Note:
1)
Ancient Society, or Researches in the Lines of Human Progress from
Savagery, through Barbarism, to Civilisation [La società antica,
ossia ricerche sulle linee del progresso umano dallo stato
selvaggio, attraverso la barbarie, alla civiltà]. By
Lewis H. Morgan. London, Macmillan Co., 1877. II libro è
stampato in America ed è estremamente difficile averlo a Londra.
L'autore è morto da qualche anno [Nota di Engels].
2) Gli estratti commentati di Marx, formanti un
manoscritto di 98 pagine, sono stati pubblicati in traduzione
russa, in Arkiv Marksa-Engelsa, t. XX, 1941.
3) Nel sottolineare che le lotte delle classi
formano il contenuto della storia scritta Engels vuole avvertire
subito che la divisione in classi è un fenomeno storico secondario
e relativamente recente (mentre il periodo chiamato «stato
selvaggio» dal Morgan durò centinaia di migliaia di anni, nel
Vecchio Mondo gli uomini cominciarono a praticare l'agricoltura e
l'allevamento non prima di 10.000 anni fa, e la scrittura esiste
soltanto da 5000 anni circa). Si ricordi che all'inizio del primo
capitolo del Manifesto
del partito comunista Marx
ed Engels affermavano: «La storia di ogni società sinora esistita
è storia di lotte di classi», e che in una nota all'edizione
inglese del 1888 Engels precisò quell'affermazione con questo
commento: «O, a dir meglio, la storia scritta. Nel
1847 la preistoria sociale, l'organizzazione sociale precedente a
tutte le storie scritte era come sconosciuta. Dopo d'allora
Haxthausen scopri la proprietà comune del suolo in Russia, Maurer
dimostrò essere essa la base sociale da cui mossero storicamente
tutte le stirpi tedesche, e a poco a poco si trovò che le comunità
agricole col possesso del suolo in comune erano la forma primitiva
della società, dall'India fino all'Irlanda. Infine l'intima
organizzazione di questa primitiva società comunista fu messa a
nudo nella sua forma tipica dalla scoperta di Morgan della vera
natura della gens e della posizione di
questa nellatribù. Con lo sciogliersi di queste comunità
primitive ha principio la divisione della società in classi
distinte che diventano poi antagonistiche. Io ho cercato di
indagare questo processo nella Origine della famiglia ecc.»
4) Edward Augustus Freeman (1823-1892), storico
inglese, professore a Oxford, scrisse tra l'altro una History of
the Norman Conquest of England (Storia della conquista normanna
dell'Inghilterra), 1867-79 e una History of Federal Government in
Greece (Storia del governo federale in Grecia), 1863. Le sue opere
erano ispirate da un interesse quasi esclusivo per le istituzioni
politiche, da una pronunciata ideologia liberale e da una simpatia
unilaterale per i popoli germanici.
5) Researches
into the Early History of Mankind and the Development of
Civilisation (Ricerche
sulla storia primitiva dell'umanità e sullo sviluppo della
civiltà). London 1865, di Edward Burnett Tylor (1832-1917),
eminente antropologo ed etnologo inglese, professore a Oxford.
6) Das
Mutterrecht eine Untersuchung iiber die Gynaikokratie der
alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur (Il
Matriarcato. Ricerca
sulla ginecocrazia del mondo antico secondo la sua natura
religiosa e giuridica), Stuttgart 1891. Johann Jakob Bachofen
(1815-1887), giurista svizzero, professore di diritto romano a
Basilea, dava in quest'opera un'interpretazione in gran parte
fantastica delle società antiche, sostenendo che in una certa fase
dello sviluppo di ogni popolo domina una concezione «femminile»
della vita, che nella sfera religiosa si manifesta come culto
della Madre divina, nelle istituzioni giuridico-sociali come
matriarcato.
7) La trilogia formata dalle tragedie: Agamennone, Le Coefore, Le
Eumenidi, rappresentata
nell'anno 458 ad Atene da Eschilo (525/24-456 a.C.).
8) Eschilo, Le
Eumenidi, v. 605, e cfr. v. 212.
9) Ivi, v. 778.
10) Johnn Ferguson McLennan (1827-1881); storico
e giurista scozzese. Di lui Engels consultò le seguenti opere: Primitive
Marriage. An Inquiry into the Origin of the Form of Capture
in Marriage Ceremonies (Il matrimonio primitivo. Ricerca
sulle origini della forma del ratto nelle cerimonie nuziali),
Edinburgh 1865; Studies
in Ancient History Comprising a Reprint of «Primitive Marriage» ecc. (Studi di
storia antica comprendenti una ristampa del Matrimonio primitivo»
ecc.), London 1876, nuova ediz. 1886.
11) Etnologia
descrittiva. Di Robert Gordon Latham (1821-1888), studioso
inglese di etnologia e linguistica comparata, professore
all'University College di Londra.
12) The
League of the Ho-de-no-sau-nee or Iroquois, Rockester,
1851, che componeva con altro materiale, le quattordici Lettere sugli
irochesi, già pubblicate dal Morgan sull'American Review,
1847-1848.
13) The
Origin of Civilisation and the Primitive Condition of Man (L'origine
della civiltà e la condizione primitiva dell'uomo), London 1870.
John Lubbock (1834-1913), notevole figura di studioso, finanziere
e letterato inglese; nel campo della preistoria fu tra i primi a
tentare su larga scala una ricostruzione sistematica delle età
remote, valendosi anche del confronto con le sopravviventi società
primitive; si deve a lui, tra l'altro, la distinzione fra e
«paleolitico» e «neolitico» nell'Età della pietra.
14) Systems
of Consanguinity and Affinity of the Human Family (Sistemi di
consanguineità e affinità della famiglia umana), Washington 1871.
15) Questi due passi di Tacito e di Cesare sono
discussi da Engels più avanti.
16) Les origines de
la famille. Questions sur les antécédents des sociétés
patriarcales (Le
origini della famiglia. Questioni
sugli antecedenti delle società patriarcali), Genève-Paris 1874,
di Alexis Giraud-Teulon, professore di storia a Ginevra.
17) Ancient
Society uscì
in tedesco a Stoccarda, nel 1891, nella traduzione fatta da W.
Eichhoff con la collaborazione di K. Kautsky.
18) Sui punti di contatto fra Morgan e Charles
Fourier (1772-1537), come critici della società civile, vedi anche
la nota di Engels alla fine del volume, dove egli dice che anzi
era stata sua intenzione di sviluppare il confronto. Si può
ricordare il ritratto del Fourier tracciato da Engels in altra
occasione: «Ma dove Fourier appare più grande è nella sua
concezione della storia della civiltà. Egli divide tutto il suo
corso, quale sinora si è svolto, in quattro fasi di sviluppo:
stato selvaggio, barbarie, stato patriarcale, civiltà, la quale
ultima coincide con quella che oggi si chiama società borghese, e
dimostra che l'"ordinamento civile eleva ognuno di quei vizi, che
la barbarie pratica in maniera semplice, ad un modo di essere
complesso, a doppio senso, ambiguo e ipocrita", che la civiltà si
muove in un "circolo vizioso", in contraddizioni che continuamente
riproduce senza poterle superare, cosicché essa raggiunge sempre
il contrario di ciò che vuol raggiungere. Cosicché, p. es., "nella
civiltà la povertà sorge dalla stessa abbondanza". Fourier, come
si vede, maneggia la dialettica con la stessa maestria del suo
contemporaneo Hegel. Con pari dialettica egli, di fronte alle
chiacchiere sull'infinita perfettibilità umana, mette in rilievo
il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente, ma ha
anche il suo ramo discendente ed applica questo modo di vedere
anche al futuro di tutta l'umanità. Come Kant introdusse nella
scienza naturale la futura distruzione della terra, così Fourier
introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione
dell'umanità» F. Engels, Antidühring,
Roma 1950, p. 284.
19) In verità Engels, che disponeva di scarse
notizie sulla persona del Morgan, come appare dalla nota che
chiude questa prefazione, attribuisce convinzioni troppo
progressiste all'etnologo americano; del quale Bernhard J. Stern,
da noi citato nella prefazione, dà questo giudizio: Placido,
soddisfatto e padrone di sé, egli non fu mai agitato da idee
politiche o economiche rivoluzionarie. Per lui il capitalismo era
il sistema migliore, il governo degli Stati Uniti la migliore
democrazia, il cristianesimo la sola vera religione in questo
mondo migliore di tutti i mondi precedenti».
20) Nel volume Les origines du
mariage et de la famille (Le
origini del matrimonio e della famiglia), Genève-Paris 1884.
21) Nel viaggio di ritorno da New York, nel
settembre del 1888, incontrai un ex deputato al Congresso della
circoscrizione elettorale di Rockester, che aveva conosciuto Lewis
Morgan. Purtroppo non mi seppe dire molto di lui. Morgan sarebbe
vissuto a Rockester come privato cittadino, dedito soltanto ai
suoi studi. Suo fratello, colonnello, sarebbe stato addetto al
Ministero della Guerra a Washington e, per sua intercessione,
Morgan sarebbe riuscito ad interessare il governo alle sue
ricerche e a stampare a pubbliche spese parecchie delle sue opere.
Egli stesso, il mio informatore, si sarebbe più volte adoperato in
tal senso al tempo in cui faceva parte del Congresso. [Nota di
Engels].
Morgan è il primo che, con cognizione di causa, cerca di portare
un determinato ordine nella preistoria umana. Fino a che un
materiale notevolmente ampliato non costringerà a mutamenti, con
ogni probabilità la sua classificazione resterà valida.
Delle tre epoche principali: stato selvaggio, barbarie e civiltà,
lo interessano, ovviamente, solo le due prime e il passaggio alla
terza. Egli divide ognuna delle due epoche in uno stadio
inferiore, in uno medio e in uno superiore, secondo il progresso
della produzione dei mezzi di sussistenza; egli dice infatti:
L'abilità in questa produzione è decisiva per il grado di
superiorità degli uomini e del loro dominio sulla natura: Soltanto
l'uomo, tra tutti gli esseri, è giunto ad un quasi incondizionato
dominio sulla produzione di alimenti. Tutte le grandi epoche di
progresso umano coincidono, più o meno direttamente, con epoche di
allargamento delle fonti di sostentamento.
Lo sviluppo della famiglia va di pari passo, ma non offre un
contrassegno così lampante per la separazione dei periodi.
1. - Stato
selvaggio
1. Stadio inferiore.
Fanciullezza del genere umano, il quale viveva almeno in parte
sugli alberi — solo così si spiega il suo sopravvivere di fronte
ai giganteschi animali da preda — e si trovava ancora nelle sue
sedi originarie: foreste tropicali o subtropicali. Frutta, noci,
radici, gli servivano di nutrimento; la formazione del linguaggio
articolato è il risultato principale di questo periodo. Di tutti i
popoli conosciuti in epoche storiche, neppure uno si trova più in
tale stato primitivo. Sebbene questo periodo abbia potuto durare
migliaia di anni, non abbiamo prove dirette della sua esistenza,
ma una volta ammessa la discendenza dell'uomo dal regno animale,
bisogna necessariamente ammettere questo passaggio.
2. Stadio medio.
Comincia con l'utilizzazione dei pesci (tra essi annoveriamo anche
i gamberi, le telline e altri animali acquatici) per
l'alimentazione, e con l'uso del fuoco. Questi due fatti sono
connessi poiché l'alimentazione ittica diviene pienamente
utilizzabile solo per mezzo del fuoco. Con questa nuova
alimentazione gli uomini cessarono di dipendere dal clima e dalla
località; seguendo i fiumi e le coste, anche nello stato
selvaggio, gli uomini poterono diffondersi sulla maggior parte
della terra. Gli arnesi da lavoro della più antica età, fatti di
pietra non levigata e rozzamente lavorata, cosiddetti paleolitici,
e che in tutto, o in massima parte, appartengono a questo periodo,
sono, per la loro diffusione su tutti i continenti, elementi di
prova di queste migrazioni. Le zone di nuova occupazione,
l'impulso alla ricerca, ininterrottamente attivo, insieme col
possesso del fuoco prodotto mediante attrito, introdussero nuovi
alimenti, come radici e bulbi amidacei cotti nella cenere calda o
in fossi di cottura (forni di terra); come la selvaggina che, con
l'invenzione delle prime armi, clava e giavellotto, venne ad
aggiungersi occasionalmente alla alimentazione. Popoli
esclusivamente cacciatori, che vivono cioè solo di caccia, quali
figurino nei libri, non ce ne sono mai stati; il frutto della
caccia è infatti troppo incerto. A causa della continua incertezza
delle fonti alimentari, sembra che in questo stadio sia nata
l'antropofagia che, da allora in poi, fu praticata per lungo
tempo. In questo stadio medio dello stato selvaggio vivono, ancor
oggi, gli Australiani e molti Polinesiani.
3. Stadio superiore.
Comincia con l'invenzione dell'arco e della freccia, con cui la
selvaggina divenne alimento regolare, e la caccia uno dei normali
rami di lavoro. Arco, corda e freccia formano già uno strumento
assai complesso, la cui invenzione presuppone lunga esperienza
accumulata e intelligenza acuta, e quindi anche la conoscenza
simultanea di una quantità di altre invenzioni. Prendendo a
paragone i popoli che conoscono bensì arco e freccia, ma non
ancora l'arte vasaria (che secondo Morgan segna la data di
passaggio alla barbarie), noi troviamo in effetti già qualche
principio della costituzione di villaggi, una certa padronanza
della produzione dei mezzi di sostentamento, vasi e suppellettili
di legno, la tessitura a mano (senza telaio) con filamenti di
rafia, canestri intrecciati di rafia o di giunco, strumenti di
pietra levigata (neolitici). Per lo più il fuoco e l'ascia di
pietra hanno già fornito anche il battello scavato in tronco
d'albero ed in qualche luogo travi ed assi per la costruzione di
abitazioni. Tutti questi progressi noi li troviamo, per es., tra
gli Indiani del nord-ovest dell'America che certo conoscono arco e
freccia, ma non l'arte vasaria. Per lo stato selvaggio arco e
freccia sono stati ciò che la spada di ferro è stata per la
barbarie e la canna da fuoco per la civiltà: l'arme decisiva.
2. - Barbarie
1. Stadio inferiore.
Comincia con l'introduzione della ceramica. Questa, come si può
dimostrare in molti casi, e verosimilmente ovunque, è sorta
dall'uso di ricoprire canestri o recipienti di legno con argilla
per renderli resistenti al fuoco. In questo modo si trovò che
l'argilla plasmata adempiva allo stesso ufficio, anche senza il
recipiente interno.
Finora ci è stato possibile seguire il processo di sviluppo, in
modo assolutamente generale, applicabile in un periodo determinato
a tutti i popoli, senza riferimento alla località. Ma, con
l'avvento della barbarie, abbiamo raggiunto uno stadio in cui si
fanno sentire le differenze tra le ricchezze naturali dei due
grandi continenti della terra. L'elemento caratteristico del
periodo della barbarie è l'addomesticamento e l'allevamento degli
animali e la coltura delle piante. Ora, il continente orientale,
il cosiddetto vecchio mondo, possedeva quasi tutti gli animali
atti ad essere addomesticati e tutte le specie di cereali
coltivabili, eccetto una. Il continente occidentale, l'America, di
mammiferi addomesticabili possedeva solo il lama e, anche questo,
soltanto in una parte del sud, e di tutti i cereali coltivabili ne
aveva uno solo, ma il migliore: il mais. Queste diverse ricchezze
naturali producono l'effetto che d'ora in poi la popolazione di
ciascun emisfero segue la propria via particolare e che le pietre
miliari che separano i singoli stadi sono diverse per ognuno dei
due casi.
2. Stadio intermedio.
Comincia in oriente con l'addomesticamento di animali, in
occidente con la coltivazione di piante alimentari per mezzo
dell'irrigazione e con l'uso di mattoni crudi (essiccati al sole)
e di pietre per costruzione.
Cominceremo con l'occidente, poiché qui questo stadio non fu
superato in nessun luogo prima della conquista europea.
Tra gli Indiani, nello stadio inferiore della barbarie (a cui
appartenevano tutti quelli trovati a est del Mississippi)
esisteva, già al tempo della loro scoperta, una certa orticoltura
di mais e forse anche di zucche, di meloni e di altri ortaggi, la
quale forniva un elemento essenzialissimo alla loro alimentazione.
Abitavano in case di legno, in villaggi circondati da palizzate.
Le tribù del nord-ovest, specialmente quelle del territorio del
fiume Columbia, si trovavano ancora nello stadio superiore dello
stato selvaggio e non avevano la minima conoscenza né dell'arte
vasaria né della coltura delle piante di qualunque genere. Invece
gli Indiani dei cosiddetti pueblos (1) del Nuovo Messico, i
Messicani, gli abitanti dell'America centrale e i Peruviani, al
tempo della conquista, si trovavano nello stadio medio della
barbarie. Abitavano in case di mattoni crudi o di pietra simili a
fortezze, coltivavano mais e altre piante eduli, diverse secondo
il luogo e il clima, in orti irrigati artificialmente che
fornivano le principali fonti d'alimentazione ed avevano perfino
già addomesticato alcuni animali: i Messicani, il tacchino e altri
volatili, i Peruviani, il lama. Inoltre essi conoscevano la
lavorazione dei metalli ad eccezione del ferro, per la qual cosa
non potevano ancora fare a meno delle armi e degli strumenti di
pietra. La conquista spagnuola sbarrò la strada ad ogni ulteriore
sviluppo autonomo.
In oriente, lo stadio medio della barbarie cominciò con
l'addomesticamento di animali da latte e da carne. Invece pare che
qui l'orticoltura sia rimasta sconosciuta fino ad un'epoca molto
avanzata di questo periodo. L'addomesticamento e l'allevamento del
bestiame e la formazione di grandi armenti sembra abbiano dato
occasione alla differenziazione degli ariani e dei semiti dalle
altre masse dei barbari. Gli ariani dell'Europa e dell'Asia hanno
ancora in comune i nomi del bestiame, ma quasi per nulla quelli
delle piante coltivate.
In luoghi adatti, la formazione di armenti condusse alla
pastorizia; presso i semiti nelle pianure erbose dell'Eufrate e
del Tigri, presso gli ariani in quelle dell'India, dell'Osso e
dello Jassarte, del Don e del Dniepr. Ai confini di tali terre da
pascolo deve dapprima essere stato compiuto l'addomesticamento del
bestiame. I popoli pastori appaiono alle generazioni posteriori,
perciò, come originari di contrade che ben lungi dall'essere la
culla del genere umano, erano state, al contrario, quasi
inabitabili per i loro selvaggi antenati e persino per la gente
vivente nello stadio inferiore della barbarie. Viceversa, quando
questi barbari dello stadio medio si furono una buona volta
abituati alla pastorizia, non avrebbe potuto venir loro in mente
di tornare volontariamente indietro dalle erbose pianure fluviali
nei territori boscosi già sede dei loro antenati. Anzi perfino
quando essi furono spinti più lontano verso il nord e l'ovest, fu
impossibile ai semiti e agli ariani di dirigersi nelle contrade
boscose dell'Asia occidentale e dell'Europa prima di essere stati
messi in grado, attraverso la cerealicoltura, di alimentare il
loro bestiame in questo suolo meno favorevole, e soprattutto di
farlo svernare. È più che verosimile che la cerealicoltura sia
sorta qui per la prima volta dal bisogno di foraggio per il
bestiame, e che solo più tardi abbia acquistato importanza per
l'alimentazione umana.
Alla ricca alimentazione di carne e di latte presso gli ariani e i
semiti e, specialmente, al suo favorevole effetto sullo sviluppo
dei bambini, è forse da attribuirsi il superiore sviluppo delle
due razze. In effetti, gli Indiani Pueblosdel
Nuovo Messico, che sono ridotti a una dieta quasi esclusivamente
vegetariana, hanno un cervello più piccolo degli Indiani dello
stadio inferiore della barbarie, che mangiano più carne e pesce.
In ogni caso in questo stadio scompare a poco a poco
l'antropofagia, e si mantiene solo come atto religioso o strumento
di magia, il che è quasi lo stesso.
3. Stadio superiore.
Comincia con la fusione del ferro greggio e compie il passaggio
alla civiltà con l'invenzione della scrittura alfabetica e con il
suo uso per trascrizioni letterarie. Questo stadio che, come
abbiamo detto, solo nell'emisfero orientale fu percorso in maniera
autonoma, per ciò che riguarda il progresso della produzione fu
più ricco di tutti i precedenti presi insieme. Ad esso
appartengono i Greci dell'epoca eroica, le tribù italiche di poco
anteriori alla fondazione di Roma, i Tedeschi di cui parla Tacito,
i Normanni dell'epoca dei Vichinghi.
Anzitutto per la prima volta ci si presenta qui il vomere di ferro
tirato da bestie, che rese possibile l'agricoltura su larga scala, la coltivazione
dei campi, e conseguentemente un aumento praticamente
illimitato, per le condizioni di allora, dei mezzi di sussistenza,
e con ciò anche il taglio e la trasformazione di foreste in
terreni da coltura e in prati, taglio che sarebbe rimasto
impossibile, su larga scala, senza l'ascia e la vanga di ferro. Ma
ne consegui anche un rapido aumento della popolazione, e
popolazione addensata in una piccola area. Prima della
coltivazione dei campi avrebbero dovuto verificarsi condizioni
eccezionalissime perché un mezzo milione di uomini si lasciasse
riunire sotto un'unica direzione centrale: è verosimile che ciò
non sia mai accaduto.
Il fiore più alto dello stadio superiore della barbarie ci si
offre con i poemi omerici, principalmente con l'Iliade (2).
Strumenti di ferro notevolmente perfezionati, il mantice, il
mulino a mano, la ruota del vasaio, la preparazione dell'olio e
del vino, una progredita lavorazione dei metalli in via di
diventare artigianato artistico, il carro comune e il carro da
combattimento, la costruzione di battelli con travi ed assi, i
primi passi dell'architettura come arte, città turrite e merlate,
circondate di mura, l'epica omerica e tutta la mitologia: queste
sono le principali eredità che i Greci portarono dalla barbarie
nella civiltà. Se noi paragoniamo la descrizione fatta da Cesare,
e persino da Tacito, dei Germani che si trovavano all'inizio di
quel medesimo stadio di civiltà da cui i Greci d'Omero si
accinsero a passare ad uno stadio più alto, noi vediamo quale
ricchezza di sviluppo della produzione comprenda in sé lo stadio
superiore della barbarie.
Il quadro dello sviluppo dell'umanità che, seguendo Morgan, ho qui
tratteggiato, giungendo, attraverso lo stato selvaggio e la
barbarie, agli inizi della civiltà, è abbastanza ricco di tratti
nuovi e, per di più, indiscutibili, perché dedotti direttamente
dalla produzione. Tuttavia esso sembrerà incolore e meschino a
paragone del quadro che si dispiegherà alla fine del nostro
viaggio; solamente allora sarà possibile porre in piena luce il
passaggio dalla barbarie alla civiltà, il contrasto stridente tra
l'una e l'altra. Per ora possiamo così generalizzare la divisione
di Morgan: stato selvaggio: periodo in cui prevale
l'appropriazione di prodotti naturali belli e fatti; i prodotti
dell'arte umana consistono prevalentemente in strumenti ausiliari
per questa appropriazione. Barbarie: periodo dell'acquisizione
dell'allevamento del bestiame, dell'agricoltura,
dell'apprendimento di metodi per la produzione di prodotti
naturali, accresciuta dall'attività umana. Civiltà: periodo
dell'apprendimento dell'ulteriore elaborazione di prodotti
naturali, dell'industria e dell'arte propriamente dette.
Note:
1) Nome
attribuito dagli Spagnoli a un gruppo di tribù indiane del Nuovo
Messico, e derivato dalle particolari abitazioni, formate da
innumerevoli ambienti strettamente addossati l'uno all'altro.
2) Nell'Iliade e nell'Odissea, che descrivono
un'epoca assai remota per i loro autori, le armi e gli utensili
sono quasi sempre di bronzo; ma al tempo in cui i poemi furono
composti (VIII-VII secolo a.C.) i Greci lavoravano già comunemente
il ferro.
Engels: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato – [ Indice ]
II. - La famiglia
Morgan, che ha trascorso gran parte della sua vita tra gli
Irochesi, che risiedono ancora oggi nello Stato di New York, e che
fu adottato in una delle loro tribù (quella dei Seneca), trovò in
vigore tra essi un sistema di parentela che era in contraddizione
con i loro reali rapporti familiari. Presso di loro dominava quel
matrimonio monogamico facilmente dissolubile da ambo le parti, che
Morgan chiama famiglia
di coppia (1). La
discendenza di una tale coppia era, quindi, nota a tutti e da
tutti riconosciuta, né potevano sorgere dubbi sulle persone a cui
dovevano applicarsi le denominazioni di padre, madre, figlio,
figlia, fratello, sorella. Ma l'uso reale di queste espressioni
contraddice a ciò.
L'Irochese non chiama col nome di figlio e figlia soltanto i
propri figli, ma anche quelli dei suoi fratelli, ed essi lo
chiamano padre. I figli delle sorelle invece egli li chiama suoi
nipoti, ed essi lo chiamano zio. Viceversa, la donna irochese
chiama suoi figli e figlie, oltre che i propri figli, anche i
figli e le figlie delle sue sorelle, e questi la chiamano madre. I
figli dei suoi fratelli, però, essa li chiama nipoti, ed essi la
chiamano loro zia. Del pari i figli di fratelli si chiamano tra
loro fratelli e sorelle, così i figli di sorelle. I figli di una
donna e quelli di suo fratello si chiamano invece tra loro cugini
e cugine. E questi non sono solo vuoti nomi, ma concezioni
effettivamente valide, di vicinanza e di lontananza, di
eguaglianza e di diseguaglianza della consanguineità; e queste
concezioni servono di base ad un sistema di parentela
completamente elaborato, che è in grado di esprimere parecchie
centinaia di differenti rapporti di parentela di un singolo
individuo. E c'è di più. Questo sistema non è soltanto in pieno
vigore presso tutti gli Indiani d'America (finora non si è trovata
nessuna eccezione), ma vige anche, quasi invariato, presso gli
abitanti originari dell'India, nelle tribù dravidiche del Deccan e
presso le tribú Gaura dell'Indostan.
Le espressioni di parentela dei Tamili dell'India meridionale e
degli Irochesi Seneca dello Stato di New York concordano, ancora
oggi, per più di duecento differenti rapporti di parentela. Ed
anche fra queste tribù dell'India, come fra tutte le tribù degli
Indiani d'America, i rapporti di parentela derivanti dalla forma
di famiglia in vigore, sono in contrasto col sistema di parentela.
Come spiegare ora questo fatto? Data la funzione decisiva che
svolge la parentela presso tutti i popoli selvaggi e barbari
nell'ordinamento della società, non si può accantonare con giri di
frasi il significato di questo sistema così esteso. Un sistema
universalmente in vigore in America, esistente, del pari, in Asia,
presso popoli di razze del tutto differenti e del quale si trovano
numerose forme più o meno modificate dappertutto, in Africa e in
Australia, un tale sistema deve essere storicamente spiegato e non
eliminato con vuote chiacchiere come, per esempio, ha cercato di
fare McLennan.
Le denominazioni di padre, figlio, fratello e sorella non sono
semplici titoli onorifici, ma comportano reciproci doveri
assolutamente precisi e molto seri, il cui insieme costituisce una
parte essenziale della costituzione sociale di questi popoli. E se
ne è trovata la spiegazione. Nelle isole Sandwich (Hawai)
sussisteva ancora, nella prima metà di questo secolo, una forma di
famiglia che forniva padri, madri, fratelli, sorelle, figli e
figlie, zii e zie, nipoti dei due sessi, precisamente quali esige
l'antico sistema di parentela degli Indiani d'America. Ma, cosa
strana, il sistema di parentela in vigore nelle Hawai non si
accordava a sua volta con la forma di famiglia ivi effettivamente
esistente. Ossia, là, proprio tutti i figli di fratelli e sorelle,
senza eccezione, sono fratelli e sorelle e passano per figli
comuni non solo della loro madre e delle sorelle di questa o del
loro padre e dei fratelli di questo, ma anche di tutti i fratelli
e sorelle dei loro genitori senza distinzione. Se dunque, il
sistema di parentela americano presuppone una forma più primitiva
della famiglia, non più esistente in America, ma che invece
troviamo ancora effettivamente nelle Hawai, d'altra parte, il
sistema di parentela hawaiano ci rimanda ad una forma di famiglia
ancora più primitiva di cui non possiamo, è vero, più segnalare
l'esistenza in nessun luogo, ma che deve essere esistita,
perché, in caso contrario, non avrebbe potuto sorgere il
corrispondente sistema di parentela.
