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Storico dell'antichità italiano (Cuneo 1892 - Roma 1972);
prof. di storia antica (dal 1922), rettore (1947-49) nell'univ. di
Padova, e, dal 1949 al 1962, prof. di storia romana in quella di
Roma. Opere principali: Arato di Sicione e l'idea federale (1921);
L'impero ateniese (1927); L'Italia romana (1934); Cesare (1941);
Nuova storia di Roma (3 voll., 1942-1948; 2a ediz. 1959-60);
Trilogia del Cristo (3 voll., 1946-1947). Altre opere cristologiche
sono: Cristo (1961) e Trasfigurazioni (1965). Il volume Le vie della
storia (1955), indica il processo per cui, attraverso il
ripensamento della esperienza classica, il F. è arrivato a
una visione cristiana della storia. Nel 1962 sono stati raccolti in
volume gli Scritti di filosofia della storia; nel 1969 Pagine
italiane. È stato membro del primo senato della Repubblica
(1948-53); dal 1952 presidente della Giunta centrale per gli
studî storici; dal 1954 presidente dell'Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; dal 1956 presidente della "Dante
Alighieri". Socio nazionale dei Lincei dal 1955.
*
DBI
Nacque a Cuneo il 28 giugno 1892 da Agostino
Vincenzo e da Angelica Toesca. Frequentò le scuole secondarie
nel locale liceo, condiscepolo di A. Rostagni. Il 1910 si iscrisse
(e il Rostagni con lui) alla facoltà di lettere
dell'università di Torino vincendo la borsa del collegio
"Carlo Alberto" per studiarvi patristica e, comunque, l'antico.
La scelta del maestro fu immediata e quasi obbligata. G. De Sanctis
era non pur l'insegnante più qualificato, polemico,
cioè combattivo e combattuto, che avesse allora la
facoltà, nel rapido declino di A. Graf, ma, e soprattutto,
unico avvertiva la crisi della "scuola storica" e la
necessità d'un rinnovamento storiografico-culturale.
Arrivò alla laurea con un grosso bagaglio di pubblicazioni
erudite, per la maggior parte presentategli dal De Sanctis per la
stampa negli Attidell'Accademia delle scienze di Torino,
benché la serie cominci con un articolo dantesco, forse una
lettura ad una delle "sabatine" di A. Graf: Il dramma dantesco della
superbia e del dubbio (in Giorn. dantesco, XIX [1911], pp. 1 ss.).
Ed è significativo che degli scritti prelaurea uno solo
(Cirene mitica, in Atti dell'Acc. delle scienze di Torino,
XLVII[1911-12], pp. 505 ss.) preluda alla dissertazione del 1914 (la
quale, dunque, maturò e concrebbe con sviluppo autonomo e
particolare, framezzo a molt'altri e assai diversi interessi). Di
questi "juvenilia" resta validissima la monografietta Thessalon
politeia (in Entaphia, Torino1913, pp. 69 ss.), il primo tentativo
d'un'interpretazione concretamente storica, cioè non
meramente filologica né meramente istituzionale, delle
vicende tessaliche nella metà prima del IV sec. a.C., il
progressivo passaggio di civiltà e di potere politico dai
centri della pianura ai centri costieri, meglio aperti al commercio
e alle relazioni con Atene e col mondo greco, donde il correlativo
affermarsi più e più d'una classe mercantile
urbano-borghese, argine e limite al prevalere, fin qui
sostanzialmente incontrastato, d'una feudalità
agrario-equestre.
Il 1914 apparve, strana tesi di laurea e singolarissimo unicum negli
studi d'allora (vuoi di filologia classica, vuoi di storia antica,
vuoi di storia delle religioni o di etnologia), Kalypso. Saggio di
una storia del mito (Torino 1914). Il libro è tutt'oggi
valido più per le sue virtù letterarie che per il
metodo.
Il F. si propone, infatti, di dettar i fondamenti teorici d'una
"storia del mito" e di esemplificarla mediante l'analisi d'alcuni
miti, Caco e Cirene, Andromeda, la Demetra d'Enna (cioè il
ratto di Proserpina). L'analisi è specialmente felice dove il
F. esamina, commenta, traduce o illustra le varie versioni
poetico-letterarie tuttavia superstiti di quel singolo mito.
