Età giolittiana
EEG, vol. 6 p. 502
Rosario Romeo
L'«età giolittiana» è rimasta nella memoria di chi visse nei decenni
successivi come il pieno meriggio della civiltà liberale in Italia,
quando il nostro paese più largamente e pienamente partecipò a
quello che si disse l'apogeo dell'Europa. E in effetti la
intelligente accettazione di alcuni fatti caratteristici del nuovo
secolo, a cominciare dal posto crescente del movimento operaio nella
società moderna, e la politica di larga tolleranza seguita nei suoi
confronti, consentirono a Giolitti di guidare il paese durante un
quindicennio di rapido progresso economico e civile, riducendo a un
livello sopportabile conflitti sociali e tensioni politiche interne.
L'economia italiana potè dunque giovarsi in larga misura dell'ondata
espansiva che sul mercato mondiale si manifesta a partire dal 1896 e
che durerà fino al 1914. Fu allora che nel nord e nel centro del
paese si realizzò quella che a buon diritto si definisce la
rivoluzione industriale italiana, con i connessi fenomeni di più
larga urbanizzazione, sviluppo di un vasto proletariato industriale,
creazione di un più moderno costume di vita.
Nuovi modelli di vita cominciarono a diffondersi in quegli anni, la
cultura italiana conobbe una delle sue fasi di maggiore rigoglio con
la rivoluzione allora operata dall'idealismo di B. Croce e G.
Gentile, antiche piaghe di miseria e analfabetismo cominciarono a
ridursi sensibilmente.
La cresciuta prosperità economica e l'atmosfera più distesa della
società generarono un sentimento di sicurezza che giustifica in
larga misura la visione degli anni di Giolitti come la faccia
italiana della belle epoque, anche per ciò che essa ebbe di frivolo
e di convenzionale. Sembrò allora a non pochi che l'Italia per la
prima volta si avviasse a raggiungere alcune delle mete per le quali
si era costituita a unità di stato; e le celebrazioni del
cinquantenario del regno furono la più solenne testimonianza di
questo diffuso sentire.
Ma, per converso, l'assenza di grandi obiettivi, la graduale
riduzione delle drammatiche contrapposizioni politiche dell'età
precedente nei binari di un normale regime parlamentare, la
prevalenza dell'ordinaria amministrazione e, anche, il visibile
scadimento dell'autorità dello stato, testimoniata dalle frequenti
concessioni alla piazza su questioni non essenziali, ma tuttavia
rilevanti sul piano del prestigio e dunque non prive di importanza
politica, alimentarono una crescente insofferenza nei confronti
della «prosa» giolittiana in ambienti intellettuali e politici
importanti.
La politica estera di Giolitti sembrava inadeguata alle ambizioni di
un paese che si vedeva cresciuto e rafforzato negli ultimi anni,
senza che il diffuso provincialismo di tanta parte della nostra
cultura politica si rendesse conto che assai maggiore era stata la
crescita di altre potenze.
E la pratica di governo giolittiana, con i suoi frequenti
patteggiamenti a livello locale, le sue transazioni con gli
interessi particolari e il suo elettoralismo, appariva corruttrice
della coscienza politica nazionale e indice di un declino sempre più
evidente dello stato e della borghesia liberale di fronte
all'avanzata socialista.
Su questo terreno maturò l'ondata antigiolittiana che doveva
esplodere alla vigilia della guerra e che investì non solo
intellettuali dannunziani, nazionalisti e uomini di destra, ma anche
democratici come G. Amendola e socialisti come G. Salvemini, che
furono dei molti ai quali la guerra parve giustificata anche per la
liquidazione che essa prometteva del sistema giolittiano.