La famiglia — dice Morgan — è l'elemento attivo, essa non è mai
stazionaria, ma procede da una forma inferiore ad una superiore,
nella misura in cui la società si sviluppa da uno stadio inferiore
ad uno superiore... Invece, i sistemi di parentela sono passivi e
solo a lunghi intervalli registrano i progressi che la famiglia ha
fatto nel corso del tempo e subiscono un mutamento radicale solo
allorché la famiglia si è radicalmente cambiata.
«E — aggiunge Marx — lo stesso vale per i sistemi politici,
giuridici, religiosi, filosofici, in generale». Mentre per la
famiglia la vita continua, il sistema di parentela si ossifica, e
mentre questo continua a sussistere in forza dell'abitudine, la
famiglia lo supera progredendo. Ma, con la stessa sicurezza con
cui Cuvier (2) dalle ossa d'uno
scheletro d'animale, trovato presso Parigi, ha potuto trarre la
conclusione che esse appartenevano ad un marsupiale e che in quel
posto, una volta, avevano vissuto dei marsupiali ora estinti, con
la stessa sicurezza noi possiamo trarre, da un sistema di
parentela tramandato dalla storia, la conclusione che è esistita
la forma di famiglia ad esso corrispondente, e ora estinta.
I sistemi di parentela e le forme di famiglia che abbiamo
menzionato si differenziano da quelli ora dominanti per il fatto
che ogni bambino ha più padri e madri. Nel sistema di parentela
americano, a cui corrisponde la famiglia hawaiana, fratello e
sorella non possono essere padre e madre di uno stesso bambino; il
sistema di parentela hawaiano però, presuppone una famiglia in cui
ciò invece era la regola. Noi ci troviamo così trasportati in una
serie di forme di famiglia che sono direttamente in contraddizione
con quelle comunemente accettate finora come le sole vigenti.
L'idea tradizionale conosce solo la monogamia, ed accanto a questa
la poligamia di un solo uomo, e se mai anche la poliandria di una
sola donna, e passa così sotto silenzio, come si conviene al
filisteo moraleggiante, che la prassi, in maniera tacita, ma
disinvolta, non tiene conto dei limiti imposti dalla società
ufficiale.
Lo studio della storia delle origini invece ci presenta condizioni
in cui gli uomini vivono in poligamia e contemporaneamente le loro
donne vivono in poliandria, e i figli comuni sono perciò
considerati anche come cosa comune a tutti loro. Condizioni,
queste, che hanno a loro volta attraversato esse stesse tutta una
serie di mutamenti, fino alla loro dissoluzione nella monogamia.
Questi mutamenti sono di tal genere che la cerchia abbracciata dal
vincolo matrimoniale comune, all'origine assai larga, si restringe
sempre più sinché alla fine lascia sussistere solo la coppia
singola che oggi predomina.
Costruendo in questa maniera retrospettivamente la storia della
famiglia, Morgan arriva, d'accordo con la maggioranza dei suoi
colleghi, a uno stadio primitivo in cui dominava un commercio
sessuale illimitato all'interno d'una tribù, cosicché ogni donna
apparteneva indistintamente ad ogni uomo, e viceversa (3). Di
un tale stato primitivo si parlava già fin dal secolo scorso, ma
solo con frasi generiche. Bachofen per primo, ed è questo uno dei
suoi grandi meriti, se ne occupò seriamente cercando tracce di
questo stato di cose nelle tradizioni storiche e religiose.
Sappiamo oggi che queste tracce da lui trovate non riconducono
affatto ad uno stadio della società in cui vigeva la promiscuità
nel commercio sessuale, ma ad una forma molto posteriore: il
matrimonio di gruppo.
Quello stadio primitivo della società, nel caso che sia veramente
esistito, appartiene a un'epoca così lontana che noi difficilmente
possiamo aspettarci di trovare tra i fossili sociali — i selvaggi
ancora esistenti — dirette testimonianze
della sua passata esistenza. Il merito di Bachofen consiste
appunto nell'aver posto questa questione in primo piano nella sua
indagine (4).
È diventato recentemente di moda negare questo stadio iniziale
della vita sessuale dell'uomo. Si vuole risparmiare all'umanità
questa «vergogna». E precisamente ci si richiama, oltre che alla
mancanza di ogni prova diretta, principalmente all'esempio del
rimanente mondo animale. Da esso Letourneau (5) (Evolution du
mariage et de la famille, 1888) ha raccolto numerosi fatti
secondo i quali, anche qui, un commercio sessuale assolutamente
promiscuo può appartenere soltanto a uno stadio alquanto basso. Ma
da tutti questi fatti posso concludere solo che essi non provano
assolutamente nulla per l'uomo e per le sue condizioni di vita
nell'età delle origini.
Gli accoppiamenti di più lunga durata tra i vertebrati si spiegano
sufficientemente con cause fisiologiche, per esempio negli
uccelli, con il bisogno di aiuto da parte della femmina durante il
periodo della cova; gli esempi di fedele monogamia che esistono
tra gli uccelli non provano nulla per gli uomini poiché questi non
derivano certo da uccelli. E se una rigorosa monogamia è il
culmine d'ogni virtù, la palma spetta alla tenia che in ciascuna
delle sue proglottidi o segmenti del corpo, che vanno da cinquanta
a duecento, possiede un completo apparato sessuale maschile e
femminile e passa tutta la vita ad accoppiarsi con se stessa in
ciascuno di questi segmenti. Ma se ci limitiamo ai mammiferi,
troviamo tra loro tutte le forme di vita sessuale: promiscuità,
tracce di matrimoni di gruppo, poligamia, monogamia. Manca solo la
poliandria, a cui poteva arrivare solamente l'uomo.
I nostri stessi prossimi parenti, i quadrumani, ci offrono ogni
possibile differenziazione nel raggruppamento di maschi e di
femmine; e se noi restringiamo ancora di più i limiti e
consideriamo solo le quattro scimmie antropomorfe, Letourneau sa
dirci soltanto che queste ora sono monogame ora poligame, mentre
Saussure (6),
citato da Giraud-Teulon, sostiene che sono monogame. Anche le
affermazioni più recenti fatte da Westermarck (7) (History of Human
Marriage, London, 1891) in favore della monogamia delle
scimmie antropomorfe, non sono per nulla probanti. In breve, le
notizie che abbiamo sono tali che l'onesto Letourneau fa le
seguenti ammissioni: «Del resto non esiste nei mammiferi
assolutamente nessun rigoroso rapporto tra il grado dello sviluppo
intellettuale e la forma del commercio sessuale». Ed Espinas (8) (Des sociétés
animales, 1877) aggiunge:
L'orda è il più alto gruppo sociale che possiamo osservare tra le
bestie. Essa è, a
quel che sembra, composta di famiglie, ma già fin
dall'inizio, famiglia e orda sono in contrasto: esse si
sviluppano in rapporto inverso.
Come mostra ciò che abbiamo detto, sulle famiglie e altri gruppi
sociali delle scimmie antropomorfe, di veramente preciso non
conosciamo pressoché nulla. Le notizie sono indiretta
contraddizione l'una con l'altra. Né c'è da meravigliarsene. Se
piene di contraddizioni e bisognose di analisi critica e di vaglio
sono le notizie che possediamo sulle tribù umane allo stato
selvaggio, di gran lunga più arduo è l'osservare società di
scimmie che non sia l'osservare società umane. Fino a prova
contraria, dunque, dobbiamo respingere ogni conclusione tratta da
tali informazioni, assolutamente malfide.
Invece, la frase di Espinas, da noi citata, ci offre un miglior
punto d'appoggio. Orda e famiglia, negli animali superiori, non si
completano reciprocamente, ma sono in contrasto. Espinas espone
assai felicemente come la gelosia dei maschi, in periodo di
calore, renda rilassati o temporaneamente sciolga i vincoli in
ogni orda.
Dove la famiglia è molto compatta, solo in rari casi eccezionali
si formano orde. Invece, dove libero commercio sessuale o
poligamia dominano, l'orda si forma in modo quasi spontaneo...
Perché un'orda possa formarsi, i legami familiari devono essersi
rilassati e l'individuo deve essere ridivenuto libero. Perciò
tanto di rado troviamo tra gli uccelli orde organizzate... Tra i
mammiferi invece troviamo, in certo qual modo, società
organizzate, precisamente perché qui l'individuo non si dissolve
nella famiglia... Il sentimento comune dell'orda in sul nascere
non deve quindi aver avuto peggior nemico del sentimento comune
della famiglia. Non esitiamo ad esprimerci nel senso che se si è
sviluppata una forma sociale più alta della famiglia, ciò può
essere accaduto solo per il fatto che essa ha assimilato in sé
famiglie che avevano subito un radicale cambiamento; il che non
esclude che queste famiglie abbiano trovato, più tardi,
precisamente perciò la possibilità di ricostruirsi in condizioni
infinitamente più favorevoli (Espinas, op. cit., citato in
Giraud-Teulon, Origines
du mariage et de la famille, 1884, pp. 518-520).
E evidente dunque che le società animali hanno un certo valore per
trarre conclusioni retrospettive sulle società umane, ma un valore
solo negativo. I vertebrati superiori conoscono, per quel che ne
sappiamo, solo due forme di famiglia: poligamia e coppie separate;
in entrambe è ammesso un maschio adulto, solo un marito. La
gelosia del maschio, insieme legame e limite della famiglia, mette
la famiglia animale in antagonismo con l'orda. L'orda, la forma
superiore di associazione, diventa qui impossibile, e là si
rilassa o, durante il periodo di calore, si dissolve e, nel
migliore dei casi, il suo sviluppo progressivo viene ostacolato
dalla gelosia dei maschi. Solo questo basta a dimostrare che la
famiglia animale e la società umana primitiva sono cose tra loro
incompatibili e che, nello sforzo di sollevarsi dalla ferinità,
gli uomini primitivi, o non conobbero la famiglia, o al massimo ne
conobbero una che non esiste nel mondo animale.
Un animale inerme come era l'uomo che si andava formando, poteva
tirare avanti in piccolo numero anche in quell'isolamento, la cui
superiore forma sociale è la coppia separata, quale Westermarck,
sulla scorta di resoconti di cacciatori, attribuiva al gorilla e
allo scimpanzé.
Per uno sviluppo che esca dalla animalità, per il compimento del
più grande progresso che la natura presenta, ci voleva un
ulteriore elemento: la sostituzione della scarsa capacità di
difesa dell'individuo mediante la forza unita e la cooperazione
dell'orda. Il passaggio dalle condizioni in cui vivono oggi le
scimmie antropomorfe allo stato umano sarebbe veramente
inspiegabile; queste scimmie danno assai più l'impressione di
essere rami collaterali smarriti che vanno incontro a graduale
estinzione e che, in ogni modo, sono in declino. Questo solo basta
a respingere ogni conclusione che porta ad un parallelismo tra le
loro forme di famiglie e quelle degli uomini primitivi. La
tolleranza reciproca dei maschi adulti, la mancanza di gelosia fu
però la prima condizione per la formazione di tali gruppi alquanto
vasti e duraturi entro i quali soltanto poté compiersi il
passaggio dall'animale all'uomo. E in effetti, qual è la forma di
famiglia che noi troviamo come la più antica e primitiva di cui
possiamo provare inconfutabilmente l'esistenza storica e che
ancora oggi possiamo studiare qua e là? Il matrimonio a gruppi, la
forma nella quale interi gruppi di uomini e interi gruppi di donne
si possiedono reciprocamente e che lascia poco spazio per la
gelosia.
Inoltre, troviamo, in uno stadio di sviluppo più tardo, la forma
eccezionale della poliandria, che tanto più fa a pugni con tutti i
sentimenti di gelosia ed è perciò sconosciuta agli animali. Ma,
poiché le forme a noi note di matrimoni di gruppo sono
accompagnate da condizioni così particolarmente complicate da
rimandare, necessariamente, a forme anteriori più semplici del
commercio sessuale e perciò in ultima istanza ad un periodo di
commercio promiscuo corrispondente al passaggio dalla animalità
all'umanità, i riferimenti ai matrimoni animali ci riportano
precisamente al punto da cui dovevamo allontanarci una volta per
tutte.
Che cosa vuol dire, infatti, commercio sessuale promiscuo? Vuol
dire che le limitazioni proibitive in vigore oggi o in un'epoca
anteriore non erano allora in vigore. Le limitazioni della gelosia
le abbiamo già viste cadere. Se un fatto rimane ben fermo è che la
gelosia è un sentimento sviluppatosi relativamente tardi. Lo
stesso vale per l'idea di incesto. Non soltanto originariamente
fratello e sorella erano marito e moglie, ma anche il commercio
sessuale tra genitori e figli, ancor oggi, è ammesso tra molti
popoli. Bancroft (The native Races of the Pacific States
of North America, 1875, vol. I) (9) testimonia ciò a
proposito dei Caviati dello stretto di Behring, dei Kadiaki della
zona dell'Alasca, dei Tinnehs dell'interno dell'America del Nord
britannica; Letourneau raccoglie resoconti sugli stessi fatti a
proposito degli Indiani Chippeway, dei Cucu del Cile, dei Caraibi,
dei Karen dell'India posteriore (10), per
tacere dei racconti degli antichi Greci e Romani sui Parti, i
Persiani, gli Sciti, gli Unni ecc.
Prima che l'incesto fosse inventato (ed esso è veramente
un'invenzione e per giunta preziosissima), il commercio sessuale
tra genitori e figli non poteva suscitare scandalo maggiore delle
unioni tra persone appartenenti a generazioni differenti, e ciò
accade anche oggi persino nei paesi più filistei senza suscitare
grande orrore. Perfino «zitelle» attempate che hanno passato la
sessantina sposano talvolta, se hanno abbastanza denaro,
giovanotti trentenni. Ma, se togliamo dalle forme familiari più
primitive che conosciamo le idee di incesto collegate ad esse,
idee che sono totalmente diverse dalle nostre, e che di frequente
sono in diretta contraddizione con esse, giungiamo ad una forma di
commercio sessuale che si può chiamare solo privo di norme. Privo
di norme, in quanto che le limitazioni imposte più tardi dal
costume non esistevano ancora. Ma da ciò non conseguono affatto
necessariamente, nella prassi quotidiana, confusione e disordine.
Non sono affatto esclusi temporanei accoppiamenti singoli; i quali
infatti nei matrimoni di gruppo formano la maggior parte dei casi.
E se il più recente sostenitore della inesistenza d'un tale stato
di cose primitivo, Westermarck, indica col nome di matrimonio ogni
stato di cose in cui il maschio e la femmina rimangono appaiati
fino alla nascita della prole, c'è da dire che questa specie di
matrimonio poteva benissimo incontrarsi nello stato di commercio
sessuale promiscuo, senza contraddizione con la promiscuità, cioè
con l'assenza di limitazioni poste al commercio sessuale dalla
consuetudine.
Westermarck prende certamente le mosse dall'opinione che «assenza
di norme implica la compressione delle tendenze individuali» così
che «la prostituzione è la forma più autentica di essa». Mi sembra
invece che ogni intelligenza delle condizioni primitive rimanga
impossibile finché si guardano attraverso le lenti del bordello.
Torneremo ancora su questo punto, parlando del matrimonio di
gruppo.
Secondo Morgan, da questo stato primitivo di commercio promiscuo,
verosimilmente si sviluppò assai presto:
1. La famiglia
consanguinea, primo stadio della famiglia. Qui i gruppi
matrimoniali sono separati per generazioni. Tutti i nonni e le
nonne nell'ambito della famiglia sono, tutti insieme tra loro,
marito e moglie e così i loro figli, cioè i padri e le madri, come
anche i figli di costoro formeranno alla loro volta una terza
cerchia di coniugi comuni e i figli di costoro, pronipoti dei
primi, ne formeranno una quarta. In questa forma familiare quindi,
solo ascendenti e discendenti, padri e figli, sono esclusi dai
diritti, così come dai doveri (diremmo noi), del matrimonio tra
loro. Fratelli e sorelle, cugini e cugine di primo, secondo e più
largo grado, sono tutti, tra loro, fratelli e sorelle e, appunto perciò,
tutti marito e moglie l'uno dell'altra. Il rapporto tra fratello e
sorella include, in questo stadio, il vicendevole commercio
sessuale (11). La
forma tipica di una tale famiglia consisterebbe nella discendenza
di una coppia, i cui discendenti di ogni singolo grado sono, a
loro volta, fratelli e sorelle tra loro e per questo appunto
marito e moglie.
La famiglia consanguinea è scomparsa e nemmeno i popoli più rozzi
di cui parla la storia suggeriscono alcun esempio dimostrabile di
un tale fenomeno. Ma che questa famiglia deve essere esistita ci
costringe a pensarlo il sistema di parentela hawaiano ancor oggi
in vigore in tutta la Polinesia e che esprime un grado di
consanguineità quale può sorgere solo in questa forma di famiglia;
e ci costringe a pensarlo anche tutto l'ulteriore sviluppo della
famiglia che presuppone quella forma come necessario stadio
anteriore.
2. La famiglia punalua. Se il primo progresso dell'organizzazione
consistette nella esclusione di genitori e figli dal reciproco
commercio sessuale, il secondo consistette nell'esclusione di
sorelle e fratelli. Questo progresso, essendo gli interessati più
vicini tra loro negli anni, fu infinitamente più importante, ma
anche più difficile del primo. Si compì a poco a poco, cominciando
verosimilmente con l'esclusione dal commercio sessuale di fratelli
e sorelle carnali (cioè per parte di madre), esclusione che si
ebbe, dapprima, in singoli casi, che divenne a poco a poco
regolare (nelle Hawai in questo secolo si trovavano ancora delle
eccezioni) e terminò con la proibizione del matrimonio anche tra
fratelli e sorelle di ramo collaterale, cioè, secondo la
terminologia, fra figli, nipoti e pronipoti di fratelli e sorelle;
secondo Morgan, un tale progresso «forma una eccellente
illustrazione del come opera il principio della selezione
naturale».
Indubbiamente le tribù in cui l'unione tra consanguinei fu
limitata da questo progresso, dovettero svilupparsi in maniera più
rapida e perfetta di quelle in cui il matrimonio tra fratelli e
sorelle rimase regola e precetto. E quanto fortemente fosse
sentito l'effetto di questo progresso, lo dimostra l'istituzione
della gens, istituzione sorta direttamente da esso, e che si
spinse molto al di là del fine che si prefiggeva. La gens forma la
base dell'ordinamento sociale della maggior parte, se non di tutti
i popoli barbari della terra e da essa, nella Grecia e a Roma,
entriamo direttamente nella civiltà.
Ogni famiglia primitiva doveva scindersi, al più tardi dopo un
paio di generazioni. La primitiva amministrazione collettiva
comunistica, che dominò senza eccezioni fino al cuore della
barbarie media, determinava una estensione massima della comunità
familiare, mutevole secondo le condizioni, ma abbastanza precisa
in ogni località. Appena nacque l'idea della sconvenienza del
commercio sessuale tra figli della stessa madre, essa dovette far
sentire la sua influenza in tali scissioni di antiche comunità
domestiche e nella fondazione di nuove comunità domestiche (che
però non coincidevano necessariamente con il gruppo familiare).
Una o più serie di sorelle costituirono il nucleo delle une, i
loro fratelli carnali costituirono il nucleo delle altre. Più o
meno così venne fuori dalla famiglia consanguinea la forma che
Morgan ha chiamato famiglia punalua. Secondo il costume hawaiano,
un numero di sorelle carnali o più lontane (cioè cugine di primo,
secondo o più lontano grado) erano le mogli comuni dei loro comuni
mariti dai quali però erano esclusi i propri fratelli. Questi
mariti non si chiamavano più fratelli, anche perché essi non ne
sentivano più la necessità, ma punalua, cioè compagno intimo, per
così dire associé.
Ugualmente, una serie di fratelli carnali o più lontani avevano in
matrimonio comune un numero di donne non loro sorelle, che si
chiamavano tra loro punalua. Questa è la fisionomia classica di
una formazione familiare che permise più tardi una serie di
variazioni e il cui essenziale tratto caratteristico era la
reciproca comunanza di uomini e donne nell'interno di una
determinata cerchia familiare, da cui però erano esclusi i
fratelli delle donne, dapprima i carnali, poi anche i collaterali,
così come, d'altro canto, erano anche escluse le sorelle degli
uomini.
Questa forma di famiglia ci offre ora con la più grande precisione
i gradi di parentela come sono espressi nel sistema americano. I
figli delle sorelle di mia madre, sono ancor sempre figli di mia
madre e così i figli dei fratelli di mio padre sono figli di mio
padre e sono tutti miei fratelli e sorelle, ma i figli dei
fratelli di mia madre sono nipoti di mia madre, i figli delle
sorelle di mio padre sono nipoti di mio padre e sono tutti miei
cugini e cugine. Mentre infatti i mariti delle sorelle di mia
madre sono pur sempre mariti di mia madre e del pari le mogli dei
fratelli di mio padre sono, di diritto se non sempre di fatto,
mogli di mio padre, la proscrizione sociale del commercio sessuale
tra fratelli e sorelle ha diviso in due classi i figli di fratelli
e di sorelle, considerati fin qui indistintamente come fratelli e
sorelle. Gli uni rimangono tra loro, come prima, fratelli e
sorelle più lontani; gli altri, cioè, in un caso i figli del
fratello, nell'altro quelli della sorella, non possono rimanere
più a lungo fratelli e sorelle; non possono più avere genitori in
comune, né padre, né madre, né entrambi e perciò, per la prima
volta, diventa necessaria la classe dei nipoti, maschi e femmine,
dei cugini e delle cugine, la quale, nel precedente ordinamento
familiare, non avrebbe avuto senso.
Il sistema americano di parentela che appare un puro controsenso
per ogni forma familiare fondata, in qualunque maniera, sul
matrimonio monogamico, è chiarito razionalmente fin nei minimi
particolari ed è motivato in maniera naturale dal sistema punalua.
Esattamente fin dove si è diffuso questo sistema di parentela,
esattamente fin là, per lo meno, deve essere esistita anche la
famiglia punalua od una forma analoga (12).
Questa forma familiare, di cui nelle Hawai è stata dimostrata
l'effettiva esistenza, con ogni probabilità ci sarebbe stata
tramandata da tutta la Polinesia se i pii missionari, come un
tempo i monaci spagnuoli in America, in tali relazioni
anticristiane fossero stati capaci di vedere qualche cosa di più
del semplice «abbominio» (13).
Quando Cesare a proposito dei Britanni, che si trovavano allora
nello stadio medio della barbarie, narra che «avevano, ogni dieci
o dodici, le loro mogli in comune e precisamente, nel più dei
casi, fratelli con fratelli, genitori con figli» (14),
questo fatto si spiega nel modo migliore come matrimonio di
gruppo. Le madri barbare non hanno dieci o dodici figli di età
sufficiente per poter avere mogli in comune, ma il sistema di
parentela americano, che corrisponde alla famiglia punalua, dà
molti fratelli, poiché tutti i cugini, di primo o diverso grado,
di un uomo, sono suoi fratelli. Il termine «genitori e figli» può
esser nato da un fraintendimento di Cesare, ma che padre e figlio
e madre e figlia potessero trovarsi nello stesso gruppo
matrimoniale non è assolutamente escluso in questo sistema, mentre
invece rimane impossibile la presenza di padre e figlia, di madre
e figlio. Così, questa od altra analoga forma di matrimonio di
gruppo fornisce la più ovvia spiegazione dei resoconti di Erodoto (15) e di altri antichi
scrittori sulla comunanza di donne presso popoli selvaggi e
barbari. Il che vale anche per ciò che Watson e Kaye, in The People of
India (16),
raccontano dei Tikur dell'Audh (a nord del Gange): «essi vivono
insieme (cioè dal punto di vista sessuale) in maniera quasi
indifferenziata, in grandi comunità, e se due persone sono
considerate unite dal vincolo matrimoniale, questo legame tuttavia
è solo nominale».
Direttamente dalla famiglia punalua sembra essere venuta fuori,
nella stragrande maggioranza dei casi, l'istituzione della gens.
In verità ce ne offre un punto di partenza anche il sistema di
classi australiano. Gli australiani hanno gentes ma non ancora la
famiglia punalua; bensí una forma più rozza del matrimonio di
gruppo.
In tutte le forme di famiglia di gruppo è incerto chi sia il padre
di un bambino, è certo però chi ne è la madre. Anche se costei
chiama tutti i bambini di tutta la
famiglia suoi figli, e ha verso di loro doveri di madre, essa
tuttavia riconosce sempre i suoi propri figli carnali dagli altri.
È quindi chiaro che, fino a quando sussiste il matrimonio di
gruppo, solo la discendenza per parte di madre può essere
indicata, e quindi solo la linea
femminile è
riconosciuta.
Questo è in effetti il caso di tutti i popoli appartenenti allo
stadio selvaggio e allo stadio inferiore della barbarie. E il
secondo grande merito di Bachofen sta appunto nell'aver fatto, per
primo, questa scoperta. Egli indica questo riconoscimento
esclusivo dell'ordine di discendenza per parte di madre e i
rapporti di eredità che col tempo ne derivano, col nome di diritto
matriarcale. Questa espressione, che mantengo per amor di brevità,
è inesatta poiché in questo stadio della società non si può ancora
parlare di diritto nel senso giuridico della parola.
Se prendiamo ora dalla famiglia punalua uno dei due gruppi modello
e precisamente quello di una serie di sorelle carnali e di sorelle
più lontane (cioè che discendono in primo, secondo o meno stretto
grado da sorelle carnali) insieme ai loro figli e ai loro fratelli
carnali o più lontani per parte di madre (che secondo il nostro
presupposto non sono loro mariti) avremo esattamente la cerchia
delle persone che più tardi appaiono come membri d'una gens nella
forma primitiva di questa istituzione.
Tutti questi hanno una capostipite comune: per il fatto di
discendere da essa, le discendenti di sesso femminile sono, di
generazione in generazione, sorelle. I mariti di queste sorelle
non possono però più essere i loro fratelli; quindi non possono
discendere da questa capostipite, e quindi non rientrano nel
gruppo consanguineo, in quella che sarà più tardi la gens. I loro
figli, però, rientrano in questo gruppo, essendo la discendenza
per parte di madre la sola decisiva, poiché è la sola certa. Dal
momento in cui la proscrizione del commercio sessuale tra tutti i
fratelli e sorelle e anche tra parenti collaterali più lontani per
parte di madre è ormai cosa stabilita, anche il gruppo
summenzionato si è trasformato in una gens, si è costituito cioè
come una stabile cerchia di consanguinei di linea femminile che
non possono sposarsi tra loro, e che, d'ora in poi, andrà sempre
più consolidandosi attraverso altre comuni istituzioni di natura
sociale e religiosa, differenziandosi dalle altre gentes della
stessa tribù.
Più avanti parleremo in particolare di questo argomento. Ma, se
noi troviamo non soltanto necessario, ma anche naturale che la
gens si sviluppi dalla famiglia punalua, ci è facile ammettere
l'esistenza in passato di questa forma familiare come quasi sicura
per tutti i popoli presso cui si possono comprovare istituzioni
gentilizie, cioè press'a poco tutti i popoli barbari e civili (17).
Quando Morgan scrisse il suo libro, la nostra conoscenza del
matrimonio di gruppo era ancora molto limitata. Qualcosa si sapeva
sui matrimoni di gruppo degli australiani organizzati in classi, e
inoltre Morgan già dal 1871 aveva pubblicato (18) le notizie a lui
pervenute sulla famiglia punalua delle Hawai. La famiglia punalua
forniva, da una parte, la spiegazione completa del sistema di
parentela vigente tra gli Indiani d'America; sistema che era stato
il punto di partenza di tutte le sue indagini; essa formava
d'altra parte il saldo punto di partenza per la derivazione della
gens matriarcale, e rappresentava, infine, un ben più alto grado
di sviluppo rispetto alle classi australiane. Era perciò
comprensibile che Morgan concepisse la famiglia punalua come il
grado di sviluppo necessariamente antecedente al matrimonio di
coppia e le attribuisse una diffusione generale nelle epoche
precedenti. Dopo di allora abbiamo conosciuto una serie di altre
forme di matrimoni di gruppo e sappiamo adesso che Morgan, in
questo caso, si spinse troppo in là. Ma egli ebbe tuttavia la
fortuna di imbattersi con la sua famiglia punalua nella forma più
alta, classica, del matrimonio di gruppo; e in quella forma grazie
alla quale si chiarisce nel più semplice dei modi il passaggio ad
una forma superiore.
