essere raggiunta soltanto mediante l'adozione di metodi scientifici di ricerca .

Per Taylor , la via migliore (One Best Way), si pone come un imperativo universale a cui devono sottostare sia i dipendenti sia i datori di lavoro. Con l'O.S.L., sostiene Taylor, il potere personale e l'arbitrio scompaiono e ogni argomento grande o piccolo diventa un problema per la ricerca scientifica. Egli, in nome della scienza, afferma il primato dell'organizzazione.

L'idea di Taylor consisteva nel superare l'amatorialità dei manager suoi contemporanei: attraverso lo studio scientifico del lavoro e la cooperazione tra dirigenza qualificata e operai specializzati riteneva infatti possibile organizzare un proficuo rapporto, in cui ambo le parti avrebbero ottenuto vantaggi. La sua ipotesi consisteva essenzialmente nel supporre l'esistenza di una sola "via migliore" ("one best way") per compiere una qualsiasi operazione.

La teoria di Taylor si occupò inizialmente di un ambito prevalentemente produttivo. Il suo metodo prevedeva lo studio accurato dei singoli movimenti del lavoratore per poter ottimizzare il tempo di lavoro secondo i seguenti passi principali:
./ considerare un gruppo di 10/15 operai, versati nel lavoro da analizzare;
./  studiare l'esatta serie dei movimenti componenti l'operazione che ogni operaio applica allo stato attuale;
./  determinare il tempo necessario per ogni movimento e determinare se esiste una via più veloce per compierlo;
./  eliminare ogni movimento lento o inutile;
./ elencare la serie ottima dei movimenti così determinata.

Taylor propose, inoltre, di applicare una riorganizzazione anche nella direzione dello stabilimento, con la creazione di un "dipartimento programmazione" e la creazione di una serie di otto capi funzionali che presidiassero le diverse funzioni aziendali:
./  addetto agli ordini di lavoro e ai cicli;
./  addetto alle schede di istruzione;
./  addetto ai tempi e ai costi;
./ caposquadra;
./  addetto alla velocità di esecuzione;
./ addetto alla manutenzione;
./ ispettore;
./  addetto ai rapporti disciplinari.

Riassumendo, le ipotesi fondamentali del Taylorismo furono:
    1.    Il task management o organizzazione per compiti;
    2.    Il reclutamento e la selezione scientifica dei lavoratori;
    3.    L’instaurazione di rapporti collaborativi tra direzione e manodopera;
    4.    La ristrutturazione della direzione aziendale, con la separazione tra le fasi di ideazione e esecuzione.

L'ipotesi della "One best way" venne tuttavia criticata, e tra le critiche quella che sono dovute al fatto che il suo metodo sia altamente analitico ma scarsamente sintetico, in quanto guarda pochissimo al coordinamento dell'attività degli operai.
Taylor si preoccupò di migliorare l'efficienza industriale, ma prestò scarsa attenzione  alla vendita dei prodotti realizzati.

Il Taylorismo rappresentava un'organizzazione scientifica del lavoro con l'obiettivo di intensificare la produttività del lavoro. Essa si basava su una serie di principi che dovevano essere necessariamente applicati dalla direzione d'impresa. Questa razionalizzazione produttiva implicava dunque un profondo ripensamento nel modo di lavorare: mettere in atto un processo di produzione continuo e progressivo comportava uno straordinario sforzo organizzativo, affidato ai tecnici e agli ingegneri in grado di pianificare l'avanzamento del prodotto attraverso i reparti.
Il Fordismo rappresentò invece, per certi versi, un superamento dell'organizzazione scientifica del lavoro (scientific management) che metteva l'operaio nella condizione di lavorare al meglio,
senza più l'illusione tayloristica di insegnargli l’ipotesi "one best way". La produzione di massa con il sistema di Ford diede da subito risultati eccezionali, tagliando enormemente i tempi e i costi di produzione e quindi i prezzi di vendita. Il passaggio al Fordismo, il quale aveva comunque tra i suoi punti cardine gli ideali Tayloristi, prevedeva un totale adattamento di tale pensiero alla realtà delle industrie, introducendo poi altri concetti e differenziandosi dal Taylorismo proprio per la sua tendenza a essere direttamente e semplicemente impiegabile nelle industrie dell’epoca.

Capitolo 2


Henry Ford e il Fordismo

Come già anticipato in precedenza, l’avvento di nuovi metodi organizzativi del lavoro nacquero in seguito a numerosi cambiamenti nella società e dopo determinate condizioni che si imposero nelle “industrie” del tempo.

I fattori che hanno permesso il superamento della produzione artigianale e l’affermazione della produzione di massa su larga scala sono:
./ Sviluppo di nuove tecnologie, ossia macchine specializzate (o dedicate) capaci di compiere una sola o un numero limitato di operazioni, adatte alla realizzazione di prodotti standardizzati;
./ Aumento delle dimensioni delle imprese, che  assumono una struttura  verticalmente integrata, caratteristica fondamentale della produzione di massa;
./ Aumento della disponibilità di lavoratori poco qualificati (emigranti e persone che lasciano le campagne);
./ Stabilità e prevedibilità dell’ambiente economico e del mercato (che favoriva la produzione di beni di massa).
I principali fattori che vedevano svantaggiosi i metodi di lavoro tradizionale rispetto agli ideali Tayloristi-Fordisti erano:
./  Assenza di figure manageriali vere e proprie;
./ Assenteismo e lentezza dei processi lavorativi;
./ Carenza di metodi organizzativi appropriati.

Pertanto l’avvento delle nuove idee di organizzazione miravano principalmente ad ottenere una politica aziendale che potesse, in qualche modo, eliminare gli svantaggi elencati poco sopra. Il Taylorismo, descritto nel capitolo 1, e la sua applicazione pratica con il Fordismo ebbe sicuramente un ruolo importante per il passaggio alla nuova corrente.
La differenza tra Fordismo e Taylorismo risiede nel fatto che, principalmente, il Fordismo ricorse maggiormente, anche per ragioni storiche, alla tecnologia e quindi alla trasformazione delle operazioni di montaggio, che trova nella catena di montaggio lo strumento della sua realizzazione. Si ha quindi una visione di questo nuovo ideale come più concreto più applicabile e maggiormente competitivo rispetto a quello che, invece, poteva sembrare soltanto un metodo scientifico.

Il fordismo si può definire come il prodotto congiunto di:
./ nuove modalità di organizzazione della produzione (taylorismo);
./  un modello di mercato radicalmente rinnovato (consumo di massa da parte di produttori diretti).
   

2.1    Henry Ford e il fordismo americano


Ingegnere e progettista, Henry Ford nasce a Dearborn, Michigan (USA) il 30 luglio 1863. Figlio di agricoltori di origine irlandese, dopo aver ricevuto soltanto una formazione elementare, inizia a lavorare come macchinista tecnico in un'industria di Detroit. Non appena i tedeschi Daimler e Benz cominciano a immettere sul mercato le prime automobili (verso il 1885), Ford si interessa all'invenzione e incomincia a costruire i propri prototipi.
Tuttavia, i primi falliscono in fase di sperimentazione a causa di un'iniziale scarsa conoscenza della meccanica.
Il suo successo arriva con il suo terzo progetto, introdotto nel 1903: la Ford Motor Company. L'idea nuova è quella di costruire automobili semplici e poco costose destinate al consumo voluminoso della famiglia media americana. Fino ad allora l'automobile era considerata un oggetto di fabbricazione artigianale e dal costo proibitivo, destinato ad un pubblico molto limitato. Con il modello T, Ford rende l'automobile un oggetto alla portata della classe media, introducendola nell'era del consumo di massa; con essa contribuisce ad alterare drasticamente le abitudini di vita e a mutare l'aspetto delle città, dando vita a quella che da molti è stata definita "la civiltà dell'automobile" del secolo XX.
La chiave del successo di Ford risiede nella procedura per ridurre i costi di fabbricazione: la produzione in serie, ben nota anche come fordismo. Questo metodo, ispirato dal metodo di lavoro delle macellerie di Detroit utilizzato da Ford e i suoi soci per la prima volta nel 1913, consistite nell'installare una linea di produzione con cinghie di azionamento e guide per fare scorrere il telaio dell'automobile fino alle posizioni dove gruppi successivi di operai con mansioni specifiche si occupano delle varie fasi di lavorazione, fino a arrivare a rifinire completamente l'automobile. Il sistema delle parti intercambiabili, già introdotti molto tempo prima in fabbriche americane delle armi e degli orologi, abbassano ulteriormente il prezzo di produzione e riparazioni.

La fabbricazione a catena, con cui Ford rivoluzionerà l'industria dell'automobile, è una scommessa  pericolosa,  perché  l'unica  condizione  di  successo  possibile  è  che  sussista  una
richiesta in grado di assorbire la sua voluminosa produzione; le dimensioni del mercato nordamericano offrono fortunatamente una struttura propizia, ma in più Ford valuta correttamente        la        capacità        di        acquisto        dell'uomo        medio        americano. I costi di addestramento del lavoro manuale vengono ridotti, tanto che la dequalificazione del lavoro manuale elimina l'attività scomoda di rivendicazione dei sindacati interni (basati sulla qualifica professionale dei relativi membri), che sono le uniche organizzazioni sindacali che a quel tempo avevano forza negli Stati Uniti.

Allo stesso tempo, la direzione dell'azienda acquisisce un controllo rigoroso sul tasso di lavoro degli operai, regolato dalla velocità di "stampo" dei telai fino alla linea di produzione. La riduzione dei costi consente tuttavia a Ford di elevare gli stipendi per gli operai, ottenendo un ottimo tornaconto a livello sociale: con il relativo stipendio di cinque dollari al giorno si assicurava un gruppo soddisfatto, per niente in conflitto con l’imprenditore, al quale poter imporre completamente rigorose norme di comportamento, sia all'interno che all'esterno della fabbrica.
Gli operai di Ford entrano, grazie agli alti stipendi che ricevono, nella soglia della classe media, diventando consumatori potenziali del prodotto, come le automobili, che Ford vende. Grazie a questi metodi di impresa prende piede negli Stati Uniti una vera e propria trasformazione sociale.

Nel 1924, anno successivo alla produzione record del famosissimo modello T (introdotto nel 1908 e modello più venduto nella storia degli autoveicoli) si assiste all'apertura del Ford Airport a Dearborn, voluto da Edsel Ford, primogenito di Henry, che investe personalmente nella Stout Metal Airplane Company. Nel 1931 apre la Dearborn Inn, uno dei primi alberghi aeroportuali al mondo. Sono i primi passi della Ford nel settore dell'aviazione.

Nel maggio del 1943 Edsel, che aveva assunto negli anni '20 la presidenza del gruppo Ford, muore, lasciando vacante il posto di presidente, posto che viene temporaneamente assunto ancora da Henry. Questi però è ormai malato (ha un primo infarto nel 1938). Mantiene le redini fino a quando il nipote Henry II finisce di prestare servizio in Marina e assume la massima carica, sotto la supervisione di Harry Bennet, consigliere e fedele compagno di avventure di Henry Senior.

Henry Ford, al di là della vita aziendale, riorienta i suoi sforzi verso altre cause di minor successo: naufraga in primo luogo negli sforzi di supporto ai pacifisti contro la I  guerra mondiale (1914-1918); viene presto screditato anche per altre meno encomiabili campagne, come la propaganda anti-semita che si sparge negli anni '20 o nella lotta contro i sindacati negli anni '30.

Si ritira a vita privata nel 1945 e muore nella notte del 7 aprile 1947 nella sua tenuta di Dearborn per un'emorragia cerebrale tra le braccia della moglie, consegnando alla leggenda le sue invenzioni che ancora oggi sfrecciano sulle strade di tutto il mondo.

I concetti elaborati da Taylor, dunque, trovarono applicazione pratica nella produzione di massa, al cui sviluppo contribuì in maniera decisiva l'industriale Henry Ford. La fabbrica di automobili realizzata da Ford incorporava una serie di innovazioni legate tra loro che cambiarono radicalmente il modo tradizionale di produzione, consentendo di abbattere i costi rispetto a quelli delle fabbriche tradizionali.

Oltre all’organizzazione scientifica del lavoro, le innovazioni fondamentali per l’aumento della produttività furono:
./ la progettazione dell’automobile in funzione delle esigenze produttive;
./  l’introduzione dei principi dell'intercambiabilità completa dei pezzi e della facilità di incastro.

Divenne allora possibile fornire al consumatore prodotti in grande quantità, poco differenziati e a prezzi abbordabili. Il "modello T" fu la prima automobile realizzata secondo i nuovi metodi. Essa fu prodotta in un’unica versione di color nero e venduta corredata di un libretto  di istruzioni per le riparazioni e la manutenzione, compilato immaginando che l'acquirente tipo fosse un contadino con pochi attrezzi e con una scarsa conoscenza meccanica.

Prima dell'affermazione dei principi sopra esposti e dello sviluppo conseguente della linea di flusso (vedi sotto), le macchine nelle fabbriche venivano disposte in base alla loro funzione. Ad esempio, i torni venivano raggruppati in un'area, le molatrici in un'altra e i trapani in un'altra ancora. Per produrre era necessario spostare i materiali e i semilavorati attraverso la fabbrica in lotti (lotto = insieme di prodotti uguali), nelle diverse zone dove subivano le necessarie lavorazioni. Il layout era dunque di tipo funzionale. Ad ogni prodotto del lotto veniva attuata la lavorazione richiesta, e poi il lotto nel suo insieme veniva spostato verso la successiva lavorazione. L'aggiunta di nuove macchine non aumentava il tasso di produzione nell'unità di tempo (la produttività), ma solo la sua scala.
L'aumento del traffico e delle scorte di prodotti semilavorati creava inoltre diseconomie e aumentava la complessità della programmazione. Per aumentare l'efficienza fu necessario sostituire il layout basato sul raggruppamento di macchine funzionalmente simili con un layout basato su un flusso sequenziale (layout lineare). L'idea fu quella di disporre le macchine nell'ordine delle operazioni che esse consentono, in modo da non dover trasportare i lotti da un reparto ad un altro.
In questo modo sono evitati trasporti e scorte intermedie, in quanto i prodotti si muovono direttamente da una macchina all'altra.