In definitiva, con la sua opera politica Giolitti contribuì
certamente a realizzare in Italia il trapasso dallo stato liberale
allo stato democratico; ma lasciando che questo trapasso si
realizzasse piuttosto con l'azione diretta del movimento operaio che
non mediante riforme attuate attraverso il processo politico e
parlamentare, egli finì per menomare la funzione mediatrice dello
stato tra le forze sociali e per infirmarne dunque le strutture e
l'autorità, le quali non ressero alla crisi del dopoguerra, quando
il tentativo di riassorbire il fascismo nell'ambito costituzionale
si risolse in un insuccesso, come da ultimo era fallita la analoga
operazione nei confronti dei socialisti.
Wikipedia
Per età giolittiana s'intende quel periodo della storia italiana che
va dal 1901 al 1914, un quindicennio circa che a buon diritto prese
il nome dai governi di Giovanni Giolitti che caratterizzarono la
vita politica italiana sino alla vigilia della prima guerra
mondiale.
L'età giolittiana si innesta sulla fine della Destra storica: è
anticipata da un primo governo transitorio in un momento di crisi di
Crispi, comincia propriamente dopo la crisi di fine secolo e ha una
coda prima dell'instaurazione del regime fascista.
Indice
1 Giolitti I (maggio 1892 - dicembre 1893)
2 Tra il Giolitti I ed il Giolitti II: la crisi di fine secolo
3 Giolitti II (novembre 1903 - marzo 1905)
3.1 Le agitazioni sociali
4 Tra il Giolitti II ed il Giolitti III
5 Giolitti III (maggio 1906 - dicembre 1909)
6 Tra il Giolitti III ed il Giolitti IV
7 Giolitti IV (marzo 1911 - marzo 1914)
7.1 La guerra di Libia
8 Dopo il Giolitti IV
9 Giolitti V (giugno 1920 - luglio 1921)
Giolitti I (maggio 1892 - dicembre 1893)
L'inizio del primo ministero di Giovanni Giolitti coincise
sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di Crispi,
messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di
inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6
febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il paese fu
affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il
15 maggio 1892 fu nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora
ancora facente parte del gruppo crispino.
Il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che, nel
frattempo, attraversavano estesamente il paese e che, il più delle
volte, si riversavano nelle piazze (vedi il paragrafo L'ideologia
politica) a causa di una generale crisi economica che faceva salire,
fra l'altro, il costo dei beni di prima necessità; le voci che lo
indicavano come propositore di una tassa progressiva sul reddito
(motivi, entrambi, che gli alienarono il consenso dei ceti dirigenti
borghese-imprenditoriale e dei proprietari terrieri, che vedevano in
lui una minaccia ai propri interessi economici) e, infine, lo
scandalo della Banca Romana che gli valse accuse di aver "coperto"
irregolarità fiscali (prima con il suo dicastero delle finanze e poi
con una costante riluttanza all'apertura di inchieste parlamentari)
lo travolsero in pieno facendogli crollare la base del consenso su
cui poggiava la sua ancora giovane politica e lo costrinsero a
dimettersi poco più di un anno e mezzo dalla nomina, il 15 dicembre
1893.
Tra il Giolitti I ed il Giolitti II: la crisi di fine secolo
Di fronte alle debolezze mostrate da Giolitti, appena dimessosi, gli
elettori (ancora relativamente pochi, a causa del suffragio
ristretto) vollero di nuovo affidarsi al governo repressivo di
Crispi, per tentare di porre fine ai continui disordini causati dai
lavoratori. La politica estera di Crispi, aggressiva e colonialista,
lo portò in Eritrea, ma una serie di sconfitte culminate con quella
di Adua (1º marzo 1896) ne causarono le dimissioni. Il periodo che
va da questo momento sino al 1903, quando Giolitti ritornò Primo
Ministro, è comunemente indicato come la "crisi di fine secolo": un
periodo di recessione economica contribuì infatti all'aumento della
tensione sociale e politica, che si tradusse nella successione di 11
governi in appena 10 anni.