Paradiginatica la ricostruzione dell'Andromeda euripidea,
interpretata non quale mera materia mitica, si quale opera d'arte,
quale momento (e così nelle analisi analoghe
dell'Imperoatheniese) delmondo e del sentire del poeta in un istante
preciso e particolare. Nuoce, naturalmente, alla composizione del
libro la giustapposizione, inevitabile però (nonostante la
bipartizione fra analisi e ricerca), del momento, o materiale,
filologico e del momento poeticoletterario (anche quando fonte d'una
certa fase d'un mito sia uno storico: Livio ad esempio, per il mito
di Caco). Ma più nuoce, o più è debole,
l'inquadratura metodico-teorica, il modo, cioè, di fare, o
conforme a cui il F. ritiene si possa e si debba fare, storia del
mito. Il mito, secondo il F., nasce naturalisticamente, né
quindi sarebbe l'"universale fantastico" dell'idealismo. Laddove par
assai dubbio che un mito, non trasformatosi e conservatosi in un
libro, in un rito o in un culto fedelmente osservato, serbi altro
valore se non di fonte letteraria, di storia o donnée che
attende e subisce il travaglio genetico-plasmatore dell'artista (e
questi è per il F. quasi soltanto scrittore, e non anche
scultore o pittore). In ultima analisi, perciò, e nonostante
i propositi di originalità teorico-metodica, si ha
l'impressione di trovarsi a fronte d'una storia di temi. E
l'Andromeda di Euripide serve, perciò, a intendere Euripide,
mentre serve poco o punto a intendere il mito, cioe la
trasformazione d'una materia "allotria". Libro, dunque, d'uno
studioso che armeggia e conosce, e magari combatte, lo storicismo
idealistico, e vi si trova a disagio, come, e più, si trova a
disagio nel tuttavia imperante filologismo. Ed è risoluto ad
uscirne.
Gli anni di guerra accentuarono la solitudine, il travaglio
spirituale, la maturazione "storicistica" del F., vagante per
l'Italia fra impegni militari ed impegni scolastici, ma sempre
intento al colloquio epistolare col De Sanctis e alle iniziative del
suo maestro. Questi meditava di lanciare, a guerra finita, presso il
Bocca di Torino, una Rivista di storia antica, fin dal cui primo
numero avrebbe gradito la collaborazione dell'allievo.
Il quale così rispondeva all'invito: "Ecco l'animo con cui
potrei collaborare alla Rivista:entusiastico per fede, per
volontà di vittoria. Vedo e sento tutto il bene che
può derivare da un rinnovamento così promosso. Conceda
perciò alla mia fede qualche dubbio" (lettera del 28 ag.
1917, pubblicata da L. Polverini, in Ann. della Scuola normale sup.
di Pisa, classe di lettere, s. 3, V [1975], p. 424, n. 16). Il
dubbio, giustificatissimo, nasceva dall'eventuale collaborazione
"con noi" de "i puri filologi e i puri eruditi": "purché
restino al loro posto!" (qualcosa di molto simile aveva scritto,
parecchi anni prima, in polemica precisamente col De Sanctis. G.
Ferrero).
Quando poi la rivista per qualche modo si fece, quando cioè
De Sanctis, coadiuvato dal Rostagni, dié inizio nel 1923 alla
nuova serie della Rivista di filologia, il F. ne fu, per i soli anni
Venti, autorevole ma assai parco, collaboratore. E altrettanto parco
collaboratore fu, negli anni medesimi, d'un'altra iniziativa
desanctisiana. Disapprovò inizialmente per motivi "politici"
l'intrapresa dell'Enciclopedia Italiana, confessò di aderirvi
unicamente per affettuosa deferenza al De Sanctis, direttore della
sezione d'"Antichità classica", e gli articoli che vi
stampò si leggono quasi tutti come un riassunto, o un'editio
minor, di quanto il F. aveva precedentemente scritto nell'Arato e
nell'Impero atheniese.
Gli anni dell'immediato dopoguerra videro il F. impegnato pro e
contro il rinnovamento storiografico all'insegna dell'idealismo.