L'arricchimento più sostanziale delle nostre cognizioni sul
matrimonio di gruppo lo dobbiamo al missionario inglese Lorimer
Fison (19), che
per anni studiò questa forma familiare nella sua sede classica,
l'Australia. Lo stadio di sviluppo più basso lo trovò tra i negri
australiani del monte Gambier, nell'Australia meridionale. Qui
l'intera tribú è divisa in grandi classi: Kroki e Kumiti. Il
commercio sessuale nell'interno di ciascuna di queste classi è
severamente proibito; invece, ogni uomo di una classe è per
nascita il consorte di ogni donna dell'altra classe, e costei è la
sua consorte per nascita. Non gli individui, ma i gruppi interi
sono sposati tra loro, classe con classe. E' da notar bene che qui
non vien fatta in nessun luogo riserva di sorta per differenza di
età o per speciali consanguineità, se si eccettua l'unica riserva
condizionata dalla scissione della tribù in due classi esogame.
Un Kroki ha per legittima consorte ogni donna kumita; ma, poiché
la propria figlia, in quanto nata da una Kumita, secondo il
diritto matriarcale è del pari una Kumita, per nascita essa è
perciò la moglie di ogni Kroki, e quindi anche del proprio padre.
Per lo meno l'organizzazione in classi, così come ci si presenta,
non frappone a ciò impedimenti di sorta. Dunque, o questa
organizzazione è sorta in un tempo in cui, nonostante ogni oscuro
impulso a limitare l'unione tra consanguinei, nel commercio
sessuale tra genitori e figli ancora non si trovava nulla di così
particolarmente orribile, ed allora il sistema di classi sarebbe
direttamente sorto da uno stato in cui vige la promiscuità; o
invece il commercio tra genitori e figli era già vietato
rigorosamente dal costume quando sorsero le classi, ed allora lo
stato di cose di quel tempo rimanda alla famiglia consanguinea e
rappresenta il primo passo fuori di essa. L'ultima ipotesi è la
più verosimile. Di esempi di rapporto coniugale tra genitori e
figli, per quanto io ne sappia, in Australia non se ne trova
traccia, ed. anche la forma successiva dell'esogamia, la gens
matriarcale, presuppone di regola, tacitamente, il divieto di
questo rapporto come cosa già esistente al tempo della sua
fondazione.
Il sistema delle due classi lo si trova, oltre che sul monte
Gambier nell'Australia meridionale, anche più ad oriente, sulle
rive del fiume Darling, a nord-est, nel Queensland: esso è dunque
largamente diffuso. Esso esclude soltanto le nozze tra fratelli e
sorelle, tra figli di un fratello e tra figli di una sorella per
parte di madre poiché costoro appartengono alla medesima classe; i
figli di una sorella invece, e i figli di un fratello, possono
sposarsi tra loro.
Un ulteriore passo avanti per impedire le unioni tra consanguinei
lo troviamo tra i Kamilaroi delle rive del fiume Darling nella
Nuova Galles del Sud, dove le due classi originarie si sono divise
in quattro e ognuna di queste quattro classi in blocco è del pari
sposata ad un'altra determinata classe. Le due prime classi sono,
per natura, spose tra loro; a seconda che la madre apparteneva
alla prima o alla seconda, i figli toccano alla terza o alla
quarta; figli appartenenti a queste due classi parimenti sposate
tra loro, rientrano a loro volta nella prima o nella seconda
classe. Cosicché, sempre una generazione appartiene alla prima e
alla seconda classe, la seguente alla terza e alla quarta e la
susseguente di nuovo alla prima e alla seconda classe. Ne consegue
che i figli di fratelli e sorelle (per parte di madre) non possono
essere marito e moglie, ma possono però esserlo i nipoti di
fratelli e sorelle. Questo ordinamento particolarmente complicato,
si fa ancora più intricato per l'innesto, in ogni modo posteriore,
di gentes matriarcali; ma non possiamo qui inoltrarci nella
questione. Si vede appunto che la spinta ad evitare l'incesto
acquista sempre i maggiore validità, ma procedendo assolutamente a
tastoni ed in modo primitivo senza chiara coscienza del fine.
Il matrimonio di gruppo che qui in Australia è ancora un
matrimonio a classi, uno stato matrimoniale di massa di un'intera
classe di uomini, disseminata spesso sulla superficie dell'intero
continente, con una classe di donne altrettanto diffusa, questo
matrimonio di gruppo, guardato da vicino, non sembra così orribile
come invece appare alle fantasie filistee abituate al regime del
bordello. Al contrario, ci son voluti lunghi anni perché se ne
sospettasse soltanto l'esistenza, la quale poi molto recentemente
viene di nuovo contestata. All'osservatore superficiale questo
sistema si presenta come monogamia alquanto rilassata e in qualche
punto come poligamia accompagnata da occasionale infedeltà.
Bisogna dedicare anni a questo studio, come hanno fatto Fison e
Howitt (20), per
scoprire in questi rapporti matrimoniali, che nella loro prassi
sembrano piuttosto familiari al comune europeo, la legge che li
regola, la legge, per cui lo straniero negro australiano, lontano
migliaia di chilometri dalle sue contrade, tra gente di lingua a
lui incomprensibile, tuttavia, non di rado, di accampamento in
accampamento, di tribù in tribù trova delle donne disposte alle
sue voglie senza riluttanza e di buon grado; la legge per la quale
colui che possiede molte donne ne cede una per la notte al suo
ospite.
Dunque, dove l'europeo vede immoralità e mancanza di una legge,
nei fatti domina una legge rigorosa. Le donne appartengono alla
classe matrimoniale dello straniero e sono perciò sue spose per
nascita. La stessa legge morale che assegna la donna allo
straniero e viceversa, proibisce, sotto pena di proscrizione, ogni
commercio sessuale al di fuori delle classi matrimoniali di
reciproca pertinenza. Anche dove le donne vengono sottratte
mediante ratto, cosa di uso frequente e in certe contrade
regolare, la legge di classe viene accuratamente rispettata.
Nel ratto di donne, del resto, affiora già qui una traccia del
passaggio alla monogamia per lo meno nella forma di matrimonio di
coppia. Se un giovane ha portato via, mediante ratto, una ragazza
con l'aiuto dei suoi amici, essa viene posseduta da tutti costoro
uno dopo l'altro, ma alla fine viene considerata moglie
dell'organizzatore del ratto. E al contrario, se la donna rapita
sfugge all'uomo e viene raccolta da un altro, diventa la moglie di
quest'ultimo ed il primo ha perduto il suo privilegio.
Accanto e all'interno del matrimonio di gruppo che continua, in
linea generale, a sussistere, si formano condizioni di
esclusività, unioni di coppia di più o meno lunga durata accanto
alla poligamia, cosicché il matrimonio di gruppo anche qui sta per
morire e ci si domanda solo se, sotto l'influsso europeo,
scomparirà per primo il matrimonio di gruppo o i negri
dell'Australia che lo praticano.
Il matrimonio per intere classi, quale domina in Australia, è in
ogni modo una forma originaria, assai rudimentale e primitiva, del
matrimonio di gruppo, mentre la famiglia punalua, per quel che ci
consta, rappresenta il più alto stadio di sviluppo di essa. Il
primo appare come la forma corrispondente alla condizione sociale
dei selvaggi ancora nomadi, la seconda presuppone colonie di
comunità comunistiche, già relativamente salde, e conduce
direttamente allo stadio di sviluppo immediatamente superiore. Tra
questi due troveremo sicuramente ancora qualche stadio intermedio.
Abbiamo così davanti a noi un campo di ricerche finora soltanto
iniziato nel quale appena ora si muovono i primi passi.
3. La famiglia di coppia. Un certo matrimonio di coppia per un
tempo più o meno lungo esisteva già al tempo del matrimonio di
gruppo o ancora prima; l'uomo aveva una moglie principale
(difficilmente potremmo già chiamarla moglie prediletta) tra le
molte mogli ed egli era per lei il marito principale tra gli altri
mariti. Questa circostanza ha non poco contribuito a confondere i
missionari che vedono nel matrimonio di gruppo (21) ora una comunanza
promiscua di donne, ora un arbitrario adulterio. Siffatto
consuetudinario connubio, però, doveva sempre più consolidarsi
quanto più la gens si veniva sviluppando e quanto più numerose
divenivano le classi di «fratelli e sorelle» tra le quali il
matrimonio era divenuto impossibile.
L'impulso dato dalla gens alla proibizione del matrimonio tra
consanguinei si spinse ancor più in là. Così noi troviamo che tra
gli Irochesi e la maggior parte degli altri Indiani viventi nello
stadio inferiore della barbarie sono proibiti i matrimoni tra
tutti i parenti compresi nel loro sistema, e ve ne sono più
centinaia di specie. Con questo crescente intrecciarsi di
proibizioni di matrimonio i matrimoni di gruppo divennero sempre
più impossibili e furono rimpiazzati dalla famiglia di coppia.
In questo stadio un uomo vive insieme a una donna, ma sempre in
maniera che la poligamia ed un'occasionale infedeltà rimangono
diritto degli uomini, anche se la prima per ragioni economiche si
verifica raramente, mentre dalle donne per la durata della vita in
comune si pretende la più stretta fedeltà e il loro adulterio
viene crudelmente punito. Ma il vincolo matrimoniale è da ognuna
delle due parti facilmente dissolubile, e i figli, come prima,
appartengono solo alla madre.
Anche in questa sempre più estesa esclusione dei consanguinei dal
vincolo matrimoniale continua ad operare il principio della
selezione naturale. Per usare le parole di Morgan:
I matrimoni tra gentes non consanguinee generavano una razza più
forte, fisicamente e mentalmente; due tribù progredienti si
mescolavano, e i crani e i cervelli nuovi si facevano naturalmente
più grandi fino a contenere le capacità sommate delle due tribù.
Tribù con costituzione gentilizia dovettero così prendere il
sopravvento su quelle rimaste più arretrate, o tirarsele dietro
col loro esempio.
Lo sviluppo della famiglia nella storia primitiva consiste dunque
nel costante restringersi della cerchia che originariamente
abbracciava tutta la tribù nel cui ambito regna la comunanza
coniugale tra i due sessi. Con l'esclusione continua, dapprima dei
parenti più vicini, poi di quelli sempre più lontani e infine
anche dei parenti soltanto acquisiti, ogni forma di matrimonio di
gruppo diventa alla fine praticamente impossibile, e resta
esclusivamente la coppia unica, ancora debolmente vincolata, la
molecola, cioè, con la cui disgregazione il matrimonio in generale
cessa.
Da ciò appare ormai quanto poco l'amore sessuale individuale, nel
senso in cui noi oggi adoperiamo questa parola, abbia avuto a che
vedere con l'origine della monogamia. Ancor più lo dimostra la
prassi di tutti popoli che si trovano in questo stadio. Mentre
nelle forme familiari anteriori gli uomini non dovevano mai essere
in difficoltà per trovare donne, ma al contrario ne avevano più
che a sufficienza, ora le donne diventavano rare e ricercate.
Perciò col matrimonio di coppia comincia il ratto e la compera
delle donne; sintomi largamente diffusi, null'altro però, di un
mutamento molto più profondo.
Il pedante scozzese McLennan tuttavia ha trasformato questi
sintomi, che sono puri e semplici metodi per procurarsi delle
donne, in «matrimonio per ratto» e «matrimonio per compra» in
classi particolari di famiglie. D'altronde anche tra gl'Indiani
d'America e anche altrove (nel medesimo stadio), la conclusione
del matrimonio non è un fatto che riguarda gli interessati, i
quali spesso non vengono affatto interpellati, ma le loro madri.
Spesso due persone che non si conoscono tra loro vengono fidanzate
con questo sistema e apprendono la conclusione dell'affare quando
il tempo delle nozze è ormai prossimo. Prima dello sposalizio il
fidanzato fa regali ai parenti gentilizi della fidanzata (e dunque
ai parenti materni di lei, e non al padre e al suo parentado),
regali che fungono da prezzo pagato per la ragazza a lui ceduta.
Il matrimonio può sciogliersi se uno dei due interessati lo
desidera: pure poco per volta, in molte tribù, per es. tra gli
Irochesi, si crea un'opinione pubblica sfavorevole a tali
separazioni; in casi di conflitto intervengono come mediatori i
parenti gentilizi delle due parti e, solo se questa mediazione non
ha successo, ha luogo la separazione, in cui i figli rimangono
alla madre e secondo cui ognuna delle parti è libera di contrarre
nuove nozze.
La famiglia di coppia, di per sé troppo debole ed instabile per
sentire il bisogno o anche solo il desiderio di una propria
amministrazione domestica, non dissolve in alcun modo quella
comunistica tramandata dall'epoca anteriore. Ma amministrazione
comunistica significa dominio della donna nella casa, come
riconoscimento esclusivo d'una madre carnale, data l'impossibilità
di conoscere, con certezza, un padre carnale. Essa significa
inoltre alta considerazione della donna, cioè della madre. E una
delle idee più assurde di derivazione illuministica del secolo
XVIII, che la donna, all'inizio della società, sia stata schiava
dell'uomo. La donna invece, presso tutti i selvaggi ed i barbari
dello stadio inferiore e medio, ed in parte anche dello stadio
superiore, aveva una posizione non solo libera, ma anche di alta
considerazione. Quale parte la, donna abbia nel matrimonio di
coppia può attestarlo Asher Wright (22), per
lungo tempo missionario tra gli Irochesi Seneca:
Per ciò che concerne le loro famiglie, al tempo in cui essi
abitavano ancora le antiche case lunghe (amministrazioni
comunistiche di più famiglie)... prevaleva quivi sempre un clan
(una gens), cosicché le donne prendevano i loro uomini dagli altri
clan (gentes)... Abitualmente la parte femminile dominava la
casa... le provviste erano comuni, ma guai al disgraziato marito o
amante troppo pigro o maldestro nel portare la sua parte alla
provvista comune. Qualunque fosse il numero dei figli o delle cose
da lui personalmente possedute nella casa, in un qualsiasi momento
poteva aspettarsi l'ordine di far fagotto e di andarsene. Ed egli
non poteva tentare di resistere, la vita gli veniva resa
impossibile, e non poteva fare altro che tornare al proprio clan
(gens), ovvero andare a cercare un nuovo matrimonio in un altro
clan, cosa che il più spesso accadeva. Le donne erano nei clan
(gentes), e del resto dovunque, la grande potenza. All'occasione
esse non esitavano a deporre un capo e degradarlo a guerriero
comune.
L'amministrazione comunistica nella quale le donne, per la maggior
parte se non tutte, appartengono ad una medesima gens, mentre gli
uomini provengono da diverse gentes, è il fondamento oggettivo di
quel predominio delle donne, generalmente diffuso nell'epoca delle
origini e la cui scoperta è del pari il terzo merito di Bachofen.
Noto ancora, supplementarmente, che i resoconti dei viaggiatori e
dei missionari, riguardanti la mole eccessiva di lavoro svolto
dalle donne tra i selvaggi e i barbari, non sono affatto in
contraddizione con quanto è stato detto. La divisione del lavoro
tra i due sessi è condizionata da cause del tutto diverse dalla
posizione della donna nella società. Popoli presso cui le donne
devono lavorare assai più di quanto non spetti loro secondo la
nostra idea, hanno per le donne una stima spesso molto più reale
che non i nostri europei. Infatti la signora della società civile,
circondata di omaggi apparenti, ed estraniata da ogni effettivo
lavoro, ha una posizione sociale infinitamente più bassa della
donna della barbarie, la quale lavorava duramente, ma era
considerata presso il suo popolo come una vera signora (lady, frowa, Frau = padrona) ed
era tale anche per il suo carattere.
Se il matrimonio di coppia abbia oggi in America soppiantato
completamente il matrimonio di gruppo, devono deciderlo indagini
più precise sui popoli nord-occidentali, viventi ancora nello
stadio superiore dello stato selvaggio e specialmente le ricerche
sui popoli dell'America del Sud. A proposito di questi ultimi
popoli si raccontano esempi così svariati di libertà nei rapporti
sessuali, che in questo caso si può difficilmente ammettere un
pieno superamento del vecchio matrimonio di gruppo. In ogni modo,
non ne sono ancora sparite tutte le tracce. Per lo meno in
quaranta tribù dell'America del Nord, l'uomo che ha sposato una
sorella maggiore, ha il diritto di prendere in moglie del pari
tutte le sorelle di lei, non appena esse raggiungono l'età
necessaria: residuo della comunanza degli uomini per la intera
serie di sorelle. E Bancroft racconta che gli indigeni della
penisola di California (stadio superiore dello stato selvaggio)
celebrano certe festività in cui più «tribù» si raccolgono al fine
di un commercio sessuale indiscriminato. Si tratta evidentemente
di gentes che in queste feste conservano l'oscuro ricordo del
tempo in cui le donne d'una gens avevano come mariti comuni tutti
gli uomini dell'altra gens, e viceversa (23). Lo
stesso costume vige ancora in Australia. Presso alcuni popoli
accade che i maschi più anziani, i capi e gli stregoni sfruttino
per proprio conto la comunanza delle donne, e monopolizzino per
proprio conto la maggior parte delle donne, ma che tuttavia in
certe feste e in grandi assemblee popolari rimettano in uso
l'antica comunanza e lascino divertire le loro donne con i giovani
maschi. Un'intera serie di esempi di tali periodici saturnali in
cui il vecchio libero commercio sessuale ritorna in vigore per
breve tempo, riporta Westermarck, pp. 28-29, parlando degli Hos,
dei Santali, dei Pangia, dei Kotari dell'India, di alcuni popoli
dell'Africa, ecc. E strano però che Westermarck tragga da qui la
conclusione che questo non è già un residuo del matrimonio di
gruppo, da lui negato, ma... del periodo di fregola che l'uomo
primitivo avrebbe in comune con gli altri animali.
Giungiamo qui alla quarta grande scoperta di Bachofen, alla
scoperta della forma di transizione, assai diffusa, dal matrimonio
di gruppo a quello di coppia. Ciò che Bachofen indica come una
penitenza per una trasgressione degli antichi comandamenti degli
dèi, penitenza con cui la donna si acquista il diritto alla
castità, è in effetti solo una mistica espressione per indicare la
penitenza con cui la donna si riscatta dall'antica comunanza degli
uomini, per guadagnarsi il diritto di concedersi ad un solo uomo. Questa
penitenza consiste in una limitata concessione di se stessa: le
donne babilonesi dovevano concedersi una volta all'anno, nel
tempio di Militta (24);
altri popoli dell'Asia minore mandavano per un anno nel tempio di
Anaiti (25) le loro fanciulle,
dove prima di potersi sposare dovevano attendere al libero amore
con uomini di loro gradimento, da loro scelti. Analoghe usanze in
veste religiosa sono comuni a quasi tutti i popoli dell'Asia tra
il Mediterraneo e il Gange (26). Il
sacrificio espiatorio per il riscatto diventa sempre più lieve nel
corso dei tempi, come già osserva Bachofen:
L'offerta annualmente ripetuta cede il passo alla prestazione
fatta una volta tanto; all'eterismo delle matrone segue quello
delle fanciulle; alla pratica durante il matrimonio, segue quella
prima del matrimonio, alla concessione a tutti senza scelta, la
concessione fatta ad alcune persone. (Mutterrecht,
p. XIX).
Tra altri popoli manca il travestimento religioso, tra
alcuni di essi (Traci, Celti, ecc. nell'antichità; tra molti fra i
primi abitanti dell'India, tra molti popoli malesi, tra abitanti
delle isole dei mari del sud e tra molti Indiani d'America, ancor
oggi) le ragazze godono fino al loro matrimonio della più grande
libertà sessuale. Questo accade specialmente quasi dovunque
nell'America del Sud, come può testimoniare chiunque sia penetrato
nell'interno di questo paese. Così Agassiz (A Journey in Brazil (27),
Boston e New York, 1886, p. 266) a proposito di una ricca famiglia
di discendenza india, racconta che, quando gli fu presentata la
figlia, le domandò di suo padre, pensando che questi fosse il
marito della madre, il quale aveva combattuto col grado di
ufficiale nella guerra contro il Paraguay, ma la madre sorridendo
gli rispose: naò tem pai, he filha da fortuna: non ha padre, è
figlia del caso.
«In questo modo sempre parlano le donne indiane o di sangue misto
dei loro figli illegittimi... senza vergogna o biasimo... Ciò è
tanto lontano dal non essere consueto che piuttosto... il
contrario sembra eccezione. I figli... conoscono spesso solo la
madre, poiché tutte le cure e responsabilità cadono su di lei, non
conoscono affatto il padre; e pare che alla donna non venga mai in
mente che essa o i suoi figli possano avere qualche pretesa verso
di lui.»
Ciò che sembra strano alla gente civile, è semplicemente la regola
secondo il diritto matriarcale e nel matrimonio di gruppo.
E presso altri popoli ancora gli amici e i parenti del fidanzato,
o perfino gli ospiti alle nozze, affermano sulla sposa l'antico
diritto ricevuto dalla tradizione, e lo sposo arriva solo per
ultimo nella serie. Così accadeva nelle Baleari e tra gli Augili (28) dell'Africa
nell'antichità, e accade ancor oggi tra i Barea in Abissinia.
Inoltre, tra altri popoli ancora, un personaggio ufficiale, il
capo della tribù o della gens, cacicco, sciamano, sacerdote o
principe o come lo si voglia chiamare, rappresenta la comunità e
ha sulla sposa il diritto della prima notte.
Malgrado tutte le ubbie neoromantiche di presentare sempre i panni
bianchi di bucato, questo jus
primae noctis esiste
come residuo del matrimonio di gruppo ancor oggi, tra la maggior
parte degli abitanti della zona dell'Alasca (Bancroft, Native Races,
I, 81), tra i Tahu del Messico settentrionale (ib., p. 584) e
presso altri popoli, ed è esistito in tutto il Medioevo per lo
meno nei paesi di origine celtica, dove derivava direttamente dal
matrimonio di gruppo, per esempio nell'Aragona. Mentre in
Castiglia il contadino non fu mai servo della gleba, nell'Aragona
dominò la più vergognosa servitù della gleba fino all'editto (29) di Ferdinando il
Cattolico del 1486. In questo documento si dice:
Noi giudichiamo e dichiariamo che i surricordati signori (senyors = baroni) non
possono passare la prima notte con la sposa di un contadino e non
possono, la notte delle nozze, quando la donna si è messa a letto,
passare, in segno di sovranità, sul letto e sulla menzionata
sposa; e così pure i succitati signori non possono servirsi della
figlia o del figlio del contadino, con o senza pagamento, contro
la loro volontà (citato nell'originale catalano da Sugenheim, La servitù della
gleba (30),
Pietroburgo, 1861, p. 35).
Bachofen ha inoltre incondizionatamente ragione, quando afferma
costantemente che il passaggio da quella forma da lui detta
«eterismo» oppure «generazione di palude» alla monogamia, è
avvenuto essenzialmente per opera delle donne. Quanto più, con lo
sviluppo delle condizioni economiche, e quindi con la distruzione
dell'antico comunismo e con la crescente densità della
popolazione, le relazioni sessuali dell'antica tradizione
perdevano il loro primitivo e selvaggio carattere d'ingenuità,
tanto più esse dovevano sembrare alle donne umilianti ed
oppressive, tanto più urgentemente le donne dovevano desiderare
come una redenzione il diritto alla castità, alle nozze,
temporanee o durevoli, con un solo uomo. Questo progresso
tuttavia, non poteva nascere dagli uomini, se non altro perché, in
generale, anche fino ad oggi, a loro non è mai venuta l'idea di
rinunziare ai diletti dell'effettivo matrimonio di gruppo.
Soltanto dopo che fu effettuato il passaggio al matrimonio di
coppia, per opera delle donne, gli uomini poterono introdurre la
stretta monogamia... naturalmente solo per le donne.
La famiglia di coppia ebbe origine ai limiti tra stato selvaggio e
barbarie, per lo più già nel periodo superiore dello stato
selvaggio e, qua e là, solo nello stadio inferiore della barbarie.
Ed è questa la forma di famiglia caratteristica per la barbarie,
come il matrimonio di gruppo lo è per lo stato selvaggio e la
monogamia per la civiltà.
Per lo sviluppo ulteriore di essa fino alla stretta monogamia
erano necessarie cause differenti da quelle che fin qui abbiamo
trovato efficienti. Nell'unione di coppia, il gruppo ormai si era
ridotto alla sua unità finale, alla molecola biatomica: un uomo e
una donna. La selezione naturale, con le sue esclusioni sempre più
ampliate dalla comunanza coniugale, aveva compiuto la sua opera, e
in questa direzione non le rimaneva più nulla da fare. Se nuove
forze motrici sociali non fossero entrate
in azione, non sarebbe esistito nessun motivo perché dal
matrimonio di coppia venisse fuori una nuova forma familiare. Ma
queste forze motrici entrarono in azione.
Lasceremo ora da parte l'America, terra classica della famiglia di
coppia. Nessun indizio ci fa concludere che ivi si sia sviluppata
una forma superiore di famiglia, e che ivi, prima della scoperta e
della conquista, sia mai esistita in qualche luogo una monogamia
consolidata. Altrimenti accadde nel vecchio mondo.
Qui l'addomesticamento degli animali e l'allevamento di armenti
avevano sviluppato una fonte di ricchezza fino ad allora
sconosciuta ed avevano creato condizioni sociali del tutto nuove.
Fino allo stadio inferiore della barbarie la ricchezza stabile era
consistita quasi unicamente nella casa, nelle vesti, in rozzi
ornamenti, negli strumenti per procacciarsi e preparare gli
alimenti: canoa, armi e suppellettili domestiche della specie più
semplice. Gli alimenti dovevano essere procacciati giorno per
giorno. Adesso i popoli pastori che avanzavano (gli Ariani della
terra indiana dei Cinque Fiumi (31) e delle regioni del
Gange, nonché delle steppe, che allora erano ancora ricche
d'acqua, dell'Osso e dello Jassarte, e i Semiti dell'Eufrate del
Tigri) avevano acquisito, con gli armenti di cavalli, asini, buoi,
pecore, capre e porci, un possesso bisognoso solo di sorveglianza
delle cure più rudimentali per propagarsi sempre maggiormente e
per fornire gli alimenti più ricchi consistenti in latte e carne.
Ogni mezzo anteriore usato per procurarsi gli alimenti passò
allora in secondo piano; la caccia, da necessità che era, diventò
ora un lusso.
Ma a chi apparteneva questa ricchezza? Senza dubbio,
originariamente alla gens. Ma già presto deve essersi sviluppata
la proprietà privata degli armenti (32). È
difficile dire se all'autore del cosiddetto primo libro di Mosè il
padre Abramo apparve come possessore dei suoi armenti in virtù di
un diritto che gli spettava quale capo d'una comunità familiare, o
in virtù della sua qualità di capo effettivamente ereditario di
una gens. Sicuro è soltanto che non dobbiamo figurarcelo come
proprietario nel senso moderno della parola. Ed è sicuro inoltre
che noi, alla soglia della storia documentata, troviamo già
dovunque gli armenti compresi nella proprietà speciale (33) dei capifamiglia
proprio come i prodotti artistici della barbarie, le suppellettili
di metallo, gli articoli di lusso e infine il bestiame umano, cioè
gli schiavi.
Infatti allora era anche stata inventata la schiavitù. Per il
barbaro dello stadio inferiore lo schiavo era privo di valore.