Il 4 febbraio 1901 il pronunciamento di Giolitti alla Camera,
emblematico della sua ideologia, contribuì alla caduta del governo
allora in carica, il Governo Saracco, responsabile di aver ordinato
lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova.
Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre
1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella
propria della sua carica di Ministro degli Interni, anche a causa
dell'avanzata età del presidente del consiglio.
Giolitti II (novembre 1903 - marzo 1905)
Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si
risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata
reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e
non più del gruppo crispino come fino ad allora aveva fatto.
Questo cambiamento gli consentì di seguire un po' più agevolmente
quella politica che si era proposta già all'epoca del suo primo
mandato: conciliare gli interessi della borghesia con quelli
dell'emergente proletariato (sia agricolo che industriale); a questo
proposito è notevole come Giolitti fu il primo a proporre l'entrata
nel suo governo come ministro al socialista Filippo Turati che
rifiutò convinto che la base socialista non avrebbe capito una sua
partecipazione diretta ad un governo liberale borghese. Nonostante
l'opposizione della corrente massimalista, in quel periodo
minoritaria, Turati appoggiò dall'esterno il governo Giolitti che in
questo contesto poté varare norme a tutela del lavoro (in
particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità
e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore
tolleranza nei confronti degli scioperi a condizione che non
turbassero l'ordine pubblico; nelle gare d'appalto furono ammesse le
cooperative cattoliche e socialiste.
L'apertura nei confronti dei socialisti, insomma, fu una vera e
propria costante di questa fase di governo: Giolitti programmava,
infatti, di estendere il consenso nei riguardi del governo presso
queste aree popolari, e in particolare presso quelle aristocrazie
operaie che, grazie ad una migliore retribuzione salariale e,
quindi, a un migliore tenore di vita, raggiungevano il reddito
minimo che consentiva il diritto di voto. Giolitti era infatti
convinto che non fosse utile a nessuno tenere bassi i salari perché
da un lato non avrebbe consentito ai lavoratori di condurre una vita
dignitosa, dall'altro avrebbe strozzato il mercato provocando una
sovrapproduzione.
Per la riuscita di questo suo progetto occorrevano due condizioni:
la prima che i socialisti rinunziassero alle loro proclamate volontà
rivoluzionarie, che del resto non avevano mai neppure accennato a
tradurre in atto anche nelle più favorevoli occasioni insurrezionali
come quelle da poco presentatesi con la rivolta dei Fasci
siciliani,[1] la seconda che la borghesia italiana fosse disponibile
a rinunciare, almeno in piccola parte, ai suoi privilegi di classe
per una politica di moderate riforme.
La situazione storica che attraversava il partito socialista,
spaccato tra massimalisti rivoluzionari e turatiani riformisti
favorì il programma giolittiano di coinvolgerlo nella guida del
paese ma anche lo condizionò come apparve dagli spostamenti a destra
o a sinistra che subì il suo governo a seconda di quale corrente
prevalesse nei periodici congressi del partito. Giolitti riproponeva
la politica del trasformismo nel tentativo di isolare l'estrema
sinistra e dividere i socialisti associandoli al governo. Tuttavia
Filippo Turati, che pure in un discorso del 22 maggio 1907 aveva
dichiarato alla Camera che le trasformazioni sociali dovessero
avvenire «per una via di evoluzione, di penetrazione, di
sostituzione graduale», in quanto egli pensava che la violenza
rivoluzionaria «avesse una funzione clamorosa e decorativa, assai
più che una funzione sostanziale», non soddisfece a pieno le
aspettative di Giolitti rifiutando la partecipazione diretta al suo
governo che preferì appoggiare dall'esterno temendo, se avesse
accettato il ministero offertogli, le ripercussioni sulla sua base
elettorale scandalizzata da un aperto sostegno socialista a un
governo liberale dei "padroni".