Professore liccale a Roma e a Palermo, quindi presso la scuola
italiana di Alessandria d'Egitto, venne elaborando i suoi libri
maggiori e la sua personalissima e polemica interpretazione della
storia greca, pur movendo dalla problematica de' suoi maestri De
Sanctis e K. J. Beloch, alla cui scuola si era "perfezionato" dopo
la laurea. Era la problematica "bismarckiana" della storia in
termini di unità nazionale, che il cancelliere tedesco,
già nella sua celebre lettera al Curtius, riteneva doversi
saggiare (e condannare) alla stregua, e con la misura,
dell'"unità". Prontamente il F. provvide, però, a
rovesciare il problema, e a dimostrarne l'inanità, scegliendo
a suoi temi il momento della (presunta) unità nazionale in
ambito e con istrumenti federativi (donde il volume su Arato di
Sicione e Pidea federale, Firenze 1921) e successivamente il momento
della (presunta) unità nazionale in ambito di egemonia
periclea e postpericlea (donde L'impero atheniese, Torino1927).
Pur nell'insufficiente meditazione dei problemi e della teorica del
federalismo, donde l'insufficiente valutazione
politico-storiografica del libro di Freeman, abbassato al rango di
mero sussidio bibliografico (p. 243, n. 1), l'Arato riflette i
dettami della storiografia "idealistica" (e non a caso il libro
s'inizia con una citazione di Croce); ma, nel negativo giudizio
sulla sostanziale sterilità dell'opera di Arato, già
introduce quel cosiddetto "pessimismo storico", cui supplisce, negli
scritti posteriori, la "metastoria". Il termine qui manca ancora, ma
se n'avverte la presenza e l'attuosità, frammezzo al
finguaggio coerentemente gentiliano, quando il F. proclama,
dualisticamente (o "misticamente"): "Ciò che non è di
questo mondo, che non può diventare realtà nei
transeunti istituti umani, vive d'una vita incorruttibile fuori
dalle forme esterne del processo storico, per entro le forme
interiori dello spirito immortale: e ha ivi nome di assoluto" (p.
252).
Non stupisce perciò che da allora, per tutti gli anni Venti e
Trenta, i viri eruditissimi della filologia universitaria abbiano
motteggiato sui philosophoumena delF. e glien'abbiano fatto aspro
rimprovero allorquando il F. partecipò nel 1927al concorso
per la cattedra di Padova. Beloch (Griech. Gesch., IV, 2, p. 219, e
il rinvio bibl. a p. 16), per esempio, prese contezza dell'Arato
solo per contestarne (probabilmente a ragione: G. De Sanctis,
Scritti minori, I, Roma 1970, pp. 490-492) la cronologia della
battaglia di Sellasia. De Sanctis, ch'era della commissione con (fra
gli altri) G. Cardinali, G. M. Columba e E. Ciaceri, ne scrisse
indignato e sdegnato al discepolo, pur garantendogli la vittoria,
come poco avanti gli aveva garantito la vittoria al concorso per la
cattedra di storia generale al magistero femminile di Roma. "Il gran
rifiuto" di A. Solari aprì al F. l'università di
Padova, e qui lesse la sua prolusione sull'Universalità della
storia (tosto pubblicata dal Gentile sul Giorn. criticodella
filosofia ital., IV [1923], pp. 133 ss., poiin Scritti di filosofia
della storia, Firenze 1962, pp. 27 ss.) il febbraio 1923.
Per ventisett'anni Padova fu il suo porto, la sua oasi operosa, la
fucina del suo lavoro migliore. Intorno alla sua cattedra venne
affermandosi e maturandosi un'eletta di giovani. E, poiché
della scuola sono parte essenziale anche le "strutture", va
ricordato quanto, massime durante la sua presidenza di
facoltà negli anni Trenta, il F. provvide a fare, e a far
fare, per il potenziamento dell'istituto di storia antica e per
l'approntamento d'una sede adeguata all'importanza e al compito
della facoltà di lettere, il "Liviano", che resta, in ogni
caso, una insigne opera architettonica e un tesoro d'arte scultoria.