Perciò anche gli Indiani d'America si comportavano con i nemici
vinti in modo del tutto diverso da quel che accadde in uno stadio
superiore. Gli uomini venivano uccisi oppure venivano accolti come
fratelli nella tribù del vincitore; le donne venivano sposate o
adottate insieme ai loro figli superstiti. La forza-lavoro degli
uomini non dà ancora in questo stadio nessuna eccedenza rilevante
sui suoi costi di mantenimento. Con l'introduzione
dell'allevamento del bestiame, della lavorazione dei metalli,
della tessitura, e infine dell'agricoltura, le condizioni
mutarono. Come le spose, una volta così facili ad ottenersi,
acquistarono ora un valore di scambio e furono comprate, così
accadde per le forze lavorative, specialmente dopo che gli armenti
furono passati definitivamente in possesso familiare (34). La
famiglia non si moltiplicava così rapidamente come il bestiame. Si
richiedeva più gente per sorvegliarlo: per questo ufficio si
potevano utilizzare i prigionieri di guerra nemici che inoltre si
potevano continuare ad allevare proprio come lo stesso bestiame.
Tali ricchezze, una volta passate nel possesso privato delle
famiglie e qui rapidamente moltiplicate, dettero alla società
fondata sul matrimonio di coppia e sulla gens matriarcale un colpo
potente. Il matrimonio di coppia aveva introdotto un elemento
nuovo nella famiglia. Accanto alla madre carnale esso aveva posto
il padre carnale autentico che, inoltre, era verosimilmente più
autentico di molti «padri» d'oggigiorno. Secondo la divisione del
lavoro nella famiglia allora in vigore, toccava all'uomo
procacciare gli alimenti, come anche i mezzi di lavoro a ciò
necessari, e quindi anche la proprietà di questi ultimi. L'uomo
poi, in caso di separazione, se li portava con sé, come la donna
conservava le sue suppellettili domestiche. Secondo l'uso della
società d'allora, dunque, l'uomo era anche proprietario delle
nuove fonti d'alimentazione, del bestiame e, più tardi, dei nuovi
strumenti di lavoro: gli schiavi. Secondo l'uso di quella stessa
società, però, i suoi figli non potevano ereditare da lui, poiché
a questo proposito le cose stavano nella maniera seguente.
Secondo il diritto matriarcale, quindi finché la discendenza fu
calcolata soltanto in linea femminile e secondo la primitiva
consuetudine ereditaria, da principio i parenti gentilizi
ereditavano dal membro estinto della loro gens. Il patrimonio
doveva rimanere nella gens. Data la scarsa importanza degli
oggetti, da tempo immemorabile, nella prassi, il patrimonio deve
essere passato ai più prossimi parenti gentilizi, cioè ai
consanguinei per parte di madre. I figli dell'estinto però non
appartenevano alla sua gens, ma a quella della loro madre; essi
ereditavano dalla madre, in principio con gli altri consanguinei,
più tardi forse con diritto di priorità, ma non potevano ereditare
dal padre poiché essi non appartenevano alla sua gens, e il suo
patrimonio doveva rimanere in questa gens. Alla morte del
possessore di armenti, i suoi armenti sarebbero quindi passati,
anzitutto, ai suoi fratelli e sorelle e ai figli delle sue sorelle
o ai discendenti delle sorelle di sua madre. I figli suoi però
erano diseredati.
Quindi le ricchezze, nella misura in cui si accrescevano, da una
parte davano all'uomo una posizione nella famiglia più importante
di quella della donna, dall'altra lo stimolavano ad utilizzare la
sua rafforzata posizione per abrogare, a vantaggio dei figli, la
successione tradizionale. Ma ciò non poteva essere finché era in
vigore la discendenza matriarcale. Era necessaria dunque
l'abrogazione di essa, ed essa infatti fu abrogata. Ciò non era
affatto così difficile come oggi ci appare. Infatti la rivoluzione
sopra descritta - una delle più radicali che gli uomini abbiano
mai sperimentata - non aveva bisogno di toccare neppure uno dei
membri viventi della gens. Tutti gli appartenenti ad essa potevano
rimanere quello che erano stati. Bastò semplicemente decidere che,
nel futuro, i discendenti dei membri di sesso maschile rimanessero
nella gens e ne fossero esclusi però quelli dei membri di sesso
femminile poiché essi passavano nella gens del padre. Così il
calcolo della discendenza in linea femminile e il diritto
ereditario matriarcale furono abrogati e fu introdotta la
discendenza in linea maschile e il diritto ereditario patriarcale.
Come e quando questa rivoluzione abbia avuto luogo tra i popoli
civili noi non lo sappiamo. Questa rivoluzione risale all'epoca
preistorica. Ma che
essa abbia
avuto luogo è dimostrato abbondantemente dalle tracce di diritto
matriarcale, raccolte specialmente da Bachofen; quanto facilmente
essa si compia passiamo vederlo in tutta una serie di tribù
indiane nelle quali essa ha avuto luogo solo da poco, ed anzi è
ancora in via di compiersi, sotto l'influsso in parte della
crescente ricchezza e delle mutate condizioni di vita
(trasferimento dai boschi alle praterie), in parte dell'azione
morale della civiltà e dei missionari. Di otto tribù del Missouri,
sei hanno la linea di discendenza e successione ereditaria
maschile, ma due ancora la linea di discendenza femminile. Tra gli
Shawnees, i Miamis e i Delawares è invalso l'uso di trasferire i
figli nella gens del padre mediante un nome gentilizio
appartenente alla sua gens perché essi possano ereditare da lui.
Innata casistica dell'uomo, quella di cambiare le cose mutandone i
nomi! E di trovare un sotterfugio per infrangere la tradizione
rimanendo nella tradizione, laddove un interesse diretto abbia
dato la spinta sufficiente (Marx).
Ne derivò una disperata confusione cui poteva solo rimediarsi, e
cui fu anche parzialmente rimediato, mediante il passaggio al
diritto patriarcale. «Questo sembra in generale il passaggio più
naturale» (Marx). Su quello che gli studiosi di diritto comparato
ci sanno dire sul modo e la maniera con cui questo passaggio si
compì tra i popoli civili del mondo antico (si tratta d'altronde
quasi soltanto di ipotesi), cfr. M. Kovalevski: Tableau des
origines et de l'évolution de la famille et de la propriété (35),
Stoccolma, 1890.
Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul
piano storico universale del sesso femminile. L'uomo prese
nelle mani anche il timone della casa, la donna fu avvilita,
asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per
produrre figli. Questo stato di degradazione della donna come si
manifesta apertamente, in ispecie tra i Greci dell'età eroica e,
ancor più, dell'età classica, è stato poco per volta abbellito e
dissimulato e, in qualche luogo, rivestito di forme attenuate, ma
in nessun caso eliminato.
Il primo effetto del dominio esclusivo degli uomini, fondato
allora, si mostra nella forma intermedia della famiglia
patriarcale, che affiora in questo momento. Ciò che lo
caratterizza principalmente non è la poligamia, di cui diremo più
tardi, ma «l'organizzazione di un numero di persone libere e non
libere in una famiglia sotto la patria potestà del capofamiglia.
Nella forma semitica questo capofamiglia vive in poligamia, gli
uomini non liberi hanno moglie e figli e il fine di tutta
l'organizzazione è la custodia di armenti in un territorio
delimitato.» L'essenziale è costituito dall'incorporamento di non
liberi e dalla patria potestà; perciò la forma tipica e compiuta
di questa famiglia è la famiglia romana. La parola familia non esprime
originariamente l'ideale del filisteo d'oggigiorno, fatto di
sentimentalismo e di discordie domestiche; essa, presso i Romani,
da principio non si riferisce affatto alla coppia unita in
matrimonio, ma solo agli schiavi. Famulus significa schiavo
domestico e familia è la totalità degli
schiavi appartenenti ad un uomo. Ancora al tempo di Gaio (36) la familia, id est patrimonium (cioè la parte
ereditaria), era legata per testamento. L'espressione fu trovata
dai Romani per caratterizzare un nuovo organismo sociale, il cui
capo aveva sotto di sé moglie, figli, e un certo numero di schiavi
sottoposti al potere patriarcale dei Romani, e col diritto di vita
e di morte su tutti.
La parola dunque non è più antica del sistema familiare corazzato
di ferro delle tribù latine, sorto dopo l'introduzione
dell'agricoltura e della schiavitù legale e dopo la divisione
degli Italici ariani dai Greci.
Marx aggiunge:
La moderna famiglia contiene in germe, non solo la schiavitù (servitus),
ma anche la servitù della gleba, poiché questa, fin dall'inizio, è
in rapporto con i servizi agricoli. Essa contiene in sé, in miniatura,
tutti gli antagonismi che si svilupperanno più tardi largamente
nella società e nel suo Stato.
Una tale forma di famiglia segna il passaggio dal matrimonio di
coppia alla monogamia. Per assicurare la fedeltà della donna, e
perciò la paternità dei figli, la donna viene sottoposta
incondizionatamente al potere dell'uomo; uccidendola egli non fa
che esercitare il suo diritto (37).
Con la famiglia patriarcale entriamo nel campo della storia
scritta, e perciò in un campo in cui la giurisprudenza comparata
può darci un aiuto notevole. E infatti ci ha fatto fare un
importante passo avanti. Siamo debitori a Maxim Kovalevski (Tableau
ecc. de la famille et de la propriété, Stoccolma,
1890, pp. 60-100) di averci fornito la prova che la comunità
domestica patriarcale, come ancora oggi la troviamo tra Serbi e
Bulgari sotto il nome di zadruga (da tradurre presso a
poco con legame d'amicizia) o bratstvo (fratellanza) e in
forma modificata presso i popoli orientali, ha formato lo stadio
di passaggio tra la famiglia matriarcale, che nasce dal matrimonio
di gruppo, e la famiglia monogamica del mondo moderno. Per lo meno
per i popoli civili del mondo antico, per gli ariani e i semiti,
questo fatto sembra dimostrato.
La zadruga degli Slavi meridionali offre l'esempio migliore,
ancora oggi valido, di una tale comunità familiare. Essa abbraccia
più generazioni di discendenti di un padre con le loro mogli, i
quali abitano insieme in un podere, coltivano in comune i loro
campi, si nutrono e si vestono attingendo da una riserva comune, e
posseggono in comune l'eccedenza del prodotto. La comunità è
sottoposta alla suprema amministrazione del padrone di casa (domàcin)
che la rappresenta all'esterno, può alienare oggetti di poco
conto, tiene la cassa di cui è responsabile, così come è
responsabile anche del regolare andamento degli affari. Egli viene
eletto e non occorre affatto che sia il più anziano. Le donne e il
loro lavoro sono sotto la direzione della padrona di casa (domàcica)
che, abitualmente, è la moglie del domàcin. Costei ha anche molta
voce in capitolo nella scelta del marito per le ragazze; spesso il
suo parere è decisivo. Ma l'autorità suprema risiede nel consiglio
di famiglia, l'assemblea di tutti i membri adulti, sia uomini che
donne. Il padrone di casa deve render conto del suo operato a
questa assemblea, la quale delibera sulle questioni decisive,
esercita la giurisdizione sui membri, decide sulle compere e le
vendite di qualche importanza, specialmente di proprietà fondiaria
ecc.
Da una decina d'anni soltanto è stato provato che tali grandi
comunità familiari continuano a sussistere in Russia. Esse sono,
adesso, comunemente riconosciute come radicate nel costume
popolare russo altrettanto quanto la obstcina o comunità di
villaggio. Esse figurano nel più antico codice russo, la Pravda di laroslav (38) con un nome identico
(vervi) a quello delle leggi dalmate, e se ne trovano
indicazioni anche in fonti storiche polacche e ceche.
Secondo Heusler in Institutionen
des deutschen Rechts (39)anche
fra i Tedeschi l'unità economica originariamente non è la singola
famiglia nella moderna accezione del termine, ma «la comunità
domestica» che consta di più generazioni, rispettivamente famiglie
singole, e che inoltre, abbastanza spesso, comprende anche un
certo numero di uomini non liberi. Anche la famiglia romana viene
riportata a questo tipo, e di conseguenza il potere assoluto del
padre di famiglia, e la mancanza di diritti degli altri membri di
fronte a lui, sono stati di recente fortemente contestati. Tra i
Celti d'Irlanda sembra siano del pari esistite analoghe comunità
familiari; in Francia si conservarono, nel Nivernese, fino alla
Rivoluzione col nome di parçonneries e nella Franca Contea
neanche oggi sono del tutto scomparse. Nella regione di Louhans
(Saone et Loire) si vedono grandi case contadine, nelle quali
abitano più generazioni della stessa famiglia, composte di una
sala centrale comune, alta tanto da arrivare al tetto, con
tutt'intorno le camere da letto, alle quali si accede da scale di
sei, otto gradini.
In India la comunità domestica con comune coltivazione del suolo è
ricordata già da Nearco (40) al tempo di
Alessandro Magno, e ancora oggi esiste in quelle stesse regioni,
nel Punjab e in tutto il nord-ovest del paese. Nel Caucaso,
Kovalevski stesso ha potuto provarne l'esistenza. In Algeria essa
sussiste ancora tra i Cabili. Nella stessa America deve essere
esistita, e la si vorrebbe scoprire nei Calpullis (41) dell'antico Messico,
descritti da Zurita. D'altra parte Cunow (Ausland (42) , 1890, n. 42-44) ha
provato, con sufficiente chiarezza, che nel Perù, al tempo della
conquista, vigeva una specie di costituzione di marca (e
quest'ultima, cosa strana, si chiamava proprio Marca) con
spartizione periodica della terra coltivata, e quindi con coltura
individuale.
In ogni caso la comunità domestica patriarcale con proprietà
fondiaria comune e coltivazione comune della terra viene ad
assumere un significato assolutamente diverso da quello che aveva
finora. Non possiamo dubitare più a lungo dell'importante funzione
che essa ha avuto tra i popoli civili e alcuni altri popoli del
mondo antico, come forma di transizione tra la famiglia
matriarcale e la famiglia singola. Più avanti ritorneremo sulle
conclusioni tratte ulteriormente da Kovalevski, secondo cui essa
fu anche la fase di transizione da cui si è sviluppata la comunità
di villaggio o di marca, con coltivazione individuale del suolo e
con spartizione prima periodica, poi definitiva di terreno arativo
e prativo.
In relazione alla vita familiare all'interno di queste comunità
domestiche c'è da notare che, almeno in Russia, il capo di
famiglia gode fama di abusare fortemente della sua posizione nei
confronti delle donne giovani della comunità; specialmente nei
confronti delle nuore, e di formarsene spesso una specie di harem,
e su ciò i canti popolari russi sono abbastanza eloquenti.
Prima di passare alla monogamia che si sviluppa rapidamente con la
caduta del matriarcato, diciamo ancora qualche parola sulla
poligamia e sulla poliandria. Queste due forme di matrimonio
possono essere solo eccezioni, per così dire, prodotti di lusso
della storia, a meno che in qualche paese non si presentino l'una
accanto all'altra, cosa che, come è noto, non si verifica. Ma
poiché gli uomini esclusi dalla poligamia non possono certo
consolarsi con le donne lasciate in avanzo dalla poliandria, e il
numero degli uomini e delle donne, senza riguardo a istituzioni
sociali, è stato finora all'incirca eguale, si esclude da sé che
una di queste due forme di matrimonio possa elevarsi ad assumere
validità generale. In effetti, la poligamia di un solo uomo era
evidentemente prodotto della schiavitù ed era limitata a singole
posizioni eccezionali. Nella famiglia patriarcale semitica vive in
poligamia soltanto lo stesso patriarca e, al massimo, anche un
paio dei suoi figli; gli altri devono accontentarsi di una sola
donna. E ciò accade ancor oggi in tutto l'oriente. La poligamia è
un privilegio dei ricchi e dei nobili, e le donne si reclutano
specialmente con la compra di schiave; la massa del popolo vive in
monogamia. Una eccezione del genere è costituita dalla poliandria
praticata in India e nel Tibet, la cui origine dal matrimonio di
gruppo, certo non priva di interesse, deve essere ancora indagata
più da vicino. Nella sua prassi, del resto, appare molto più
corrente del geloso regime di harem dei maomettani. Per lo meno
presso i Nair dell'India ogni tre, quattro o più uomini hanno, è
vero, una moglie in comune, ma ognuno di essi può inoltre, con tre
o più altri uomini, avere in comune una seconda moglie, e così una
terza, una quarta, ecc. E' veramente strano che McLennan non abbia
scoperto in questi clubs matrimoniali, di parecchi dei quali si
può essere membri e che egli stesso descrive, la nuova classe del matrimonio a clubs.
Questo regime di club matrimoniale, del resto, non è affatto una
vera poliandria; al contrario, come già ha osservato
Giraud-Teulon, è una forma speciale del matrimonio di gruppo: gli
uomini vivono in poligamia, le donne in poliandria.
4. La famiglia monogamica. Essa nasce dalla famiglia di coppia,
come si è già dimostrato, nell'epoca che segna i limiti tra lo
stadio medio e lo stadio superiore della barbarie. La sua
definitiva vittoria è uno dei segni distintivi del sorgere della
civiltà. È fondata sul dominio dell'uomo, con l'esplicito scopo di
procreare figli di paternità incontestata, e tale paternità è
richiesta poiché questi figli, in quanto eredi naturali, devono
entrare un giorno in possesso del patrimonio paterno. Si
differenzia dal matrimonio di coppia per una assai più grande
solidità del vincolo coniugale, non più dissolubile ad arbitrio
delle due parti contraenti. E’ regola ora che solo il marito possa
sciogliere il vincolo e ripudiare la moglie. Il diritto alla
infedeltà coniugale, anche ora, gli resta garantito per lo meno
dal costume (il Code
Napoléon glielo
attribuisce espressamente sino a che egli non porti la concubina
sotto il tetto coniugale) (43) e viene sempre
maggiormente esercitato a misura che avanza il progresso sociale.
Se la moglie si ricorda della antica prassi sessuale e vuole
rinnovarla, viene punita più severamente di quel che mai accadesse
prima.
La nuova forma di famiglia ci si presenta in tutta la sua durezza
tra i Greci. Mentre, come osserva Marx, la posizione delle dee
nella mitologia ci trasporta ad un periodo anteriore, nel quale le
donne godevano ancora di una posizione più libera e più stimata,
noi troviamo, nell'età eroica, la donna (44) già umiliata dalla
supremazia dell'uomo e dalla concorrenza delle schiave. Si legga, nell'Odissea,
come Telemaco chiuda duramente la bocca della madre (45). In
Omero le giovinette catturate soggiacciono alle voglie dei
vincitori; i comandanti scelgono, secondo il turno e il rango, le
più belle. Tutta l'Iliade,
come è noto, si svolge intorno all'episodio della contesa tra
Agamennone e Achille, causata proprio da una di tali schiave. Per
ogni ragguardevole eroe omerico vien fatta menzione della
giovinetta presa prigioniera con cui egli condivide tenda e letto.
Queste giovinette venivano anche ammesse in patria e sotto il
tetto coniugale, come Cassandra da Agamennone in Eschilo (46); i
figli generati da tali schiave ricevono una piccola parte
dell'eredità paterna e sono considerati uomini pienamente liberi.
Teucro (47) è uno di questi figli
naturali di Telamone e ha il diritto di chiamarsi col nome del
padre. Dalla moglie si pretende che accetti tutto questo stato di
cose, ma che essa stessa osservi una rigorosa castità e fedeltà
coniugale.
La donna greca dell'età eroica è, certo, più rispettata di quella
del periodo della civiltà; ma infine essa resta per l'uomo
soltanto la madre dei suoi eredi nati dal matrimonio, la
principale amministratrice della casa, la sorvegliante delle
schiave che egli, a suo piacimento, può trasformare, come fa, in
concubine. La sussistenza della schiavitù accanto alla monogamia,
l'esistenza di giovani e belle schiave che appartengono all'uomo con tutto ciò
che esse hanno in proprio, sono le cose che fin dall'inizio
imprimono alla monogamia il suo carattere specifico che è quello
di essere monogamia solo per la donna,
ma non per l'uomo.
E questo carattere essa lo ha anche oggi.
Per i Greci di un'epoca più tarda dobbiamo distinguere i Dori
dagli Ioni. I primi, il cui esempio classico è Sparta, hanno
rapporti matrimoniali per molti aspetti ancora più arcaici di
quelli segnalati da Omero. In Sparta è in vigore un matrimonio di
coppia modificato secondo le particolari concezioni dello Stato,
proprie del luogo, ed esso presenta molte tracce del matrimonio di
gruppo. I matrimoni senza figli vengono sciolti. Il re
Anassandrida (650 anni circa prima dell'era volgare) aggiunse una
seconda moglie alla prima sterile e manteneva due amministrazioni
domestiche; intorno alla stessa epoca, il re Aristone aggiunse a
due mogli sterili una terza, ma ripudiò, in cambio, una delle due
precedenti. D'altra parte, parecchi fratelli potevano avere una
moglie in comune e l'amico a cui piacesse di più la moglie
dell'amico, poteva averla in comune con lui e non era affatto
sconveniente il porre la donna a disposizione d'un vigoroso
«stallone», come avrebbe detto Bismarck, anche se questi non era
cittadino di Sparta.
Da un passo di Plutarco, in cui una spartana manda dal proprio
marito l'amante che la perseguita con le sue proposte, si rivela,
secondo Schoemann (48), una
libertà di costumi perfino più grande ancora. Un vero adulterio,
cioè un'infedeltà della moglie alle spalle del marito, era perciò
anche cosa inaudita. D'altra parte, la schiavitù domestica era
sconosciuta a Sparta, per lo meno nei tempi migliori. Gli Iloti,
servi della gleba, vivevano appartati dai loro padroni nei fondi
rustici, e perciò gli Spartani erano assai meno tentati di
prendersi le loro mogli. Per tutte queste circostanze, le donne
spartane godevano di una posizione ben altrimenti circondata da
considerazione che nel resto della Grecia; né poteva essere
altrimenti. Le donne spartane e l'élite delle etere
ateniesi sono le sole donne greche di cui gli antichi parlino con
rispetto e di cui ritengano che valga la pena di tramandare le
parole.
Del tutto diversa è la situazione tra gli Ioni, per i quali è
caratteristica Atene. Le ragazze imparavano solo a filare, tessere
e cucire, e al massimo un poco a leggere e a scrivere. Vivevano
quasi recluse, e solo in compagnia di altre donne. L'appartamento
delle donne era una parte isolata della casa, al piano superiore o
nella parte posteriore, dove uomini, specie estranei,
difficilmente entravano, e dove esse si ritiravano quando un uomo
veniva in visita. Le donne non uscivano se non accompagnate da una
schiava ed erano, in casa, rigorosamente sorvegliate.
Aristofane (49) parla di cani molossi
mantenuti per spaventare gli adulteri e, per lo meno nelle città
asiatiche, si tenevano, a custodia delle donne, eunuchi, i quali
venivano, già al tempo di Erodoto, fabbricati a Chio a scopo di
commercio e, secondo Wachsmuth (50), non
soltanto per i barbari. Da Euripide (51) la donna viene
caratterizzata come oikurema,
cioè cosa destinata alla cura domestica (il vocabolo è di genere
neutro) e, a prescindere dal compito di generar figli, essa era,
per l'Ateniese, solo la prima serva di casa. L'uomo aveva i suoi
esercizi ginnici, i suoi affari pubblici, da cui la donna era
esclusa; inoltre aveva spesso anche delle schiave a sua
disposizione e, al tempo del massimo splendore di Atene, fioriva
una prostituzione estesa, che lo Stato per lo meno favoriva. Fu
proprio fondandosi su questa prostituzione che si svilupparono
quegli unici caratteri femminili greci che, per spirito e sviluppo
di gusto artistico, superarono il livello generale delle donne
antiche, così come le donne spartane lo superarono per il
carattere. Ma la condanna più severa della famiglia ateniese è che
si dovesse prima essere etera per diventare
donna.
Questa famiglia ateniese divenne nel corso dei tempi il modello su
cui non soltanto gli altri Ioni, ma anche e sempre più tutti i
Greci della madrepatria e delle colonie modellarono i loro
rapporti domestici. Ma, nonostante tutte le proibizioni e la
sorveglianza, le donne greche ti trovavano spesso occasione di
ingannare i loro mariti. Costoro, che si sarebbero vergognati di
far trasparire un qualche amore per le loro mogli, si divertivano
con le etere in commerci amorosi d'ogni genere; ma le mogli,
avvilite, si vendicarono sugli uomini e anche li avvilirono a tal
punto che essi sprofondarono nella repugnante pederastia e
avvilirono i loro dèi e se stessi col mito di Ganimede (52).
Questa fu l'origine della monogamia, così come possiamo seguirla
nel popolo più civile e di più alto sviluppo dell'antichità. Essa
non fu, in alcun modo, un frutto dell'amore sessuale individuale,
col quale non aveva assolutamente nulla a che vedere, giacché i
matrimoni, dopo come prima, rimasero matrimoni di convenienza. Fu
la prima forma di famiglia che non fosse fondata su condizioni
naturali, ma economiche (53) e precisamente sulla
vittoria della proprietà privata sulla originaria e spontanea
proprietà comune. La dominazione dell'uomo nella famiglia e la
procreazione di figli incontestabilmente suoi, destinati a
ereditare le sue ricchezze: ecco quali furono i soli ed esclusivi
fini del matrimonio monogamico, enunciati dai Greci senza
ambiguità! Del resto la monogamia era per loro un onere, un dovere
che dovevano adempiere verso gli dèi, verso lo Stato e i propri
antenati. In Atene la legge non costringeva soltanto al
matrimonio, ma anche all'adempimento, da parte dell'uomo, di un
minimo dei cosiddetti doveri matrimoniali.
La monogamia così non appare in nessun modo, nella storia, come la
riconciliazione di uomo e donna, e tanto meno come la forma più
elevata di questa riconciliazione. Al contrario, essa appare come
soggiogamento di un sesso da parte dell'altro, come proclamazione
di un conflitto tra i sessi sin qui sconosciuto in tutta la
preistoria. In un vecchio manoscritto inedito, elaborato da Marx e
da me nel 1846 (54),
trovo scritto: «La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e
donna per la procreazione di figli». Ed oggi posso aggiungere : il
primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo
sviluppo dell'antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio
monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella
del sesso femminile da parte di quello maschile.
La monogamia fu un grande progresso storico, ma contemporaneamente
essa, accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, schiuse
quell'epoca che ancora oggi dura, nella quale ogni progresso è, ad
un tempo, un relativo regresso, e in cui il bene e lo sviluppo
degli uni si compie mediante il danno e la repressione di altri.
Essa fu la forma cellulare della società civile, e in essa
possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle
contraddizioni che nella civiltà si dispiegano con pienezza.
L'antica relativa libertà di commercio sessuale non scompare
affatto con la vittoria del matrimonio di coppia o perfino della
monogamia.
«L'antico sistema matrimoniale, riportato a limiti più angusti dal
graduale estinguersi dei gruppi punalua, circondava pur sempre la
famiglia che si andava ulteriormente sviluppando e si attaccò al
suo grembo fino all'albeggiare della civiltà... per scomparire
alla fine in quella nuova forma dell'eterismo, la quale segue gli
uomini sino nella civiltà, come una nera ombra sospesa sulla
famiglia.»
Per eterismo Morgan intende il commercio sessuale extra-coniugale
tra uomini e donne non maritate, esistente accanto al
matrimonio monogamico, e che, è noto, fiorisce durante tutto
il periodo della civiltà nelle forme più diverse, e diventa sempre
più aperta prostituzione (55).
Questo eterismo deriva, in maniera assolutamente diretta, dal
matrimonio di gruppo, da quel concedersi votivo delle donne, con
cui esse si acquistavano il diritto alla castità. Il concedersi
per denaro era all'inizio un atto religioso, aveva luogo nel
tempio della dea dell'amore, e il denaro originariamente fluiva
nel tesoro del tempio. Le ierodule (56) di Anaitis
nell'Armenia, quelle di Afrodite a Corinto, le danzatrici
religiose indiane addette ai templi, le così dette bajadere (il
vocabolo è una storpiatura del portoghese bailadeira, danzatrice)
furono le prime prostitute. Il concedersi, in origine dovere di
ogni donna, fu più tardi praticato soltanto da queste sacerdotesse
in rappresentanza di tutte le altre. Presso altri popoli
l'eterismo deriva dalla libertà sessuale concessa alle fanciulle
prima del matrimonio: è quindi del pari un residuo del matrimonio
di gruppo, pervenutoci però per via diversa.
