Il diavolo a Parigi

Feuilletons e romanzi popolari nell'Ottocento francese

nelle collezioni della Biblioteca dell'Università Popolare di Firenze


Il diavolo in biblioteca
di Stefano Mecatti

"Che strani sguardi!
Sono quegli stessi sguardi
allorché si assiste al supplizio di una vergine
sotto la volta di una cripta"
MAETERLINCK, da Serres chaudes

www.comune.firenze.it

Com'è noto, Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere dedica molte e acute considerazioni al "romanzo popolare". In particolare al "romanzo d'appendice" - quello che si pubblicava a dispense in fondo ai giornali - fino ad identificarlo con una sorta di "moderno umanesimo" (sia pure, marxianamente, nella forma della parodia o della farsa dopo la tragedia). Con questo tipo di letteratura si sarebbe potuto raggiungere una prima embrionale unità tra le élites colte e le masse popolari, tale da favorire in quest'ultime una incipiente identità nazionale, dovuta al comune sentire intorno a una serie di miti, di eroi, di vicende storiche e, soprattutto, intorno ad una stessa lingua: quella, appunto, veicolata da un genere letterario di così larga diffusione.

Era il cosiddetto spirito "nazional-popolare" che costituiva per Gramsci la condizione etica ed educativa perché l'Italia potesse diventare una nazione unitaria, superando la secolare separazione tra cultura e lingua, da una parte, e popolo-nazione dall'altra (cioè la cosiddetta "mancata Riforma intellettuale e morale", che aveva così tragicamente svantaggiato l'Italia, rispetto ad altre nazioni come la Francia, l'Inghilterra, la Spagna e anche la Germania). Per la verità Gramsci conclude che in Italia il fenomeno non raggiunse mai l'effetto desiderato e si limitò ad alcune personalità come il Guerrazzi e il Mastriani e ad altri "pochi scrittori paesani popolari", mentre ebbe il suo massimo vigore proprio in Francia: "La letteratura popolare francese, che è la più diffusa in Italia, rappresenta, invece, in maggiore o minore grado, in un modo che può essere più o meno simpatico, questo moderno umanesimo". In Italia, per raggiungere questa unità nazional-popolare si sarebbe dovuto ancora aspettare l'avvento della tivù, che, come accade, la sta realizzando al più basso livello con le sue soap operas a puntate e coi suoi fantasmagorici e onnicomprensivi varietà, con connesso sogno miliardario dovuto a concomitanti lotterie nazionali e molto popolari.

Ma tant'é. Come diceva Mario Praz: "un'epoca è illustrata dai suoi capolavori, ma è illuminata anche dalle opere che rappresentano il più basso livello sociale del gusto". Alla nostra unità nazionale è toccato così di venir "illuminata" dal fluorescente bagliore del tubo catodico, piuttosto che dalle mirabolanti avventure di Rocambole.

Dimodochè un famigerato e onnipresente presentatore televisivo, quando fu tacciato di essere nazional-popolare, invece di prendersela a male - mostrando tra l'altro di ignorare uno dei sacri testi del nostro pensiero poilitico (il che non sarebbe il peggiore dei peccati) - avrebbe dovuto ringraziare del più alto elogio che gli potesse (immeritatamente) capitare. Ma al di là di queste considerazioni socio-storico-politiche che possono anche apparire superate, Gramsci dà prova di speciale acume quando coglie il segreto del funzionamento retorico, strutturale e linguistico di questo tipo di letteratura, il cui aspetto saliente consisterebbe nella scomparsa del nome e della personalità dell'autore e nel sopravvento del personaggio protagonista, che vive di vita propria: "Gli eroi della letteratura popolare, quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si staccano dalla loro origine 'letteraria' e acquistano la validità del personaggio storico. Tutta la loro vita interessa dalla nascita alla morte, e ciò spiega la fortuna delle 'continuazioni', anche se artefatte: cioè può avvenire che il primo creatore del tipo, nel suo lavoro, faccia morire l'eroe, e il "continuatore" lo faccia rivivere, con grande soddisfazione del pubblico che si appassiona nuovamente e rinnova l'immagine prolungandola col nuovo materiale che gli è stato offerto". Ma c'è di più. La fortuna del feuilleton dipese da un gioco sottilmente perverso, condotto sul filo dell'ambivalenza tra desiderio e soddisfacimento; ogni dispensa conteneva un numero di peripezie dell'eroe o dell'eroina sufficiente a tener desta la curiosità del lettore, ma non bastante ad appagarlo fino in fondo, evitandogli l'ansiosa attesa della puntata successiva: un meccanismo che provocò - lo ammisero essi stessi - non poche difficoltà a George Sand e a Balzac, abituati a un tipo di narrazione più distesa e meno sincopata, ma del quale furono maestri Sue e Dumas, con grande soddisfazione degli editori, che videro in pochi anni passare i lettori dalle decine alle centinaia di migliaia. Fu una svolta dell'attività editoriale e tipografica dalla sfera artigianale a quella imprenditoriale e industriale. E anche in questo senso, il romanzo d'appendice fa epoca nella storia del libro e della letteratura.