A questo proposito la critica storiografica nota come, da queste
migliori condizioni sociali, rimanessero esclusi i lavoratori meno
qualificati (in particolare quelli meridionali), di fatto spesso e
volentieri emarginati dai progetti politici di Giolitti (e che
andarono a confluire nei partiti massimalisti).
Le agitazioni sociali
Gli scioperi che si susseguirono negli anni 1901 e 1902 sia nel
settore agricolo[2] che in quello industriale, sia nel più
sviluppato Nord che nel Sud del paese, dimostravano che tutta la
floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano ad
incidere sulla precaria situazione della società italiana,
soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e presa
in considerazione solo come un serbatoio di voti da ottenere con la
corruzione dei deputati meridionali, gli "àscari"[3] del governo,
con le pressioni dei prefetti, della mafia e della camorra. Gli
intellettuali meridionali, come Gaetano Salvemini, non si stancavano
di accusare Giolitti, il "ministro della malavita".
Le moderate riforme non bastavano più: il paese aveva l'esigenza di
riforme radicali, strutturali, che se non soddisfatta avrebbe
causato quella estremizzazione delle classi sociali che, dopo
l'intervallo fuorviante, voluto dalla classe dirigente, della Prima
guerra mondiale, giungerà al culmine nel dopoguerra con la
rivoluzione fascista preventiva del ceto medio contro i presunti
sovversivi.
I primi segni di questo fenomeno storico sono proprio nelle
contraddizioni dell'età giolittiana che si dibatte tra governi
riformisti e conservatori. Non a caso il 1904 fu l'anno del primo
sciopero generale della storia italiana voluto per motivi politici
dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola nella speranza che
questo fosse lo stimolo per una rivoluzione proletaria. Ma il
calcolo politico fallì dinanzi alla tattica giolittiana di lasciare
esaurire e sfogare lo sciopero limitandosi a garantire l'ordine
pubblico.
Tra il Giolitti II ed il Giolitti III
In questo periodo invitò l'amico Alessandro Fortis a creare un
governo (come appunto avvenne).
Giolitti III (maggio 1906 - dicembre 1909)
Alla caduta del secondo Governo Fortis (24 dicembre 1905 - 8
febbraio 1906), dopo un breve ministero Sidney Sonnino, Giolitti
insediò il suo terzo governo.
Il malessere continuava ad essere diffuso soprattutto nel
Mezzogiorno d'Italia dove, anche a causa dell'aumento demografico e
ai numerosi dissesti economici causati da grandi disastri naturali
(si ricordi l'eruzione del Vesuvio del 1906 ed il terremoto che
devastò Messina e Reggio Calabria nel 1908), continuava la emorragia
della emigrazione che divenne un fatto culturale tale da trovare
espressioni nella nostra letteratura nazionale da Giovanni Verga a
Luigi Capuana. Interi paesi si spopolavano e sparivano antiche
culture. Un fenomeno crudele e doloroso ma anche in un certo senso
benefico poiché intere popolazioni ebbero modo d'uscire dal loro
isolamento medioevale e, sia pure a prezzo di insanabili ferite,
entrare in contatto con le moderne società occidentali. Il governo,
che in un primo momento aveva ostacolato il flusso migratorio per
non far salire troppo i prezzi sul mercato del lavoro, in seguito
diede via libera favorendo la fuga all'estero delle classi
subalterne soprattutto perché cominciava a temere le conseguenze di
un'aumentata pressione sociale e poteva così contare su
un'affidabile stabilità monetaria.
Durante questo mandato Giolitti continuò, essenzialmente, la
politica economica già avviata nel suo secondo governo, e si
preoccupò di risanare il bilancio dello stato con una più equa
ripartizione degli oneri sociali, aiutato dalla congiuntura
economica positiva dei primi anni del Novecento. Il governo poté
dare il via nel 1906 alla conversione della rendita nazionale,
diminuendo il tasso d'interesse dal 5% al 3,75% dando la
possibilità, a chi non avesse accettato la diminuzione della
rendita, di poter ottenere l'intero rimborso dei capitali
sottoscritti; ma ben pochi furono i sottoscrittori che lo
richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello stato.