Col differenziarsi della proprietà, quindi già nello stadio
superiore della barbarie, sporadicamente, accanto al lavoro degli
schiavi appare il lavoro salariato e, contemporaneamente, come suo
necessario correlativo, appare la prostituzione lucrativa delle
donne libere, accanto al coattivo concedersi della schiava. Così
l'eredità che il matrimonio di gruppo ha legato alla civiltà è di
duplice aspetto, come di duplice aspetto, di duplice linguaggio,
scisso in se stesso, antagonistico è tutto ciò che la civiltà
produce: da una parte la monogamia, dall'altra eterismo e insieme
la sua forma estrema: la prostituzione. L’eterismo è precisamente
un'istituzione sociale come ogni altra; esso continua l'antica
libertà sessuale... a favore degli uomini. Esso viene condannato a
parole, ma nella realtà viene non solo tollerato, ma allegramente
praticato, specialmente dalle classi dominanti. Ma questa
condanna, in realtà, non colpisce affatto gli uomini interessati
alla faccenda, ma solo le donne: esse vengono messe al bando e
scacciate, perché si proclami ancora una volta come legge
fondamentale della società l'incondizionato dominio degli uomini
sul sesso femminile.
Ma si sviluppa così un secondo antagonismo all'interno della
stessa monogamia. Accanto al marito che abbellisce la sua
esistenza con l’eterismo, sta la moglie trascurata. E non si può
avere un termine dell'antitesi senza l'altro, così come, se si è
mangiata mezza mela, non si può poi averne in mano ancora una
intera. In ogni modo, questa sembra essere stata l'opinione degli
uomini, finché le loro mogli non li convinsero del contrario. Con
la monogamia compaiono due caratteristiche figure sociali stabili
prima sconosciute: l'amante stabile della donna e il marito becco.
Gli uomini avevano riportato la vittoria sulle donne, ma le vinte
si incaricarono d'incoronare con magnanimità i vittoriosi.
Accanto alla monogamia e all'eterismo, divenne un'inevitabile
istituzione sociale l'adulterio: proibito, severamente punito, ma
insopprimibile. La paternità certa dei figli riposava, come già
prima, tutt'al più sulla convinzione morale, e per risolvere
l'insolubile contraddizione l'articolo 312 del Code Napoléon
decretava: «l'enfant conçu pendant le mariage a pour père le
mari»: il bambino concepito durante il matrimonio ha per padre...
il marito. Questo è il risultato ultimo di tremila anni di
monogamia.
Così nella famiglia monogamica, nei casi che rimangono fedeli alla
loro origine storica e che manifestano chiaramente il conflitto
tra uomo e donna, provocato dalla esclusiva dominazione dell'uomo,
abbiamo un'immagine in piccolo degli stessi antagonismi e delle
stesse contraddizioni in cui si muove, senza poterli risolvere e
superare, la società scissa in classi, dopo il suo ingresso nella
civiltà. Parlo qui naturalmente soltanto di quei casi di monogamia
in cui la vita matrimoniale trascorre, in realtà, secondo la
prescrizione data dal carattere originario di tutta l'istituzione,
ma in cui la donna si ribella contro il dominio dell'uomo. Che non
tutti i matrimoni abbiano questo corso, nessuno lo sa meglio del
filisteo tedesco, il quale non sa mantenere il suo dominio in casa
meglio di quanto non lo sappia mantenere nello Stato, e la cui
moglie perciò con pieno diritto porta quei pantaloni di cui egli
non è degno. Ma in compenso si crede anche assai superiore al suo
compagno di sventura francese, al quale, più spesso che a lui,
capita assai peggio.
La famiglia monogamica, d'altronde, non si presenta dovunque e in
ogni tempo nella rigida forma classica che ebbe tra i Greci. Tra i
Romani, i quali, come futuri conquistatori del mondo, vedevano più
lontano anche se con meno finezza dei Greci, la donna era più
libera e tenuta in maggior considerazione. Il Romano considerava
la fedeltà coniugale largamente garantita dal potere di vita e di
morte che egli aveva sulla moglie. Qui la moglie poteva anche
sciogliere liberamente il matrimonio non meno del marito; ma il
più grande progresso nello sviluppo del matrimonio monogamico si
verificò decisamente con l'ingresso dei Tedeschi nella storia, e
precisamente perché, in conseguenza della loro povertà, non sembra
che in quel tempo, tra loro, dal matrimonio di coppia si fosse
ancora sviluppata compiutamente la monogamia.
Conclusioni queste che noi deduciamo da tre circostanze citate da
Tacito. In primo luogo, pur essendo ritenuto il matrimonio cosa
altamente sacra («essi si accontentano d'una sola donna, le donne
vivono custodite dalla castità (57)»),
vigeva tuttavia la poligamia per i nobili e i capi tribù: dunque
vi era uno stato di cose analogo a quello esistente tra gli
Americani, presso cui vigeva il matrimonio di coppia. In secondo
luogo il passaggio dal diritto matriarcale a quello patriarcale
non poteva essersi compiuto che poco tempo prima, poiché ancora lo
zio materno, secondo il diritto matriarcale il parente gentilizio
di sesso maschile più prossimo, era considerato quasi come un
parente più prossimo del padre vero e proprio (58), il
che corrisponde pure al punto di vista degli Indiani d'America,
tra i quali Marx, come spesso diceva, aveva trovato la chiave per
comprendere le origini della nostra prima età. E per terzo, tra i
Tedeschi le donne godevano di un'alta considerazione ed avevano un
notevole influsso anche negli affari pubblici (59), il
che contrasta direttamente colla dominazione dell'uomo nel
matrimonio monogamico.
In quasi tutte queste cose i Tedeschi concordano con gli Spartani
tra i quali, come abbiamo visto, il matrimonio di coppia non era
del pari ancora completamente sparito. Con i Tedeschi venne dunque
alla luce, anche sotto questo aspetto, un elemento del tutto
nuovo, che si diffuse e dominò in tutto il mondo. La nuova
monogamia, che sulle rovine del mondo romano si sviluppò dalla
fusione dei popoli, rivestì il dominio dell'uomo di forme più
blande, e concesse alla donna una posizione molto più libera e
rispettata, per lo meno esteriormente, di quanto avesse mai
conosciuto nell'antichità classica.
E soltanto allora fu data la possibilità che dalla monogamia
(nella monogamia, accanto o contro la monogamia, a seconda dei
casi) si sviluppasse il più grande progresso morale del quale le
siamo debitori: l'amore sessuale individuale moderno, sconosciuto
al mondo intero nel passato.
Questo progresso sorse decisamente dalla circostanza che i
Tedeschi vivevano ancora nella famiglia di coppia, e per quanto fu
loro possibile innestarono alla monogamia la corrispondente
posizione della donna: non sorse però affatto dalla leggendaria e
meravigliosa disposizione naturale alla purezza di costumi dei
Tedeschi, disposizione che si limita al fatto che in realtà il
matrimonio di coppia non si muove tra gli antagonismi morali
stridenti della monogamia. Al contrario i Tedeschi durante le loro
migrazioni, specialmente verso il sud-est tra le popolazioni
nomadi delle steppe del Mar Nero, si erano moralmente molto
corrotti, e tra queste popolazioni avevano appreso, oltre alla
loro arte di cavalcare, anche gravi vizi contro natura; cosa che
espressamente Ammiano attesta dei Taifali e Procopio degli Eruli (60).
Se però la monogamia, di tutte le forme di famiglia note, era la
sola che potesse permettere lo sviluppo dell'amore sessuale in
senso moderno, questo non significa che esso si sviluppò
esclusivamente, o solo prevalentemente, in essa, come amore
reciproco dei coniugi. Tutta la natura della stretta monogamia,
sotto il dominio dell'uomo, lo escludeva. In tutte le classi
storicamente attive, cioè in tutte le classi dominanti, la
conclusione del matrimonio rimase ciò che era stata dal tempo del
matrimonio di coppia, affare di convenienza che veniva combinato
dai genitori. E la prima forma dell'amore sessuale che appare
nella storia come passione, e passione che spetta ad ogni
individuo (per lo meno delle classi dominanti), come la forma più
alta dell'istinto sessuale — il che ne costituisce precisamente il
carattere specifico — questa sua prima forma, l'amore cavalleresco
del Medioevo, non fu affatto un amore coniugale. Al contrario. Nel
suo aspetto classico, presso i Provenzali, esso naviga a vele
spiegate verso l'adulterio, e i poeti provenzali lo celebrano. Il
fiore della poesia d'amore provenzale sono le albe, in
tedesco Tagelieder.
Esse descrivono a brillanti colori il cavaliere che giace a letto
con la sua bella, la moglie di un altro, mentre fuori sta all'erta
la sentinella, pronta a chiamarlo appena tralucano i primi albori
(alba), perché egli possa scappare inosservato. La scena della
separazione rappresenta poi il punto culminante. I Francesi del
nord e anche i valenti Tedeschi accettarono questo genere poetico,
insieme con la corrispondente maniera dell'amore cavalleresco, e
il nostro vecchio Wolfram von Eschenbach (61) sulla stessa materia
piuttosto libera ci ha lasciato tre bellissimi Tagelieder,
che preferisco ai suoi tre lunghi poemi eroici.
La conclusione di un matrimonio borghese ai nostri giorni e di due
specie. Nei paesi cattolici, i genitori, adesso come una volta, si
preoccupano di cercare per il giovane rampollo una moglie adatta,
e la conseguenza di ciò è naturalmente il dispiegarsi più completo
della contraddizione contenuta nella monogamia: rigoglioso
eterismo da parte dell'uomo, rigoglioso adulterio da parte della
donna. La Chiesa cattolica, probabilmente, ha abolito il divorzio
per il solo fatto che si è convinta che all'adulterio, come alla
morte, non c'è rimedio. Invece, nei paesi protestanti, la regola è
che si permette al giovane borghese di cercarsi, con più o meno
grande libertà, una moglie nella sua classe, e così può esserci a
base della conclusione del matrimonio un certo grado d'amore che,
anche per creanza, viene sempre presupposto, il che è conforme
all'ipocrisia protestante. Qui dunque l'eterismo viene praticato
con impegno minore, e l'adulterio da parte della donna è un po'
meno di regola. Ma poiché, quale che sia la specie di matrimonio,
gli uomini rimangono quel che erano prima del matrimonio, e i
borghesi dei paesi protestanti sono per lo più filistei, questa
monogamia protestante porta nella media dei casi più favorevoli
solo ad una comunità coniugale mortalmente noiosa che viene
indicata col nome di felicità domestica.
Lo specchio migliore di questi due metodi matrimoniali è il
romanzo francese per la maniera cattolica, quello tedesco per la
protestante. In ciascuno dei due «lui conquista lei»:nel romanzo
tedesco il giovane conquista la ragazza, nel romanzo francese il
marito conquista le corna. Quale dei due stia peggio non è sempre
assodato. Perciò la noia di un romanzo tedesco suscita in un
borghese francese anche lo stesso raccapriccio che suscita nel
filisteo tedesco l'«immoralità» del romanzo francese. Tuttavia
però, di recente, da quando «Berlino va divenendo metropoli», il
romanzo tedesco comincia a farsi un po' meno timido nel trattare
eterismo e adulterio, là assai ben conosciuti da tempo.
In entrambi i casi però il matrimonio viene determinato dalla
condizione di classe degli interessati e, in quanto tale, è sempre
un matrimonio di convenienza (62).
Questo matrimonio di convenienza si trasforma abbastanza spesso
nella più crassa prostituzione, talvolta da tutte e due le parti,
molto più comunemente da parte della donna, la quale si distingue
dalla comune cortigiana solo perché essa non affitta il proprio
corpo come una salariata che lavori a cottimo, ma lo vende in
schiavitù una volta per tutte. Per tutti i matrimoni di
convenienza valgono le parole di Fourier: «Come in grammatica due
negazioni costituiscono un'affermazione, così nella morale
matrimoniale due prostituzioni fanno una virtù» (63).
Vera regola nei rapporti con la donna diventa l'amore sessuale e
può diventarlo solo tra le classi oppresse, dunque al giorno
d'oggi nel proletariato: sia o non sia questo un rapporto
sanzionato ufficialmente. Ma qui sono messe in disparte tutte le
basi della monogamia classica. Qui manca ogni proprietà, per la
cui conservazione e trasmissione ereditaria furono appunto create
la monogamia e la dominazione dell'uomo; qui manca dunque anche
ogni incitamento a far valere la dominazione dell'uomo. E per di
più mancano anche i mezzi; il diritto civile, che difende questa
dominazione, esiste solo per i possidenti e per i loro rapporti
con i proletari: esso costa denaro, e perciò non ha alcun valore
per la posizione dell'operaio rispetto alla moglie, a causa della
sua povertà. In questo caso, rapporti sociali e personali
assolutamente diversi hanno un peso decisivo. E da quando la
grande industria ha trasferito la donna dalla casa sul mercato di
lavoro e nella fabbrica, e abbastanza spesso ne fa il sostegno
della famiglia, nella casa proletaria è venuta a cadere
completamente ogni base all'ultimo residuo della dominazione
dell'uomo; tranne forse un elemento di quella brutalità verso le
donne radicatasi dal tempo dell'introduzione della monogamia. Così
la famiglia proletaria non è più monogamica nel senso stretto
della parola, anche dato il più appassionato amore e la fedeltà
più salda tra i due coniugi, e malgrado ogni eventuale
consacrazione religiosa e laica. Perciò, anche gli inseparabili
compagni della monogamia, eterismo e adulterio, rappresentano qui
una parte del tutto insignificante. La donna ha riacquistato
realmente il diritto al divorzio, e quando i coniugi non riescono
a sopportarsi, ognuno se ne va per conto suo senza difficoltà. In
breve, il matrimonio proletario è monogamico nel senso etimologico
della parola, ma non lo è affatto nel suo significato storico (64).
I nostri giuristi trovano in verità che il progresso della
legislazione toglie in misura crescente alla donna ogni motivo di
lagnarsi. I moderni sistemi legislativi civili vanno sempre più
riconoscendo: primo, che il matrimonio per essere valido deve
essere un contratto stipulato liberamente dalle due parti; e
secondo, che anche durante il matrimonio le due parti devono stare
una di fronte all'altra con eguali diritti e doveri. Se queste due
esigenze fossero conseguentemente realizzate, le donne avrebbero
tutto ciò che possono desiderare.
Questa argomentazione prettamente giuridica è precisamente quella
stessa con cui il borghese repubblicano radicale sbriga e mette a
tacere il proletario. Il contratto di lavoro deve essere un
contratto stipulato volontariamente dalle due parti. Ma esso passa
per liberamente stipulato, da che la legge equipara sulla carta le due parti. Il
potere che la diversa posizione di classe dà all'una parte, la
pressione che essa esercita sull'altra, la reale posizione
economica delle due parti, tutto ciò alla legge non importa. E
mentre dura il contratto di lavoro, le due parti devono a loro
volta essere considerate provviste di eguali diritti, a meno che
l'una o l'altra non vi abbia espressamente rinunciato. Se il
lavoratore è costretto dalle condizioni economiche a rinunciare
perfino all'ultima parvenza di eguaglianza di diritti, la legge a
sua volta non può farci nulla!
In quanto al matrimonio, poi, la legge, anche la legge più
progressiva, è completamente soddisfatta tosto che i contraenti
abbiano dichiarato formalmente su un foglio di carta il loro
libero consenso. Di quel che accade poi dietro le quinte del
diritto, là dove si svolge la vita reale, del come questo libero
consenso si realizzi, di tutto ciò la legge e il giurista non
possono darsi pena. Eppure qui la più semplice comparazione
giuridica dovrebbe mostrare all'uomo di legge quale importanza
abbia questo libero consenso. Nei paesi in cui per legge è
assicurata ai figli una legittima sul patrimonio paterno, dove
quindi non possono essere diseredati (per esempio in Germania o
nei paesi di diritto francese, ecc.), per la conclusione del
matrimonio i figli sono legati al consenso dei genitori. Nei paesi
di diritto inglese, dove il consenso dei genitori non è
un'esigenza legale necessaria per la conclusione del matrimonio, i
genitori hanno anche piena libertà testamentaria sul loro
patrimonio e possono diseredare i figli a loro piacimento. Che ad
onta di ciò, anzi a causa di ciò, la libertà di contrarre
matrimonio nelle classi dove c'è qualcosa da ereditare, in
Inghilterra ed in America, non si differenzi affatto da quella che
esiste in Francia e in Germania, è cosa ben chiara.
Né meglio stanno le cose quanto alla parità giuridica tra marito e
moglie. La disparità di diritti dei coniugi, che noi abbiamo
ereditato da condizioni sociali anteriori, non è la causa, ma
l'effetto dell'oppressione economica della donna. Nell'antica
amministrazione comunistica che abbracciava parecchie coppie di
coniugi e i loro figli, l'amministrazione domestica affidata alle
donne era un'industria di carattere pubblico, un'industria
socialmente necessaria, così come lo era l'attività con cui gli
uomini procacciavano gli alimenti. Con la famiglia patriarcale, e
ancor più con la famiglia singola monogamica, le cose cambiarono.
La direzione dell'amministrazione domestica perdette il suo
carattere pubblico. Non interessò più la società. Divenne un servizio privato;
la donna divenne la prima serva, esclusa dalla partecipazione alla
produzione sociale. Soltanto la grande industria dei nostri tempi
le ha riaperto, ma sempre limitatamente alla donna proletaria, la
via della produzione sociale. Ma in maniera tale che se essa
compie i propri doveri nel servizio privato della sua famiglia,
rimane esclusa dalla produzione pubblica, e non ha la possibilità
di guadagnare nulla; se vuole prender parte attiva all'industria
pubblica e vuole guadagnare in modo autonomo, non è più in grado
di adempiere ai doveri familiari. E come accade nella fabbrica,
così procedono le cose per la donna in tutti i rami della
attività, compresa la medicina e l'avvocatura.
La moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica
della donna, aperta o mascherata, e la società moderna è una massa
composta nella sua struttura molecolare da un complesso di
famiglie singole. Al giorno d'oggi l'uomo, nella grande
maggioranza dei casi, deve essere colui che guadagna, che alimenta
la famiglia, per lo meno nelle classi abbienti; il che gli dà una
posizione di comando che non ha bisogno di alcun privilegio
giuridico straordinario. Nella famiglia egli è il borghese, la
donna rappresenta il proletario. Nel inondo dell'industria lo
specifico carattere dell'oppressione economica gravante sul
proletariato, spicca in tutta la sua acutezza soltanto dopo che
tutti i privilegi legali particolari della classe capitalistica
sono stati eliminati, e dopo che la piena eguaglianza di diritti
delle due classi è stata stabilita in sede giuridica. La
repubblica democratica non elimina l'antagonismo tra le due
classi: offre al contrario per prima il suo terreno di lotta. E
così anche il carattere peculiare del dominio dell'uomo sulla
donna nella famiglia moderna, e la necessità, nonché la maniera,
di instaurare un'effettiva eguaglianza sociale dei due sessi,
appariranno nella luce più cruda solo allorché entrambi saranno
provvisti di diritti perfettamente eguali in sede giuridica.
Apparirà allora che l'emancipazione della donna ha come prima
condizione preliminare la reintroduzione dell'intero sesso
femminile nella pubblica industria, e che ciò richiede a sua volta
l'eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica
della società.
Abbiamo così tre forme principali di matrimonio, che in complesso
corrispondono ai tre stadi principali dello sviluppo umano. Il
matrimonio di gruppo per lo stato selvaggio; il matrimonio di
coppia per la barbarie; la monogamia, completata dall'adulterio e
dalla prostituzione, per la civiltà. Tra il matrimonio di coppia e
la monogamia s'introduce, nello stadio superiore della barbarie,
il dominio dell'uomo sulle schiave e la poligamia.
Come prova tutta la nostra esposizione, il progresso che appare in
questa successione è legato alla particolarità che la libertà
sessuale del matrimonio di gruppo è stata sempre più sottratta
alle donne, ma non agli uomini. E il matrimonio di gruppo, in
realtà, per l'uomo continua a sussistere sino ad oggi. Ciò che per
una donna è un delitto che si tira dietro gravi conseguenze legali
e sociali, è considerato per l'uomo cosa onorevole, e nel peggiore
dei casi come una lieve macchia morale che si porta con piacere.
Ma quanto più l'antico eterismo tradizionale, ai tempi d'oggi,
grazie alla produzione capitalistica delle merci, si muta e si
adatta ad essa, e quanto più si trasforma in aperta prostituzione,
tanto esso esercita un influsso demoralizzante. E demoralizza
precisamente molto gli uomini che le donne. La prostituzione
degrada tra le donne solo le infelici che in essa precipitano, e
anche costoro in una misura molto minore di quello che comunemente
si crede. Invece essa degrada il carattere di tutto il mondo
maschile. In tal modo, in nove casi su dieci, un lungo
fidanzamento è una vera e propria scuola preparatoria alla
infedeltà coniugale.
Andiamo ora verso uno sconvolgimento sociale in cui le basi
economiche della monogamia, come sono esistite finora,
scompariranno tanto sicuramente quanto quelle della prostituzione
che ne è il complemento. La monogamia sorse dalla concentrazione
di grandi ricchezze nelle stesse mani, e precisamente in quelle di
un uomo, e dal bisogno di lasciare queste ricchezze in eredità ai
figli di questo uomo e di nessun altro. Perciò era necessaria la
monogamia della donna e non quella dell'uomo; cosicché questa
monogamia della donna non era affatto in contrasto con la
poligamia aperta o velata dell'uomo. Ma il sovvertimento sociale
imminente, mediante trasformazione per lo meno della parte
infinitamente maggiore delle ricchezze durature ereditabili — dei
mezzi di produzione — in proprietà sociale, ridurrà al minimo
tutta questa preoccupazione della trasmissione ereditaria. Poiché
dunque la monogamia è sorta da cause economiche, scomparirà se
queste cause scompaiono.
Si potrebbe, non a torto, rispondere: scomparirà così poco che
invece soltanto allora sarà realizzata sul serio. Infatti, con la
trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà sociale viene
anche a scomparire il lavoro salariato, il proletariato, e quindi
anche la necessità per un certo numero di donne, statisticamente
computabile, di concedersi per denaro. La prostituzione sparisce e
la monogamia, invece di tramontare, diventa finalmente una
realtà... anche per gli uomini.
La posizione degli uomini in ogni caso subirà un grande
cambiamento. Ma anche quella delle donne, di tutte le donne,
subirà un notevole cambiamento. Col passaggio dei mezzi di
produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di
essere l'unità economica della società. L'amministrazione
domestica privata si trasforma in un'industria sociale. La cura e
la educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico
interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli,
legittimi e illegittimi. E con ciò cade la preoccupazione delle
«conseguenze», la quale oggi costituisce il motivo sociale
essenziale — sia morale che economico — che impedisce ad una
fanciulla di abbandonarsi senza riserve all'uomo amato. Non sarà
tutto ciò una causa sufficiente per il sorgere graduale di un più
disinvolto commercio sessuale, e quindi di una opinione pubblica
meno rigida e chiusa sull'onore delle fanciulle e sul disonore
femminile? E infine, non abbiamo forse visto che nel mondo moderno
monogamia e prostituzione sono, certo, antagonismi, ma antagonismi
inseparabili, poli opposti del medesimo stato di cose della
società? Può scomparire la prostituzione senza trascinare con sé,
nell'abisso, la monogamia?
Entra qui in attività un nuovo elemento il quale, al tempo in cui
si formava la monogamia, era al massimo in germe: l'amore sessuale
individuale.
Prima del Medioevo non si può parlare di amore sessuale
individuale. Che bellezza personale, rapporti di familiarità,
inclinazioni concordanti, ecc., in persone di sessi diversi,
abbiano svegliato il desiderio di rapporti sessuali, che per gli
uomini e per le donne non fosse totalmente indifferente la scelta
della persona con cui intrattenersi molto intimamente, è cosa
ovvia. Ma da qui al nostro amore sessuale, vi è ancora
infinitamente da camminare. In tutta quanta l'antichità i
matrimoni erano conclusi dai genitori per gli interessati, e
questi li accettavano in buona pace. Quel poco di amore coniugale
che l'antichità conobbe non è forse inclinazione soggettiva, ma
dovere oggettivo, non motivo ma correlativo del matrimonio.
Relazioni d'amore nel senso moderno si affermano nell'antichità
solo al di fuori della società ufficiale. I pastori, dei quali
Teocrito e Mosco ci cantano le gioie e le pene d'amore, il Dafni e
la Cloe di Longo(65),
sono semplici schiavi che non hanno alcuna parte nello Stato, nel
raggio d'azione del cittadino libero. Tranne che tra gli schiavi,
però, noi troviamo il commercio amoroso soltanto come prodotto di
decomposizione del mondo antico ormai al tramonto e con donne che,
del pari, vivono al di fuori della società ufficiale, con etere,
quindi con straniere o con liberte; e questo accadeva ad Atene
alla vigilia del suo tramonto, a Roma all'epoca dei Cesari. Se
c'erano, in realtà, commerci amorosi tra liberi cittadini e
cittadine, erano sempre di carattere adulterino. E per il classico
poeta dell'amore dell'antichità, per il vecchio Anacreonte (66) l'amore sessuale in
senso nostro era cosa di così poco conto che per lui era
indifferente perfino il sesso dell'essere amato.
Il nostro amore sessuale differisce in modo sostanziale dal
semplice desiderio sessuale, dall'eros degli antichi. In
primo luogo esso presuppone corresponsione amorosa da parte
dell'amato; la donna, per questo, è uguale all'uomo, mentre
nell'eros degli antichi non le si chiede spesso neppure il
consenso. In secondo luogo l'amore sessuale ha un grado
d'intensità e di durata che fa sembrare alle due parti il mancato
possesso e la separazione come una grande, se non come la più
grande infelicità; per potersi possedere reciprocamente i
protagonisti giocano il tutto per il tutto, fino ad impegnare la
vita, il che nel mondo antico accadeva al massimo nell'adulterio.
E, infine, sorge un nuovo criterio morale per giudicare i rapporti
sessuali; ora non si domanda soltanto: è legittimo o illegittimo,
ma anche: è nato da un amore reciproco o no? È evidente che questo
nuovo criterio, nella prassi feudale o borghese, non ha miglior
successo di ogni altro criterio morale: vi si passa sopra. Ma non
ha neppure successo peggiore. È, come gli altri, riconosciuto...
teoricamente, sulla carta. E per il momento non può chiedere di
più.
Là dove l'antichità si era fermata, agli inizi dell'amore
sessuale, là riprende il Medioevo: con l'adulterio. Abbiamo già
descritto l'amore cavalleresco che inventò i Tagelieder. Da questo
amore che vuole infrangere il matrimonio, fino a quello che deve
invece fondarlo, vi è ancora una lunga strada che la cavalleria
non percorse mai fino in fondo. Anche quando dai frivoli Latini
passiamo ai virtuosi Tedeschi, troviamo nel Canto dei Nibelunghi
Crimilde che, per quanto segretamente innamorata di Sigfrido non
meno di quanto questi fosse innamorato di lei, tuttavia, quando
Gunther le annuncia di averla promessa ad un cavaliere di cui non
fa il nome, risponde semplicemente: «Non c'è bisogno di pregarmi;
voglio essere sempre come voi mi ordinate e volentieri mi
fidanzerò con colui che mi date per marito, o signore». E non le
viene neppure in mente che qui si possa in generale dover prendere
in considerazione il suo amore. Senza che le abbiano mai viste,
Gunther chiede in sposa Brunilde ed Etzel Crimilde; e così nella Gutrun (67),
Sigebant d'Irlanda chiede la norvegese Ute, Hetel di Hegelingen
chiede Hilde d'Irlanda, ed infine Sigfrido di Morland, Hartmut di
Ormania, e Herwig di Seeland chiedono in sposa Gutrun; e solo in
questa occasione accade che costei scelga, di sua spontanea
volontà, l'ultimo. Regolarmente la sposa del giovane principe
viene scelta dai genitori di costui, se essi sono ancora in vita,
altrimenti dal principe stesso, dietro consiglio dei grandi
feudatari che, in ogni caso, hanno sempre in ciò una parola
importante da dire. Né può essere altrimenti. Per il cavaliere o
il barone, come per il principe stesso, il matrimonio è un atto
politico, un'occasione per accrescere la sua potenza con nuove
alleanze; è l'interesse della casa a decidere, e non il piacere
dell'individuo. Come potrebbe allora essere l'amore a pronunciare
la parola decisiva sulla conclusione del matrimonio?