Si arrivò alla fine dell’ ‘800 a collegare macchine specializzate funzionalmente distinte in una singola macchina complessa che prendeva il materiale a un estremo e spingeva il prodotto lavorato all'altro estremo.
Le prime tecnologie di processo continue furono realizzate nelle industrie della raffinazione e della distillazione che utilizzavano gas e materiali liquidi. Poi fu creata una macchina che rivoluzionò la produzione di sigarette. Mentre prima un lavoratore altamente  specializzato poteva produrre 3.000 sigarette al giorno, una macchina Bonsack riceveva il tabacco su un nastro, lo prendeva, lo comprimeva, lo avvolgeva nella carta e depositava le sigarette all'altro estremo. Ogni macchina produceva 120.000 sigarette al giorno. Il costo di 1.000 sigarette scese da 60 a 10 centesimi.

Non sorprende che le prime due imprese ad adottare la macchina di Bonsack dominarono l'industria delle sigarette nei loro paesi (rispettivamente l'Inghilterra e gli Stati Uniti).

La progettazione di complesse macchine integrate capaci di aumentare radicalmente la produttività divenne una sfida per gli ingegneri meccanici in tutte le industrie. Henry Ford ebbe l'idea rivoluzionaria di applicare il principio del flusso a un'industria che richiedeva l’assemblaggio di un gran numero di componenti complessi.
Nella primavera del 1913 gli ingegneri di Ford segmentarono il processo di produzione del magnete in 29 operazioni complementari attuate da 29 diversi lavoratori. Nel processo ciascuna operazione fu meccanizzata e il flusso dei materiali fu accelerato. Il tempo necessario a produrre un magnete scese da 20 a 13 minuti. Esso fu prodotto su una linea di assemblaggio che però non si muoveva. I lavoratori stavano allineati lungo un piano di scorrimento mentre svolgevano ciascuno sempre la stessa operazione su ogni prodotto e poi lo spingevano avanti al lavoratore successivo per il compito seguente.
Il caso del magnete suggerisce una relazione positiva tra complessità del processo e dimensione dell'impianto. Mentre con il vecchio metodo al banco di lavoro un'officina con una persona poteva assemblare il magnete, la massimizzazione del tasso di output sulla linea a flusso comportava 29 operazioni connesse e 29 lavoratori affiancati. Inoltre la logica della massimizzazione della produttività comportava grandi investimenti in macchinari e meccanismi di trasferimento.

Nel giro di un anno gli ingegneri di Ford applicarono ed estesero il principio della linea di flusso (flowline) all'assemblaggio dei motori e delle trasmissioni e allo stesso assemblaggio finale. Nell'estate del 1913, in un esperimento, il telaio di un automobile di modello T fu spinto lentamente attraverso la fabbrica, e il tempo richiesto per l'assemblaggio fu diminuito da 13 ore a poco meno di 6. Nel gennaio 1914 fu installato il primo nastro trasportatore in movimento che faceva passare l'automobile davanti agli operai fermi. Ciò diminuì ulteriormente il tempo richiesto per l'assemblaggio da 6 ore a 1 ora e 30 minuti. Contestualmente la specializzazione dei compiti portò il ciclo di lavoro medio di un montatore fermo alla catena a 1 minuto e 19 secondi.

Tale parcellizzazione comportava un livello di addestramento insignificante, il che consentiva di utilizzare una manodopera (spesso costituita da immigrati) priva di qualsiasi istruzione e per lo più incapace di comprendere l’inglese. La nuova organizzazione permise un aumento straordinario della produttività del lavoro, non solo perché la totale familiarità con una singola operazione permetteva all'operaio di eseguirla più rapidamente, ma anche perché era stata raggiunta ormai la completa intercambiabilità dei pezzi. Nel caso del modello T, la produttività aumentò di 11 volte.

Ford era riuscito a realizzare anche l'intercambiabilità della manodopera, portando agli estremi l'idea della divisione del lavoro. L'operaio non doveva ordinare i pezzi, procurarsi attrezzi, ripararli, controllare la qualità del suo lavoro o anche solo capire ciò che il suo vicino stava facendo. Ogni elemento di discrezionalità era stato cancellato, in funzione del controllo e della produttività. Il contenuto del lavoro era stato reso infimo e l’alienazione che ne risultava era totale. Inoltre gli operai erano continuamente posti sotto tensione dalla velocità della linea, che incalzava i lavoratori. Questi sono gli aspetti che in genere portano a esprimere giudizi negativi sul sistema di produzione adottato da Ford.
Tuttavia, grazie agli aumenti di produttività, egli fu in grado di aumentare drasticamente i salari, per trattenere i lavoratori. Il successo gli consentì inoltre di aprire nuovi stabilimenti, offrendo così molti nuovi posti di lavoro.
Da allora i livelli salariali iniziarono a essere direttamente correlati ai guadagni di produttività consentiti dalle nuove tecniche di produzione di massa. I sindacati cominciarono ad assumere un importante ruolo istituzionale nel promuovere la partecipazione dei lavoratori alla distribuzione dei frutti del progresso tecnico. Quindi, in una situazione spesso vicina alla piena occupazione, si vennero a creare le condizioni ideali per la formazione di una domanda di massa da parte di una classe sociale che vedeva aumentare il suo potere d'acquisto diventando in grado di assorbire i prodotti standardizzati delle fabbriche fordiste.

Il fordismo non è stato quindi solo un modo di produzione, ma anche un modello di regolazione sociale in cui si sono saldati, in un circuito virtuoso, produzione di massa e consumo di massa, così che le potenzialità offerte dal nuovo sistema tecnico-produttivo hanno potuto pienamente dispiegarsi.

Il modello produttivo appena descritto non si presta a essere rappresentato in termini di funzione di produzione. Non ha senso pensare di misurare di quanto aumenta il prodotto totale aumentando le ore di lavoro (o il numero di lavoratori) applicate ad una quantità fissa di capitale.

Il rapporto tra lavoro (L) e capitale (K) non è flessibile, ma determinato da una certa tecnologia produttiva. Formalmente, L/K è costante nel breve periodo. Ciò implica che non sia possibile misurare la produttività marginale del lavoro, ma solo la produttività media, nel contesto della produzione industriale moderna, in quanto non si può far variare L tenendo fisso K e misurare il contributo particolare delle successive dosi di L.
Se la domanda nel breve periodo non consente un pieno utilizzo delle capacità produttive (ossia delle capacità delle fabbriche di produrre certi livelli di produzione), si diminuiscono le ore in cui lavoro e capitale insieme sono attivi e di conseguenza cala il livello produttivo. Inversamente si opera quando la domanda aumenta.
In generale nel corso del tempo (quindi nel lungo periodo) vengono apportati miglioramenti tecnologici che consentono di ridurre le ore di lavoro impiegate e aumentare la produttività media. E’ il livello della produttività media che determina la capacità delle imprese di pagare salari più o meno alti: in altre parole, nel lungo periodo i salari sono legati alla produttività
media del lavoro, che a sua volta è determinata dalle tecnologie e dai metodi organizzativi impiegati.

Il concetto di funzione di produzione e di flessibilità nella combinazione dei fattori nel breve periodo può avere senso per la produzione di mele o per la produzione agricola più in generale. Se voglio aumentare il raccolto di mele, impiego più lavoratori e faccio raccogliere anche le mele più difficili da raccogliere, per cui la produttività marginale è decrescente.

Tali concetti possono avere senso anche nella produzione di nuove conoscenze. Se si vuole intensificare la guerra al cancro, si attua un crash program, finanziando moltissimi programmi di ricerca e quindi anche quelli meno interessanti presentati dai ricercatori meno brillanti. Oppure nell’edilizia, nel caso di piccole imprese artigianali che operano con un’organizzazione di pochi addetti non codificata e tecniche produttive rudimentali.
In questi casi può non essere irrealistica l’idea distinguere il contributo marginale del lavoro e misurarne la produttività marginale, che sarà decrescente. Sono casi in cui non è applicata una organizzazione del lavoro prefissata e codificata, ma tutto sommato permangono metodi organizzativi “artigianali”, largamente flessibili.
Se non ha senso l’idea della produttività marginale decrescente nella produzione industriale, non ha neanche senso l’idea di una curva di domanda di lavoro che deriva dalla produttività marginale in valore

[...]

Un ultima osservazione riguarda il fatto che:
    I.    la produttività oraria del lavoro resta costante quando scende la produzione, in quanto diminuiscono le ore di lavoro e di impiego del capitale in corrispondenza del calo produttivo;
    II.    invece la produttività del lavoro, misurata sul numero di lavoratori, diminuisce, in quanto il numero di dipendenti in genere non viene diminuito nel breve periodo sulla base di un temporaneo calo della domanda.
Una nuova fase, dunque, si apre con l’avvio della produzione di serie, basata sull’introduzione estesa di un nuovo tipo di macchine: le macchine speciali.

Queste compiono poche o una singola operazione, non richiedono importanti e diversi interventi di regolazione, e funzionano con continuità: sono dunque veloci e non flessibili. La conseguenza è che gran parte del lavoro richiesto è più semplice di quello dell’operaio di mestiere.
In questa nuova fase aumentano infatti gli operai non o poco qualificati: un breve tirocinio li rende capaci di svolgere adeguatamente la loro mansione. Nel suo caso più spinto, la nuova divisione tecnica del lavoro è organizzata come lavorazione a catena: “un tipo di organizzazione del lavoro per cui le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o a un multiplo o sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza interruzione tra loro e in un ordine costante nel tempo e nello spazio” [A. Touraine, L’evoluzione di lavoro operaio alla Renault, 1955].
La catena di montaggio fu applicata da Ford alla produzione di auto su grande scala, a partire dal 1913. Da qui anche l’uso dell’espressione fordismo per questa nuova fase dell’organizzazione industriale, dove la fabbrica è interamente progettata a partire dal sistema delle macchine.

Il fordismo accentuò la segmentazione del lavoro e finì per cancellare il “mestiere”. Ford introdusse varie innovazione nelle sue fabbriche:
./  forme di compartecipazione agli utili;
./ riduzione della settimana lavorativa;
./  adozione di salari giornalieri più alti del suo tempo.

Nella sua strategia, basata sulla riduzione del prezzo dell’automobile per la conquista di un mercato di massa, introdusse il concetto di pagamento a rate. Il vanto di Ford era che “chiunque può avere una Ford T di qualsiasi colore, purché sia nera”. Questo sintetizza piuttosto bene che cosa sia la tecnologia della catena di montaggio fordista: un prodotto standardizzato, ma costruito a un prezzo basso per renderlo accessibile alle masse.
Gli industriali come Ford erano inoltre consapevoli della perdita di soddisfazione nel lavoro, così pagavano dei salari più elevati della media e offrivano dei bonus come compensazione.
Ford impiegava anche degli studiosi del comportamento e dei sociologi per studiare il modo di migliorare la produttività quando il lavoro era ripetitivo e non specializzato. Forse non sorprende sapere che Ford era contro i sindacati: egli vedeva il suo lavoratore ideale in un uomo sposato, con famiglia e con dei mutui da pagare, che voleva guadagnare denaro per avere un buon tenore di vita e che non doveva essere critico a proposito delle condizioni di lavoro.

L’idea che il denaro è la ragione chiave per cui la gente lavora era allora assai diffusa: sociologi come J.H. Goldthorpe e D. Lockwood, nella loro ricerca sull’industria automobilistica britannica, avevano descritto questo atteggiamento come un “orientamento strumentale al lavoro” (www.appunti discienzesociali.it).

La catena di montaggio, come lo scorrimento continuo di un sistema di ganci e carrelli, trasferiva l’oggetto in lavorazione davanti ai singoli operai, i quali eseguivano mansioni talmente limitate da non permettere loro di capire in quale fase della produzione fossero impegnati. Il lavoratore fu così ridotto a esecutore di gesti ripetitivi e rapidi tipici della produzione in serie: divenne in un certo senso servitore piuttosto che utilizzatore della macchina.
Come detto in precedenza, fu introdotto il cottimo differenziale che consisteva in un sistema retributivo calcolato e diversificato sulla base della quantità di lavoro svolto. Il cottimo contribuì a migliorare i salari, ma al tempo stesso condusse ad accelerare ulteriormente i ritmi di lavoro e talvolta a creare un ambiente di esasperata competizione tra i lavoratori stessi.

La razionalizzazione produttiva ebbe come conseguenze il notevole aumento della quantità di beni prodotti e la diminuzione del loro prezzo. Questo aspetto, unito al miglioramento salariale derivante dal cottimo, creò nuove condizioni di mercato. Alla produzione di massa fece seguito il consumo di massa, grazie anche alla diminuzione dei costi di trasporto e a tecnologie a più
alto rendimento. I consumi migliorarono considerevolmente la qualità della vita nei paesi industrializzati: l’alimentazione divenne più ricca e variata, le condizioni igieniche più sicure.

Tuttavia la società fu spinta a omologarsi nei gusti e nelle scelte, a perdere l’identità e la particolarità delle comunità ristrette. Ciò rappresentò una fonte di malessere sociale dalle grandi conseguenze.
L'industria, infatti, non trovava ostacoli alla sua espansione se non nella sua medesima capacità di produrre. Ma anche l'esiguo potere d'acquisto dei redditi delle masse popolari di inizio secolo rappresentava un ostacolo. L'industria fordista lo superò erogando alti salari e introducendo un servizio sanitario e di prevenzione nelle fabbriche, uno per ogni livello di inquadramento, che riduceva i costi per la salute di operai e impiegati, tecnici e dirigenti. I lavoratori si trasformavano da produttori in “consumatori” del loro stesso prodotto: infatti producevano una merce e percepivano un salario adeguato per comprarla. Le merci prodotte venivano vendute a sempre minor prezzo in forza dell'automazione e della produzione in serie, mettendo così in condizione i 'produttori-consumatori' di acquistarne sempre di più.