Perfettamente affiatato con i colleghi "classicisti", C. Anti,
archeologo e rettore, il latinista C. Marchesi e il grecista M.
Valgimigli, il F. seppe così dare vita a un quadrumvirato
che, nel la relativa libertà o tolleranza di Padova "bianca",
permise come nessun'altra università italiana in regime
fascista rigore di studi e impegno di coscienze, quale rese poi
manifesto la Resistenza (Marchesi, E. Meneghetti, E. Franceschini, e
altri).
A Padova il F. lavorò sodo, nella seconda e più ricca,
ma più controversa, fase della propria attività
storiografica. La quale s'iniziò col suo libro forse migliore
(uno de' pochi libri italiani di storia greca scritto in una prosa
non pur leggibile, ma d'arte): L'impero atheniese. Ch'era
altresì, consapevolmente, un libro di rottura. Col De Sanctis
e la filologia, anzi tutto. Il F. si fece sostanzialmente un merito
di ciò che al maestro parve il difetto più grave:
l'assenza di critica tucididea, l'analisi mancata, cioè,
della composizione, della cronologia ideologico-compositiva
d'un'opera che a un tempo esalta e condanna Atene, l'Atene caduca e
caduta e l'Atene trionfante in eterno nell'"epitafio" di Pericle.
Alla dialettica, od "antitesi", tucididea il F. contrappose
l'unità ed unicità della condanna. "Lo storico nega
l'epinicio all'Athene trionfante di Pericle e di Cleone; nega
l'epicedio all'Athene sconfitta di Nicia e di Alcibiade" (p. 440).
Perché "un solo e fondamentale concetto", esplicitato
già nella prefazione, governa il libro: "la insufficienza di
quei politici, da Pericle ad Alcibiade, la insufficienza dei loro
partiti e delle classi, a conoscere e a soddisfare i bisogni reali
della società contemporanea". Che era, a giudizio del F., la
conclusione "medesima a cui allora pervenne Socrate".
Dunque, una storia non creatrice di valori, quand'anche il F.
consciamente, e quasi superbamente, immerga nell'immediatezza degli
accadimenti l'opera poetica di Sofocle, e più di Euripide e
di Aristofane, e quest'opera poetica interpreti e ammiri non
soltanto come una realtà, ma come un'irrealtà
metafisica e metastorica e renda omaggio commosso all'Atene che
risorge mitica ed eterna nell'EdipoColoneo, quasi a smentire, a
negare in perpetuo, la vittoria di Lisandro, l'abbattimento
congiunto della democrazia e delle "lunghe mura". Qui, pertanto,
è già evidente, seppure implicita, la svalutazione o
condanna della storia greca, alla quale il F. dedicò l'opera
sua successiva: La dissoluzione della libertà nella Grecia
antica (Padova 1929).
Questo pregiudizio "antigreco", o più precisamente contro la
polis, che inquina l'opera storiografica del F. tosto divenne, forse
contro le sue intenzioni od aspettative, un elemento negativo degli
studi classici nostrali, infestati di romanità littoria e di
retorica imperiale (donde, negli anni Trenta, l'istituzione di
concorsi universitarii limitati alla sola storia romana).
La Dissoluzione pecca indubbiarnente di antistoricismo in quanto
negazione di valori e, storiograficamente, in quanto collega, non
senza qualche verità, ma non senz'arbitrio, ellenismo (o
filellenismo) e liberalismo in quella storiografia dell'Ottocento,
cui il F. rimproverava di non essere "riuscita a fondare, come fu
suo vanto, la "scienza" della storia" (ibid., p. 133).
Questo non esitò ad affermare il De Sanctis, la cui celebre
stroncatura (1930, in Scritti minori, VI, 1, pp. 439 ss.), sia pur
sotto la maschera, o con gli strumenti polemici, della "filologia" e
del "metodo", poneva in luce l'antitesi fra storicismo ed
antistoricismo, fra il servire alla storia, massime se questa
s'interpretasse, e così appunto il De Sanctis l'interpretava,
come teandria, come l'attuazione progressiva del regno di Dio sulla
terra, e il negare la storia, cioè recidere le radici stesse
dell'uomo. Già l'anno avanti, del resto, Croce aveva iniziato
sulla Critica una dura polemica col F., il quale, e sia pure a
titolo di ritorsione, ebbe il torto d'imbragarsi poco di poi con gli
stroncatori prezzolati od ignoranti della Storia d'Europa:storia
d'un'utopia, chiosava nel 1932 il F. (Scritti di filos. d. storia,
pp. 97 ss.1, ch'egli avrebbe, però, generosamente propugnata,
nel solco di Einaudi, e da ogni tribuna, gli anni posteriori al
termine della seconda guerra mondiale.