Questa era, in realtà, un'operazione rischiosa perché, per quanto si
potesse prevedere un certo panico tra i creditori dello Stato, le
richieste di rimborso non erano facilmente prevedibili. Di fatto,
comunque, ebbe successo perché queste furono assai limitate e la
possibilità della bancarotta fu ampiamente sventata. Ciò fu
possibile perché la conversione della rendita provocò una generale
diminuzione del costo del denaro che consentì di ottenere crediti ad
un saggio di interesse più favorevole e, quindi, incontrò un nutrito
consenso. Questo favorì l'industria pesante, che risultava ancora
arretrata a causa della mancanza, da parte degli industriali, dei
grandi capitali che sarebbero stati necessari a svecchiarla.
Oltre a ciò, la conversione della rendita centrò il suo scopo
primario: far "guadagnare" virtualmente allo stato la differenza sui
suoi debiti che, con l'abbassamento del tasso, non era più tenuto a
pagare. I proventi di questa manovra poterono, così, essere
impiegati nell'industria.
La lira godeva di una stabilità mai prima raggiunta al punto che sui
mercati internazionali la moneta italiana era quotata al di sopra
dell'oro e addirittura era preferita alla sterlina inglese. E tutto
questo, nonostante gli ingenti esborsi di denaro pubblico per la
realizzazione di grandi opere pubbliche come l'acquedotto pugliese,
il traforo del Sempione (1906), la bonifica delle zone di Ferrara e
Rovigo.
Accanto all'ormai completata nazionalizzazione delle Ferrovie,
infine, andò a collocarsi la proposta di nazionalizzazione delle
assicurazioni (portata a compimento nel quarto mandato).
Lo sviluppo economico si estese, anche se in misura minore, al
settore agricolo che, con la riapertura soprattutto del mercato
francese, dopo la ripresa voluta da Giolitti delle buone relazioni
con la Francia, interrotte dalla politica estera filotedesca
crispina, vide accrescersi le esportazioni dei prodotti
ortofrutticoli e del vino, mentre l'introduzione della coltura della
barbabietola da zucchero incrementò lo sviluppo delle raffinerie
nella pianura padana.
Per ciascuna di queste azioni la critica storiografica non ha
mancato di evidenziare anche i risvolti negativi: non ostacolare
l'emigrazione significa anche servirsene, un po' cinicamente, senza
tenere in conto il disagio arrecato a interi strati sociali
costretti a sradicarsi dalla propria terra (specie dal Sud, dove il
cosmopolitismo era certamente ben lontano dal diffondersi); favorire
unicamente l'industria pesante a discapito di quella
agro-manifatturiera è, poi, una tipica visione industrialista che
non tiene in debito conto l'economia del Mezzogiorno, che avrebbe
necessitato di trasformazioni più profonde del solo acquedotto
pugliese; infine la nazionalizzazione delle assicurazioni consentì
abnormi speculazioni da parte di chi ne deteneva le azioni.
Innegabile è invece, la bontà del miglioramento della legislazione
sul lavoro femminile e infantile con nuovi limiti di orario (12 ore)
e di età (12 anni).
Tra il Giolitti III ed il Giolitti IV
Nel dicembre del 1909 divenne presidente del consiglio Sidney
Sonnino, di tendenze conservatrici. A lui successe Luigi Luzzatti.
Giolitti IV (marzo 1911 - marzo 1914)
Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914.
Nacque come il tentativo probabilmente più vicino al successo di
coinvolgere al governo il Partito Socialista, che comunque votò a
favore. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle
assicurazioni sulla vita e l'introduzione del suffragio universale
maschile, progetti di considerevole valenza "sociale" e entrambi
immediatamente realizzati. Nel settembre del 1911 Giolitti, premuto
dalle spinte nazionaliste (il movimento nazionalista si era
costituito come partito organizzato nel primo congresso di Firenze
nel 1910) diede tuttavia inizio alla guerra di Libia; il conflitto
ebbe notevoli ripercussioni anche in politica interna, dividendo il
Partito Socialista e allontanandolo dal governo in maniera
irrimediabile.