Il modello produttivo fordista identificava i diritti dei cittadini con le esigenze del mercato: veniva riconosciuto il diritto di cittadinanza solo a coloro che erano collocati all'interno del mondo produttivo, in funzione della loro capacità di produrre. Nella filosofia fordista la produzione produce il mercato, ossia la fabbrica produce ciò che si 'deve' comperare, genera i consumi, e con i consumi le mode, i costumi, le abitudini, i vizi e i vezzi, i modi di vivere e di pensare, e con essi le pseudo e le vere culture. Ed effettivamente in questo modello quanto usciva dalla fabbrica si piazzava sul mercato. Come diceva Ford, "tutto ciò che si produce si vende". Il Fordismo sanziona il primato della fabbrica sul mercato, dell'offerta sulla domanda. E in effetti le fabbriche non producono quello che i consumatori desiderano comperare, ma i consumatori comprano quello che le fabbriche decidono di produrre. Si può affermare quindi che la fabbrica produce la società. Dunque la fabbrica è luogo centrale di decisioni strategiche: vi si decide cosa produrre, quanto produrre, con quali tempi e con quali modi. Ma come si pianifica la produzione in fabbrica, si può anche pianificare l'organizzazione sociale. Se la società si identifica con essa, può essere progettata a partire da come è progettata la fabbrica.

L'eventuale disordine può essere riordinato generalizzando i principi organizzativi delle strutture di fabbrica. La fabbrica fordista era un luogo di scontro prevedibile fra due entità contrapposte, perché portatrici di due interessi antagonisti: quello dell'impresa era di massimizzare la resa del lavoro, mentre quello degli operai era di minimizzarne l'erogazione.

Nella fabbrica fordista la distanza degli interessi dei lavoratori dipendenti da quelli della proprietà è data come naturale, accettata come un fattore antropologico.
La tradizionale figura del padrone della fabbrica, che con gli operai aveva un rapporto personale e diretto, era stata sostituita da quella astratta e lontana della società per azioni, in cui uomini sconosciuti e lontani disponevano delle sorti dei dipendenti.

La conseguenza di ciò fu che spesso l’intero agglomerato urbano divenne una sorta di appendice della fabbrica: nacquero le “one company town”, città gravitante intorno alla sua fabbrica più importante dalla quale dipendeva interamente la maggior parte della popolazione.
I metodi fordisti possono essere considerati, infine, una combinazione di alcuni elementi:
./ l'organizzazione produttiva taylorista;
./        la  meccanizzazione  spinta  dei  processi  produttivi  (in  seguito  all'introduzione  della catena di montaggio);
./ la standardizzazione dei prodotti finali.

I due capisaldi del fordismo, dunque, erano il paradigma industriale tayloristico, accompagnato da una spinta automazione (riflesso della meccanizzazione) e la concessione di retribuzioni più elevate di quelle mediamente riconosciute dalla prassi delle relazioni industriali dell'epoca.

Questo ultimo aspetto, come già osservato, non era però conseguenza di una qualche forma di filantropia, ma semmai era l'espressione di una lungimiranza socio-economica, poiché era la premessa della produzione di massa, ossia il volano dell'economia di consumo (una classe operaia povera non si può permettere neppure la più spartana utilitaria).

Ma i due capisaldi erano connessi anche sul piano funzionale: la potente razionalizzazione del ciclo produttivo aveva come prerequisito un'intensa sottomissione delle maestranze alla disciplina organizzativa (quasi maniacale) del fordismo, che arrivava a calcolare con esattezza i minimi movimenti corporei del dipendente. Questo regime alienante doveva trovare almeno una forma di riparazione nel salario più generoso, che saggiamente infatti veniva assegnato all'operaio Ford.
Molti commentatori ritengono che il fordismo sia stato caratteristico dell'industria occidentale dal 1945 fino agli anni settanta, e che sia stato collegato al sorgere dei maggiori paesi produttori
d'auto. Il fordismo è associato, sul piano della dottrina logistica industriale, al particolare modello territoriale dell'attività economica, detto divisione spaziale del lavoro, in cui vi è una separazione spaziale tra il luogo di sviluppo del prodotto (centro di ricerca e sviluppo) e gli effettivi centri di montaggio standard di un prodotto. Il modello rimase dominante del mondo industrializzato fino agli anni sessanta e settanta, quando il conformismo dei consumatori fu intaccato dal crescente numero di disegnatori, pensatori, e consumatori stessi. E così si sono venuti a creare termini come post-industriale, post-fordismo e mercato di nicchia. Il fordismo è stato parte, come componente tecnologica, del momento di efficienza che ha caratterizzato l'età del progresso americano. Dopo l'inizio della Grande depressione, la politica americana fu quella di tenere alti i salari nella speranza che il fordismo avrebbe risolto la crisi.


    2.2    Fordismo in Europa


Secondo lo storico Charles S. Maier, il fordismo in Europa è stato preceduto dal taylorismo - una teoria sociologico-industriale del lavoro disciplinato e organizzato, basato su studi (almeno formalmente ispirati al rigore scientifico) dell'efficienza umana - e dal sistema di incentivi (Maier, Charles S, “Between Taylorism and Technocracy: European Ideologies and the vision of Industrial Productivity”). Il taylorismo attrasse gli intellettuali europei fino alla Grande Guerra.

Dal 1918, tuttavia, l'attenzione si spostò sul fordismo, che prevedeva la riorganizzazione dell'intero processo produttivo su concetti come linea di assemblaggio, standardizzazione e mercato di massa. Ma con la grande depressione si compromise la visione utopistica della tecnocrazia americana. Tuttavia il predominio con cui gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale ravvivò l'ideale. Sotto l'ispirazione di Antonio Gramsci (secondo cui il fordismo significa intensificare il lavoro, dopo averlo reso meccanicamente ripetitivo, per promuovere la produzione), i marxisti fondarono il concetto di fordismo negli anni trenta, e negli anni settanta elaborarono il post fordismo.
Antonio e Bonanno (Antonio, Robert J. and Bonanno, Alessandro, "A New Global Capitalism? From 'Americanism and Fordism' to 'Americanization-globalization.”) tracciano lo sviluppo del fordismo e delle successive fasi economiche, dalla globalizzazione alla globalizzazione neoliberale durante il ventesimo secolo, enfatizzando il ruolo ricoperto dall'America nella globalizzazione.

Tali autori sostengono che il fordismo raggiunse, nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, il culmine nel dominio americano e nell'affermarsi del consumismo di massa, ma collassò con le crisi politiche e culturali degli anni settanta.

Con il progresso tecnologico e la fine della guerra fredda si entrò nella fase neo-liberale della globalizzazione degli anni novanta. Loro evidenziano gli elementi negativi del fordismo, come l'inegualità economica perdurata comunque, e i relativi problemi culturali di sviluppo sorti che inibiscono gli scopi della democrazia americana.


    2.3    Fordismo in Unione Sovietica


Lo storico Thomas Hughes (Hughes, Thomas P., “American Genesis: A Century of Invention and Technological Enthusiasm 1870-1970”) ha dettagliatamente spiegato in che modo l'Unione Sovietica abbracciò con entusiasmo negli anni venti e trenta il fordismo e il taylorismo, importando esperti americani di entrambe le scuole e affidando ad aziende americane la costruzione di parte delle sue strutture industriali.
I concetti di piani quinquennali e di controllo centralizzato dell'economia possono essere direttamente rintracciati nell'influenza del taylorismo sul pensiero sovietico.

Hughes cita Stalin (Hughes, Thomas P., “American Genesis: A Century of Invention and Technological Enthusiasm 1870-1970”): l'efficienza americana è quella forza che non conosce né riconosce ostacoli; che una volta iniziato una missione, anche se di poco conto, la continua fino al compimento; senza l'efficienza USA è impossibile un lavoro serio e costruttivo... la combinazione di rivoluzione russa con l'efficienza americana è l'essenza del leninismo.
Hughes descrive come entrambe le parti, quella sovietica e quella americana, scelsero di ignorare o negare il contributo delle idee dell'esperienza americana nello sviluppo e nella crescita di potere dell'Unione Sovietica. I sovietici lo fecero perché desideravano porsi al mondo come gli artefici del proprio destino, che nulla dovevano ai rivali. Gli americani lo fecero perché non desideravano ammettere il proprio apporto alla creazione dell’URSS, il loro più potente avversario.

Capitolo 3

La crisi del fordismo e il post-fordismo

    3.1    Le cause della crisi del modello fordista


Paradigma socio-economico dell’età dell’oro dello sviluppo occidentale e dell’URSS negli anni 1945-1970 il modello fordista va in crisi agli inizi degli anni ’70. Si tratta di una crisi a cui concorrono vari fattori e che coinvolge sia gli elementi del paradigma ristretto che quelli del paradigma estensivo, che rigardò tutti i punti principali del modello fordista.


In questi anni si raggiunge nei paesi più sviluppati la saturazione del mercato di base dei beni industriali durevoli (dall’automobile agli elettrodomestici) e la domanda si attesta sui più contenuti volumi generati dalla sostituzione del prodotto. L’assioma fordista della possibilità di crescita indefinita dei volumi di produzione va dunque in crisi, e con essa l’assunto di base dell’economia di scala che a volumi sempre crescenti corrisponderanno costi industriali e prezzi al consumo sempre decrescenti e con la generazione sempre di nuova domanda.

La produzione di massa entrò fortemente in crisi quando sul mercato cominciarono ad affacciarsi imprese che realizzavano prodotti ad alto livello scientifico e tecnologico. Inoltre il mercato veniva a dominare la produzione perché i consumatori richiedevano beni sempre più diversificati.

Oltre alla saturazione del mercato di base dei prodotti industriali, un altro evento mina gli assiomi del paradigma fordista della crescita: lo shock petrolifero mette in crisi l’idea dell’infinita disponibilità degli input del sistema produttivo e dei loro prezzi progressivamente decrescenti grazie all’aumento dei volumi produttivi.
Lo shock petrolifero produce una crisi delle risorse infatti: la quadruplicazione del prezzo del petrolio mostra che gli input del sistema produttivo non sono inesauribili, non procedono a prezzi sempre inferiori, e per di più il loro abuso crea problemi ambientali. Esso causa inoltre un’iperinflazione che sposta la centralità dell’azione governativa dall’occupazione alle politiche di bilancio, facendo mancare un elemento fondamentale della regolazione economica e sociale.

La conflittualità sociale degli anni a cavallo del 1970 manda in crisi il progetto di controllo della classe operaia. La grande fabbrica, che ha fornito l’humus naturale del processo di sindacalizzazione operaia, è la culla di questi conflitti e gli svantaggi dei grandi numeri (la concentrazione produttiva e la conseguente concentrazione degli operai), iniziano a essere considerati maggiori dei vantaggi.

In sintesi di possono cogliere, tra i fattori di crisi del modello fordista, quelli qui sotto indicati:
./  Saturazione del mercato dei beni di massa;
./  Accresciuta concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione, con più basso costo del lavoro nelle produzioni più semplici e di minore qualità;
./  Impennata dei prezzi del petrolio e delle materie prime;
./  Fine del regime di cambi fissi (e maggiore instabilità sul mercato internazionale);
./ Esplosione della conflittualità industriale nei primi anni ’70.

La crisi del modello fordista si manifesta diversamente nei vari paesi, a seconda delle capacità del contesto istituzionale di frenare il conflitto industriale e di mantenere una politica di regolazione della domanda tale da garantire condizioni di maggiore stabilità (in ogni caso, anche in contesti di tipo neocorporativo le tendenze di trasformazione del fordismo non sono state frenate).

Oltre a quelli elencati, altri motivi che hanno mandato via via in crisi questo modello sono legati alla maggiore domanda di beni di maggiore qualità nei paesi ricchi, vuoi per l’aumento dei redditi, vuoi per il formarsi di nuovi gruppi sociali istruiti che sviluppano nuovi stili di vita e modelli di consumo. Ciò contrae ulteriormente lo spazio per il mercato dei beni di massa tradizionali (la domanda è sempre più sostitutiva piuttosto che aggiuntiva).
Un secondo elemento che favorisce e incentiva il tentativo di spostarsi verso una produzione più diversificata e di qualità è dato dall’introduzione delle nuove tecnologie elettroniche (calcolatori, macchine a controllo numerico) che permettono di programmare il macchinario in modo da poterlo utilizzare per compiti e prodotti diversi. Ciò consente un sensibile abbassamento dei costi della produzione flessibile, per cui diventa possibile produrre beni non standardizzati di elevata qualità, in serie limitate, a costi più bassi.

In tal modo è possibile vendere beni di elevata qualità, prodotti in quantità limitate e soggetti a rapido cambiamento, per i quali i consumatori sono disponibili a pagare prezzi più elevati, sfuggendo anche alla concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro concentrato in produzioni di massa, più semplici e di bassa qualità.
Naturalmente, questo non vuol dire che la produzione di massa e il modello fordista siano abbandonati dalle imprese dei paesi più sviluppati. Da questo punto di vista sono da prendere in considerazione due tendenze che possono variamente combinarsi tra loro: l’uso delle nuove tecnologie per riadattare il modello fordista e la spinta alla multinazionalizzazione (per cui le grandi imprese della produzione di massa, investendo direttamente all’estero e specie nei paesi in via di sviluppo, cercano di ritrovare le condizioni di vantaggio prima presenti nei paesi più avanzati: un mercato in crescita e condizioni di più basso costo del lavoro).

In conclusione, si può dunque rilevare che, specie a partire dagli anni ’70, si è assistito a un processo di diversificazione e pluralizzazione dei modelli produttivi. Su questo fenomeno influisce in misura significativa il contesto istituzionale nel quale le imprese operano. Per comprendere i motivi per cui alcuni paesi o alcune regioni si sono riadattate più rapidamente e più efficacemente non basta dunque guardare il livello macroeconomico e al ruolo dello stato, ma occorre prendere in considerazione l’interazione tra imprese e ambiente sociale nel quale esse sono inserite. Ed è proprio su questo terreno che si sviluppa una ripresa della sociologia economica anche a livello micro, che analizza in particolare i rapporti tra contesto istituzionale e nuovi modelli produttivi flessibili.
Il risultato dell’azione congiunta dei molteplici fattori di crisi del paradigma socio-economico fordista è una rapida diminuzione dei profitti e quindi una crisi del modello di accumulazione fordista.
         
    3.2    La reazione alla crisi

Il superamento del modello fordista non avviene mediante la teorizzazione e applicazione di un nuovo modello, ma piuttosto come esito di una serie indipendente di trasformazioni adottate per rispondere alla crisi degli anni ’70.