Altra conseguenza ebbe, e ancor più spiacevole per il F.
medesimo, la Dissoluzione della libertà, ilsuo commiato,
cioè, dagli studii greci (e dall'insegnamento medio e
universitario della storia greca, al quale il F. aveva
gentilianamente contribuito con un sommario scolastico di spirito e
di stile "tucididei": il giudizio è di M. Valgimigli, in
Leonardo, I[1930], p. 333).Passò, invece, allo studio,
consapevolmente né "scientifico" né "filologico" (e
neppure, in ultima analisi, veracemente storiografico) della storia
di Roma, in essa storia esaltando l'equità imperiale, la
virtus liviana, la clementia Caesaris, l'impero nazionale e,
soprattutto, l'italianità, quasi che la concessione
cesariano-augustea della cittadinanza all'intera penisola non
avviasse un processo di parificazione provinciale, epperò di
retrocessione del "giardin dell'imperio" al rango di provincia e al
suo rapido inaridimento culturale. Furono "provinciali" e Seneca e
Tacito (senza dimenticar Pompeo Trogo che all'imperiumsine fine
contrapponeva, lui contemporaneo di Livio, la bipartizione del
mondo).
In questa temperie di "romanità" il F. dettò e
divulgò, massime come libro base come l'obbligato libro di
testo per gli allievi della sua scuola patavina, L'Italia romana
(Milano 1934), consapevole antitesi del magisterio storiografico e
della disciplina filologica del De Sanctis. Questi, non senza
qualche intima contraddizione, ben avvertita da E. Gabba, rispetto
al suo antietruschismo e al suo unitarismo belochiano, aveva
tradotto e accolto nella Rivista di filologia (n. s., IV [1926], pp.
1 ss.) la conferenza fiorentina di U. v. Wilamowitz (Storia
italica): il quale, certo inconsapevolmente ricollegandosi alla
storiografia risorgimentale italiana, affermava, di contro a Th.
Mommsen e successori-, la necessità appunto di una storia
"italica", cioè dei popoli italici, progressivamente
assoggettati da Roma, che prima di Roma avevano usufruito della
duplice lezione incivilitrice dei Greci (o Magnogreci) e degli
Etruschi (e gli scavi archeologici, nonché i ritrovamenti
punici e micenei nella penisola, per anni o secoli ben anteriori
all'espansione conquistatrice di Roma, dovevano quindi fornirne la
riprova documentale). A questa "storia italica" (e l'ipotesi
storiografica dei Wilamowitz fu tosto sprezzantemente irrisa
dall'ufficiale romanità littoria in una violenta diatriba di
E. Romagnoli: vedi Pavan, pp. 263 s., e, per la polemica, M.
Gigante, Classicismo e mediazione, Roma 1989, pp. 88 ss.) il F.
contrapponeva una storia esclusivamente "romana", in quanto solo in
virtù della conquista romana l'Italia assurgeva a
"civiltà" ed unicamente sotto l'egemonia, o nella tradizione,
di Roma l'Italia (classica e cristiana) era in grado di svolgere la
sua missione di "civiltà". Donde, nella pagina più
celebre del volume (Italia romana, p. 299) la solenne proclamazione
emblematico-paradigmatica: "Anche" la storia più schiva
dell'enfasi e più cauta nell'entusiasmo deve pure indursi a
scrivere che Cesare fu il massimo dei Romani perché fu il
primo degli italiani".