Fin qui tutto è chiaro ed appartiene a quanto comunemente si sa e si dice sull'argomento. Ma tra le note di Gramsci ce n'è una che più sottilmente ci dà da pensare, quando afferma: "Il romanzo d'appendice sostituisce (e favorisce al tempo stesso), il fantasticare dell'uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti".

Sognare ad occhi aperti... ed ecco che, dai frammenti delle storie di Rodolphe, di Fleur-de-Marie, di Edmondo Dantès, del Gobbo di Parigi, dell'Ebreo errante, delle Memorie del Diavolo, rinasce davanti ai nostri occhi, come in una sorta di à rebours proustiano, con i suoi palazzi e strade, passages rutilanti e vicoli sinistri, giardini e malfamati quartieri medievali - miserabili, ma intatti ancora dagli sventramenti di Haussmann - la "Parigi capitale del XIX secolo": scenario grandioso e surreale posto sullo sfondo delle vicende dei protagonisti di tanti feuilletons, ma puntigliosamente e genialmente radiografato negli omonimi quaderni di Walter Benjamin, fino a farne il simbolo dell'essenza della modernità. Un mito ricostruito attraverso i suoi detriti e i suoi aspetti apparentemente più marginali: la moda, il gioco, la prostituzione, il flâneur, dandy girovago e trasognato in mezzo alla folla anonima... Un mito, un sogno forse, da cui occorre certo svegliarsi, ma anche - se è vero che rappresentò l'essenza del Moderno - l'unico luogo in cui possiamo destarci, ad onta di tutti i facili superamenti da parte degli eclettismi e dei post-modernismi à la page. E' infatti tra le rovine di questo mito (il mito del Moderno) che continuiamo ad aggirarci in questa fine di secolo: i vecchi volumi fortunosamente recuperati dalle umide casse in cui marcivano da anni ne sono un frammento, una traccia tutt'altro che secondaria.

L'immagine trasfigurata della capitale francese, assurta a emblema di un'epoca, è - con le parole de Il mito di Parigi di Giovanni Macchia - "un simbolo luminoso che affonda le proprie radici nel buio. Gerusalemme di un mondo laico, appare come un enorme organismo in movimento, bello perché è vivo, animato nel suo divenire da una vita sotterranea, piena d'ombre e profonda".

E' a questa vita sotterranea, a questa perturbante miscela di "splendori e miserie delle cortigiane" (per usare un famoso titolo di Balzac), a questo brulichío di peccati e di delitti, di abiezioni e di orrori che anima il "ventre" di Parigi, a questa ininterrotta serie di sovrumane cattiverie redente da altrettanto improbabili interventi salvifici da parte di giustizieri angelici (Rodolphe, Jean Valjean, Edmondo Dantès), che sembra voler dare voce il romanzo d'appendice. E questo non soltanto nel suo archetipo indiscusso - I misteri di Parigi di Sue - ma anche nella stragande maggioranza degli altri esemplari del genere, non solo francese ma anche italiano (quante volte la parola diavolo, demonio, ecc. compare nei titoli elencati in questo catalogo?).

Sempre con le parole di Macchia: "Nella prima metà dell'Ottocento, dopo la Grande Rivoluzione, proprio quando il mito di Parigi si affermava in senso assoluto come città-faro del mondo occidentale, come la Gerusalemme di un mondo laico, cominciò ad affacciarsi negli animi, nato quasi per un senso di colpa, uno spaventoso presagio di distruzione. L'immagine di questa Parigi in rovina assediò, come un incubo, la fantasia di poeti e di artisti, mito tragico, di catastrofe, che sembrò rappresentare, dopo l'illusione della luce, il trionfo delle tenebre".

E' questo il dèmone che nutre inconsapevolmente (al di là delle ideologie positiviste delle "magnifiche sorti e progressive") l'immagine che ha di sé la nascente società borghese moderna e che la insidia fin dalle sue origini.