A rendere possibili queste risposte fu la presenza di nuove condizioni, senza le quali queste trasformazioni non sarebbero state possibili. Esse infatti presuppongono:
./ l’esistenza di un nuovo modello tecnologico che supporti una produzione flessibile (automazione programmabile) e soprattutto decentrata (reti di comunicazione)
./ un processo globalizzazione economica, connesso a una maggior rapidità e economicità dei trasporti, che permetta sia di inseguire i fattori produttivi laddove si presentano nelle condizioni migliori, sia di cogliere la domanda ovunque essa si presenti.
./ un processo di privatizzazione (anche del rapporto di lavoro) quale può emergere solo da una nuova politica economica, essa stessa prodotto dell’imporsi di nuove ideologie (neoliberismo)

All’idea di una governabilità politica del sistema economico mondiale si sostituisce l’idea del primato del mercato, considerato (più o meno idealmente) come il risultato di tutte le azioni economiche e, contemporaneamente, come il criterio di misura della loro efficacia. Inizia conseguentemente la deregolamentazione (deregulation) di ogni forma di controllo sui flussi prima monetari e successivamente (e nell’ordine) finanziari, degli investimenti e dei prodotti.
Alla saturazione dei mercati occidentali, che progressivamente diventano mercati di sostituzione, si risponde con una logica produttiva non più centrata sulle economia di scala, ma sui risparmi interni alla produzione, in grado cioè di abbassare il punto di pareggio tra capitale investito e volumi di produzione, rendendo questa adattabile alla fluttuazione della domanda in modo da evitare quelle crisi di sovrapproduzione che sempre avevano accompagnato le crisi cicliche del sistema capitalistico. Si doveva inoltre cambiare la logica del prodotto da consumare: se ormai i beni durevoli erano posseduti dalla maggior parte della popolazione, bisognava accelerare i tempi di sostituzione rendendo obsoleti i beni già posseduti (centralità dell’innovazione tecnologica interna al prodotto, il quale è in grado di fornire sempre nuove prestazioni, sostituendo la vecchia obsolescenza da usura con la obsolescenza tecnologica), oppure puntare ad una sostituzione/moltiplicazione del prodotto attraverso la sua personalizzazione   (il   che  corrisponde,  in  una  circolarità  causa-effetto,  al  processo  di individualizzazione della società degli anni ‘80: dai consumi sociali o famigliari – elettrodomestici - a quelli individuali - telefonini, televisione per ogni membro della famiglia, home video, consumi per il corpo, etc.). Tutto questo comporta una produzione flessibile.

La produzione flessibile porta a politiche restrittive di bilancio. Il problema dell’inflazione e le nuove difficoltà incontrate dalle politiche keynesiane nell’ottenere la piena occupazione e il rilancio dei consumi, cambiano le direttive delle politiche economiche le quali ora pongono al primo posto il pareggio di bilancio e quindi il contenimento delle spese pubbliche (in primis quelle sociali e quindi il sistema di welfare su cui si era retto il modello di consenso all’interno del paradigma fordista).

Lo shock petrolifero che mette in crisi il paradigma della crescita senza vincoli, genera una richiesta di innovazione tecnologica in grado di garantire un minor consumo energetico e questo devia parte dei capitali verso investimenti strutturali o in beni capitali riducendo le risorse destinabili ai consumi privati (in definitiva ai salari).
Il controllo della classe operaia attuato mediante la contrattazione e la ridistribuzione  del surplus, entra in crisi sia per la riduzione del surplus stesso sia a causa della nuova stagione di conflittualità che si apre alla fine degli anni ’60. Questo comporta una serie di risposte a livello sia politico che economico. La lotta contro il sindacato per la riduzione dei suoi spazi e del suo peso si accompagna a processi di ristrutturazione tecnologica e aziendale. Mediante i primi si punta alla riduzione del bisogno di manodopera all’interno dei processi produttivi (robotizzazione), indebolendola non solo numericamente ma anche come rilevanza produttiva (la minaccia della sua sostituzione). Mediante la seconda si persegue una frantumazione dell’azienda stessa, riducendo la compattezza della manodopera. Sarà proprio la Ford negli anni Settanta a studiare le dimensioni migliori per una fabbrica, il punto di equilibrio tra produttività dell’impresa e sua “gestibilità”, individuando in circa 10.000 operai la dimensione massima, oltre la quale la peggior gestibilità della fabbrica dal punto di vista dei rapporti di lavoro, riduce ogni vantaggio in termini di integrazione della produzione (questo naturalmente ancora dentro a un processo produttivo fordista, centralizzato e non a rete, che sarà messo ben più duramente in crisi nel modello postfordista degli anni ’80 e ’90).
Alle politiche economiche keynesiane si sostituisce un neoliberismo monetarista che punta a uno “stato minimo” (nel senso di minimo intervento statale), che interviene in economia esclusivamente attraverso il controllo della moneta e in buona sostanza si riduce alla funzione di strumento di supporto per il corretto svolgimento delle dinamiche di mercato, limitandosi a
garantire  allo  stesso  una  solida  unità  di  misura  per  lo  scambio  (una  moneta  solida,  per l’appunto).

Negli anni ’80 le economie delle società occidentali usciranno trasformate dall’applicazione di questi nuovi principi e l’entrata nel postfordismo sarà un elemento acquisito.
   

3.3    Il post-fordismo

Effetto della reazione alla crisi del fordismo e delle nuove scelte di politica economica, a partire dagli anni ’80 emerge un nuovo quadro paradigmatico, il postfordismo, le cui caratteristiche aiutano a descrivere sia il nuovo assetto dell’impresa che la società nel suo complesso, esattamente come avveniva per il paradigma fordista.

[...]


Se la razionalizzazione, ovvero il controllo del processo produttivo, come della società, era il cuore del progetto dell’impresa fordista (e della modernità nel suo complesso), l’adattamento lo è dell’impresa postfordista (e della postmodernità). Una rinuncia alla governabilità della complessità che lascia libero spazio alla riorganizzazione continua.

Tra i molti concetti, “flessibilità” è forse la parola chiave più caratterizzante. Alle innumerevoli rigidità del fordismo (nei compiti, nel processo di produzione, nella quantità e nel tipologia dei prodotti, nelle relazioni aziendali, etc.) il postfordismo sostituisce altrettante flessibilità:
./ della manodopera, flessibile nelle mansioni come nella presenza;
./ del prodotto, personalizzandolo grazie all’ampio ricorso a macchine programmabili in grado di modificare i processi di lavorazione e rendere economica la produzione per piccoli lotti;
./ delle quantità produttive, grazie al ricorso al subappalto e alla manodopera impiegata a tempo determinato, che permettono di incrementare o decrementare la produzione con facilità.

La flessibilità diventa una filosofia pervasiva, che negli anni ’90 occupa non solo l’azienda, ma tutta la società, la cultura, perfino il modello educativo.

Se l’economia di scala non può più essere il modello attraverso cui garantire i profitti, se l’abbassamento del break-even point (il punto pareggio: cioè il volume minimo di produzione dopo il quale iniziano i profitti) diventa necessario, allora prioritaria è la riduzione dei costi. La complessa burocrazia aziendale generata tra i colletti bianchi, dalla gerarchizzazione e specializzazione funzionale della fabbrica fordista deve essere smantellata, così come progressivamente ridotto tutto il personale, e ridotti al minimo i costi fissi. Ma non solo l’apparato interno dell’azienda deve dimagrire, anche il corpo dell’azienda stessa, attraverso pratiche di outsorcing (esternizzazione: subappalti e rete di fornitori), limitando la produzione diretta al core-business, cioè quelle attività centrali dove maggiore è la sua specializzazione e quindi più alta la sua produttività e competitività.

La sequenza rigida delle operazioni basata su un sistema di macchine fisso deve essere sostituita dalla possibilità di variare la sequenza a seconda delle diverse produzioni, delle trasformazioni continue del prodotto. Internamente all’azienda questo è reso possibile dalle nuove tecnologie, ma ancora di più è reso possibile dalla riprogettazione del ciclo completo di produzione tra le aziende. Un nuovo prodotto (o semplicemente il passaggio da una piccola serie all’altra) deve essere rapidissimo, quindi la riprogrammazione delle linee produttive e delle forniture deve essere in tempo reale: questo è permesso dalle nuove reti di comunicazione interne ed esterne .

La grande fabbrica cessa di essere il modello produttivo base, per dissolversi in una miriade di unità produttive di minori dimensioni e maggiore specializzazione. La gerarchia funzionale viene a cadere: tutte le aziende coinvolte infatti diventano autonome cellule produttive di un processo (al punto che alcuni autori parlano del passaggio da una taylorizzazione delle funzioni interne all’azienda a una taylorizzazione delle aziende: la specializzazione flessibile), ricomponibili come pezzi di un lego, non strutturati gerarchicamente ma che possono, a seconda delle modalità con cui vengono combinati, produrre figure (prodotti) diversi (e questa ricombinazione richiama nuovamente la programmabilità). La metafora non deve però essere fraintesa: l’orizzontalità gestionale non significa che non esista una gerarchia economica in base alla quale le aziende leader, i marchi, sono in grado di controllare gli altri pezzi della produzione piegandoli alle proprie esigenze.

Il decentramento e l’orizzontalità però non si affermano solo nell’organizzazione tra le imprese, ma anche al loro interno: alla rete gerarchica interna all’azienda e alla conseguente deresponsabilizzazione del personale subordinato, si sostituisce una maggior orizzontalità dei rapporti e anche maggior autonomia di decisione: l’operaio o la squadra sono chiamati a prendere decisioni, a loro sono affidati obiettivi, più che funzioni, la rete gerarchica interna non viene certo soppressa, ma ogni reparto è molto più autonomo e si rapporta più direttamente con gli altri reparti.
La pianificazione fordista chiedeva tempi lunghi e grandi investimenti, possibili solo dentro un mercato controllato (o perlomeno prevedibile), l’impresa postfordista non pianifica, ma reagisce alle fluttuazioni dei mercati, alle sue mode (certo non spontanee, ma non controllabili da alcun soggetto singolo). Essa deve quindi sposare una filosofia di sviluppo che colga e risponda alle esigenze in tempo reale. La velocità di reazione (capacità di variare il prodotto, di adeguarsi ad un aumento della domanda o a una sua diminuzione) diventa fattore centrale nella competizione.
   

3.3.1    La crisi del fordismo-taylorismo


Dunque, dopo avere portato la produttività del lavoro e la produzione di massa a livelli tali da elevare nettamente i redditi e da inondare il mondo di beni e di servizi, il modello di produzione e di consumo taylor-fordista è entrato in crisi con gli anni settanta, e da allora evolve verso un modello chiamato per convenzione post-fordista. Il cuore del cambiamento è questo passaggio storico, non quello dall’industria ai servizi o dalla società industriale alla società post- industriale, tant’è vero che novità quali il just-in-time, il telelavoro, l’outsourcing e i call center vengono tutte dal nuovo modello sul quale si impernia oggi l’industria. Rispetto al taylor- fordismo, il post-fordismo è qualcosa che va oltre anziché qualcosa d’altro: infatti il passaggio in atto si deve sia al successo sia alla crisi del modello taylor-fordiano.

Questo passaggio sta sostituendo un mondo del lavoro piuttosto uniforme, com’era quello del Novecento con un universo di lavori assai diversificati che si diffondono in senso spaziale e si disperdono in senso temporale, e che sono svolti da soggetti i quali operano alle dipendenze oppure in modo autonomo o con posizioni miste. Cresce inoltre il numero e cala la dimensione dei luoghi dove si lavora, per cui si trovano ovunque spezzoni di lavoro e persone che lavorano; crescono inoltre i tipi di orario e calano le sincronie fra gli orari, per cui si trovano sempre più persone che lavorano in ore insolite e con calendari complicati, anche nella stessa sede. Tutto ciò comporta effetti positivi come la de-massificazione del lavoro, ma può anche comportare conseguenze che preoccupano i sindacati, come la “de-solidarizzazione” dei lavoratori. Lo scenario che si prospetta è quello di una "società dei lavori", parecchi dei quali cangianti o sfuggenti, anziché di una "società del Lavoro" centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di stabilità quale l’Occidente capitalistico e non solo aveva avuto nel secolo scorso.

È una transizione lunga che sembra passare quasi inavvertita perché non mostra cesure nette. I suoi sviluppi, resi necessari dalle trasformazioni dell’impresa e resi possibili dalle innovazioni della tecnologia, erano del resto insiti nel medesimo meccanismo di creazione e di soddisfazione dei bisogni. È come l’automobile, che in un secolo è cambiata moltissimo ma continua ad avere un motore, una carrozzeria, un volante e delle ruote. Infatti non è una transizione riconducibile a variabili esplicative quali il liberismo e le privatizzazioni, che potrebbero anzi esserne la conseguenza; né a tendenze quali la globalizzazione o la finanziarizzazione, che non hanno generato ma soltanto accelerato tali sviluppi. E neppure alle scelte di specifiche forze sociali o leadership politiche, le quali non avrebbero comunque potuto mutarne la componente strutturale e l’ampio respiro storico.

Quel che cambia deriva soltanto in parte dall’aver messo congegni e apparati nuovi al posto di quelli vecchi. L’aspetto più nuovo è l’integrazione orizzontale fra mercati, dimensioni delle imprese e tecnologie che accresce la reattività delle imprese rispetto alle incostanze e alle turbolenze del mercato. Del resto le tecnologie odierne sono tali che ciascuna impresa può trovare soluzioni proprie e peculiari per risolvere il medesimo problema.

L’inizio si può far coincidere con il primo shock petrolifero, avvenuto nel 1973, anche se i primi segnali di crisi erano comparsi già in precedenza nell’industria automobilistica, quella stessa che aveva trainato lo sviluppo capitalistico per tutto il Novecento. Alle radici della crisi stavano le crescenti rigidità nei rapporti che l’impresa intratteneva con il mercato e con il lavoro.