La guerra di Libia
« Carlo Marx è stato mandato in soffitta. »
(Discorso alla Camera dei Deputati, 8 aprile 1911, citato in
Discorsi parlamentari di Giovanni Giolitti, v. III, Tipografia della
Camera dei deputati, Roma, 1953-1956)
Giolitti aveva comunque capito la pressione che saliva
dall'inaffidabile e contraddittorio movimento socialista ed andò
quindi a cercare quei naturali alleati che gli offriva la Chiesa di
papa Pio X che, preoccupato del pericolo sovversivo, aveva attenuato
il non expedit[4] consentendo ai conservatori cattolici di
partecipare alle elezioni politiche del 1909 assicurando in questo
modo il rafforzamento del governo Giolitti[5] che da questo momento
iniziò il suo cammino verso la destra conservatrice, la quale
avrebbe celebrato nel 1910, a Firenze, la nascita del partito
nazionalista che chiedeva a gran voce l'ingresso della Terza Italia
nella gara coloniale delle grandi potenze europee.
La guerra italo-turca, realizzata con l'appoggio diplomatico delle
potenze dell'Intesa, voluta dall'opinione pubblica italiana e dalla
borghesia industriale interessata alla produzione di guerra,
rappresenta l'inizio della fine dell'età giolittiana. Alle delusioni
seguite alla sanguinosa conquista di quello "scatolone di sabbia",
come dicevano i socialisti turatiani, si aggiunse la preoccupazione
per la ricomparsa, dopo dieci anni di pareggio, del passivo nel
bilancio dello stato.
Dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 che aveva visto
l'espulsione dell'ala moderata e il prevalere della corrente
massimalista, guidata da un giovane anarco-sindacalista, Benito
Mussolini, divenuto direttore dell'"Avanti", tutto stava ad indicare
che la lotta politica si stava acutizzando tra l'estremismo di
sinistra e una borghesia passata alle tesi dell'imperialismo.
Furono forse queste preoccupazioni che nell'imminenza delle elezioni
del 1913 spinsero Giolitti alla ricerca di un più vasto consenso di
massa con l'istituzione del suffragio universale maschile e
soprattutto con il patto Gentiloni[6] con i cattolici in funzione
antisocialista. I risultati elettorali sembrarono premiare la
politica giolittiana, ma era un'illusione: ormai lo scontro tra la
destra e la sinistra si combatteva nelle strade come dimostreranno i
disordini della "Settimana Rossa" nel giugno del 1914, guidata dal
socialista Mussolini, dal repubblicano Pietro Nenni, dall'anarchico
Errico Malatesta. Questa situazione sociale ingestibile
politicamente convinse Giolitti, già dimessosi nel marzo del 1914,
di aver visto giusto nella sua decisione di abbandonare almeno
temporaneamente la vita politica. Giolitti in realtà si era dimesso
designando come suo successore il conservatore Antonio Salandra,
calcolando che dal fallimento della politica di questi egli sarebbe
potuto tornare al governo da sinistra con un programma di più
avanzate riforme. Ma il suo piano si rivelò sbagliato: ormai non era
più possibile alcuna mediazione tra capitale e lavoro.
Dopo il Giolitti IV
L'inizio della fine della cosiddetta età giolittiana fu l'arrivo al
governo di Antonio Salandra nel 1914. Questi successe a Giolitti
accordandosi con lui, ma presto riuscì a rendersi politicamente
autonomo, sfruttando la nuova situazione creatasi dopo la firma
(all'insaputa del Parlamento e dei Partiti politici, a maggioranza
pacifisti), nell'aprile del 1915, del così detto Patto di Londra.