Non diversamente avviene per il membro delle corporazioni delle
città medievali. Precisamente i privilegi che lo proteggevano, gli
ordinamenti limitativi delle corporazioni, le linee di separazione
assai artificiose che lo separavano legalmente ora dalle altre
corporazioni, ora dai propri compagni di corporazione, o dai
garzoni e apprendisti, rendevano già abbastanza stretta la cerchia
entro cui egli poteva scegliersi una sposa adatta. E quale poi
fosse per lui, fra le altre, la sposa più adatta, in un sistema
complicato come questo lo decideva incondizionatamente non il suo
gusto personale, ma l'interesse familiare.
Così la conclusione del matrimonio, fino alla fine del Medioevo,
rimase nella infinita maggioranza dei casi quello che era stato
fin dal principio, cioè un affare che non veniva deciso dagli
interessati. Dapprincipio si veniva al mondo già sposati con un
gruppo intero di persone dell'altro sesso. Nelle forme posteriori
del matrimonio di gruppo verosimilmente esisteva una condizione
analoga, solo con un progressivo restringimento del gruppo. Nel
matrimonio di coppia, è regola che le madri concordino i matrimoni
dei loro figli. Anche qui dunque decidono considerazioni di nuovi
legami di parentela che devono procurare alla giovane coppia una
posizione più solida nella gens e nella tribù. E quando, col
prevalere della proprietà privata sulla proprietà comune e con
l'interesse dell'eredità, il diritto patriarcale e la monogamia
ebbero il sopravvento, tanto più la conclusione del matrimonio
divenne dipendente da considerazioni economiche. Sparisce la forma del matrimonio a
compra, ma la cosa si estende sempre più, sicché non solo la
donna, ma anche l'uomo, riceve un prezzo che non dipende dalle sue
qualità personali ma dal suo possesso. Che l'inclinazione
reciproca dei contraenti dovesse essere il motivo prevalente nella
conclusione delle nozze, nella pratica delle classi dominanti, fin
dal principio, era rimasto un fatto inaudito: cose simili
avvenivano al massimo nel romanticismo o... tra le classi oppresse
che non contavano nulla.
Questo era lo stato di cose che la produzione capitalistica trovò
quando, dopo l'epoca delle scoperte geografiche, si accinse a
dominare il mondo, grazie al commercio diffuso su scala mondiale e
alla industria manifatturiera. Si deve dunque pensare che una tale
maniera di concludere i matrimoni le si dovesse adattare in modo
eccezionale; e così era infatti. E tuttavia (l'ironia della storia
è imperscrutabile) fu proprio la produzione capitalistica ad
aprire una breccia decisiva in quella maniera di concludere
matrimoni. Trasformando tutte le cose in merci, essa dissolse
tutti gli antichi rapporti tradizionali, e mise al posto del
costume ereditato e del diritto storico, la compravendita e il
«libero» contratto. E così il giurista inglese H. S. Maine (68) credeva d'aver fatto
un'enorme scoperta, dicendo che tutto il nostro progresso,
rispetto alle epoche anteriori, consiste nell'esser passati from status to
contract, da condizioni tradizionali ereditate a condizioni
liberamente contratte. Ma questo, nella misura in cui è esatto, si
trova già nel Manifesto
dei comunisti (69). Ma
per la conclusione di un contratto occorrono uomini che possano
disporre liberamente della propria persona, delle proprie azioni,
dei propri possessi, e che stiano l'uno di fronte all'altro
forniti di uguali diritti.
La creazione di questi uomini «liberi» ed «uguali» fu precisamente
una delle opere principali della produzione capitalistica. Per
quanto all'inizio ciò sia avvenuto in una maniera ancora non
perfettamente cosciente, e per di più con un travestimento
religioso, tuttavia dalla riforma luterana e calvinista in poi è
saldamente stabilito il principio che l'uomo è pienamente
responsabile delle sue azioni solo se egli le compie in piena
libertà di volere, e che è dovere morale resistere ad ogni
costrizione a compiere un atto immorale.
Ma come si accordava tutto ciò con la prassi invalsa fin qui nella
conclusione dei matrimoni? Secondo la concezione borghese, il
matrimonio era un contratto, un negozio giuridico, e precisamente
il più importante di tutti, giacché disponeva del corpo e della
mente di due esseri umani per tutta la loro vita. Esso allora
venne concluso in modo formalmente consensuale: senza la parola
«sì» degli interessati non era valido. Ma si sapeva assai bene
come questo «sì» si pronunziava, e chi erano i veri e propri
artefici della conclusione del matrimonio. Ma se per tutti gli
altri contratti veniva richiesta una effettiva libertà di
decisione, perché non per questo? Non avevano dunque i due giovani
che si dovevano unire il diritto di disporre liberamente di se
stessi, del loro corpo coi suoi organi? L'amore sessuale non era
forse venuto di moda con la cavalleria e, di fronte all'amore
adultero della cavalleria, l'amore coniugale non ne rappresentava
la giusta forma borghese? Ma se era un dovere che i coniugi si
amassero tra loro, non era anche un dovere che contraessero
matrimonio tra loro, e con nessun altro, coloro che si amavano?
Questo diritto di coloro che si amano non era forse più alto di
quello dei genitori e degli altri sensali di matrimoni e paraninfi
tradizionali? Il diritto al libero esame personale, se penetrava
con disinvoltura nella Chiesa e nella religione, come poteva
restare indifferente di fronte all'intollerabile pretesa della
vecchia generazione di disporre del corpo, dell'anima, dei mezzi,
della felicità e della infelicità della giovane generazione?
Queste questioni dovettero essere sollevate in un'epoca in cui
tutti gli antichi vincoli della società si allentavano e tutte le
idee ereditate vacillavano. Il mondo d'un colpo era diventato di
quasi dieci volte più grande: invece di un quarto di emisfero era
lì, davanti agli occhi degli europei occidentali, tutto il globo,
ed essi si affrettarono a prenderne possesso. E con le anguste
vecchie barriere del paese natio, caddero le millenarie barriere
della prescritta maniera di pensare medievale. Allo sguardo ed
alla mente dell'uomo si apriva un orizzonte infinitamente più
esteso. Che cosa contava la buona intenzione di essere
rispettabili, che cosa il rispettabile privilegio corporativo
trasmesso per eredità di generazione in generazione per il giovane
attirato dalle ricchezze delle Indie, dalle miniere d'oro e
d'argento del Messico e del Potosì?
Per la borghesia fu questa l'epoca dei cavalieri erranti: essa
ebbe anche il suo romanticismo, e i suoi trasporti amorosi, ma su
un piano borghese e con fini, in ultima analisi, borghesi.
Così accadde che al suo sorgere la borghesia, specie nei paesi
protestanti, dove le condizioni esistenti furono più profondamente
scosse, riconobbe sempre più, anche per il matrimonio, la libertà
di stipulazione del contratto, e la mandò ad effetto nel modo
descritto sopra. Il matrimonio rimase matrimonio di classe, ma
all'interno della classe venne concesso agli interessati un certo
grado di libertà di scelta. E. sulla carta, nella teoria morale
così come nelle descrizioni poetiche, nulla vi fu di più
incrollabile dell'immoralità di ogni matrimonio che non riposasse
su un reciproco amore sessuale e su un accordo veramente libero
dei coniugi. In breve, il matrimonio d'amore fu proclamato diritto
dell'uomo, e precisamente non soltanto droit de l'homme,
ma anche, in linea eccezionale, droit
de la femme.
Questo diritto dell'uomo si differenziava però in un punto da
tutti gli altri così detti diritti dell'uomo. Mentre questi
ultimi, nella prassi, rimanevano limitati alla classe dominante,
alla borghesia, e per la classe oppressa, il proletariato,
venivano direttamente o indirettamente diminuiti, qui di nuovo si
esercita l'ironia della storia. La classe dominante rimane
dominata dalle ben note influenze economiche, e perciò soltanto in
casi eccezionali presenta matrimoni conclusi in maniera veramente
libera, mentre, come abbiamo visto, essi costituiscono la regola
per le classi dominate.
La piena libertà di concluder matrimonio può dunque essere
realizzata generalmente solo allorché l'eliminazione della
produzione capitalistica e dei rapporti di proprietà creati da
essa abbiano allontanato tutte le considerazioni economiche
secondarie, che esercitano ancora adesso un'influenza così potente
sulla scelta del coniuge. Allora veramente non vi sarà altro
motivo di scelta che la simpatia reciproca.
Ora, poiché l'amore sessuale è per sua natura esclusivo, per
quanto ai nostri giorni questa esclusività si realizzi
completamente soltanto nella donna, il matrimonio fondato
sull'amore sessuale è per sua natura matrimonio monogamico.
Abbiamo visto come Bachofen avesse ragione nel considerare il
progresso dal matrimonio di gruppo al matrimonio di coppia come
opera in prevalenza delle donne; solo il passaggio dal matrimonio
di coppia alla monogamia bisogna attribuirlo agli uomini, ed esso
è consistito, da un punto di vista storico essenzialmente, in un
peggioramento della posizione della donna ed in una facilitazione
dell'infedeltà degli uomini. Una volta venute meno le
considerazioni economiche, in conseguenza delle quali le donne
hanno sempre lasciato passare questa consuetudinaria infedeltà
degli uomini (preoccupazioni per la loro esistenza e ancor più per
il futuro dei loro figli), l'eguaglianza della donna così
raggiunta, secondo tutta l'esperienza fin qui fatta, agirà in una
misura infinitamente maggiore nel far divenire effettivamente
monogami gli uomini, che nel far divenire poliedriche le donne.
Ma ciò che sicuramente scomparirà della monogamia sono tutti i
caratteri che le sono stati impressi con la sua nascita dai
rapporti di proprietà: cioè, primo, il predominio dell'uomo;
secondo, l'indissolubilità. Il predominio dell'uomo nel matrimonio
è una semplice conseguenza del suo predominio economico e cadrà da
sé con la scomparsa di questo. L'indissolubilità del matrimonio è,
in parte, conseguenza della situazione economica nella quale è
sorta la monogamia, in parte tradizione proveniente dall'epoca in
cui il nesso di questa situazione economica con la monogamia non
era ancora ben compreso ed era spinto troppo oltre per motivi
religiosi. Oggi essa è stata già infranta migliaia di volte. Se è
morale solo il matrimonio fondato sull'amore, è anche vero che lo
è soltanto quello in cui l'amore persiste. Ma la durata
dell'impeto d'amore sessuale individuale è molto diversa, a
seconda degli individui, specialmente negli uomini, e una positiva
cessazione di una inclinazione o la sostituzione di essa con una
nuova passione amorosa, fa del divorzio un beneficio sia per le
due parti che per la società. Solo sarà risparmiato alla gente il
guazzare nell'inutile sudiciume di un processo di divorzio.
Quello che noi oggi possiamo dunque presumere circa l'ordinamento
dei rapporti sessuali, dopo che sarà spazzata via la produzione
capitalistica, il che accadrà fra non molto, è principalmente di
carattere negativo, e si limita per lo più a quel che viene
soppresso. Ma che cosa si aggiungerà? Questo si deciderà quando
una nuova generazione sarà maturata. Una generazione d'uomini i
quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella
circostanza di comperarsi la concessione di una donna col danaro o
mediante altra forza sociale; e una generazione di donne che non
si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un
uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare
di concedersi all'uomo che amano per timore delle conseguenze
economiche. E quando ci saranno questi uomini, non importerà loro
un corno di ciò che secondo l'opinione d'oggi dovrebbero fare;
essi si creeranno la loro prassi e la corrispondente opinione
pubblica sulla prassi di ogni individuo. Punto.
Ma torniamo a Morgan dal quale ci siamo considerevolmente
allontanati. L'indagine storica delle istituzioni sociali
sviluppatesi durante il periodo della civiltà va al di là dei
limiti del suo libro. Perciò si occupa solo brevemente della sorte
della monogamia in questo periodo. Anch'egli scorge nello sviluppo
ulteriore della famiglia monogamica un progresso, un avvicinamento
alla piena eguaglianza di diritti dei sessi, senza dare però per
raggiunto questo scopo. Egli dice:
«Se si riconosce il fatto che la famiglia ha attraversato quattro
forme successive, ed ora si trova nella quinta, sorge la domanda
se questa forma possa essere durevole nel futuro. L'unica risposta
possibile è che essa deve progredire di pari passo con la società,
mutando nella misura in cui questa muta, proprio come sinora. Essa
è la creatura del sistema sociale, e ne rifletterà lo stato di
civiltà. Poiché la famiglia monogamica si è migliorata dall'inizio
della civiltà e assai decisamente nei tempi moderni, si può per lo
meno presumere che essa sia capace di un ulteriore perfezionamento
fino al raggiungimento della eguaglianza tra i due sessi. Se in un
lontano futuro la famiglia monogamica non dovesse essere in grado
di adempiere alle esigenze della società,... non è possibile
predire di quale natura sarà la famiglia che le succederà.»
Note:
1) Pairing
family.
2) Georges Cuvier (1769-1832), celebre
naturalista francese, studioso di anatomia comparata e
classificatore del regno animale.
3) Le pagine che seguono, fino a: I. La famiglia
consanguinea, furono aggiunte da Engels nell'edizione del 1891. La
prima edizione aveva soltanto questo passaggio: «La scoperta di
questo stadio primitivo è il primo grande merito di Bachofen [nota
su Bachofen]. Da questo stadio primitivo, verosimilmente si
sviluppò assai presto: 1. La famiglia consanguinea».
4) Quanto poco Bachofen abbia capito il valore
di ciò che ha scoperto, o per meglio dire indovinato, egli lo
prova indicando questo primitivo stato di cose col nome di
«eterismo». Eterismo indicava per i Greci, quando essi
introdussero la parola, commercio di uomini celibi o monogami con
donne nubili. Esso presuppone sempre una forma determinata di
matrimonio al di fuori del quale ha luogo questo commercio e
comprende anche la prostituzione per lo meno già come possibilità.
La parola non è stata usata mai in un altro senso ed io in questo
senso la adopero d'accordo con Morgan. Le scoperte di grande
importanza fatte da Bachofen furono dappertutto misticamente
falsificate fino all'inverosimile dalla sua immaginazione che fa
risalire l'origine dei rapporti tra uomo e donna, storicamente
sorti, alle idee religiose del momento e non alle reali condizioni
di vita degli uomini. [Nota di Engels].
5) Charles-Jean-Marie Letourneau
(1831-1902), sociologo ed etnografo francese.
6) Henry De Saussure (1829-1905),
entomologo svizzero, noto soprattutto per i suoi studi sugli
ortotteri e gli imenotteri.
7) Edward Alexander Westermarck (1862-1939),
etnologo e sociologo finlandese, scrisse anche opere sulla storia
dei concetti morali.
8) Alfred-Victor Espinas (1844-1922), filosofo e
sociologo francese.
9) Le razze indigene degli Stati nordamericani
sul Pacifico, 4 voll., di Hubert Howe Bancroft (1832-1918),
storico americano, autore di vari lavori sulla storia e
l'etnografia dell'America settentrionale e centrale; la sua opera
provocò una vivace polemica col Morgan, che in due articoli del
1876 rifiutò la sua poco critica ricostruzione della cultura
messicana.
10) Odierna Birmania.
11) In una lettera della primavera del 1882,
Marx si esprime in termini molto forti contro la totale
falsificazione dell'età delle origini dominante nel testo dei
Nibelunghi di Wagner: «Si era mai sentito che il fratello
abbracciasse da sposo la sorella»? A questi «dèi lussuriosi» di
Wagner, che, del tutto in linea con lo stile moderno, rendono più
piccante il loro commercio amoroso mescolandovi un tantino
d'incesto Marx risponde: «Nell'età delle origini la sorella era la
moglie e ciò era morale» [Nota di Engels].
Un amico francese, ammiratore di Wagner, non è d'accordo con
questa osservazione e nota che già nell'Edda più antica,
l'Egisdrecca, su cui Wagner ha innalzato il suo edificio, Loki
muove a Freia il seguente rimprovero: «Davanti agli dèi hai
abbracciato il tuo proprio fratello». Il matrimonio tra fratelli e
sorelle sarebbe stato vietato rigorosamente dunque già d'allora.
L'Egisdrecca è l'espressione di una epoca in cui la credenza negli
antichi miti era stata completamente infranta. Essa è dunque una
vera e propria beffa lucianesca agli dèi. Se Loki come Mefistofele
rivolge qui un simile rimprovero a Freia, ciò parla piuttosto
contro Wagner. Loki infatti, rivolgendosi a Niordh qualche verso
più in là, gli dice anche: «Con tua sorella hai generato un (tale)
figlio» (vidh systur thinni gaztu slikan mög). Veramente, Niordh
non è un Aso, ma un Vano e dice, nella saga degli Ynglinghi, che i
matrimoni tra fratelli e sorelle sarebbero usuali nel suo paese,
ma non così tra gli Asi. Ciò sarebbe un segno che i Vani sono
divinità più antiche degli Asi. In ogni modo, Niordh vive tra gli
Asi come loro pari e così I'Egisdrecca è piuttosto una prova che,
al tempo in cui sorgevano le saghe degli dèi norvegesi, il
matrimonio tra fratelli e sorelle, per lo meno tra dèi, non
suscitava ancora nessun orrore. A volere scusare Wagner si farebbe
forse meglio a citare, al posto dell'Edda, Goethe, che
nella ballata Il
dio e la baiadera commette
un errore analogo nell'interpretazione della religiosa concessione
di sé della donna, che egli avvicina, troppo esageratamente, alla
prostituzione moderna (Nota di Engels alla quarta edizione).
La lettera di Marx qui citata, e ricordata in una lettera di
Engels a Kautsky dell'11 aprile 1884, non ci è rimasta. Il
riferimento è alla tetralogia L'anello
del Nibelungo di
Richard Wagner, la cui materia è tratta dall'epica medievale
germanica dell'Edda e
della Canzone
dei Nibelunghi. L'Edda è una raccolta di
carmi eroici e mitologici scandinavi risalenti ai secoli IX-XIII.
Uno di essi è l'Egisdrecca (cioè «Il convito di Egir»), intitolato
anche Lokasenna («L'invettiva di Loki»), in cui Loki, genio
maligno, rinfaccia agli dèi (Asi, un'altra stirpe divina sono i
Vani) tutte le loro colpe. I passi citati da Engels sono alle
strofe 33 e 36. La Saga degli Ynglinghi fa parte di una serie di
leggende sui re norvegesi raccolte dall'islandese Snorri Sturluson
(sec. XIII). Nella ballata Il
dio e la baiadera (1797)
Goethe interpreta piuttosto cristianamente la prostituzione sacra
delle danzatrici indiane.
12) La frase «od una forma analoga» è stata
aggiunta da Engels nella quarta edizione.
13) Le tracce di un commercio sessuale
indifferenziato, della così detta «generazione di palude»
[Sumpfzeugung] che Bachofen pensa di aver trovato, si riconducono,
come ora non si può più minimamente dubitare, al matrimonio di
gruppo. «Se Bachofen trova questo matrimonio punalua "privo di una
legge", ugualmente un uomo di quel periodo troverebbe incestuosi,
come matrimoni tra fratelli e sorelle carnali, la maggior parte
dei matrimoni di oggigiorno tra cugini stretti o cugini lontani
per parte di padre o di madre» (Marx) [Nota di Engels].
14) Giulio Cesare, La guerra gallica,
libro V, cap. 14.
15) Lo storico greco Erodoto (V secolo a.C.)
afferma per esempio che i Maculi e gli Ausei, popoli della Libia,
ignorano il matrimonio: uomini e donne si accoppiano a caso (libro
IV, cap. 180); che le donne sono comuni presso i libici Nasamoni
(IV, 172) e gli sciti Massageti (I, 216) e Agatirsi (IV, 104).
16) John Forbes Watson, and
John William Kaye, The
People of lndia. A
Series of Photographic Illustrations (Il popolo
dell'India. Una serie di illustrazioni fotografiche), 2 voll.,
London 1868. Il Watson (1827-1892), un medico e funzionario
coloniale inglese, fu anche direttore del Museo indiano di Londra.
Il Kaye (1814-1876), era uno storico militare, che scrisse anche
sulle guerre coloniali inglesi in India e nell'Afghanistan.
17) Le pagine che seguono, fino al paragrafo 3.
La famiglia di coppia furono aggiunte da Engels alla quarta
edizione.
18) Nei citati Systems of
Consanguinity.
19) Lorimer Fison (1832-1907), etnologo e
missionario inglese, viaggiò a lungo nelle isole Figi e in
Australia, e fu in relazione col Morgan, dal quale fu influenzato.
Insieme con A. W. Howitt pubblicò l'opera alla quale si riferisce
Engels: Kamilaroi
and Kurnai. Group-marriage and Relationship, and Marriage by
Elopement (Matrimonio
e parentela di gruppo, e matrimonio mediante fuga),
Melbourne-Sidney-Adelaide-Brisbane 1880.
20) Alfred William Howitt (1830-1908), etnologo
inglese, visse per quaranta anni in Australia. Sua opera
principale è The
Natives Tribes of South-East Australia (Le tribù
indigene dell'Australia sud-orientale) 1904.
21) Qui, come in diversi altri punti del libro,
l'espressione «matrimonio di gruppo» è stata messa da Engels nella
quarta edizione, in sostituzione di «famiglia punalua» che vi
figurava nelle edizioni precedenti.
22) Asher Wright (1803-1875), missionario
americano, visse tra gli indiani Seneca dal 1831 al 1875, compilò
un dizionario della loro lingua, e tradusse in essa il Nuovo
Testamento.
23) Le pagine seguenti, fino al capoverso «la
famiglia di coppia ecc.», sono un ampliamento della quarta
edizione; al loro posto, nelle edizioni precedenti, si leggeva:
«Sopravvivenze analoghe del mondo antico sono abbastanza note,
come la prostituzione delle fanciulle fenicie nel tempio alle
feste di Astarte; anche il diritto medievale della prima notte,
che ha avuto un'esistenza molto concreta, a dispetto dell'uso
tedesco neoromantico di far vedere il candore dappertutto, è un
resto di famiglia punalua tramandato probabilmente attraverso la
gens (il clan) celtica».
24) Dea di Babilonia, identificata con la greca
Afrodite da Erodoto (1, 131, 199), che descrive il costume della
prostituzione rituale.
25) Nome greco di Anahita, dea persiana delle
acque fecondatrici, il cui culto in età classica ebbe larga
diffusione in Armenia e in Asia Minore.
26) Alla prostituzione rituale si allude più
volte anche nella Bibbia; vedi per esempio Deuteronomio, XXIII, 17
sgg.
27) Un viaggio in Brasile, di Louis Agassiz
(1807-1873), naturalista svizzero, professore a Harvard (USA),
avversario della teoria dell'evoluzione.
28) Popolazione berbera dell'oasi di Augila,
nella Libia nord-orientale.
29) Si tratta della sentenza del 21 aprile 1486,
con cui il re spagnolo Ferdinando V, il Cattolico, liberava dalle
servitù medievali i contadini che si erano ribellati contro i
feudatari.
30) Geschichte
der Aufhelung der Leibeigenschaft und Hörigkeit in Europa bis um
Mitte des neunzehnten Jahrhunderts (Storia
dell'abolizione della servitù della gleba e delle servitù
personali in Europa fino alla metà del secolo decimonono), St.
Petersburg 1891, di Samuel Sugenheim (1811-1877)
31) Punjab, nell'India settentrionale. Il nome
di Ariani, in senso stretto, appartiene alla popolazione che si
stabilì in India nella seconda meta del II millennio a.C.; nel
secolo scorso questo nome fu anche attribuito dai linguisti a
tutti i popoli parlanti lingue del gruppo indo-europeo (antico
indiano, greco, latino, lingue germaniche, slave ecc.).
32) Nella Bibbia: Genesi, XIII, 2, 7 ecc.
33) Nella prima edizione: «proprietà privata».
34) Nella prima edizione: «possesso privato».
35) Panorama
delle origini e dell'evoluzione della famiglia e della proprietà,
di Maxim Maximovic Kovalevski (1851-1916), sociologo, storico,
etnologo e giurista russo. Tutti i riferimenti al suo volume,
apparso nel 1890, furono naturalmente introdotti da Engels nella
quarta edizione.
36) Uno dei maggiori giuristi romani, vissuto
nel II secolo d.C.
37) La parte che segue, fino al capoverso «Prima
di passare alla monogamia ecc.», fu aggiunta da Engels nella
quarta edizione.
38) È la prima parte della redazione più antica
della «Russkaia Prava», codice della antica Rus, che sorse nei
secoli XI-XII sulla base del diritto consuetudinario. Iaroslav il
Saggio (978-1054) fu principe di Kiev dal 1019 in poi.
39) Institutionen
des deutschen Privatrechts (Istituzioni
di diritto privato tedesco). Leipzig 1885-86, di Andreas Heusler
(1834-1921), giurista svizzero, professore a Basilea.
40) Il comandante della flotta di Alessandro
Magno (IV secolo a.C.); navigò dall'Indo al Tigri e scrisse
memorie sulla spedizione indiana, per noi perdute, che furono
utilizzate più tardi da Strabone. (64/63 a.C. - circa 21 d.C.) e
Arriano (II secolo d.C.).
41) Ognuna di queste comunità possedeva un
terreno comune che non poteva essere alienato né diviso. Ne
dava notizia nel XVI secolo lo spagnolo Alonzo De Zurita, nel Rapport sur les
différentes classes de chefs de la Nouvelle-Espagne, sur les
lois, les moeurs des habitants, sur les impóts Etablis avant
et depuis la conquéte ecc. (Rapporto
sulle diverse classi di capi della Nuova Spagna, sulle leggi, i
costumi degli abitanti, sulle imposte stabilite prima e dopo la
conquista ecc.), pubblicato per la prima volta in Voyages,
relations et mémoires originaux pour servir a l'histoire de la
découverte de l'Amérique (Viaggi, relazioni e memorie originali
per servire alla storia della scoperta dell'America) curati da H.
Ternaux-Compans, tomo XI, Paris 1840.
42) Heinrich Wilhelm Karl Cunow (1862-1936),
storico e sociologo tedesco, appartenne al Partito
socialdemocratico. Qui Engels si riferisce allo scritto Die
altperuanischen Dorf und Markgenossenschaften (Le comunità di
villaggio e di marca dell'antico Perù), apparso sul settimanale di
Stoccarda Das Ausland (Paesi esteri: rassegna delle più
recenti ricerche nel campo delle scienze naturali, della geologia
e dell'etnologia) del 20, 27 ottobre e 3 novembre 1890.
43) Articolo 1230 del Code civil des Francais,
introdotto da Napoleone nel 1804.
44) La parte che segue, fino alle parole: «Ma.
nonostante tutte le proibizioni ecc.», è un ampliamento della
quarta edizione. Nella prima edizione si aveva: «rinchiusa quasi
come una prigioniera, per garantire la giusta paternità dei figli.
L'uomo invece si diverte con le schiave catturate, sue compagne di
tenda in guerra. Nel periodo classico non andava meglio. Nel
Charikles di Becker si può vedere ampiamente come i Greci
trattassero le loro donne. Se non proprio rinchiuse, erano però
segregate dal mondo, erano diventate le serve di primo grado dei
loro uomini, limitate ad aver rapporti principalmente con le altre
serve. Le ragazze erano senz'altro rinchiuse, le donne uscivano in
compagnia delle schiave. Se un uomo veniva in visita, la donna si
ritirava nella sua stanza».
45) Per esempio quando (Odissea, I, 356; XXI,
350) egli manda la madre Penelope nelle sue stanze ricordandole
che le donne devono occuparsi solo di tessere e filare.
46) Nella tragedia Agamennone.
47) Secondo un passo di OMERO (Iliade, VIII,
284) e autori posteriori l'eroe Teucro, fratellastro di Aiace, era
figlio di Telamone e della schiava Esione.
48) Griechische
Alterthümer (Antichità
greche), Berlin 1855, di Georg Friedrich Schoemann (1793-1879),
filologo e storico tedesco.
49) Nella commedia Le Tesmoforianti (rappresentata
ad Atene nel 411 a.C.), verso 416.