Da un lato la domanda dei consumatori e la competizione con i concorrenti erano sempre meno gestibili con la produzione di massa, perché le difficoltà ad affrontare le turbolenze aumentavano mentre i vantaggi derivati dalle economie di scala diminuivano. Un sintomo di malessere stava nei costi dello stoccaggio di prodotti finiti e nell’ampiezza delle scorte di manodopera. Alle oscillazioni della domanda e agli intoppi della produzione le imprese ponevano rimedio con "polmoni" che eludevano il problema costituito da strutture e da meccanismi troppo rigidi. Dall’altro lato aumentavano sia le difficoltà a reperire personale sia le contestazioni all’organizzazione taylor-fordista simboleggiata dalla "catena" di montaggio, per cui le imprese erano costrette a "raschiare il fondo del barile", a ridurre i ritmi di lavoro, ad allentare la disciplina di fabbrica. In Italia vi furono casi clamorosi (specie alla Fiat) mentre negli Usa il governo diede conto dell’insoddisfazione operaia nel rapporto Work in America.
Queste tensioni esterne e interne provocarono fasi di crisi e processi di ristrutturazione che finirono col mutare l’impresa e il sistema stesso delle imprese. Una delle soluzioni cui si fece ricorso invano fu l’intensificazione tecnologica. La Fiat investì somme consistenti in una "robotizzazione" spinta (www.ilibridiemil.it), per eliminare dagli stabilimenti le operazioni più contestate, e fece sorgere un’intera fabbrica "integrata" ove si impiegavano avanzatissime tecnologie labour saving. Tuttavia la meccanizzazione e l’automatizzazione non erano sufficienti a soddisfare la variabilità quantitativa della domanda e la diversificazione qualitativa dell’offerta, ormai necessarie sul mercato. Oltretutto richiedevano notevoli immobilizzi di capitale e accrescevano le rigidità anziché ridurle. Il problema non era il risparmio di lavoro bensì la gestione dell’impresa nei suoi nuovi rapporti con il mercato, per cui occorrevano soprattutto innovazioni organizzative che rendessero più versatili sia l’impresa sia il lavoro.


    3.3.2    L’avvento della produzione snella


La via d’uscita alla crisi del taylor-fordismo è venuta da una offerta assai differenziata e continuamente variata, quella che per esempio ha dato un mercato planetario al marchio Benetton. Mentre nell’Ottocento si produceva e si consumava per piccoli lotti, e nel Novecento per grandi serie, ora si produce e si consuma per grandi serie di piccoli lotti. L’impresa cerca di raggiungere la massa dei consumatori inseguendo il singolo acquirente: si passa pertanto – come dice A. Chandler – dalla "scala" allo "scopo" (Chandrel, A., “L’evoluzione dell’impresa”). Questo nuovo paradigma industriale pone dunque la propria dinamica nelle mani del cliente, che decide sull’utilità marginale dell’ultimo articolo ordinato. All’impresa ciò crea notevoli incertezze e richiede una flessibilità, una reattività, una versatilità mai viste.

Un esempio è il procedimento just-in-time. Quando il rappresentante di commercio che visita i negozi da rifornire teletrasmette l’ordine del rivenditore, un calcolatore aggiorna istantaneamente i dati di tutti i materiali e i componenti necessari, e invia dettagliati impulsi all’amministrazione, ai fornitori, ai reparti e ai servizi perché provvedano a fabbricare, assemblare, inscatolare, fatturare e spedire al più presto il prodotto a destinazione. (Nel supermercato quell’ordine viene dato automaticamente man mano che scendono delle giacenze di magazzino). Ciò capovolge la tipica logica del flusso taylor-fordista: anziché essere spinta dall’alto, la produzione è tirata dal basso.
Si dice che "l’impresa respira" proprio perché tutto, a cominciare dal fabbisogno di lavoro, si allinea in tempo reale agli ordinativi pervenuti. Al limite, il circuito si chiude quando per un lavoratore temporaneo scatta la missione urgente che deve soddisfare l’ordinativo urgente fatto poco prima da lui stesso come consumatore. Il post-fordismo è questo rispecchiarsi vicendevole del lavoratore nel consumatore. Tutte le novità si compendiano dunque in un meccanismo adattivo che si pungola da sé.

Le scelte del singolo consumatore determinano una incredibile variabilità della domanda che innova profondamente le basi di mercato dell’industria. L’evolversi del modo di produrre dalla mass production alla lean production è quindi un grande cambiamento nella storia sociale. La necessità di rispondere a ogni oscillazione del mercato pone infatti all’impresa  ineludibili bisogni di flessibilità operativa, costringendola a farsi leggera, agile e snella. Ciò ribalta la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è vero che diminuisce la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale, e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando in orizzontale.

La maggiore flessibilità operativa e la maggiore reattività agli shock, tipiche della piccola dimensione, sono state favorite dalle tecnologie della comunicazione, che hanno offerto mezzi e opportunità per ridurre il divario strutturale e il dislivello competitivo rispetto alla grande dimensione. Ciò alimenta una demografia d’impresa inopinatamente vivace, che connota tutto lo scenario dei cambiamenti. La nati-mortalità delle imprese, soprattutto quelle più piccole, è vorticosa non soltanto nella new economy. Ovunque il saldo è quasi sempre positivo perché ne nascono più di quante se ne chiudono, ma la loro vita è più breve perché sono più frequenti le cessazioni, le acquisizioni, le cessioni, le fusioni.

Si arriva a forme di volatilità invero spinte. Ci sono micro-imprese che sorgono e si strutturano intorno a un’attività a termine o a uno specifico obiettivo, e che si contraggono fin quasi alla dimensione zero una volta che cessa l’attività o che l’obiettivo viene raggiunto. Così funziona tanta industria dell’intrattenimento, della cultura, delle vacanze, della devozione, della "convegnistica", che del resto sta espandendosi in modo impetuoso. Rispetto alle molte imprese diventate flessibili grazie a una struttura a stella o a ragnatela, queste sembrano addirittura virtuali: infatti talune durano lo spazio di una singola occasione d’attività e impiegano quasi soltanto manodopera a giornata o a prestazione. La globalizzazione ha accelerato su scala mondiale questi processi, che non hanno investito soltanto il sistema delle  imprese manifatturiere private ma un po’ tutte le attività economiche di mercato.

Dopo avere trasformato il modus operandi del taylor-fordismo e aver abbandonato la logica della produzione di massa per reagire alle difficoltà e alle turbolenze, le imprese chiedono la massima flessibilità del lavoro e la massima deregolazione del mercato del lavoro. In tal modo reagiscono anche alle rigidità che il trade-off fra modello taylor-fordista e "cittadinanza industriale" aveva introdotto nel lavoro e nei mercati, quando li aveva uniformati alla produzione di massa. Ciò sta mettendo in causa il modello di regolazione sociale (chiamato da taluni "compromesso fordista-keynesiano") che compensava o risarciva la piena subordinazione con la piena tutela.

    3.3.3    Il contributo del modello giapponese


All’origine della produzione snella (lean) c’è una lontana scelta della fabbrica di camion giapponese Toyota, che si era proposta di superare la ristrettezza del proprio mercato nazionale facendo dell’auto un bene personalizzato di assoluta qualità. Diversificare a tal punto i singoli esemplari e costruirli con "zero difetti" richiedeva uno snellimento e un affinamento dell’organizzazione produttiva così drastico da contrapporsi alla produzione di massa occidentale e da superare gli standard qualitativi tedeschi.

La chiave stava nel just-in-time, che ha rivoluzionato non soltanto i rapporti con il mercato ma la filosofia stessa della produzione. Abolire le scorte di beni semilavorati e finiti per mettere in fabbricazione soltanto quel che è stato già ordinato dai clienti richiede infatti di affrontare le situazioni e di risolvere gli eventuali problemi nel momento stesso in cui si presentano. Ciò elimina scappatoie e rinvii, assicurando la continuità dei flussi produttivi e soprattutto il miglioramento continuo dell’organizzazione. Perciò impegna moltissimo il management e i lavoratori.
Tale modo di procedere induce a perseguire l’aumento della produttività mediante una sequenza incrementale di piccole modifiche o di modeste innovazioni, senza grosse novità o macchinari costosi. Questa tecnologia "frugale" che elimina gli sprechi introduce dunque un’altra differenza sostanziale della produzione lean rispetto a quella fat, o pingue. Inoltre ogni singolo comparto dell’apparato produttivo diventa autonomo per integrarsi con gli altri orizzontalmente, in modo da accrescere l’elasticità del tutto. Così l’impresa abbrevia i tempi per approvvigionarsi dei componenti, per allestire e mettere in opera i nuovi tipi (set-up), per riconvertire una lavorazione (switch-time), per attraversare il flusso produttivo dal principio alla fine (lead-time). E le scansioni si fanno più rigorose proprio perché cresce l’interdipendenza di tutti i vari settori e apparati.

Il processo lavorativo viene a sua volta rivoluzionato da una combinazione di risorse tecniche e umane che, accompagnata da un capillare flusso di informazioni e da una minore distanza fra chi dirige e chi esegue, elimina la cristallizzazione delle competenze e privilegia il lavoro di gruppo. Tre sono le maggiori novità nell’uso del lavoro. Innanzitutto le maggiori imprese garantiscono una sicurezza d’impiego anche in tempo di crisi, per cui ottengono una produzione elevata e una cooperazione leale. Inoltre la carriera e le ricompense sono collegate assai più all’anzianità aziendale che non all’attività svolta. Infine l’ampliamento delle mansioni, mai attecchito in Occidente, stimola i lavoratori stessi a coltivare una propria polivalenza professionale. Richiamandosi a taluni precetti confuciani e a una concezione comunitaria dell’impresa, senza fuoriuscire dal taylor-fordismo, il Giappone ha saputo insomma prestare attenzione al lavoratore proprio chiedendogli quel contributo di qualità e di impegno di cui l’Occidente si è privato in nome del taylor-fordismo.

Produzione snella just-in-time e cooperazione lavorativa polifunzionale costituiscono dunque il nocciolo originale del modello giapponese, teorizzato da T. Ohno come modello Toyota. Per realizzare tutto ciò il Giappone ha reso paradigmatica l’idea europea, nata negli stabilimenti Bata, secondo cui chi lavora è il cliente di chi viene prima e il fornitore di chi viene dopo; e ha saputo implementare le tecniche del controllo statistico di qualità, e il concetto stesso di "qualità totale", appresi dagli esperti americani E. Deming e J. Juran che nel proprio paese furono apprezzati troppo tardi.

Il capitalismo occidentale prese coscienza del nuovo formidabile competitore dopo molti anni durante i quali sembrava soltanto copiare le tecnologie e i prodotti. Un vero shock ci fu quando negli Stati Uniti ebbero successo le auto "compatte", sfornate sul posto dai fabbricanti giapponesi, proprio mentre i tre giganti locali – General Motors, Ford e Chrysler – erano assillati da una produttività declinante. Un famoso rapporto del Massachusetts Institute of Technology accusò di miopia i grandi manager americani, perché incapaci di adeguarsi al paradigma emergente.
Dopo lo stupore dei primi anni ottanta, l’industria di tutto il mondo ha cominciato a prendere spunto dal modello giapponese, importandone e soprattutto "ibridandone" taluni aspetti organizzativi e molti i meccanismi produttivi.

    3.3.4    La riduzione delle dimensioni aziendali


A cavallo fra gli anni sessanta e gli anni settanta ci fu chi pronosticò una cesura nella continuità organizzativa e nella dinamica imprenditoriale fino ad allora assicurate dalla grande impresa e dalla produzione di massa. Secondo P. Drucker (Drucker, P., “Aspettando l’avvento della nuova organizzazione”), noto esperto americano di management, si sarebbe invertita la tendenza al travaso fra imprenditori e manager. Nell’impresa gli imprenditori sarebbero tornati "a un livello più alto", perché avrebbero imparato a capire la dinamica della tecnologia, del mercato, dell’organizzazione. Secondo E. Schumacher (Schumacher, E. F., “Piccolo è bello”), economista dell’industria mineraria britannica, si sarebbe altresì riequilibrata l’importanza della piccola e della grande dimensione organizzativa perché l’impresa minore avrebbe stimolato la creatività e l’autonomia così come quella maggiore aveva assicurato la precisione e la conformità.

Sia la previsione di un’ "era del discontinuo" sia lo slogan small is beautiful stavano per essere convalidati in due paesi molto diversi: negli Stati Uniti, dalla fungaia di piccole imprese sorte a Silicon Valley per iniziativa di imprenditori di nuovo tipo, dotati di scarsi capitali ma con idee avanzate; in Italia, dai distretti industriali dove una nuova leva di imprenditori "venuti dalla gavetta" trasformava tante fabbrichette in sistemi produttivi a rete. Mentre per le imprese start- up l’incubatore era stato il sapere high-tech dell’università di Stanford, per quelle della terza Italia era stata la "specializzazione flessibile" su nicchie di mercato. In ambedue i casi la principale risorsa dello sviluppo locale stava dunque nella capacità di valorizzare le conoscenze, le competenze e le subculture offerte dal contesto.

Quelle esperienze anticiparono alcuni requisiti del lavoro post-fordista, basato su una combinazione di autonomia individuale e di cooperazione collettiva. La dimensione più efficiente degli impianti e il minor numero di addetti per unità aziendale avevano abbattuto infatti i tipici effetti di concentrazione e di massificazione della fase taylor-fordista, ma soprattutto avevano reso più elastico l’apparato produttivo e un po’ più appagante il modo di lavorare. In tal modo la piccola impresa contrassegnò il futuro del lavoro, così come avevano fatto quella media nell’Ottocento e quella grande nel Novecento.

A livello aggregato, il ritorno dell’imprenditore e la rinascita della piccola impresa sono stati evidenziati nelle statistiche a partire dagli anni ottanta. Anche se non erano mai spariti dalla scena dei paesi industriali, compresi gli Stati Uniti, la loro inattesa ricomparsa provocò all’inizio incredulità e sconcerto perché nell’impresa taylor-fordista il numero degli addetti e il peso dei manager non potevano che crescere: da un lato c’era la legge delle economie di scala e dall’altro il passaggio "dalla proprietà al controllo". Oltretutto, queste novità si affacciavano con tratti non sempre accettabili, tipo economia sommersa e lavoro nero, persino dove il mondo del lavoro era ben organizzato e rappresentato, come in Italia a Carpi o a Sassuolo. Poi, nel giro di un ventennio, paesi con una struttura produttiva completamente diversa come l’Italia e l’Inghilterra hanno superato i tre milioni e mezzo di imprese, due terzi delle quali costituite da ditte individuali: tale è stato l’abbattimento delle dimensioni medie aziendali e la moltiplicazione degli imprenditori come ceto.

