Fedro

 

Wikipedia

(LA) «Peras imposuit Iuppiter nobis duas:
propriis repletam vitiis post tergum dedit,
alienis ante pectus suspendit gravem. »

(IT) «Giove impose agli uomini due bisacce:
mise quella dei vizi propri dietro la schiena,
quella carica dei vizi altrui davanti al petto »
(Fedro - Fabulae, IV, 10)

Gaio Giulio Fedro (20 a.C. circa – 51 d.C. ca.) è stato uno scrittore romano, autore di celebri favole, attivo nel I secolo. Fedro rappresenta una voce isolata della letteratura: riveste un ruolo poetico subalterno in quanto la favola non era considerata (analogamente a oggi) un genere letterario "alto" anche se possedeva un carattere pedagogico e un fine morale.

Biografia

Il suo nome greco è Φαίδρος (Phaidros); non è invece certo se il nome in lingua latina fosse Phaedrus o Phaeder. Il latinista francese Louis Havet, curatore nel 1895 di una nota edizione delle Fabulae, suggerì la forma Phaeder sulla scorta di alcune iscrizioni[1] ma la forma latina Phaedrus è attestata in Cicerone[2] e, in particolare, nei titoli – sia pure aggiunti posteriormente – di tre favole[3] e in Aviano.[4] Egli è pertanto identificato comunemente con Phaedrus.

Quanto al luogo di nascita, Fedro stesso afferma[5] di essere nato sul monte Pierio, luogo di nascita delle Muse, che al tempo faceva parte della Macedonia; però egli sembra anche alludere alla Tracia come sua patria, vantata come terra di poeti.[6] È certo che il monte sorgeva in prossimità del confine trace e alla fine del I secolo, una rettifica dei confini delle due province lo ridusse in Tracia.

Fedro nacque intorno al 15 a.C. e giunse giovanissimo a Roma come schiavo, forse a seguito della violenta repressione, operata dal console Lucio Calpurnio Pisone, della rivolta avvenuta in Tracia nel 13 a.C. La sua venuta a Roma ancora bambino è stata dedotta dalla sua affermazione[7] di aver letto da bambino il Telephus, una tragedia ora perduta di Ennio; ma non si può escludere, per quanto poco probabile, che egli abbia potuto già studiare latino in Macedonia, e pertanto la questione della data della sua venuta a Roma resta insoluta.

Che egli sia stato uno schiavo familiaris, appartenente cioè alla familia di Augusto, e poi emancipato da questo imperatore è attestato nella titolazione manoscritta della sua opera, Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae; si deduce che il suo nome, dopo la liberazione, deve essere stato Caius Iulius Phaedrus, dal momento che i liberti assumevano il praenomen e il nomen del loro patrono.

Se Fedro fu effettivamente portato giovanissimo a Roma, potrebbe aver studiato alla scuola dell'erudito Verrio Flacco, tenuta nel tempio di Apollo che sorgeva sul Palatino[8] dove studiavano anche i nipoti di Augusto, Gaio e Lucio, e di quest'ultimo, secondo un'ipotesi,[9] potrebbe esser poi divenuto pedagogo, acquisendo quei meriti che, insieme con l'ascesa sociale, lo avrebbero portato alla libertà.

Come Fedro stesso ci informa,[10] il ministro di Tiberio, Seiano, lo fece processare, sospettandolo di allusioni sgradite ai potenti. Ne uscì tuttavia indenne, forse anche per la caduta in disgrazia e la morte del prefetto, e poté continuare a scrivere indisturbato fino all'impero di Claudio (41-54), grazie a un liberto, Fileto, al quale è dedicato uno dei suoi ultimi componimenti, o forse anche fino all'impero di Nerone (54-68).
I manoscritti

I cinque libri superstiti delle Fabulae consistono in 102 componimenti, riconosciuti come certamente autentici; altre 32 favole – non comprese nei 5 libri canonici, ma certamente autentiche - sono contenute nella cosiddetta Appendix Perottina, tratta nel XV secolo dall'umanista Niccolò Perotti da codici ora perduti.

Le sillogi

Esistono tre storiche sillogi di favole in gran parte riconducibili a Fedro:

    le 67 favole del codice leidensis Vossianus, appartenuto ad Ademaro di Chabannes
    le 62 favole contenute nel codice Gudianus Latinus di Wolfenbüttel, del X secolo
    le 83 favole del Romulus, cosiddetto dal nome che il compilatore, che sostiene di essere l'autore delle traduzioni in latino di favole di Esopo, si è dato.

Il genere favolistico

Il genere favolistico si trova praticato anche nei testi più antichi dell'umanità, quando si sia voluto rappresentare, attraverso un linguaggio semplice e metafore facilmente comprensibili, un principio di verità o un insegnamento morale. Anche l'utilizzazione, a questo scopo, di racconti i cui protagonisti siano animali, attribuendo loro peculiarità morali e caratteristiche comportamentali, accettate dall'universale immaginazione o quanto meno dal comune pregiudizio umano, risponderebbe alla necessità di esemplificare e rendere immediatamente assimilabile il messaggio contenuto nel racconto.