50) Hellenische
Alterthumskunde aus dem Gesichtspunkte des Staates (Anticità elleniche
dal punto di vista dello Stato), Halle 1826-30, vol. II, 2, p. 77;
di Wilhelm Wachsmuth (1874-1866), storico tedesco, professore a
Lipsia. II passo delle Storie di Erodoto è nel libro VIII, cap.
105.
51) Nella tragedia Oreste (rappresentata ad
Atene nel 408 a.C.), verso 928.
52) Nella mitologia greca, era il principe
fanciullo troiano rapito per amore da Zeus.
53) Nella prima edizione il periodo finiva a
questo punto, invece di «economiche» si leggeva «sociali». Anche
il periodo finale di questo capoverso («In Atene... doveri
matrimoniali.») è un'aggiunta della quarta edizione.
54) Si tratta dell'Ideologia tedesca,
scritta da Marx ed Engels nel 1845-46 e pubblicata per la prima
volta nel 1932 dall'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca. Cfr.
traduzione italiana, Roma 1958, p. 27.
55) Quanto segue da questo punto, fino a
«L'eterismo è precisamente ecc.», è un'aggiunta della quarta
edizione.
56) Gli ieroduli erano schiavi di ambo i sessi
addetti al servizio dei templi in Asia Minore, in Grecia, in
Egitto e altrove; ma in alcuni luoghi il nome di ierodule fu usato
specialmente per designare le prostitute religiose dei templi.
57) Tacito, Germania, capp. 18 e 19.
58) Ivi, cap. 20.
59) capp. 8, 15, 18
60) I Taifali formavano un piccolo gruppo
germanico che verso il III secolo viveva a nord del mar Nero,
accanto agli Eruli, che provenivano dalla Scandinavia. Dei loro
costumi parlano rispettivamente lo storico latino del IV secolo
Ammiano Marcellino (Storie, libro XXXI, 9, e il
bizantino del VI secolo PROCOPIO nella Guerra dei Vandali, libro
II, 14, e nella Guerra Gotica, libro II, 4.
61) Poeta tedesco vissuto fra il 1170 e il 1220
circa, autore del Parzival,
la maggiore composizione epica medievale tedesca.
62) Quanto segue, fino alla citazione di Fourier
compresa, è un'aggiunta della quarta edizione.
63) Charles Fourier, Théorie de
l'unité universelle (Teoria
dell'unita universale), Paris 1841-45, vol. III, p. 120.
64) Le pagine che seguono, fino al capoverso «Ma
torniamo a Morgan ecc.», sono un'aggiunta della quarta edizione.
65) Teocrito (III secolo a.C.) e Mosco (II
secolo a.C.): poeti siracusani, autori di carmi greci di argomento
pastorale. Longo (II secolo d.C.), autore del celebre romanzo Dafni e Cloe,
storia dell'amore fra due giovani in ambiente pastorale.
66) Poeta greco del VI secolo a.C., dedicò molte
liriche a donne e fanciulli amati.
67) Altro poema epico tedesco del XIII secolo.
68) Henry James Summer Maine, Ancient Law: its
Connection with the Early History of Society, and its Relation
to Modern Ideas (La
legge antica: la sua connessione con la storia primitiva della
società e la sua relazione con le idee moderne), III ediz., London
1866, p. 170 (prima ediz. 1861). Il Maine (1822-88), giurista e
storico inglese, scrisse anche un libro sulle primitive comunità
di villaggio: Village
Comunities in the East and the West (Comunità di
villaggio in Oriente e in Occidente), London 1871.
69) Nel cap. I dell'edizione citata.
Giungiamo ora ad un'altra
scoperta di Morgan, che ha per le meno la stessa importanza della
ricostruzione della forma primitiva della famiglia in base ai
sistemi di parentela. La dimostrazione che le unioni gentilizie
indicate con nomi di animali, all'interno di una tribù d'Indiani
di America sono essenzialmente identiche ai genea dei Greci, alle gentes dei Romani; che
la forma americana è l'originaria, che la grecoromana è la
posteriore e derivata; che tutta l'organizzazione sociale dei
Greci e dei Romani dell'età delle origini in gens, fratria
e tribù trova il suo esatto parallelo in quella indoamericana; che
la gens è una istituzione comune a tutti i barbari (per quello che
ne deduciamo dalle fonti in nostro possesso) fino al loro ingresso
nella civiltà e persino anche dopo: questa dimostrazione ha
illuminato d'un colpo i settori più difficili della più antica
storia greca e romana e ci ha offerto contemporaneamente
chiarificazioni insospettate sui tratti fondamentali della
costituzione sociale del periodo delle origini, cioè, anteriore
all'introduzione dello Stato.
Per semplice che possa sembrare la cosa non appena la si conosca,
Morgan tuttavia l'ha scoperta solo recentemente. Nel suo scritto
precedente, apparso nel 1871, non aveva ancora scoperto questo
mistero, la cui rivelazione ha chiuso la bocca per qualche tempo
agli studiosi inglesi di preistoria, già tanto sicuri di sé.
Il vocabolo latino gens, che Morgan usa generalmente per questa
unione gentilizia, deriva, come l'equivalente greco genos, dalla
comune radice ariana gan (in tedesco kan, poiché
secondo la regola il k sostituisce la g ariana), che
significa generare. Gens,
genos, gianas in
sanscrito, kuni in gotico (secondo la
regola surriferita), kyn in antico nordico ed
anglosassone, kin in inglese, künne nel medio alto
tedesco, significano ugualmente schiatta, discendenza. Gensin latino, genos in greco si
adoperano però specialmente per quella unione gentilizia, che
vanta una discendenza comune (in questo caso da un comune
capostipite) e per certe istituzioni sociali e religiose,
costituisce una particolare comunità la cui origine e la cui
natura, tuttavia, sono finora rimaste oscure a tutti i nostri
storici.
Abbiamo già visto sopra, a proposito della famiglia punalua, quale
sia la composizione di una gens nella sua forma originaria. Essa
consta di tutte le persone che, per mezzo del matrimonio punalua,
e secondo le idee che necessariamente vi dominano, formano la
discendenza riconosciuta di una determinata capostipite fondatrice
della gens. Poiché in questa forma di famiglia la paternità è
incerta, vale solo la linea femminile. Poiché i fratelli non
possono sposare le loro sorelle, ma solo donne di altra
discendenza, secondo il diritto matriarcale i figli generati con
queste donne straniere non rientrano nella gens. In tal modo, in
ciascuna generazione, soltanto i discendenti delle figlie
rimangono nell'interno dell'unione gentilizia; i discendenti dei
figli passano alle gentes delle loro madri. Che cosa accade ora di
questo gruppo consanguineo, tosto che esso si costituisce come
gruppo particolare di fronte a gruppi consimili all'interno di una
tribù?
Come forma classica di questa gens originaria Morgan prende quella
degli Irochesi, e in particolare della tribù Seneca, la quale
comprende otto gentes dai nomi d'animali: 1) lupo, 2) orso, 3)
tartaruga, 4) castoro, 5) cervo, 6) beccaccia, 7) airone, 8)
falco. In ogni gens, predominano i seguenti costumi:
1. La gens elegge il proprio sachem (colui che ne è il
capo in tempo di pace) e il capo (in caso di guerra). Il sachem
doveva essere eletto nell'ambito della gens stessa ed il suo
ufficio era ereditario all'interno di essa, in quanto doveva
essere immediatamente rioccupato, una volta resosi vacante. Il
capo militare poteva essere eletto anche al di fuori della gens e
temporaneamente non esserci affatto. Non veniva mai eletto suchem
ii figlio di quello precedente, poiché tra gli Irochesi dominava
il diritto matriarcale, e il figlio apparteneva quindi ad una gens
diversa da quella del padre; ma accadeva e anche spesso che fosse
eletto il fratello o il figlio di una sorella del sachem. Per
l'elezione votavano tutti insieme, uomini e donne. L'elezione
doveva, però, essere confermata dalle altre sette gentes, e
soltanto dopo di ciò l'eletto veniva solennemente insediato, e
precisamente dal consiglio comune di tutta la federazione
irochese. Il significato di questo fatto apparirà in seguito. Il
potere del sachem all'interno della gens era simile a quello di un
padre, di natura puramente morale; egli non aveva nessun mezzo
coercitivo. Inoltre egli era insieme, per via del suo ufficio,
membro del consiglio di tribù dei Seneca e del consiglio federale
della collettività degli Irochesi. Il capo militare poteva
impartire ordini soltanto durante le spedizioni militari.
2. La gens depone a suo arbitrio il sachem e il capo militare. Ciò
ha luogo sempre per comune decisione di uomini e donne. I capi
deposti diventano in seguito semplici guerrieri come gli altri,
persone private. Il consiglio di tribù può inoltre deporre il
sachem anche contro la volontà della gens.
3. Nessun membro può sposarsi all'interno della gens. Questa è la
regola fondamentale della gens, il vincolo che la tiene unita, ed
è l'espressione negativa di quella consanguineità, molto positiva,
in forza della quale soltanto gli individui in essa compresi
diventano una gens. Con la scoperta di questo semplice fatto,
Morgan ha rivelato per la prima volta la natura della gens. Quanto
poco fino allora la gens fosse stata compresa, lo provano i
resoconti precedenti sui selvaggi e i barbari, nei quali gli
svariati enti di cui l'ordinamento gentilizio si compone erano
descritti indiscriminatamente, senza essere capiti, come tribù, clan, thum,
ecc., e si diceva talvolta che il matrimonio all'interno di uno di
questi enti era proibito. Era sorta così quella confusione senza
scampo, che avevapermesso al signor McLennan di farsi avanti con
posa napoleonica per mettere ordine con la seguente sovrana
decisione: tutte le tribù si dividono in tribù all'interno delle
quali il matrimonio è proibito (esogame), e in tribù nelle quali è
invece permesso (endogame). E, dopo aver così sviato al massimo il
problema, egli poteva a suo agio diffondersi nelle indagini più
profonde per stabilire quale delle sue due insulse classi sia la
più antica: l'esogamia o l'endogamia. La scoperta della gens,
fondata sulla consanguineità e sulla conseguente impossibilità per
i membri di essa di contrarre tra loro matrimonio, pose fine da sé
a questo controsenso. Va da sé che allo stadio in cui troviamo gli
Irochesi il divieto di matrimonio all'interno della gens viene
osservato rigidamente.
4. Il patrimonio del morto toccava ai restanti membri delle gens,
doveva rimanere nella gens. Data la scarsa importanza di ciò che
poteva lasciare un Irochese, i parenti gentilizi più prossimi
partecipavano all'eredità: se moriva un uomo, i suoi fratelli e
sorelle carnali e il fratello della madre; se moriva una donna, i
suoi figli e le sorelle carnali, ma non i suoi fratelli. Proprio
perciò marito e moglie non potevano ereditare l'un dall'altro, né
i figli dal padre.
5. I membri di una stessa gens si devono reciproco aiuto, difesa e
soprattutto assistenza per vendicare le offese ricevute da
stranieri. L'individuo si affidava, per la sua sicurezza, alla
protezione della gens, e lo poteva fare: chi lo offendeva,
offendeva tutta la gens. Da qui, cioè dai vincoli di sangue della
gens, nacque l'obbligo alla vendetta di sangue,
incondizionatamente riconosciuto dagli Irochesi. Se uno straniero
uccideva un membro della gens, tutta la gens era obbligata alla
vendetta di sangue. Inizialmente si tentava un accomodamento: la
gens dell'uccisore teneva consiglio e faceva al consiglio della
gens dell'ucciso proposte di conciliazione, esprimendo il più
delle volte il proprio rincrescimento e offrendo doni cospicui. Se
questi venivano accettati la cosa era sbrigata. Nel caso
contrario, la gens offesa designava uno o più vendicatori che
avevano l'obbligo di perseguitare l'uccisore e di ucciderlo. Se
ciò accadeva, la gens dell'ucciso non aveva diritto di lamentarsi:
si era saldato il conto.
6. La gens ha un nome determinato o una serie di nomi, che in
tutta la tribù essa sola può adoperare, cosicché il nome
dell'individuo dice ad un tempo a quale gens egli appartiene.
Avere un nome gentilizio comporta a priori diritti gentilizi.
7. La gens può adottare stranieri, e quindi ammetterli in tutta la
tribù. I prigionieri di guerra che non venivano uccisi
diventavano, mediante adozione in una gens, membri della tribù dei
Seneca e ricevevano i pieni diritti gentilizi e tribali.
L'adozione avveniva su proposta di un singolo membro della gens
che, se uomo, accettava lo straniero come fratello o sorella; se
donna, come figlio o figlia; l'ammissione solenne nella gens era
necessaria per la conferma. Spesso gentes singole, eccezionalmente
ridotte di numero, si rafforzavano adottando in massa componenti
di un'altra gens, col consenso di questa. Tra gli Irochesi
l'ammissione solenne nella gens si svolgeva in pubblica seduta del
consiglio di tribù, e in tal modo diventava di fatto una cerimonia
religiosa.
8. È difficile poter indicare speciali festività religiose nelle
gentes indiane; le cerimonie religiose degli Indiani tuttavia sono
più o meno connesse con le gentes. Durante le sei feste religiose
annuali degli Irochesi, i sachem e i capi militari delle singole
gentes, in virtù del loro ufficio, venivano aggiunti ai «custodi
della fede» ed avevano funzioni sacerdotali.
9. La gens ha un luogo di sepoltura comune. Questo attualmente non
esiste più presso gli Irochesi dello Stato di New York, stretti da
ogni parte da bianchi, ma esisteva una volta. Presso altri Indiani
esiste tuttora; così i Tuscarora (1),
imparentati strettamente con gli Irochesi, sebbene cristiani,
hanno per ogni gens una fila distinta nel cimitero, cosicché la
madre viene seppellita nella stessa fila dei figli, ma non il
padre. E anche tra gli Irochesi, tutta la gens di un estinto va al
funerale, si prende cura della tomba, dei discorsi funebri, ecc.
10. La gens ha un consiglio, l'assemblea democratica di tutti i
gentili adulti, uomini e donne, tutti con eguale diritto di voto.
Questo consiglio eleggeva i sachem e i capi militari e li
deponeva, e lo stesso accadeva per gli altri «custodi della fede».
Esso decideva sul prezzo dell'ammenda (guidrigildo) o sulla
vendetta di sangue per gentili uccisi, adottava stranieri nella
gens. In breve, era il potere sovrano della gens.
Queste sono le competenze di una gens indiana tipica:
«Tutti i suoi membri sono uomini liberi obbligati a difendere la libertà l'uno dell'altro, eguali nei diritti personali: né i sachem, né i capi militari accampano precedenze di sorta; questi membri della gens formano una fratellanza unita da vincoli di sangue. Libertà, eguaglianza, fraternità, benché mai formulate, erano i principi fondamentali della gens, e questa era, a sua volta, l'unità di tutto un sistema sociale e la base della società indiana organizzata... Questo spiega l'irriducibile spirito di indipendenza e la dignità personale del portamento che ognuno riconosce negli Indiani.»
Al tempo della loro scoperta, gli
Indiani di tutta l'America del Nord erano organizzati in gentes,
secondo il diritto matriarcale. Solo in alcune tribù, come in
quella dei Dakota, le gentes erano scomparse e in alcune altre
tribù, come gli Ojibwa e gli Omaha, erano organizzate secondo il
diritto patriarcale.
Presso numerosissime tribù indiane con più di cinque o sei gentes
troviamo tre, quattro o più gentes riunite in un gruppo
determinato, che Morgan, traducendo fedelmente il nome indiano
secondo il suo modello greco, chiama fratrie (fratellanze). Così i
Seneca hanno due fratrie: la prima abbraccia le gentes da 1 a 4,
la seconda da 5 a 8. Un'indagine più particolareggiata mostra che
queste fratrie rappresentano, per lo più, le gentes originarie in
cui la tribù inizialmente si divideva; infatti, data la
proibizione di matrimonio all'interno, della gens, ogni tribù
doveva necessariamente comprendere per lo meno due gentes, per
poter avere un'esistenza autonoma.
Nella misura in cui la tribù si accresceva, ogni gens si divideva
a sua volta in due o più altre, che appaiono ora, ciascuna, come
gens particolare, mentre la gens originaria, che abbraccia tutte
le gentes figlie, sopravvive come fratria. Tra i Seneca e la
maggior parte degli altri Indiani, le gentes d'una fratria sono
gentes sorelle, mentre le gentes di un'altra fratria sono gentes
cugine: indicazioni che nel sistema di parentela americano, come
vedemmo, hanno un significato assai reale ed espressivo.
Originariamente un Seneca non poteva neanche prender moglie
all'interno della sua fratria, ma ciò è caduto in disuso da gran
tempo e limitato alla gens. Era tradizione dei Seneca che l'orso e
il cervo indicassero le due gentes originarie da cui si erano
diramate le altre. Una volta radicata questa nuova istituzione,
essa venne modificata secondo le esigenze; talvolta, se le gentes
di una fratria si estinguevano, per compenso intere gentes di
altre fratrie vi venivano trasferite. Perciò troviamo, presso
tribù diverse, le gentes di uno stesso nome raggruppate
differentemente nelle varie fratrie.
Le funzioni della fratria presso gli Irochesi sono in parte
sociali, in parte religiose.
1. Le fratrie si sfidano tra loro al giuoco della palla: ognuna fa
scendere in campo i suoi migliori giocatori, mentre gli altri,
disposti separatamente per fratria, stanno a guardare e
scommettono tra loro per la vittoria dei loro giocatori.
2. Al consiglio di tribù siedono insieme i sachem e i capi
militari di ogni fratria, i due gruppi l'uno di fronte all'altro,
ogni oratore parla ai rappresentanti di ogni fratria, come ad un
ente a sé stante.
3. Se nella tribù veniva commesso un assassinio e se ucciso e
uccisore non appartenevamo alla stessa fratria, la gens offesa
faceva spesso appello alle gentes sorelle; queste tenevano un
consiglio di fratria e si rivolgevano all'altra fratria nel suo
complesso perché anche questa si riunisse in consiglio per
comporre la vertenza. In questo caso dunque la fratria si
presentava ancora come gens originaria e con maggiore prospettiva
di successo della gens figlia, isolata e più debole.
4. In caso di morte di persone molto in vista, la fratria opposta
si prendeva cura della sepoltura e delle cerimonie funebri, mentre
la fratria del defunto partecipava in lutto. Se moriva un sachem,
la fratria opposta annunziava la vacanza della carica al consiglio
federale degli Irochesi.
5. Per l'elezione di un sachem entrava in giuoco del pari il
consiglio di fratria. La conferma da parte delle gentes sorelle
era considerata quasi come automatica, ma le gentes dell'altra
fratria potevano opporsi. In tal caso si riuniva il consiglio di
questa fratria; se esso manteneva l'opposizione, l'elezione non
aveva validità.
6. Anticamente gli Irochesi avevano particolari misteri religiosi
chiamati dai bianchi medicine-lodges.
Questi, tra i Seneca, venivano celebrati da due sodalizi religiosi
con regolare iniziazione dei nuovi membri; in ognuna delle due
fratrie esisteva uno di questi sodalizi.
7. Se, come è quasi sicuro, le quattro linages (stirpi) che al tempo
della conquista abitavano le quattro parti di Tlascala (2) erano quattro
fratrie, con ciò è anche accertato che le fratrie, come tra i
Greci, e come analoghe unioni gentilizie tra i Tedeschi,
rappresentavano pure unità militari; queste quattro linages
intervenivano nella battaglia singolarmente, ciascuna come schiera
particolare, con uniforme e bandiera propria e guidata da un
proprio capo.
Come più gentes formano una fratria, così, nella forma classica,
più fratrie formano una tribù. In parecchi casi il termine medio,
la fratria, manca nelle tribù molto indebolite. Che cosa
caratterizza dunque una tribù indiana in America?
1. Un proprio territorio ed un proprio nome. Ogni tribù possedeva,
oltre al luogo della sua residenza effettiva, anche un territorio
considerevole per la caccia e la pesca. Al di là di questo, si
estendeva una larga striscia di terra neutra che arrivava fino al
territorio della tribù vicina; striscia più ristretta nelle tribù
imparentate per lingua, meno ristretta tra quelle non imparentate
per lingua. È questa la foresta di confine dei Tedeschi, il
deserto che gli Svevi di Cesare creano intorno al loro territorio (3), l'isarnholt (in danese jarnved, limes
danicus) tra Danesi e Tedeschi e, fra Tedeschi e Slavi, il Sachsenwald e il branïbor (parola
slava che significa foresta di protezione), da cui il Brandeburgo
deriva il suo nome. Il territorio separato da questi incerti
confini, era la terra comune della tribù, riconosciuta come tale
dalle tribù vicine e dalla tribù stessa difesa contro
sconfinamenti. L'incertezza dei confini diventava per lo più
praticamente svantaggiosa solo se la popolazione si era molto
accresciuta. I nomi di tribù appaiono piuttosto sorti casualmente
che scelti deliberatamente; col tempo accadeva di frequente che
una tribù venisse indicata dalle tribù vicine con un nome diverso
da quello che essa stessa usava; all'incirca come ai Tedeschi il
primo nome storico collettivo di Germani fu imposto dai Celti (4).
2. Un dialetto particolare,
proprio solo di questa tribù. In effetti tribù e dialetto
sostanzialmente coincidono. La formazione di nuove tribù e di
nuovi dialetti, attraverso scissioni, ha avuto luogo fino a poco
tempo fa in America e anche adesso probabilmente non è cessata del
tutto. Ove due tribù indebolite si siano fuse in una sola, avviene
eccezionalmente che nella medesima tribù si parlino due dialetti
strettamente affini. La forza media di una tribù americana si
aggira sulle 2.000 anime; tuttavia i Cerokee (5) sono all'incirca
26.000 e costituiscono perciò il più forte nucleo di Indiani degli
Stati Uniti che parlano lo stesso dialetto.
3. Il diritto di insediare solennemente i sachem e i capi militari
eletti dalle gentes.
4. Il diritto di deporli anche contro la volontà della gens a cui
essi appartengono. Poiché questi sachem e questi capi militari
sono membri del consiglio di tribù, questi diritti della tribù,
nei loro confronti, si spiegano da sé. Dove si era formata una
federazione di tribù e il numero complessivo delle tribù era
rappresentato in un consiglio federale, i diritti di cui sopra
passavano a quest'ultimo.
5. Il possesso di idee religiose comuni (mitologia) e di comuni
funzioni di culto. «Gli Indiani erano, alla loro maniera
barbarica, un popolo religioso». La loro mitologia non è stata
ancora indagata criticamente; essi si rappresentavano le
incarnazioni delle loro idee religiose — spiriti di ogni specie —
già in forma umana, ma lo stadio inferiore della barbarie, in cui
essi si trovavano, non conosce ancora le rappresentazioni
figurate, i cosiddetti idoli.
La loro religione è un culto della natura e degli elementi, in
processo di sviluppo verso il politeismo. Le diverse tribù avevano
le loro feste regolari con determinate forme di culto, in ispecie
danze e giuochi; la danza specialmente era un elemento essenziale
di tutte le solennità religiose; ogni tribù celebrava le sue
separatamente.
6. Un consiglio di tribù per gli affari comuni. Ne facevano parte
tutti i sachem e tutti i capi militari delle singole gentes, che
erano i rappresentanti effettivi perché potevano essere deposti in
qualunque momento. Esso deliberava pubblicamente, circondato dagli
altri membri della tribù che avevano il diritto di interloquire e
di fare sentire il loro parere; il consiglio decideva. Di regola,
ognuno a richiesta veniva ascoltato; anche le donne potevano far
presentare il loro parere da un oratore di loro scelta. Tra gli
Irochesi la decisione finale doveva essere presa all'unanimità, il
che succedeva anche nelle marche germaniche, per talune decisioni.
Al consiglio di tribù spettava in particolare la regolamentazione
dei rapporti con tribù straniere; esso riceveva ambascerie e ne
mandava, dichiarava la guerra e concludeva la pace. Se si veniva
alla guerra, essa veniva combattuta per lo più da volontari. In
linea di principio ogni tribù si considerava in stato di guerra
con ogni altra tribù con cui non avesse espressamente concluso un
trattato di pace. Spedizioni belliche contro tali nemici venivano
per lo più organizzate da singoli guerrieri eminenti; essi
indicevano una danza di guerra; chi vi partecipava, dichiarava in
questo modo la sua partecipazione alla spedizione. La colonna
veniva formata subito e messa in movimento. Anche la difesa del
territorio attaccato veniva condotta, per lo più, da volontari. La
partenza e il ritorno di tali colonne davano sempre occasione a
pubbliche feste. L'autorizzazione del consiglio di tribù non era
necessaria per queste spedizioni e non veniva né richiesta né
data. Si tratta precisamente di quelle spedizioni belliche private
di gruppi tedeschi descritte da Tacito; solo che tra i Tedeschi
questi gruppi avevano assunto ormai un carattere di stabilità,
formando un nucleo fisso che veniva già organizzato in tempo di
pace e intorno al quale si raggruppavano, in caso di guerra, gli
altri volontari. Tali colonne militari erano numerose; le più
importanti spedizioni degli Indiani, anche a grandi distanze,
venivano compiute da forze insignificanti. Se più gruppi siffatti
si radunavano per una grande impresa, ognuno di essi obbediva
soltanto al proprio capo; l'unità del piano di campagna veniva
bene o male assicurata da un consiglio di questi capi. Tale è
anche la condotta di guerra degli Alemanni dell'Alto Reno nel IV
secolo, secondo quanto troviamo descritto in Ammiano Marcellino.
7. In alcune tribù troviamo un capo supremo, le cui competenze,
tuttavia, sono minime. È uno dei sachem che, nel caso in cui si
richieda una rapida azione, deve prendere misure provvisorie
finché il consiglio non può riunirsi e deliberare in maniera
definitiva. È un debole avviamento, che nell'ulteriore sviluppo
per lo più non ha avuto seguito, alla creazione di un funzionario
con potere esecutivo, il quale invece nella maggior parte dei
casi, se non in tutti, si è sviluppato, come si vedrà, dal supremo
capo militare.
La grande maggioranza degli Indiani d'America non si spinse mai al
di là della riunione in tribù. Raggruppati in tribù poco numerose,
separate le une dalle altre da ampie fasce confinarie, indebolite
da guerre eterne, essi occupavano con pochi uomini un territorio
enorme. Alleanze tra tribù imparentate si stringevano qua e là per
necessità momentanee, e cessavano però con queste. In singole
regioni, tuttavia, tribù originariamente imparentate erano passate
di nuovo, da uno stato di frazionamento, a riunirsi in federazioni
stabili, facendo così il primo passo verso la formazione di
nazioni.
Negli Stati Uniti troviamo, tra gli Irochesi, la forma più
sviluppata di una tale federazione. Lasciando le loro sedi ad
ovest del Mississippi, dove probabilmente formavano un ramo della
grande famiglia dei Dakota, essi si stabilirono, dopo lungo
errare, nell'odierno Stato di New York. Erano divisi in cinque
gruppi: Seneca, Caiuga, Onondaga, Oneida e Mohawk. Vivevano di
pesce, di selvaggina e dei prodotti di un'orticoltura rudimentale;
abitavano in villaggi per lo più difesi da una palizzata. Non
superarono mai il numero di ventimila individui; avevano in tutte
e cinque le tribù un numero di gentes in comune, parlavano
dialetti strettamente affini tra loro e appartenenti ad una stessa
lingua, ed occupavano un territorio continuo che era diviso tra le
cinque tribù. Poiché questo territorio era di recente conquista,
queste tribù erano solite naturalmente far fronte comune contro le
tribù estromesse. Da ciò, al più tardi all'inizio del secolo XV,
si sviluppò una formale «federazione perpetua», una confederazione
che assunse subito, nella consapevolezza della sua nuova forza, un
carattere aggressivo e che, al massimo della sua potenza, verso il
1675, aveva conquistato grandi tratti del territorio circostante,
i cui abitanti aveva in parte scacciati, in parte resi tributari.
La federazione degli Irochesi offre l'organizzazione sociale più
progredita a cui siano arrivati gli Indiani nello stadio inferiore
della barbarie (eccettuati quindi i Messicani, gli abitanti del
Nuovo Messico e i Peruviani).