Queste novità post-fordiste smentiscono le previsioni troppo lineari sugli sviluppi del capitalismo industriale, pur provenendo dal medesimo alveo del taylor-fordismo. Infatti la creazione di nuove piccole imprese da parte di nuovi imprenditori è stata sospinta dalle grandi imprese attraverso successive fasi di "decentramento produttivo".
Il passaggio di staffetta è iniziato quando molte grandi imprese, messe alle strette dagli aumentati costi del greggio e delle retribuzioni, e dalla diminuita governabilità degli stabilimenti e dei mercati, hanno affidato all’esterno, oppure ceduto ad altri, determinate operazioni o lavorazioni. Quei segmenti di produzione e di organizzazione, quegli spezzoni di lavoro e di tecnologia di cui le imprese maggiori si liberavano, perché meno convenienti o più contestati, dimostravano che il taylor-fordismo aveva dato il massimo: una macchina possente e dinamica era diventata rigida e goffa, se non altro perché la standardizzazione e la burocratizzazione limitavano le capacità di reazione e di innovazione, tipiche invece delle imprese minori. Come per effetto di una forza centrifuga, tanto l’affidamento all’esterno quanto la cessione ad altri hanno determinato un calo della dimensione aziendale, sia procurando più lavoro alle imprese minori a cui quella maggiore già ricorreva, sia stimolando la nascita di nuove imprese, spesso incoraggiate e talvolta aiutate per l’occasione.

La disseminazione sul territorio di imprese minori che ricevevano maggiori ordinativi e di imprese start-up già provviste di ordinativi hanno poi diffuso e generalizzato fenomeni quali l’esternalizzazione, la subfornitura, l’outsourcing e lo spin-off. Nei contesti più dinamici ciò ha accelerato la nati-mortalità delle imprese, ha riorganizzato l’economia del territorio e ha creato reticoli produttivi integrati: è così che le zone industriali del Nord-est italiano, del Rhône-Alpes francese, del Baden-Württenberg tedesco e della "Route 128" in Massachusetts sono diventate casi di scuola.

A questo passaggio di staffetta sono poi subentrati massicci smagrimenti di personale (o riduzioni di taglia: downsizing), che negli Stati Uniti hanno investito quasi tutte le mille imprese-leader censite dalla rivista Fortune. Le dimensioni aziendali medie sono altresì diminuite nelle imprese che hanno delocalizzato una parte delle proprie attività in stabilimenti o impianti situati in altri paesi. Le "cittadelle del lavoro" continueranno quindi a diminuire e i luoghi di lavoro a snellirsi. Infatti dalle grandi fusioni e dalle grandi acquisizioni nascono gruppi enormi ma strutturati su imprese più piccole di quelle che avevano dominato il secolo scorso: negli Stati Uniti, la società di lavoro temporaneo Manpower vanta più dipendenti e più sedi del gigante automobilistico General Motors.
Del resto, le nuove cattedrali del consumo, cioè gli ipermercati e i mall che attorniano le città, hanno pochi addetti pur coprendo volumetrie maggiori delle vecchie cattedrali della produzione, gli stabilimenti storici che oggi diventano musei o università.


    3.3.5    Le trasformazioni strutturali dell’impresa


Il modello post-fordista ha richiesto a imprenditori e manager un diverso modo di gestire e di intendere l’impresa e la sua stessa natura, nell’accezione data da R. Coase (Coase, R. H., “The nature of the firm”) nel 1937. L’impresa – ha detto M. Crozier (Crozier, Michel & Friedberg, Erhard “L'acteur et le système. Les contraintes de l'action collective”) – deve "ascoltare", deve "apprendere". Molte sono infatti le novità, a cominciare dagli schemi di funzionamento. L’elefantiasi dimensionale e l’autosufficienza aziendale sono eredità del passato che sono state sostituite dalla snellezza e dall’apertura. Le forme di organizzazione favoriscono l’autonomia e al tempo stesso la comunicazione delle parti, ribaltano i rapporti fra funzioni "di produzione" e funzioni "di servizio", mutano le relazioni con l’indotto dei fornitori e con le istituzioni finanziarie.


Ma la novità cruciale è un’altra. Il processo di integrazione, che per oltre un secolo era stato realizzato dentro l’impresa, ha invertito la direzione di marcia: l’integrazione si sta ora realizzando tra le imprese. Ciò ha posto fine alla separatezza organizzativa e produttiva dando all’insieme una maneggevolezza e una elasticità mai viste. Mentre le imprese minori cercano di strutturarsi localmente come se fossero una sola grossa impresa, quelle maggiori si ristrutturano come se fossero un insieme di piccole imprese. Beninteso, tutte quante allacciano anche relazioni con altre imprese, esterne al contesto locale o nazionale.


L’impresa ha cominciato a specializzarsi, aprendosi ad apporti esterni anch’essi specializzati. Le relazioni di mercato sono state internalizzate come mezzo di regolazione organizzativa. Ciò integra maggiormente l’impresa nel contesto locale, con il quale il trade-off è più consistente o più sostanziale di ieri, e al tempo stesso la collega più strettamente al contesto globale. L’impresa cessa di essere autarchica e concentra gli sforzi su quel che le riesce meglio e le rende di più: anziché fare, compra. Quindi il concetto di servizio diventa una coordinata di produzione. Del resto, chi potrebbe oggi chiedere all’impresa di fare da sé, di produrre in casa tutto il possibile con manodopera propria, come faceva ieri? La Fiat di Melfi è una società chiamata Sata che produce in proprio, per il modello "Punto", appena sette componenti su cento: tutto il resto, pari a due terzi del valore dell’auto, viene fornito dall’indotto locale oppure acquistato sul mercato esterno.


Conciliare la variabilità della domanda con la stabilizzazione della manodopera è difficile per tutte le imprese, grandi e piccole. Ognuna riduce quindi al minimo il personale diretto alle proprie dipendenze (core-workers) e impiega manodopera indiretta fornita temporaneamente da ditte esterne (contingent-workers). Quelle maggiori scorporano inoltre questo o quel ramo di attività per cederlo ad altre società, talvolta create o aiutate ad hoc e spesso operanti in modo stabile dentro l’impresa stessa.

Tutte si dotano di personale stabile e di personale fluttuante: tanto l’impresa maggiore, che di solito è il committente principale, quanto le imprese sussidiarie, le ditte di pulizia, perfino le aziende "in grigio" o "in nero".
Il cambiamento è notevole. Secondo i vecchi schemi di funzionamento, la migliore combinazione dei fattori produttivi era che l’impresa integrasse ogni attività in verticale al proprio interno, mentre oggi si integra ogni attività in orizzontale con l’esterno. Se ieri nella topografia d’impresa non c’era quasi posto per entità estranee, oggi è normale la presenza di imprese esterne con le quali si intrattengono stretti legami funzionali e operativi. Quelle che offrono servizi di vigilanza, pulizia, manutenzione, trasporto, stoccaggio, logistica, informatica e così via non sono sui generis né tutte di comodo, e spesso rientrano nei vigenti sistemi di relazioni industriali e di normative contrattuali. Né la loro funzione è sempre ancillare. Alcune dispongono di un avanzato know-how, molte non sono affatto piccole e talune sono anzi così grandi da offrire servizi a imprese che sono più piccole di loro.

Così, entro le stesse mura possono operare gomito a gomito lavoratori diretti e indiretti, stabili e fluttuanti, facenti capo a società diverse. All’indotto esterno si aggiunge insomma un indotto interno. Questa disarticolazione, chiamata anche "terziarizzazione", ha conseguenze che preoccupano i sindacati perché possono generare disparità di trattamento fra lavoratori operanti nella stessa impresa o addirittura nella stessa sede. Ne fanno le spese i dipendenti "ceduti" dall’impresa principale a una esterna, e magari chiamati a svolgere il vecchio lavoro; o i lavoratori esterni "prestati" da un’impresa fornitrice e chiamati a svolgere una delle attività rimaste all’impresa principale.

    3.3.6    Mercati del lavoro e struttura professionale

Anche la struttura dei mercati del lavoro si complica, introducendo elementi di diversificazione che vanno al di là delle segmentazioni già conosciute e che delineano scenari sia di "atomizzazione" sia di "individualizzazione". Ciò deriva dalla crescente selettività dal lato della domanda, sia in termini di flussi giacché le assunzioni si fanno col contagocce, sia in termini di requisiti, tant’è vero che il tipico motto del Novecento, "non siete pagati per pensare", è stato ormai sostituito dallo slogan "la qualità dipende da voi". Ma ciò deriva anche da una maggiore selettività dal lato dell’offerta, per motivi sia oggettivi, quali l’innalzamento dell’istruzione e la lievitazione dei redditi, sia soggettivi, quali la maggiore riluttanza a spostarsi e la maggiore attenzione allo status. Ad esempio gli italiani rifiutano i lavori duri, rischiosi, sporchi o umili, svolti oggi dagli immigrati (e ieri dagli italiani stessi, quando emigravano). In questo caso l’offerta proveniente dai paesi più poveri può rendere meno tesi i mercati del lavoro, anche se non è facile regolare i flussi migratori in base alla domanda.

L’incontro è reso inoltre difficile da vari fattori: dalla diversa influenza del contesto, giacché la domanda tende a territorializzare i profili professionali e le competenze richieste mentre l’offerta tende a socializzare gli stili e le aspettative di vita; dal diverso orientamento alle opportunità, giacché per l’impresa contano la flessibilità e il turn-over mentre per il lavoratore contano la stabilità e le garanzie; e infine dai diversi ostacoli incontrati nelle proprie scelte, giacché l’impresa trova difficile fare previsioni mentre il lavoratore trova difficile orientarsi.
A livello macro, il convoglio delle professioni si allunga e si fraziona: un turn-over assai vivace sta creando più mestieri di quanti ne distrugge, con prospettive di carriere più discontinue. Forse anche per questo non sembra esserci una netta ascesa della professionalità media ma piuttosto una gamma più estesa di skill, resa necessaria dall’intreccio fra domande e tecnologie vecchie e nuove. Infatti servono professioni nuovissime come quelle dell’informatica e professioni stagionate come quelle della carpenteria. Insieme a knowledge workers e specialisti di e- business, continua infatti a esserci un assoluto bisogno di chi costruisce stampi, di chi salda a elettrodi, di chi affetta le carni, di chi assiste gli anziani, di chi custodisce le banche. Tutto ciò crea dei gap o aumenta le incoerenze fra sistemi professionali e sistemi produttivi.

A livello micro, l’atomizzazione del mercato e l’individualizzazione dei profili esasperano il mismatch qualitativo e quantitativo perché, a prescindere dall’efficienza o meno dei servizi all’impiego, pubblici o privati, i tradizionali canali di selezione e di reclutamento della manodopera non sembrano più bastevoli e neppure adatti. E la proliferazione di siti per la ricerca del lavoro o del lavoratore via Internet, ancora caotica e disfunzionale, dà conto assai meglio del problema che non della soluzione. Così, quote consistenti di assunzioni passano attraverso le reti informali attivate dai lavoratori stessi, dalle loro famiglie e dai loro conoscenti. Ciò rende più forti quei sistemi di relazione che M. Granovetter (Granovetter M.,” Azione economica e struttura sociale. Il problema dell’embeddedness”) ha chiamato "legami deboli", e più deboli quei sistemi allocativi che, istituzionali o mercantili, un tempo erano forti.
Sia le organizzazioni dei lavoratori sia quelle degli imprenditori trovano pertanto difficile captare, registrare, veicolare e rappresentare questa pulviscolare diversificazione fra i lavori. I governi stessi stentano a promuovere in modo sistematico politiche attive di orientamento, di formazione e di riallocazione del lavoro. Ne risentono quindi gli assetti delle relazioni industriali, le tradizioni e le prassi della partnership, e perfino i rapporti fra le sfere della contrattazione e della legislazione.

    3.3.7    I nuovi contenuti del lavoro

Le novità più cospicue sono però altre, e vengono da movimenti profondi che investono innanzitutto la natura della prestazione, cioè la qualità del lavoro. Con quali effetti? I contenuti si fanno meno manipolativi e più cognitivi, i compiti tendono a essere meno esecutivi ed estranianti, più cooperativi e coinvolgenti, e le conoscenze sono in genere meno specialistiche e più polivalenti. Fra i requisiti richiesti le attitudini stanno diventando importanti quasi come le competenze, cosicché certe doti "femminili" quali la cura, la relazionalità e l’attenzione contano più di ieri mentre contano meno di ieri la manualità e la fisicità stessa del lavoro. Le prescrizioni operative non sono più inderogabili e inflessibili come ieri, per cui il lavoro tende a essere meno livellato e standardizzato, quindi meno piatto e impersonale.

Poiché le tecnologie dell’informazione favoriscono tutti i processi generati dalla produzione snella, un numero sempre maggiore di persone, in ogni tipo di lavoro, lavorerà anche fisicamente in rete e dovrà quindi "prestare attenzione" e sviluppare una "consapevolezza di rete". Nessun lavoratore e nessuna impresa possono chiudersi in sé stessi perché il post- fordismo produce e richiede maggiore flessibilità, sia funzionale che mentale. Del resto la qualità del prodotto richiede lavoratori la cui adattabilità cresca oltre la rotazione delle mansioni e l’allargamento dei compiti rivendicati invano dal movimento per la "qualità della vita di lavoro" negli anni settanta.

Il risultato generale è una maggiore autonomia anche per chi lavora alle dipendenze. Se ne ha riscontro nella discrezionalità operativa, che oggi offre maggiori gradi di libertà perfino nell’esecuzione di lavori manuali standardizzati. Ma se ne ha riscontro soprattutto nella richiesta al singolo lavoratore di individuare gli intoppi e di risolvere i problemi che sorgono, mentre prima gli si vietava ogni iniziativa. Connaturata al post-fordismo come necessità e come virtù, questa nuova autonomia è del resto imposta dalla qualità del prodotto e del servizio, e dipende innanzitutto dalla cooperazione intelligente dei lavoratori, vale a dire quella inestimabile partecipazione nel lavoro che la Fondazione di Dublino chiama "partecipazione diretta".

La tendenza alla crescita di autonomia nel lavoro è da ritenersi più realistica della tendenza alla crescita dei lavoratori autonomi (in Italia più qualitativa che quantitativa). Essa modifica la natura stessa della prestazione, seppure nel quadro di una persistente dominanza del rapporto subordinato. Considerata infatti la renitenza delle imprese a introdurre forme di partecipazione collettiva dei lavoratori, le stock option e i fondi previdenziali non bastano a scardinare il sistema del lavoro salariato.