Questo presupposto e principio dell'italianità romana governa
tutti, e sempre, gli scritti "romani" del F., di cui restano somma e
sintesi i tre volumi (Roma 1942-48; 2 ediz., ibid. 1959) della Nuova
storia di Roma, da Camillo a Traiano. Taceva, quindi, della "storia
italica", nonché degli insediamenti magnogreci, e,
soprattutto, micenei nella nostra penisola (donde un totale
capovolgimento, a riconferma cronologica della tradizione
annalistico-liviana, e dell'età regia e della conquista
etrusca e, soprattutto, degl'ininterrotti rapporti col mondo
ellenico e, in minor misura, col mondo punico); mentre la narrazione
interrotta alle soglie del II secolo d.C. sottraeva il F.,
nonostante le acute pagine del III volume (2 ediz., pp. 675 ss.),
all'obbligo d'un riesame del "rapporto" fra cristianesimo e impero,
non accennato, in verità, né in margine alla
persecuzione neroniana né in margine alla lettera di Plinio.
Caratteristica di tale Storia è di non appartenere "ad
alcuna" delle categorie storiografiche del Novecento: "non è
romanzata, non è scolastica, non è per i dotti". Segue
alquanto pedissequamente la tradizione, in ispecie Livio (non senza
consapevolezza e sfiducia, talvolta, del F. medesimo: si veda, per
esempio, I, 2 ediz., p., 111), sovente più parafrasato che
interpretato (e così Tacito e Dione Cassio). Manca ogni
riferimento bibliografico, ogni rinvio erudito e alle fonti,
perché l'opera è attinta "direttamente alla splendida
tradizione antica, che è classica, che è in supremo
grado Italiana".
Accanto allo storico, e tuttavia commisto ancora con esso, maturava,
infatti, il teologo, mentre più e più il F.
compiacevasi di polire il suo stile, che, dannunziano nelle
scritture giovanili, si faceva ora prettamente isocrateo. A
stupefacente, invero, la ricchezza, in ogni sua pagina, delle
assonanze e delle parisosi, degli omoteleuti e delle antitesi, con
un'eleganza e un'abilità gorgiana sorprendenti. non fosse che
per tal guisa la sua prosa veniva acquistando un carattere di
eloquenza oratoria, che prelude all'ultima fase, prevalentemente
politico-pratica, della sua esistenza.
Ricevuto il battesimo cristiano a dicembre del 1945 (figlio di
genitori agnosticì, non era stato battezzato), nel darne
tosto notizia al De Sanctis, avvertiva che nella sua biblioteca, o
fra i suoi livres de chevet, libri di teologia, di metafisica e di
filosofia religiosa sostituivano, ormai, e più e più
avrebbero sostituito, i libri di storia. Invano gli rispondeva il
maestro che anche i libri di storia sono libri di religione, in
quanto rivelano gesta Dei per homines, e ribadiva la sua formula
antica della progressiva attuazione del regno di Dio.
Invano, d'altronde, il F. pareva, o credeva di poter, appellarsi al
Manzoni. A certo suo merito insigne l'aver fin dagli anni Venti
riscoperto la fruttuosità degli scritti storici del Manzoni e
l'averne promosso lo studio critico-storiografico, totalmente
trascurato e dai "letterati" e dagli storici di professione. Ma il
Manzoni, e in genere i neoguelfi a lui più vicini, come il
Bonghi, rettamente (dal loro punto di vista) distinguevano fra
storia "pagana" (cioè greco-romana anteriore
all'incarnazione) e storia "cristiana" (o storia tout court); e non
meno giustamente avvertivano l'inferiorità della "pagania",
o, più veramente, il diverso ritmo dei divenire storico
avanti e dopo la venuta dei Cristo, il diverso dramma
dell'umanità, inconscia e successivamente consapevole delle
proprie possibilità di resurrezione, epperò del
proprio compito e dovere. Questa scissione fra i due nempi" della
storia manca, invece, nel F., il quale perciò trasfigura su
di un fondamento mistico o di fede l'animus medesimo degli antichi e
fa di questi dei precursori.