In alcuni testi del Vicino Oriente mesopotamico, a differenza delle favole persiane e indiane, nelle quali predomina il gusto della narrazione fantastica, senza preoccupazioni di sottendere insegnamenti di ordine morale, si riscontrano insegnamenti di tipo sapienziali, mentre in testi egiziani e palestinesi - raccolti nei Proverbi biblici - si hanno diretti ed espliciti insegnamenti, senza la mediazione della narrazione favolistica.

Nel mondo greco, il genere della favola si presenta inizialmente nella forma dell'«aínos», nella similitudine, come mostra l'esempio offerto, nell'VIII secolo a.C., dall'Usignolo e lo sparviero narrato nelle Opere e i giorni di Esiodo - non a caso definito il primo favolista da Quintiliano,[11] nel quale un usignolo, catturato dal rapace, cerca di impartirgli una lezione sul significato della giustizia.

Secondo i grammatici antichi, fu Archiloco, poeta di Paros, attivo nel VII secolo, il creatore della favola del tipo che sarà poi sviluppata da Esopo, ma restano scarsi frammenti, come frammenti di favola sono in Solone e in Simonide, del VI secolo.

Le favole di Fedro

Fedro riconosce la propria dipendenza dall'opera di Esopo, dando tuttavia alle sue favole maggiore dignità letteraria, riscrivendole in versi senari. Le favole di Fedro hanno un doppio scopo: divertire il lettore, con scene di carattere comico, ma di suggerire anche "saggi consigli" per vivere....
La fortuna critica

Non pare che questo umile, ma dignitoso ed arguto favolista, abbia ottenuto fra i suoi contemporanei quel successo che avrebbe meritato, almeno presso il pubblico dotto, ma i suoi testi, riscoperti nel XV secolo, furono ripagati da notevole fortuna in età moderna. Il favolista Jean de La Fontaine gli deve molto e le favolette di Fedro, per il loro stile semplicissimo e i loro contenuti moraleggianti, ebbero notevole impiego, come già si è sottolineato, nell'insegnamento scolastico del latino. Oltre a La Fontaine Fedro è stato apprezzato ed elogiato per il suo stile letterale sobrio ma al contempo elegante da Giacomo Leopardi nello Zibaldone.

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DBI

Fèdro (lat. Phaedrus). - Favolista latino (sec. 1° d. C.). Poco sappiamo della sua vita. Originario della Macedonia, fu a Roma liberto di Augusto; poi sotto il regno di Tiberio, dopo aver composto i primi due libri di favole, subì un processo intentatogli da Seiano, ma ne dovette uscire indenne o quasi perché continuò a scrivere fino al regno di Claudio. Scrisse in senarî giambici cinque libri di favole, dette da lui stesso esopiche, perché sono, le più, traduzione o rifacimento di quelle greche attribuite a Esopo Frigio, pur se talvolta, a differenza del suo modello, egli introduce nelle favole anche aneddoti storici, scenette sentimentali ed epigrammatiche, quadri simbolici. Talvolta inoltre appesantisce la composizione dando troppa parte alla morale. Egli ha il merito di aver creato nella letteratura romana il genere della favolistica. La lingua di F. è semplice e corretta, il senario assai regolare. Della sua opera restano solo estratti: i singoli libri giunti a noi constano rispettivamente di 31, 8, 19, 25, 10 favole. F. non ebbe dapprima molta fama: solo Marziale lo nomina; poi non è più citato fino al sec. 4°, cioè fino alla raccolta di Aviano, che deriva però più da Babrio che da F. direttamente. In seguito si venne formando un corpus di favole latine in prosa in cui molte delle favole di F. vennero pubblicate come materia anonima e tradizionale, sì che nel Medioevo, quando F. era ignoto, si ebbero tre redazioni principali di favole; di queste la più nota è quella intitolata Romulus o Aesopus latinus, dove F. non è nominato, ma dove ne sono riprodotte cadenze tipiche e dove la derivazione da lui è dimostrata dal fatto che spesso le favole in prosa si possono ridurre in senarî. Solo nel 1596 Pierre Pithou (Pithoeus) pubblicò a Troyes la prima edizione di F. da un manoscritto del sec. 9°; in seguito si trovarono altri manoscritti e nel sec. 19° fu edita una trentina di "favole nuove" di F. su una raccolta fatta alla fine del sec. 15° da Niccolò Perotto, che non si sa però da quale fonte le avesse attinte.