Quale altro ascendente si potrebbe attribuire all'archetipo sommo della Fanciulla Candida Ingenua Innocente, perennemente condannata a peregrinare tra bettole e bordelli e a subire innominabili stupri e violenze in attesa della provvidenziale salvazione dell'eroe, se non le Justine e le Juliette o le protagoniste femminili delle 120 giornate di Sodoma del Divino Marchese de Sade? Da dove altrimenti può derivare, sia pure in tono minore (per venire al côté italiano delle Carolina Invernizio o delle Contessa Lara o dei Francesco Mastriani) il modulo della Sepolta viva, della Piccina famosa per le sue spropositate sofferenze, per i suoi grotteschi sballottamenti tra cimiteri e catacombe, tra cadaveri decomposti e iperbolici amori di "scapigliati" spasimanti, che ha fatto la fortuna di quel formidabile parodista che è Paolo Poli?

Come si sa (o come si dovrebbe sempre ricordare) il sadismo non esisterebbe senza castità, sentimentalismo, purezza, dolcezza. Pare che la società borghese nascente e trionfante (quella che poi si sarebbe chiamata società "moderna" tout court) abbia esaltato e nutrito fin dal Settecento quelle virtù con la stessa cura con cui si alleva un docile animale, per togliersi poi il gusto di sgozzarlo. Basti pensare a Richardson e alla sua celeberrima Clarissa, "la donzella di gran virtù e bellezza che, insidiata e sedotta dal libertino Lovelace, perseguitata dagli implacabili parenti, inferma dal dolore, si spegne lentissimamente tra i funebri apparati di una morte esemplare". Di qui prese le mosse, per Mario Praz (dal cui volume La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica è tratta questa citazione), l'archetipo della Vergine perseguitata (col suo pendant della Donna dannata, della Regina dei peccati di baudelairiana memoria, pallidamente riflesso nella Milady di Dumas), che scatenò l'immaginazione del Divino Marchese, condizionando per due secoli le fantasie maschili sull'essenza del femminismo.

Per un uomo come Sade, assai più "prossimo" a noi - come avrebbe detto Klossowski - e allo spirito del nostro tempo di quanto vorremmo riconoscere, "i vizi non vivono senza le virtù che li alimentano e quasi li creano. La virtù - osserva Giovanni Macchia - serve come vittima il vizio, il male vive del bene che gli è necessario. E non meraviglia che gli autori preferiti dal Marchese non fossero i romanzieri libertini come Crébillon e Dorat o come il popolare ed ottimista Rétif de La Bretonne, ma i commoventi e sentimentali Richardson - appunto! - Prévost, Rousseau, Baculard d'Arnaud". Per non parlare addirittura di Francesco Petrarca, dalla cui amatissima Laura egli si vantava di discendere.

E se fosse stato proprio lo spettacolo della Virtù continuamente insidiata dal Vizio, della Bellezza continuamente inseguita dall'Orrore, della Morte nascosta sotto gli orpelli della Moda e dei costumi "d'epoca", a sedurre torbidamente e inconsciamente le masse dei lettori dei feuilletons, decretandone il successo mondiale, al di là delle consapevoli intenzioni dei loro autori e delle professioni di fede progressista, democratica e populista di Eugène Sue, del "garibaldino" Dumas o di Victor Hugo? Al di là della loro stessa indiscutibile abilità nel creare intrecci e personaggi o nello stimolare le corde del patetismo e della commozione? Del resto, come sappiamo, proprio Eugène Sue, piuttosto cha apologeta, educatore e demagogo, avrebbe potuto egregiamente incarnare, con la sua vita, la figura del dandy così cara a Balzac e a Baudelaire; uno che, secondo il popolare paradosso di Oscar Wilde, avrebbe ben volentieri rinunciato al necessario, purché non gli fosse tolto il superfluo.

Marx, nella Sacra famiglia, sbagliò, se voleva davvero sottoporre a critica la società "borghese", a sottovalutare il carattere sintomatico dei Misteri di Parigi e a preferirgli il più "classico" Balzac. Secondo un vecchio ma non ancora del tutto scontato paradigma di Lukács, solo le società veramente "classiche", organicamente coese intorno ai loro miti e ai loro valori, possono esprimere una vera letteratura epica, una vera epopea. Per l'Europa borghese moderna (per l'Occidente, per la terra della sera - Abenland - che reca iscritto sin dall'inizio, persino nel codice genetico del suo nome, il destino di tramontare), minata fin dalle radici dalla riduzione di tutta la vita a Merce, di tutti i valori a Valore, l'unica epica possibile non era che quella - tra parodistica e patetica - costituita dai feuilletons.

A suggello, l'illuminante passo di Walter Benjamin: "La creazione fantastica si prepara a diventare pratica come grafica pubblicitaria. La letteratura si sottomette al montaggio nel feuilleton. Tutti questi prodotti sono in procinto di trasferirsi come merci sul mercato. Ma esitano ancora sulla soglia [...]. Sono gli avanzi di un mondo di sogno". Tra gli avanzi di questo sogno continuiamo a vivere ancora oggi.