Quando nel maggio 1915 Salandra vincolò la sua prosecuzione al
governo all'accettazione da parte del Parlamento della volontà
interventista del governo, del re e delle gerarchie dell'esercito
(contro le Potenze centrali e gli accordi di alleanza militare che
l'Italia aveva stipulato con essi), Giolitti si trovò ad essere il
capo della maggioranza neutralista della Camera. Fu in quel contesto
che si ebbe un gesto di grande valenza simbolica anche se di scarsi
effetti pratici: un numero di deputati superiore alla maggioranza
dell'Assemblea lasciò il suo biglietto da visita nell'anticamera
dell'abitazione romana dell'ex primo ministro a testimoniare il suo
appoggio. Nonostante questo, il giorno dopo il Parlamento si piegò
al diktat del re, del governo e dell'esercito. Per alcuni storici
questo momento segna in Italia la fine dell'epoca liberale e
l'inizio di un'epoca di governi autoritari e anti-parlamentari che
sfocerà nel ventennio fascista di Benito Mussolini. Salandra,
reincaricato dal Re, fece uscire l'Italia dalla neutralità, per cui
Giolitti si batteva, e la portò nella Prima guerra mondiale.
Giolitti V (giugno 1920 - luglio 1921)
L'ultima permanenza al governo di Giolitti iniziò nel giugno 1920,
durante il cosiddetto biennio rosso (1919-1920), quando lo stato
liberale ormai in agonia, richiamò il vecchio statista, ancora di
fresche energie, ad affrontare e risolvere la questione fiumana.
Giolitti col trattato di Rapallo liquidò la questione di Fiume
dichiarata città libera, e con mano ferma, facendo intervenire
l'esercito, costrinse Gabriele D'Annunzio che l'aveva teatralmente
occupata a lasciare la città. La stessa energia Giolitti cercò di
applicare nella politica interna, ma qui la situazione era
degenerata sin dal suo ultimo ministero nel 1914. Per risanare il
bilancio dello stato in grave passivo per le spese di guerra,
aumentò il carico fiscale sui ceti più abbienti introducendo imposte
straordinarie sui profitti di guerra e addirittura fece varare una
legge sulla nominatività dei titoli azionari che cessarono di essere
parzialmente esenti dall'imposizione fiscale. Misure molto
coraggiose che convinsero i liberali borghesi che Giolitti era ormai
schierato dalla parte dei sovversivi mentre questi a loro volta
continuavano a considerarlo dalla parte dei padroni.
Giolitti risolse con successo l'occupazione delle fabbriche
dell'agosto-settembre 1920 - l'inizio del biennio rosso - adottando
il suo sistema di non intervento diretto dello stato il quale si
limitava a garantire l'ordine pubblico. Ciò però non fece diminuire
la paura del ceto medio deciso ormai ad affidarsi per la sua difesa
dai "bolscevichi" allo squadrismo fascista. Per porre freno alle
frequenti agitazioni socialiste, Giolitti non esitò ad appoggiare le
azioni delle squadre fasciste, credendo che la loro violenza potesse
essere in seguito riassorbita all'interno del sistema democratico.
L'ultimo errore politico di Giolitti fu quello di allearsi nelle
elezioni del maggio del 1921 coi nazionalisti e coi fascisti nella
speranza di ridurre i due blocchi contrapposti socialisti e
cattolici che impedivano la formazione di qualsiasi governo
efficiente. Egli si illudeva, secondo il suo credo politico, di
poter portare nell'alveo del moderatismo liberale il fascismo; così
non fu, anzi la sua manovra elettorale mentre aveva lasciato
inalterata la forza contrapposta di socialisti e cattolici, aveva
contribuito a dare una patina di rispettabilità al movimento
fascista che, con i 35 deputati eletti al Parlamento italiano,
iniziava la sua marcia verso la conquista del potere.