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Enciclopedia Italiana (1932)

di Nicola Terzaghi

FEDRO (Phaedrus). - Favolista latino, autore di una raccolta di favole esopiche scritte in trimetri giambici. Egli stesso afferma nel prologo del III libro (v. 17-19) di essere un greco della Pieria. Dovette essere trasportato in Italia da fanciullo al tempo di Augusto, in condizione di schiavo, e da Augusto stesso dovette essere affrancato. Nulla sappiamo della sua famiglia, ma è certo che non fu di nobile origine, e forse fu abbandonato dai genitori. Scrisse le sue favole sotto Tiberio, durante il cui regno ne pubblicò due libri. Ma alcune di esse forse suscitarono lo sdegno di persone che si ritennero colpite sotto l'allegoria di qualche racconto animalesco (probabilmente nelle favole del II libro, più tardi fatto sparire dalla raccolta), sicché fu accusato non sappiamo bene di che cosa, e forse anche condannato. Mentre nell'epilogo del III libro F. afferma di non volere scrivere altre favole, egli pubblicò poi altri due libri. Non sappiamo quando morì. Il V libro contiene solo dieci favole: è dunque altrettanto breve quanto il II. Ma, mentre la brevità del V si spiega con la vecchiaia ed eventualmente con la morte di F., quella del II non si può spiegare, come si è accennato, se non con la soppressione di alcune favole. Del resto, che ciò sia vero, e che nella trascrizione del testo fedriano siano avvenuti rimaneggiamenti e confusioni è provato dal manoscritto, che nel sec. XV fu tra le mani dell'umanista Nicolò Perotti (ora scomparso, ma di cui esistono due copie), nel quale si leggevano, oltre a quelle note, le 31 favole che costituiscono la cosiddetta Appendice fedriana.

F. cominciò con l'imitare Esopo e con il ridurne in latino la materia di molte favole, pur proponendosi fin da principio una certa libertà con l'introdurre a parlare anche gli alberi. Via via che procedette nel suo lavoro, gli parve di acquistare in originalità, e così nel prologo del libro IV afferma che le sue favole non sono di Esopo, ma soltanto esopiche, perché introducono argomenti e spunti nuovi in una materia già antica.

La morale di F. è spesso arida e sconsolata; tutta la sua produzione, sebbene inspirata dall'amore della vita buona e sana, è pervasa da un soffio di triste pessimismo. Il temperamento di F. apparisce però freddo, e non sempre egli riesce a vedere il legame tra il contenuto delle favole che espone, e la moralità che ne ricava e che colloca in fondo al racconto, o spesso, e con danno del valore artistico ed etico del piccolo componimento, in principio. Egli persegue la brevità e se ne fa un vanto, ma questa nuoce spesso alla retta intelligenza delle favole. Scrisse in trimetri giambici regolari, ma adottando sostituzioni ritmiche non approvate dall'uso classico. La sua lingua è pura e semplice, pur con qualche abuso di termini astratti. Certo egli non è un grande poeta, ma, soprattutto come unico rappresentante del genere, a cui si sforzò di dare rilievo e sviluppo, merita un posto segnalato nella letteratura romana del sec. I d. C.

La fama che F. perseguì, certo di ottenere un posto segnalato fra i poeti latini, gli venne invece a mancare quasi del tutto: infatti, sebbene forse le sue favole andassero per le mani degli scolari al tempo di Quintiliano (I, 9, 2), Seneca lo ignora od ostenta di ignorarlo, e Marziale allude agli "scherzi di quell'impertinente di Fedro". Soltanto fra il secolo IV e il V si formarono raccolte favolistiche, dove F. era largamente utilizzato. Di esse si conoscono tre redazioni principali, fra cui è celebre soprattutto quella nota sotto il nome di Romolo e intitolata: Esopo Latino.

Manoscritti ed edizioni: Il manoscritto principale è quello del sec. IX (ora in possesso del marchese di Rosambo) da cui P. Pithou trasse l'editio princeps di F. (Autun 1596); importante è anche un frammento del sec. IX o del X, ora nella biblioteca vaticana. Accanto alla edizione maggiore (non sempre sicura) di L. Havet (Parigi 1896), meritano attenzione i primi due volumi dell'opera di L. Hervieux, Les fabulistes latins (2ª ed., Parigi 1893), e ha ancora valore l'edizione di L. Müller (Lipsia 1877). Fondate sui manoscritti sono le edizioni di J. P. Postgate (Oxford 1919) e di A. Brenot (Parigi 1924), nella cui introduzione si trovano riassunte le vicende del testo fedriano.

Bibl.: M. Schanz, Gesch. der röm. Lit., II, 3ª ed., Monaco 1913, pp. 39-50; C. Marchesi, Fedro e la favola latina, Firenze 1923; B. Romano, Fedro e la sua morale, in Annuario del R. Ginnasio di Susa, 1929; A. Cinquini, Index Phaedrianus, Milano 1905.