Si consideri tuttavia che l’autonomia cresce in senso funzionale, non totale. Non è attingibile dal singolo, tant’è vero che funziona e che vale soltanto nell’ambito del gruppo o del flusso, e proprio per questo nega il concetto stesso di un lavoro individuale svolto in autonomia. Qualsiasi scenario di autonomia è errato se ignora che il lavoro è in rete. Infatti non è una autonomia sospesa nel vuoto e neppure vincolata da rigidi sbarramenti, bensì condizionata da uno sterminato sistema di riferimenti.

Rispetto a ieri il lavoratore, dipendente o autonomo che sia, dispone di molti più mezzi e modi per operare ma lo fa entro un reticolo di parametri, costituiti da informazioni, procedure e segnali, assai più fitto e più solido della "gabbia di acciaio" a cui M. Weber (Weber M.,” Il metodo delle scienze storico-sociali”) aveva assimilato il meccanismo capitalistico. Il sistema di riferimenti entro cui tutti ormai lavorano – camionista, paramedico, financial promoter, web manager – è assai più complesso di quello dell’epoca taylor-fordista. È una catena leggera e inafferrabile ma straordinariamente cogente. Nel post-fordismo tutti i lavori sono destinati a stare dentro questo reticolo, portatore di libertà e di costrizione in maniera del tutto nuova.

Incombe un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso, perfino concitato, e una tensione continua, poco importa se si è dipendenti o indipendenti. Ciò apre prospettive prima impensabili: nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività, mentre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze che stressano il lavoratore anziché abbatterlo. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità. Molti lavoratori soffrivano l’uniformità, il livellamento e la massificazione dei compiti mentre oggi soffrono perché i loro compiti cambiano in fretta, crescono in fretta, evolvono in fretta.
Ma nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo. Anche se diminuisce l’esecutività e cresce la cooperazione, non tutto il lavoro è meno esecutivo, e non dappertutto è più cooperativo: la transizione è in corso e il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene. Per questo, il nuovo contiene molti aspetti ambigui: basta pensare ai supermercati Carrefour, ai fast- food Mc Donald’s e a molti call center; oppure al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli infortuni continuano.

Nell’area degli impieghi regolari gli ambienti di lavoro e la condizione lavorativa tendono comunque a migliorare anche nei paesi in via di sviluppo; tecnologie labour saving e progettazioni ergonomiche consentono di ridurre ancora la fatica e le malformazioni. È invece meno facile ridurre gli infortuni e le "morti bianche" dove è più debole la cultura  della sicurezza, cioè nelle piccole imprese che sopportano minori sforzi, spese e controlli, e nella cosiddetta economia sommersa che ricalca e amplifica gli elementi negativi dell’impresa minore.

    3.3.8    I nuovi rapporti di lavoro


Altrettanto profondi e non meno ambivalenti sono i movimenti che trasformano i termini della prestazione, cioè i rapporti di lavoro. Questi tendono a diventare: innanzitutto meno subordinati e più autonomi (perfino nel lavoro dipendente, come abbiamo appena visto); inoltre meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo quelli a tempo indeterminato; e infine meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro si avvia a essere più circoscritto e assai più articolato, perfino individualizzato.

L’impresa si è fatta flessibile e si aspetta che il lavoratore sia altrettanto flessibile. L’elasticità della prestazione al mercato si ottiene con modalità di impiego che intaccano il modello di lavoro a tempo pieno e a durata indeterminata perché prevedono orari più corti, durate più corte, o tutt’e due. Fra piena stabilità e piena instabilità dell’occupazione si è creato ormai un continuum analogo a quello che c’è fra piena occupazione e piena disoccupazione. Al tempo stesso nascono o crescono rapporti di lavoro che rendono meno nitida la distinzione fra dipendenti e indipendenti. Basti citare il lavoro autonomo "di seconda generazione", basato su requisiti professionali anziché patrimoniali, di chi in Italia presta "collaborazioni coordinate e continuative": è un gruppo eterogeneo che può essere tutelato soltanto in modo generico, mentre negli Stati Uniti gli indipendent contractors sono un gruppo omogeneo.

Quel che più colpisce è l’impetuosa crescita dei vari tipi di contratti a termine e di lavoro temporaneo – o "interinale" (interimaire) o "in affitto" o "a chiamata" (on call) – attraverso i quali le imprese impiegano temporaneamente chi non trova lavoro, o desidera un’occupazione saltuaria, oppure non era attivo, e possono così aggirare i tradizionali vincoli, legislativi o contrattuali, alla flessibilità "numerica". In Europa la maggioranza delle assunzioni è coperta da rapporti che danno luogo a combinazioni assai diverse nei tragitti lavorativi e nei profili di carriera: c’è chi lavora a termine o a chiamata per periodi abbastanza lunghi e chi viene assunto stabilmente dopo una o due reiterazioni o "missioni". Si teme pertanto che venga eroso lo stock dei contratti a tempo indeterminato, che tuttavia comprende più di otto occupati su dieci e che resterà il nucleo portante, come lo è tuttora negli Stati Uniti.

Uno scenario di "precarizzazione", una condizione di instabilità che mantenga i lavoratori in uno stato di soggiacenza, non conviene neppure alle imprese. A esse serve tanta stabilità quanta è compatibile con la competizione, e questo significa tenersi lavoratori efficienti anziché licenziarne e assumerne di continuo. Molte imprese prestano infatti maggiore attenzione alla risorsa umana, usano con cautela gli smagrimenti e incentivano la permanenza in azienda con forme di "fidelizzazione": in cambio della mobilità totale da posto a posto, i fabbricanti d’auto degli Stati Uniti hanno garantito l’impiego a vita ai dipendenti con almeno dieci anni di anzianità. Ma vi sono anche imprese che ricorrono al temporary management, cioè impiegano dirigenti con rapporto "interinale".

La vera novità sta nel fatto che i contratti a termine stanno soppiantando il tradizionale periodo di prova per diventare la modalità normale di ingresso al lavoro. Così come il part-time, essi sono ovunque correlati positivamente al tasso di occupazione, e contribuiscono oltretutto a femminilizzare il mondo del lavoro. Certo vi sono delle imprese che li usano per tenere sotto ricatto chi lavora evitando un’assunzione stabile, ma molte altre imprese hanno effettivamente bisogno di un periodo più lungo di quello previsto dai contratti tradizionali: una conferma che la domanda di lavoro è più selettiva, e che le scorte di manodopera sono state sostituite dai lavori a termine e a chiamata.

Queste novità destabilizzano i tradizionali rapporti di lavoro e i sindacati temono che possano alterare gli equilibri contrattuali, travolgere i sistemi di relazioni industriali, indebolire i profili di tutela, disarticolare le solidarietà fra i lavoratori. Uno dei rischi è la polarizzazione fra lavoratori stabili e lavoratori fluttuanti, ma il più sentito è la "precarizzazione" cioè la fine del "posto fisso" che per molti europei è quasi un diritto di cittadinanza: infatti il senso di instabilità che si avverte è ancor prima culturale che sociale. In un paese a disoccupazione endemica come
l’Italia, questo era un modello di protezione che, basandosi sul diritto al lavoro sancito dalla Costituzione, tutelava soprattutto i capo-famiglia maschi adulti, impegnando lo Stato come occupatore di seconda istanza mediante l’estensione del settore pubblico e parapubblico.

Peraltro, la stabilità d’impiego oggi rimpianta in Europa è più un mito che una realtà visto che nel Novecento ci furono una grande crisi e una grande disoccupazione, e che soltanto per un quarto di quel secolo ci si era avvicinati alla piena occupazione e a un vero welfare state. Molti lavorarono per tutta la vita nello stesso posto semplicemente perché era l’unico che avevano trovato, e ciò poteva farne un’occasione d’oro ma anche un lavoro forzato. In avvenire assai pochi lavoreranno tutta la vita nello stesso posto, pochi nella medesima impresa e parecchi cambieranno anche mestiere. Tuttavia, chi potrebbe oggi proporre a un giovane o a una ragazza di passare venti o trenta anni nella stessa azienda e magari tutta la vita nel medesimo mestiere? Né si può loro proporre una vita vorticosa tutta ispirata all’imperativo della flessibilità.

Mentre la natura della prestazione tende dunque a cambiare in meglio perché è soggetta a minori vincoli e consente maggiore discrezionalità, i termini della prestazione tendono a cambiare in peggio perché la tutela tradizionale non può coprire impieghi più instabili e tragitti più discontinui. Per questo il mercato può apparire oggi minaccioso come la tecnologia nel secolo scorso: allora ci si interrogava sulle conseguenze umane del macchinismo industriale, e adesso ci si interroga sulle conseguenze del lavoro flessibile.

    3.3.9    Post-fordismo e società dei lavori


La transizione in corso non comporta né la sparizione del lavoro né la fine dei posti, ma intacca le certezze sociali perché può mettere a repentaglio i compromessi raggiunti nel Novecento. Se la tutela del lavoro tende a peggiorare mentre la qualità tende a migliorare, è perché era pensata per un altro lavoro e per un altro lavoratore. Essa può portarsi al livello della qualità soltanto se viene modellata su un lavoro e un lavoratore con maggiore autonomia e con maggiore responsabilità quali il post-fordismo sta preparando. Nuovo lavoro è lavorare in rete, senza scorte e giusto in tempo. Nuovo lavoratore è chi lavora in più ruoli, in più posti, in più attività.

Le conseguenze culturali, sociali, psicologiche e antropologiche sono rilevanti. Inseguendo il consumatore  e  trattando  il  lavoratore  come  individui  singoli,  il  post-fordismo  propone  un
modello di autodirezione diverso dall’eterodirezione imposta dal taylor-fordismo. Lavorare con meno vincoli e più opportunità, ma anche con maggiore responsabilità e maggiori rischi, è forse l’altra  faccia  dell’individualismo  di  massa  innescato  dalla  produzione  snella  just-in-time.

Ogni lavoratore si trova immerso in un modo meno ferreo e più fluido nel sistema dei rapporti economici. Il post-fordismo fa infatti emergere nel mondo del lavoro altrettante diversità quant’erano state le uniformità introdotte dal taylor-fordismo. La gabbia entro cui funzionava la società del lavoro era forte e visibile, mentre la ragnatela entro cui si colloca la attuale società dei lavori è fitta e impalpabile. Se ieri era il "Lavoro" maiuscolo che teneva insieme la società, oggi è la società che tiene insieme i tanti lavori, attraverso un reticolo di snodi orizzontali anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali.

Una conseguenza del tutto inattesa verrà dal contrasto fra la maggiore qualità e la minore tutela del lavoro, e – di conseguenza – fra la maggiore implicazione interna e la minore copertura esterna del lavoratore: il lavoro cesserà infatti di perdere importanza e concorrerà alla formazione dell’identità sociale più di quanto si prevedesse negli ultimi decenni del Novecento, quando la riduzione del tempo di lavoro e l’aumento del tempo libero erodevano gli effetti identitari della relativa stabilità d’impiego e della discreta tenuta dei mestieri. Non è una novità di poco conto.
Pochi vedono nel post-fordismo la prospettiva di una vera e propria fine del lavoro salariato, ad esempio attraverso una "economia della partecipazione". Del resto, perfino negli Stati Uniti sono pochi gli imprenditori e i manager disposti ad associare tangibilmente i propri dipendenti al futuro dell’impresa. C’è invece chi vede nel prossimo futuro promesse di liberazione quali una individualizzazione del lavoro e del rapporto di lavoro, cui tenderebbe la cosiddetta "fuga dal lavoro subordinato", che è spesso una scelta necessitata anziché voluta.

Di certo si sta affacciando un mondo dove i lavori stanno soppiantando il lavoro, per cui la discontinuità d’impiego e di carriera, involontaria o volontaria, può diventare normale per un numero sensibilmente maggiore di soggetti, anche con posto stabile. La costruzione dell’identità professionale tende quindi a basarsi su più posti, più ruoli e più mestieri perché ciascuno di loro (al limite, ciascuna missione di lavoro temporaneo) aggiunge una porzione di esperienza, di formazione, di sapere. L’identificazione sociale attraverso i lavori seguirà quindi tragitti più complessi perché meno rettilinei e più personali, con sovrapposizioni e dissociazioni fra la sfera del lavoro e le altre sfere dell’esistenza. Ciò darà luogo a identità composite in senso diacronico, diverse cioè da quelle plurime in senso sincronico a cui solitamente alludono i sociologi.

Ciò rende necessaria una rete protettiva leggera e universalistica che assista il lavoratore nella transizione di posto o di carriera, aiutandolo a valutare il proprio potenziale e a ricollocarsi in modo adeguato; che certifichi i passaggi compiuti negli itinerari di lavoro e di formazione; che accompagni i periodi di mobilità con attività di formazione o di "tutoraggio" in vista del reimpiego; che metta a frutto l’anzianità maturata negli impieghi temporanei presso la medesima impresa; che ricomponga i vari spezzoni di occupazione dipendente o autonoma agli effetti della carriera assicurativa, aiutando a ricoprire o consentendo di riscattare i vuoti. È necessario quindi che rimanga una traccia dei tragitti che, da un impiego all’altro, costruiscono l’identità socio-professionale dei singoli: traccia di cittadinanza che può consistere in una anagrafe generale del lavoro o in un libretto elettronico del lavoratore. (Negli Stati Uniti chiunque lavora dispone di un social security number). Questa è la prima tutela dell’individuo lavoratore, il primo elementare diritto di una sicurezza sociale adatta al capillare universo dei lavori.

Si pongono interrogativi a cui è difficile rispondere. Ci si chiede ad esempio se possano essere valorizzati gli spazi di autonomia individuale e diversificate le forme di tutela dei lavoratori senza abbandonare il cammino storico della solidarietà e dell’uguaglianza. Così pure, ci si chiede se una tutela che si fa al tempo stesso più leggera e più universalistica debba proteggere anche i lavori non tipici, non istituzionali, non subordinati: cioè se si vada verso una cittadinanza del lavoro sans phrase che si situerebbe agli antipodi di quella del Lavoro maiuscolo, tipico del Novecento.