Retrospettivamente può quasi apparire simbolico (il F.
avrebbe forse detto: provvidenziale) che il battesimo cristiano e la
nuova esistenza dello storiografo coincidano con l'inizio dell'arduo
compito della ricostruzione post-bellica. A quest'opera il F. diede
tutto se stesso nei venticinqu'anni successivi. Nel 1947 rettore
dell'università di Padova (ma il suo nriennio" durò
fino al 1949 soltanto per la chiamata a Roma). Il 18 apr. 1948
eletto, per il collegio di Padova, senatore indipendente nella lista
democristiana, fu tosto presidente della Commissione scuola del
Senato, con un'autorità ed un impegno che gli valsero unanime
plauso, in ispecie dal comunista A. Banfi. Nel 1949, infine, per
desiderio e designazione del De Sanctis (di cui il F. non aveva mai
voluto occupare la cattedra, abbandonata il dicembre 1931 per
rifiuto del giuramento fascista) il F. venne chiamato ad occupare la
cattedra di storia romana all'università di Roma, che
importava, de facto, la direzione dell'Istituto italiano per la
storia antica e la cura delle pubblicazioni dell'Istituto medesimo
(al quale si affiancò, in collaborazione con S. Accame e con
altri, la pubblicazione degli Scritti minori di G. De Sanctis). La
conversione, Roma e il Senato (in cui nel 1950 entrò il De
Sanctis medesimo, nominato senatore a vita nel suo ottantesimo
genetliaco) e la comune partecipazione ai lavori della Commissione
scuola li ravvicinarono, riconciliarono maestro e discepolo, al
quale De Sanctis è probabile perdonasse, dopo il primo
fierissimo risentimento, la non equa ma acutissima e davvero
memorabile, recensione (1940) alla Storia dei Greci (Scritti di
filos. della storia, pp. 385 ss.).
Né frattanto sfuggivano, al F. (e al De Sanctis), nella
problematica della ricostruzione italiana, i problemi della politica
estera. Entrambi, né solo per solidarietà con De
Gasperi, furono da sempre "atlantisti". Nel Patto atlantico, tosto
slargatosi, come il F. osservava, a "comunità atlantica",
dunque a scelta di civiltà, il F. vide l'unica struttura in
cui potesse inserirsi l'Italia, senza timori per l'avvenire, e
sottraendosi, invece, ai timori correlativi dello stalinismo e del
neutralismo. La Comunità atlantica. e l'appartenenza ad essa
dell'Europa occidentale o liberale, favoriva, per l'Italia e per
l'Europa, l'unità, di cui il F. fu promotore, oratore e
paladino in ogni sua dichiarazione politica, o storico-politica,
massime allor quando salì nel '56 alla presidenza della
Società "Dante Alighieri".
Nel 1954 il F. era succeduto al De Sanctis nella presidenza
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Come ai problemi della cultura (né solo perché
presidente dell'Enciclopedia e della "Dante"), così fu
attentissimo il F. ai problemi della scuola, forse troppo sperando
dall'opera del ministro G. Gonella, suo ex allievo in Padova.
Perfettamente consapevole delle aporie della scuola italiana, ben
prima del 1968, affermò, peraltro, in Senato che la riforma
della scuola, e media e universitaria, presupponeva una riforma
dell'uomo. Ma scuole, università ed accademie, il F. sempre
vide quali officine liberamente operose di ricerca scientifica, e
sempre distinte fra scuola avviamento e fondamento della ricerca
scientifica e scuola avviamento al mercato del lavoro, facile
dispensatrice di lauree sempre più deprezzate e sempre meno
conformi alle esigenze d'una società moderna di tecnici e
dirigenti.
Non a quest'ultima, si ad una società materiata di alta
cultura, epperò veramente culta e civile, mirò il F.,
quando propose al Senato, di concerto coi senatore a vita G.
Castelnuovo, allora presidente dell'Accademia dei Lincei (e la
proposta fu acclamata dall'apposita commissione e dall'intera
assemblea) l'istituzione del Catalogo unico delle biblioteche
italiane. Non per nulla il discorso di commiato (1962) dalla
cattedra universitaria volle s'intitolasse: Ilmio umanesimo (in
Pagine italiane, pp. 139 ss.).
Ultimo dei suoi scritti fu un libro ispiratogli "dai poeti e dai
santi", un libro di poesia e di teologia, Misticamente (Verona
1972).
Il F. morì a Roma il 30 ott. 1972.