È chiaro che il sistema delle tutele va ridisegnato, innanzitutto con la legislazione, in ambito nazionale ma soprattutto internazionale. L’Unione europea ricopre in tal senso un ruolo decisivo perché costituisce già ora un riferimento mondiale per la protezione del lavoro nella moderna economia di mercato. Sebbene la contrattazione fra partner sociali abbia egregiamente soddisfatto in molti paesi l’esigenza di conciliare la cittadinanza con il mercato, nella fase post- fordista essa assumerà probabilmente un’impronta diversa dal passato. È inevitabile che, passando dal Lavoro ai lavori, la copertura data dai tradizionali contratti di lavoro diventi più circoscritta non tanto (o non soltanto) perché nel frattempo si allarga l’area dell’autotutela individuale, ma perché il focus della regolazione si sposta verso il livello aziendale e quello territoriale, e perché aumentano nel contempo gli spazi coperti dalla regolazione bilaterale in campi come la formazione dei lavoratori, l’incontro domanda-offerta, la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Mentre la società dei lavori si afferma a livello mondiale, non è prevedibile un brusco declino
del ruolo dei sindacati, i quali stanno del resto presentandosi ex novo o cominciando ad affermarsi sulla scena di molti paesi in sviluppo, specie nel Sud-est asiatico. Al restringersi della tradizionale area di tutela del lavoro operaio-industriale-fordista, corrispondono infatti bisogni di tutela nuovi, tutti da delineare e da costruire, nell’area del lavoro post-fordista, discontinuo, atipico. Perfino in un rapporto di lavoro individualizzato, dove il lavoratore sembrerebbe potersi tutelare da sé grazie al proprio potere contrattuale, perfino in questo caso il sindacato può offrire qualche forma di ausilio se non di tutela vera e propria.

Nella società dei lavori ci saranno dei lavoratori che hanno minori bisogni di tutela ma ce ne saranno molti altri che hanno maggiori bisogni di tutela, da parte del sindacato o da parte dello Stato o di entrambi. Rispetto al passato, non si tratta soltanto di tutelare meglio i diritti ma anche le "sorti" dei singoli, nelle concrete realtà dei mercati del lavoro e dei luoghi di lavoro. L’istanza stessa della partecipazione all’impresa, che poggia sulla maggiore partecipazione nel lavoro, verrebbe frustrata se predominasse l’insicurezza e l’instabilità.


3.4 Ancora qualche esempio: Toyota e McDonald


Possiamo aggiornare la storia senza fine dell’organizzazione del lavoro industriale con la sfida maggiore portata al fordismo in anni più recenti. Con post-fordismo, come abbiamo visto, ci si riferisce alla crescita della diversità dei prodotti e alla produzione flessibile che non può essere ottenuta con la catena di montaggio.

La produzione di massa ha portato al consumo di massa, con la crescita delle esigenze dei consumatori, così ora il concetto “per chiunque, qualsiasi colore, purché nero” non è più appropriato in un mondo altamente competitivo.

Con l’aumento dell’individualismo e del senso di identità attraverso il consumo, le aziende hanno dovuto venire incontro ai nuovi bisogni fornendo varietà e diversità in moltissimi tipi di prodotti.

Le automobili sono un buon esempio di questo fenomeno. Si tratta del sistema Toyota che ha rivoltato come un vestito vecchio l’organizzazione che ai suoi tempi aveva pensato Henry Ford. La produzione di massa, standardizzata, era basata sull’idea che si sarebbero trovati clienti per tutto ciò che si produceva; nella nuova situazione si tratta di avvicinarsi alla condizione di produrre soltanto quello che è già richiesto dal cliente. Ciò rende necessaria una rivoluzione organizzativa.

Nel fordismo le decisioni su cosa e quanto produrre sono fissate dalla direzione “a monte”: i componenti, prodotti in fabbrica o da fornitori esterni, (ingranaggi, sedili, e così via), affluiscono a magazzini, e da qui passano all’assemblaggio lungo la catena. Se le auto non si vendono subito, vengono parcheggiate in piazzali in attesa di esserlo, mentre i componenti prodotti in eccesso si accumulano: nelle nuove condizioni di mercato questo può avvenire con frequenza.

Rovesciando lo schema organizzativo, è l’ordinazione di un certo numero di auto pervenuta agli uffici commerciali che mette in moto lungo la linea produttiva la richiesta dei diversi componenti, i quali vengono allora prodotti solo nella quantità necessaria. In fabbrica non circola nessun componente che già non si sappia a che auto è destinato: è la cosiddetta produzione just in time, espressione di solito non tradotta con la quale si intende che nel corso dell’assemblaggio dell’automobile ciascun componente arriva alla linea di montaggio nel preciso momento in cui ce n’è bisogno e solo nella quantità necessaria.

Il cambiamento di ottica si accompagna a molte altre innovazioni organizzative. Ricordiamo ancora  il  principio  della auto attivazione, applicato alle macchine, agli operai  e alle linee produttive: in caso di errore della macchina che sta operando questa si ferma automaticamente; allo stesso modo, in caso di anomalie riscontrate in una fase di lavorazione manuale il lavoratore interrompe la linea. I controlli di qualità non sono dunque solo alla fine di una linea produttiva, che funziona sempre senza interrompersi. L’autoattivazione permette di intervenire senza che gli errori si ripetano e accumulino, con tempestività e alla radice.

Il sistema Toyoya, meno sprecone e più capace di adattarsi al mercato, richiede un gioco di squadra da parte di tutti. Macchine automatiche, robot e macchine a controllo numerico sono utilizzate perché permettono elasticità, ma fattori di elasticità sono anche uomini addestrati a più compiti, in grado di percepire e realizzare direttamente i continui aggiustamenti necessari ai processi di produzione, e le squadre che gestiscono autonomamente singole aree di produzione, coordinandosi fra loro secondo i principi del just in time. Il sistema Toyota richiede molta responsabilizzazione e partecipazione da parte di tutti. La garanzia del posto di lavoro a vita e differenziali fra paghe di operai e di dirigenti più bassi che in Occidente sono due esempi delle motivazioni a partecipare che lo rendono possibile.

Dopo aver seguito l’evoluzione del lavoro industriale dal taylorismo alla fabbrica integrata, è possibile ancora porsi una domanda: come queste evoluzioni hanno in sostanza migliorato le condizioni di lavoro o le hanno peggiorate, lo hanno mediamente arricchite o impoverite, quanto a contenuti, partecipazione, professionalità? Su questo interrogativo ci sono state forti discussioni e diverse ricerche che hanno cercato di verificare ipotesi con dati. In conclusione, la tesi di una continua dequalificazione del lavoro è stata smentita. Sembra infatti che, con il passaggio alle nuove forme di organizzazione, in media si possono riscontrare un miglioramento della qualificazione professionale e maggiori ambiti di autonomia nello svolgimento delle attività lavorative.

I successi ottenuti hanno sollecitato altrove imitazioni e adattamenti. Espressioni come “fabbrica integrata”, “qualità totale”, “produzione snella” sono entrate nell’uso per indicare l’organizzazione “alla giapponese”. In realtà, sia l’organizzazione che il sistema di motivazioni escogitati in Occidente sono piuttosto degli ibridi, nati dall’innesto su esperienze e condizioni precedenti. Del resto, anche il sistema Toyota è in continua evoluzione: per esempio, i controlli di linea secondo il principio della auto attivazione sono stati alleggeriti ed è stato reintrodotto il controllo di qualità finale. Con l’aggravarsi della crisi anche il principio del lavoro “a vita” è stato accantonato per certe categorie di dipendenti, pur rimanendo una cura particolare del rapporto di lavoro.

3.4.1 La McDonaldizzazione


Se è certamente vero che l’industria è diventata più flessibile e che c’è maggiore diversità e una più vasta gamma di prodotti, l’idea che ci sia una situazione di lavoro totalmente diversa per tutti i lavoratori è una questione aperta. Ci sono ancora migliaia di lavoratori che svolgono lavori ripetitivi nelle fabbriche. In alcuni casi, la scelta del consumatore e la diversità hanno avuto come conseguenza nuove forme di lavoro ripetitivo in luoghi differenti del pianeta. L’alimentazione e la ristorazione ne sono un ottimo esempio, con le imprese multinazionali di hamburger e fast-food che si fanno concorrenza in ogni città e paese per soddisfare i consumatori. Queste imprese hanno introdotto nella ristorazione di massa metodi di produzione sul modello della fabbrica e sono diventati imperi globali da miliardi di dollari di fatturato, con filiali nelle maggiori città di tutto il mondo, da Mosca a Melbourne, da New Delhi a New York.

Che cosa vuol dire lavorare per una impresa globale di fast-food?

Per il tipo di lavoro offerto (part time con orari flessibili) la paga e le condizioni possono essere ragionevoli, perciò rappresenta un’attrazione per lavoratori giovani, studenti e donne con figli piccoli. Il turnover della manodopera è piuttosto elevato, ma i nuovi assunti ricevono una formazione immediata. Tutti i prodotti vengono preparati e parzialmente cotti in fabbriche centralizzate, quindi distribuiti ai punti vendita al dettaglio per il semplice stadio finale che consiste nel riscaldarli e preparare per il consumo. Si usa la tecnologia per semplificare al massimo le mansioni, così la richiesta di specializzazione da parte del lavoratore è bassa.

I dipendenti ricevono una formazione “American – style”, con tecniche di attenzione al cliente che impongono per esempio il sorriso e le frasi di benvenuto e di commiato. “Buona giornata!” e “Buon appetito” si possono sentire in una grande varietà di lingue e di accenti nei vari paesi del mondo, anche se il sorriso può essere fatto a denti stretti! La divisione del lavoro, legata alla divisione della produzione, viene applicata alle mansioni più semplici e a precise quantità di produzione: i Big Mac hanno esattamente lo stesso identico gusto in qualsiasi posto vengano acquistati.
George Ritzer (Ritzer, G., “Il mondo alla McDonald's”), indica che c’è stata una “McDonaldizzazione” della società in quanto questi metodi di produzione, stile manageriale e comportamento dei dipendenti hanno contagiato tutti i tipi di situazioni lavorative, dai bar al trasporto ferroviario, dall’insegnamento all’assistenza sociale.
Praticamente in tutte le maggiori industrie nel mondo viene fornita una precisa documentazione in manuali ufficiali che riportano le mansioni e le procedure da seguire. Inoltre è prevalente l’enfasi sul comportamento di benvenuto e l’attenzione al cliente.

La logica della “McDonaldizzazione” consiste nella crescente espropriazione di attività, capacità e relazioni umane al posto delle quali si introducono strumenti tecnologici sofisticati. Il senso della razionalizzazione contenuta nel modello McDonald’s è quello di garantire efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo del servizio.

L’efficienza del servizio viene garantita mediante “lo sforzo per scoprire i mezzi migliori per conseguire qualsiasi fine desiderato”. Così i lavoratori nei ristoranti di fast-food chiaramente debbono lavorare in modo efficiente; per esempio, gli hamburgers sono assemblati, e talvolta cotti, come nella linea di montaggio. I clienti da parte loro desiderano, questo almeno ci si aspetta da loro, acquistare e consumare i loro pasti in modo efficiente. La consegna attraverso uno sportello è il modo migliore di ottenere il cibo da parte dei clienti; di distribuirlo da parte degli addetti.

La calcolabilità implica l’attenzione alla quantità. Il tempo di lavoro è predeterminato per aumentare la velocità del servizio. Gli addetti non gradiscono questi aspetti dell’organizzazione del lavoro e si verifica un notevole turn-over. Resistono i lavoratori part-time, teen-agers e, generalmente, lavoratori non sindacalizzati. Solo la forza lavoro di basso costo dura per un anno e più. La velocità del servizio va a scapito della qualità del cibo. Infatti, per preparare un buon pasto occorre tempo.

La prevedibilità è assicurata mediante una doppia ma convergente procedura: una per gli addetti e l’altra per i clienti. Perciò, quando il cliente entra, gli addetti domandano cosa vuole ordinare. Da parte sua il cliente deve sapere cosa vuole o deve essere rapidamente in grado di saperlo leggendo la lista. Infine, ci si aspetta da lui che ordini, mangi, paghi e se ne vada velocemente.

Il controllo è affidato alle tecnologie non umane. Nello stesso tempo tali tecnologie controllano gli impiegati e li sostituiscono. Ritzer (Ritzer, G., “Il mondo alla McDonald's”) fa l’esempio della friggitrice automatica. Quando le patatine sono fritte la friggitrice emette un suono e le tira automaticamente fuori dall’olio bollente. I clienti da parte loro sono controllati dagli addetti alle macchine. Il risultato è che la friggitrice rende impossibile avere le patatine ben fritte.

Infine, l’irrazionalità della razionalità. Il processo di razionalizzazione incorporato nei servizi McDonald’s e nei loro simili, comporta una serie di irrazionalità sostanziali. Ad esempio, il servizio del cibo da un chiosco è rapido ed efficiente per McDonald’s; esso crea, però, una lunga fila di persone o di macchine in attesa. Il servizio, inoltre, comporta una riduzione della varietà e delle possibilità di selezione, con notevoli effetti di omogeneizzazione del gusto e della dieta.

La “McDonaldizzazione della società” comporta effetti più ampi sulla qualità delle relazioni sociali. Per questa ragione McDonald’s diventa un simbolo di un processo di disumanizzazione delle relazioni sociali. Il “modello McDonald’s” si estende infatti alla cura della persona, alla salute (i McDoctors), all’alta educazione, all’intrattenimento, alle vacanze, alla costruzione delle abitazioni. Il senso di questa applicazione del modello McDonald’s alla gestione della vita quotidiana degli individui è quello della creazione di una weberiana “gabbia d’acciaio”, nella quale alla fine restano rinchiusi pure coloro che per profitto e convenienza l’hanno promossa.

La sempre più crescente diffusione del modello McDonald’s crea effetti di omogeneità non solo nella vita delle persone, ma anche nel mondo vegetale. La riduzione delle varietà, infatti, colpisce anche le materie prime (soprattutto le patate nel caso di McDonald’s) che devono essere di qualità e grandezza prefissata per poter entrare nel circuito produttivo. Gli agricoltori (quando la produzione agricola non è parte della catena di un grande marchio) sono costretti a selezionare certe varietà a scapito di altre, se vogliono accedere al mercato e realizzare un reddito.