Le norme fondamentali della federazione erano le seguenti:
1. Federazione perpetua delle
cinque trami consanguinee fondata sulla perfetta eguaglianza e
autonomia in tutti gli affari interni della tribù. Questa
consanguineità formava la vera base della federazione. Delle
cinque tribù, tre prendevano il nome di tribù-madri ed erano tra
loro tribù-sorelle, le due altre si chiamavano tribù-figlie ed
erano egualmente tribù-sorelle tra loro. Tre gentes, le più
antiche, erano rappresentate in tutte e cinque le tribù; altre tre
erano rappresentate anche fisicamente in tre tribù e i membri di
ciascuna di queste gentes erano tutti insieme, in tutte e cinque
le tribù, fratelli tra loro. La lingua comune, pur nelle sue
differenziazioni dialettali, era espressione e prova della
discendenza comune.
2. L'organo della federazione era un consiglio federale composto
da 50 sachem, tutti eguali per rango e autorità; questo consiglio
prendeva le deliberazioni finali in tutti gli affari della
federazione.
3. Questi 50 sachem erano stati, alla fondazione della
federazione, distribuiti tra le tribù e le gentes, come
responsabili di nuovi uffici espressamente creati per fini
federali. Essi venivano rieletti dalle gentes ogniqualvolta aveva
luogo una vacanza e potevano essere deposti in ogni momento; però
il diritto di insediarli nella loro carica spettava al consiglio
federale.
4. Questi sachem federali erano anche sachem nelle loro singole
tribù ed avevano seggio e voto nel consiglio di tribù.
5. Ogni decisione del consiglio federale doveva essere presa
all'unanimità.
6. La votazione avveniva per tribù, cosicché ogni deliberazione
per essere valida doveva essere approvata da ogni tribù, e in ogni
tribù da tutti i membri del consiglio.
7. Ognuno dei cinque consigli di tribù poteva convocare il
consiglio federale, ma questo non poteva autoconvocarsi.
8. Le sedute si svolgevano in presenza del popolo adunato ed ogni
lrochese poteva prendere la parola; solo il consiglio deliberava.
9. La federazione non aveva nessun dirigente personale, o capo del
potere esecutivo.
10. Invece essa aveva due capi militari supremi con eguali
competenze ed eguale potere (i due «re» degli Spartani e i due
consoli di Roma).
Questa era l'intera costituzione pubblica sotto la quale gli
Irochesi son vissuti per più di 400 anni e vivono ancora oggi.
L'ho descritta piuttosto ampiamente seguendo Morgan, poiché noi
abbiamo qui l'occasione di studiare l'organizzazione di una
società che non conosce ancora lo Stato. Lo Stato presuppone un
potere pubblico particolare, staccato dalla totalità di quelli che
di volta in volta vi partecipano, e Maurer (6), che
con giusto istinto riconosce nella costituzione della marca
tedesca un'istituzione in sé puramente sociale, essenzialmente
diversa dallo Stato, anche se, in gran parte, più tardi ne
costituisce la base, indaga perciò, in tutti i suoi scritti, la
nascita graduale del potere pubblico dalle ed accanto alle
costituzioni originarie delle marche, dei villaggi, delle fattorie
e delle città.
Noi vediamo, tra gli Indiani dell'America del Nord, come una tribù
originariamente omogenea si diffonda, poco per volta, su un
immenso continente; come le tribù mediante scissione, diventino
popoli, interi gruppi di tribù; come le lingue si mutino fino al
punto che non solo diventino incomprensibili tra di loro, ma anche
scompaia quasi ogni traccia dell'unità originaria; come inoltre
nelle tribù, le singole gentes si scindano in più gentes, come le
antiche gentes madri si conservino come fratrie, e come tuttavia i
nomi di queste gentes, le più antiche, rimangano eguali presso
tribù molto distanti e da lungo tempo separate: lupo e orso sono
tutt'ora nomi gentilizi nella maggioranza di tutte le tribù
indiane. Ad esse tutte si adatta, all'ingrosso, l'ordinamento che
abbiamo descritto sopra; solo che molte non sono giunte a
costituirsi in federazione di tribù imparentate.
Ma una volta data la gens come unità sociale, vediamo anche come
l'intera costituzione di gentes, fratrie e tribù, si sviluppi da
questa unità necessariamente appunto perché è un processo
naturale.
Tutte e tre sono gruppi di diversa gradazione di consanguineità,
ciascuno dei quali è chiuso in se stesso e sbriga i propri affari,
ma completa anche gli altri gruppi. E la cerchia di affari che
rientra nella loro competenza, abbraccia la totalità degli affari
pubblici dei barbari dello stadio inferiore. Dunque, laddove in un
popolo troviamo la gens come unità sociale, là possiamo anche
cercare un'organizzazione della tribù analoga a quella che abbiamo
descritta qui; e laddove ci si offrono fonti sufficienti, come per
i Greci e i Romani, non soltanto troveremo questa organizzazione,
ma ci convinceremo pure che quando vengono meno le fonti, il
paragone con la costituzione sociale americana ci aiuterà a
toglier di mezzo i dubbi e gli enigmi più difficili.
E questa costituzione gentilizia, con tutte le sue puerilità e con
tutta la sua semplicità, è una costituzione meravigliosa! Senza
soldati, gendarmi e poliziotti, senza nobili, re, luogotenenti,
prefetti o giudici, senza prigioni, senza processi, tutto segue il
suo corso regolare. Ogni litigio e ogni contesa vengono decisi
dalla collettività di coloro cui la cosa interessa, dalla gens o
dalla tribù, o dalle singole gentes tra loro. Solo come mezzo
estremo, raramente usato, si ricorre alla vendetta di sangue, di
cui la nostra pena di morte è solo la forma incivilita, con tutti
i vantaggi e gli svantaggi della civiltà. Sebbene gli affari
comuni fossero assai più numerosi di quanto siano oggi
(l'amministrazione è comune ad una serie di famiglie ed è
comunistica; il suolo è proprietà della tribù, solo gli orticelli
sono provvisoriamente affidati alle amministrazioni domestiche),
non occorre tuttavia neanche l'ombra del nostro vasto e complicato
apparato amministrativo. Gli interessati decidono e, nella maggior
parte dei casi, un uso secolare ha già regolato ogni cosa. Poveri
e bisognosi non ve ne possono essere; l'amministrazione
comunistica e la gens conoscono i loro obblighi verso i vecchi,
gli ammalati e i minorati di guerra. Tutti sono uguali e liberi...
anche le donne. Non vi è ancora posto per gli schiavi e neanche,
di regola, per l'assoggettamento di tribù straniere. Gli Irochesi,
quando intorno al 1651 vinsero gli Erie e la «nazione neutrale» (7),
offrirono loro di entrare a far parte della federazione con parità
di diritti. Solo quando i vinti si rifiutarono, li scacciarono dal
loro territorio. E quali uomini e donne tale società produca, lo
testimonia l'ammirazione di tutti i bianchi, che si sono trovati
con Indiani non corrotti, di fronte alla dignità personale, alla
rettitudine, alla forza di carattere e al valore di questi
barbari.
Di questo valore abbiamo avuto proprio di recente esempi in
Africa. I Cafri e i Nubiani, due tribù nelle quali le istituzioni
gentilizie non sono ancora scomparse, i primi alcuni anni fa, i
secondi pochi mesi or sono hanno fatto ciò che nessun esercito
europeo può fare (8).
Armati soltanto di lance e di giavellotti, senza armi da fuoco,
sotto la pioggia dei proiettili dei fucili a retrocarica della
fanteria inglese, riconosciuta come la prima del mondo nel
combattimento a ranghi serrati, si sono scagliati fin sulle
baionette ed hanno gettato più d'una volta lo scompiglio in mezzo
alla fanteria avversaria, mettendola anche in fuga, nonostante
l'enorme sproporzione delle armi e per quanto non avessero mai
prestato servizio militare e non conoscessero che cosa sia
l'esercitazione. Ciò che essi possono sopportare e compiere ce lo
testimonia il disappunto degli Inglesi, secondo i quali un Cafro
in 24 ore percorre una strada più lunga, più velocemente di quel
che non faccia un cavallo: il suo più piccolo muscolo scatta, duro
e d'acciaio, simile alla corda d'una frusta, dice un pittore
inglese.
Così apparivano gli uomini e la società umana prima che fosse
avvenuta la divisione in classi diverse. E se noi paragoniamo la
loro situazione a quella dell'immensa maggioranza degli uomini
civili di oggi, enorme è la distanza tra il proletario e il
piccolo contadino di oggi e il libero membro della antica gens.
Questo è un lato della questione. Ma non dimentichiamo che questa
organizzazione era destinata a tramontare. Essa non va al di là
della tribù; la federazione delle tribù indica già il principio
della loro fine, come apparirà e come è già apparso a proposito
dei tentativi di assoggettamento degli Irochesi. Tutto quanto era
al di fuori della tribù, era al di fuori del diritto. Dove non
esisteva un esplicito trattato di pace, regnava la guerra tra
tribù e tribù ed essa veniva combattuta con la crudeltà che
contraddistingue l'uomo dal resto degli animali e che verrà
mitigata solo più tardi dall'interesse.
La costituzione gentilizia, nel massimo del suo splendore, quale
l'abbiamo vista in America, presupponeva una produzione
estremamente poco sviluppata, quindi una popolazione estremamente
rada su un vasto territorio, e di conseguenza la soggezione quasi
completa dell'uomo alla natura esterna che gli sta di fronte
estranea ed incompresa, soggezione che si rispecchia nelle puerili
idee religiose. La tribù costituiva il limite dell'uomo sia di
fronte allo straniero di altra tribù che di fronte a se stesso: la
tribù, la gens e le loro istituzioni erano sacre ed inviolabili,
erano un potere superiore dato dalla natura, al quale l'individuo
era incondizionatamente sottoposto, nei suoi sentimenti, nei suoi
pensieri e nelle sue azioni.
Per quanto imponenti ci sembrino gli uomini di questa epoca, essi
non si distinguono ancora gli uni dagli altri, sono ancora
attaccati, per usare l'espressione di Marx, al cordone ombelicale
della comunità naturale (9). Il
potere di questa comunità naturale doveva essere infranto; e
infatti lo fu. Ma fu infranto da influenze che ci appaiono fin dal
principio come una degradazione, come una colpevole caduta dalla
semplice altezza morale dell'antica società gentilizia. I più
bassi interessi — volgare avidità, brutale cupidigia di godimenti,
sordida avarizia, rapina egoistica della proprietà comune —
inaugurano la nuova società incivilita, la società di classi; i
mezzi più spudorati — furto, violenza, insidia e tradimento —
minano e portano a rovina l'antica società gentilizia senza
classi. Ed anche la nuova società, durante i suoi
duemilacinquecento anni di esistenza, non è stata mai altro se non
lo sviluppo della piccola minoranza a spese della grande
maggioranza degli sfruttati e degli oppressi, e tale è adesso più
di prima.
Note:
1) I Tuscarora sono la sesta nazione della Lega
degli Irochesi, alla quale furono ammessi nella prima metà del
XVIII secolo; si convertirono al protestantesimo. La loro riserva
attuale è a nordovest delle cascate del Niagara.
2) Regione del Messico, conquistata dagli
Spagnoli nel 1519-21.
3) Cesare, La guerra gallica, libro IV, cap. 3.
4) Così riferisce Tacito, Germania, cap.
2: un gruppo che aveva partecipato alla prima grande offensiva
verso ovest, sul basso Reno, portava il nome di Germani, che poi i
Galli adottarono per designare tutto il popolo. (Allo stesso modo
si generalizzò, il nome di un altro gruppo, quello degli Alamanni
o Alemanni). Oggi si ritiene che in realtà i primi «Germani»
fossero una tribù celtica, cioè etnicamente affine ai Galli
abitanti ad ovest del Reno, e che il loro nome fosse attribuito da
questi ultimi, al tempo di Cesare, a tutte le popolazioni
transrenane, comprese in primo luogo quelle celtiche.
5) Abitavano attorno al tratto meridionale dei
monti Appalachi; i loro resti si riunirono nella riserva
dell'Oklahoma.
6) Georg Ludwig Von Maurer (1790-1872), storico
tedesco, autore di studi sulla società tedesca primitiva e
medievale che furono largamente usati da Marx cd Engels.
7) Gli Erie abitavano in origine presso il lago
omonimo; la «nazione neutrale» era un'alleanza di guerra fra tribù
abitanti a nord del lago Erie, così chiamata nel XVII secolo
perché essa non intervenne nelle guerre fra gli Irochesi e gli
Uroni (abitanti sul corso del San Lorenzo).
8) Accenno alla tenace resistenza opposta dagli
Zulù contro gli Inglesi (1879) e alla guerra di liberazione
antibritannica delle popolazioni del Sudan (1881-84) capeggiate
dal «Madhi» Mohammed Ahmed.
9) «La cooperazione nel processo di lavoro che
troviamo agli inizi dell'incivilimento dell'umanità, presso popoli
cacciatori o, per esempio, nell'agricoltura delle comunità
indiane, poggia da una parte sulla proprietà comune
delle condizioni di produzione, dall'altra sul fatto che il
singolo individuo non si è ancora strappato dal cordone ombelicale
della tribù o della comunità, come
l'ape singola non si stacca dall'alveare». K. Marx. Il Capitale,
I, 2, Roma 1952. p. 31 sg. Cfr. anche l'abbozzo della lettera a
Vera Zasulič.
I Greci, come i Pelasgi (1) ed altri popoli di
stirpe affine, erano ordinati già da epoca preistorica secondo la
stessa serie organica degli Americani : gens, fratria, tribù
federazione di tribù. Talvolta manca la fratria, come tra i Dori;
la federazione di tribù non era ancora necessariamente sviluppata
dovunque, ma in tutti i casi la gens era l'unità. I Greci, quando
fanno il loro ingresso nella storia, sono alle soglie della
civiltà; tra loro e le tribù americane di cui abbiamo parlato
sopra, si estendono quasi due interi grandi periodi di sviluppo,
dei quali i Greci dell'età eroica sopravanzano gli Irochesi. La
gens dei Greci perciò non è più affatto quella arcaica degli
Irochesi. L'impronta del matrimonio di gruppo comincia a essere
notevolmente confusa. Il diritto matriarcale ha ceduto il passo al
diritto patriarcale: con ciò la nascente ricchezza privata aperse
la sua prima breccia nella costituzione gentilizia. Una seconda
breccia fu la conseguenza naturale della prima: poiché il
patrimonio d'una ricca ereditiera, dopo l'introduzione del diritto
patriarcale, sarebbe, col suo matrimonio, passato al marito, cioè
ad un'altra gens, si infransero le basi di tutto il diritto
gentilizio e non soltanto venne permesso, ma, in questo caso,
venne imposto che la ragazza
sposasse all'interno della sua gens, per conservare a questa il
patrimonio.
Secondo la Storia della Grecia del Grote (2), la
gens ateniese era tenuta unita specialmente da:
1. Comuni solennità religiose e diritto esclusivo di sacerdozio in
onore di un determinato dio, che era il presunto capostipite della
gens e in tale qualità era indicato con un attributo particolare.
2. Luogo di sepoltura comune (cfr. l'Eubulides di Demostene (3)).
3. Diritto di ereditare l'uno dall'altro.
4. Reciproco obbligo d'aiuto, difesa ed assistenza in caso di
aggressione.
5. Reciproco diritto e dovere di sposarsi entro la gens, in certi
casi specialmente se si trattava di un'orfana o di una ereditiera.
6. Possesso, per lo meno in taluni casi, di proprietà comune,
amministrata da un arconte (capo) e da un tesoriere.
Inoltre, la riunione nella fratria legava insieme più gentes, se
pure in maniera meno stretta; in ogni modo, anche qui troviamo
diritti e doveri reciproci di natura analoga, e particolarmente
comunanza di determinate pratiche religiose ed il diritto di
vendicare l'uccisione di un membro della fratria. La totalità
delle fratrie di una tribù aveva, d'altra parte, comuni solennità
sacre ricorrenti a intervalli regolari, presiedute da un phylobasiléus (capo tribù) eletto
fra i nobili (eupatridi).
Fin qui Grote. E
Marx aggiunge: «Ma dietro alla gens greca fa capolino, e in
maniera inequivocabile, il selvaggio (l'Irochese, per esempio)».
Il quale diventa ancora più evidente tosto che ci inoltriamo
ulteriormente nell'indagine.
Sono inoltre caratteristiche della gens greca, precisamente:
7. Discendenza secondo il diritto patriarcale.
8. Divieto del matrimonio nella gens salvo il caso in cui si
tratti di ereditiere. Questa eccezione, e la sua formulazione come
comando, testimoniano la validità dell'antica regola. Questa
consegue ugualmente dal principio generalmente valido che la
donna, col matrimonio, rinunciava ai riti religiosi della sua
gens, e passava in quella del marito nella cui fratria veniva
iscritta. Il matrimonio al di fuori della gens era perciò la
regola, anche secondo un celebre passo di Dicearco (4), e
Becker nel suo Charikles (5) suppone addirittura
che nessuno poteva sposarsi nell'interno della sua gens.
9. II diritto di adozione nella gens: esso avveniva mediante
adozione in una famiglia, ma con formalità pubbliche e solo
eccezionalmente.
10. Il diritto di eleggere e deporre i capi. Che ogni gens avesse
il proprio arconte lo sappiamo, ma che questo ufficio fosse
ereditario in determinate famiglie non è detto in nessun luogo.
Fino alla fine della barbarie, la supposizione è sempre contraria
all'ereditarietà rigorosa (6) la quale è del tutto
incompatibile con condizioni in cui ricchi e poveri all'interno
della gens avevano diritti del tutto eguali.
Non solo Grote, ma anche Niebuhr, Mommsen (7) e tutti gli altri
storiografi dell'antichità classica hanno cozzato contro lo
scoglio della gens. Per quanto abbiano giustamente rilevato molte
delle sue caratteristiche, essi hanno sempre visto nella gens un gruppo di famiglie,
precludendosi, in questo modo, ogni possibilità di intendere la
natura e l'origine della gens. La famiglia, nella costituzione
gentilizia, non è stata mai un'unità organizzativa, né poteva
esserlo, poiché marito e moglie appartenevano necessariamente a
due gentes diverse. La gens rientrava per intero nella fratria, la
fratria nella tribù; la famiglia, per metà rientrava nella gens
del marito, e per metà in quella della moglie. Anche lo Stato non
riconosce la famiglia nel diritto pubblico; essa esiste soltanto,
fino ad oggi, nel diritto privato. E tuttavia, tutta la nostra
storiografia fino ai nostri giorni parte dall'assurdo presupposto,
divenuto specialmente nel secolo XVIII intangibile, che la
famiglia singola monogamica, che è appena più antica della
civiltà, sia il nucleo intorno a cui sono venuti cristallizzandosi
poco per volta società e Stato.
C'è da far notare inoltre al sig. Grote — aggiunge Marx — che
sebbene i Greci facessero derivare le loro gentes dalla mitologia,
quelle gentes sono più antiche della mitologia che esse stesse hanno creata, con i
suoi dèi e semidei.
Grote viene di preferenza citato da Morgan che lo considera un
testimone autorevole e al tempo stesso del tutto attendibile.
Grote racconta inoltre che ogni gens ateniese aveva un nome
derivato da un presunto capostipite e che, in generale, prima di
Solone e anche dopo Solone, nel caso in cui il testamento
mancasse, i membri della gens (gennètes) del defunto ne
ereditavano il patrimonio, e in caso di omicidio, prima i parenti,
poi i membri della gens, ed
in ultimo quelli della fratria dell'ucciso, avevano il diritto e
il dovere di perseguire in giudizio l'uccisore: «tutto quanto noi
apprendiamo dalle più antiche leggi ateniesi è fondato sulla
divisione in gentes e fratrie».
La discendenza delle gentes da progenitori comuni è stata per i
«pedanti filistei» (Marx) un complicato rompicapo. Poiché essi
spacciano la gens per istituzione puramente mitica, non possono
assolutamente spiegarsi la genesi di una gens da famiglie in
origine non imparentate e viventi l'una accanto all'altra, e
tuttavia essi devono risolvere questo punto oscuro per spiegarsi
anche soltanto l'esistenza delle gentes. Allora ci si perde in
interminabili giri di parole, che però non vanno oltre la seguente
enunciazione: l'albero genealogico è, certo, una favola, ma la
gens è una realtà; ed infine in Grote si legge quanto segue (con
interpolazioni di Marx):
«Noi sentiamo parlare di questo albero genealogico solo di rado,
poiché esso viene portato in pubblico soltanto in certi casi di
particolare solennità. Ma le gentes minori avevano in comune le
loro pratiche religiose (questo si che è strano, sig. Grote!), un
capostipite sovrumano comune ed un comune albero genealogico,
proprio come le gentes più famose (cosa assai strana questa, sig.
Grote, trattandosi di gentes minori): il piano fondamentale e la
base ideale (egregio signore, non ideale, ma
carnale, germanische fleischlich (8))
erano per tutte gli stessi.»
Marx riassume come segue la risposta che a ciò dà Morgan:
«Il sistema di consanguineità corrispondente alla gens nella sua
forma originaria (e i Greci, come gli altri mortali, l'avevano una
volta posseduta) manteneva viva la nozione dei reciproci legami di
parentela di tutti i membri delle gentes. Essi imparavano questo,
che per loro era di importanza decisiva, dalla prassi fin dalla
più tenera età. Con la famiglia monogamica, ciò fu dimenticato. Il
nome gentilizio creò un albero genealogico, accanto al quale
quello della famiglia singola appariva insignificante. Era ormai
questo nome che aveva il compito di mantenere il fatto della
discendenza comune di coloro che lo portavano, ma l'albero
genealogico della gens risaliva così lontano che i membri di essa
non potevano più provare la loro effettiva vicendevole parentela,
tranne che in un limitato numero di casi riguardanti gli antenati
comuni più recenti. Il nome stesso era prova d'una discendenza
comune e, salvo nei casi di adozione, prova definitiva. Al
contrario, l'effettiva negazione di ogni parentela tra i membri
della gens alla maniera del Grote e del Niebuhr, i quali hanno
trasformato la gens in una creazione puramente immaginaria e
fantastica, degna di esegeti "ideali" cioè di topi di biblioteca.
Poiché la concatenazione delle stirpi, specie col sorgere della
monogamia, si perde nella lontananza dei tempi e la realtà passata
appare rispecchiata nelle fantasie mitologiche, i probi filistei
hanno concluso e concludono che questo fantastico albero
genealogico ha creato gentes reali!»
La fratria era, come tra gli Americani, una gens madre, divisa in
molte gentes figlie che essa unificava e anche faceva spesso
discendere tutte dal capostipite comune. Così, secondo Grote,
«tutti i membri contemporanei della fratria di Ecateo (9)»
avevano a come progenitore di sedicesimo grado un medesimo dio»;
tutte le gentes di questa fratria erano dunque letteralmente
gentes-sorelle. La fratria ricorre ancora in Omero come unità
militare, nel passo famoso in cui Nestore dà questo consiglio ad
Agamennone: «Ordina gli uomini in tribù e in fratrie: che la
fratria stia accanto alla fratria e la tribù alla tribù (10)».
La fratria ha inoltre il diritto e il dovere di perseguire un
delitto di sangue commesso contro un suo membro, e quindi, in età
più remota, anche l'obbligo della vendetta di sangue. Ha santuari
e feste comuni; infatti lo sviluppo di tutta la mitologia greca
dall'antico culto ariano della natura era essenzialmente
condizionato dalle gentes e dalle fratrie, ed avveniva all'interno
di esse. E ancora essa aveva un capo (phratriarchos) e,
secondo De Coulanges (11),
anche assemblee, poteva prendere decisioni impegnative e possedeva
anche giurisdizione ed amministrazione. Perfino lo Stato, che è
venuto dopo, e che ignorava la gens, lasciò alla fratria certe
funzioni ufficiali di carattere pubblico.
La tribù consta di più fratrie imparentate. In Attica vi erano
quattro tribù di tre fratrie ognuna, ed ogni fratria contava
trenta gentes. Tale divisione simmetrica dei gruppi presuppone un
intervento sempre cosciente e metodico nell'ordine sorto
naturalmente. Come, quando, e perché ciò sia accaduto, non lo dice
la storia greca di cui i Greci stessi hanno conservato il ricordo
solo fino nell'età eroica.
Le differenze dialettali tra i Greci condensati in un territorio
relativamente piccolo, erano meno sviluppate che nelle vaste
foreste americane; tuttavia anche qui troviamo solo le tribù che
parlano lo stesso dialetto principale riunite in un complesso più
grande, e persino la piccola Attica aveva un dialetto suo proprio
che più tardi diventò, come linguaggio generale in prosa, il
dialetto dominante.
Nei poemi omerici troviamo le tribù greche già riunite, per lo
più, in piccoli popoli, all'interno dei quali tuttavia gentes,
fratrie e tribù conservavano ancora completamente la loro
autonomia. Abitavano già in città fortificate con mura e il numero
della popolazione cresceva con l'estendersi degli armenti,
dell'agricoltura e con gli inizi dell'artigianato;
conseguentemente cresceva la disparità di ricchezze, e con essa
l'elemento aristocratico entro l'antica democrazia naturale. I
singoli piccoli popoli erano in guerra incessantemente per il
possesso dei territori migliori, ed anche probabilmente per
ricavarne un bottino. La schiavitù dei prigionieri di guerra era
una istituzione già riconosciuta.
La costituzione di queste tribù e di questi piccoli popoli era
allora la seguente:
1. Autorità permanente era il consiglio (bulè) composto
originariamente, con ogni probabilità, dai capi delle gentes; e
più tardi, quando il loro numero divenne troppo grande, da una
selezione che offriva la possibilità di formare e rafforzare
l'elemento aristocratico: e così infatti Dionisio (12) afferma addirittura
che il consiglio dell'età eroica era composto da nobili (kràtistoi).
Le deliberazioni del consiglio, negli affari importanti, erano
definitive. Così il consiglio di Tebe, in Eschilo, prende la
deliberazione, decisiva in quelle circostanze, di seppellire
onorevolmente Eteocle, ma di gettare il cadavere di Polinice in
pasto ai cani (13).
Con l'istituzione dello Stato questo consiglio si trasformò nel
senato dell'epoca successiva.
2. L'assemblea popolare (agorà). Tra gli Irochesi abbiamo
visto che il popolo, uomini e donne, presenziava all'assemblea
consiliare, interveniva in maniera ordinata nelle discussioni, e
così influiva sulle decisioni dell'assemblea consiliare. Tra i
Greci d'Omero questa «presenza», per usare un'espressione
giudiziaria dell'antico tedesco, s'è già sviluppata fino a
diventare una completa assemblea popolare, cosa che accadeva, del
resto, anche tra i Tedeschi dei primi tempi. Essa era convocata
dal consiglio per decidere su affari importanti; ogni uomo poteva
prendere la parola. Si decideva per alzata di mano (cfr. Eschilo
nelle Supplici (14)) o
per acclamazione. L'assemblea era, in ultima istanza, sovrana,
poiché, osserva Schoemann (Griechische Alterthümer (15)),
«se si tratta di una cosa per la cui esecuzione è necessaria la
cooperazione del popolo, Omero non ci rivela nessun mezzo con cui
il popolo potesse esservi costretto, contro la sua volontà». In
quest'epoca, in cui ogni membro adulto della tribù, di sesso
maschile, era un guerriero, non esisteva ancora un potere pubblico
separato dal popolo e che gli potesse essere contrapposto. La
democrazia naturale era ancora nel suo pieno fiorire, e questo
fatto deve rimanere come punto di partenza per un giudizio sulla
potenza e sulla posizione sia del consiglio che del basilèus.
3. Il capo militare (basilèus). Su questo argomento osserva
Marx:
«I dotti europei, per lo più servi nati dei principi, fanno del
basilèus un monarca nel senso moderno. Contro questa
interpretazione polemizza lo yankee repubblicano, Morgan.
Egli dice con molta ironia, ma con verità, dell'untuoso Gladstone
e della sua Juventus
Mundi (16): il
sig. Gladstone ci presenta i capi greci dell'età eroica come re e
principi, con la aggiunta che essi sarebbero anche dei gentlemen.
Egli stesso però deve fare questa ammissione: nel complesso ci
pare di trovare il costume o legge della primogenitura determinato
sufficientemente, ma non con assoluta precisione.»
Ma sembrerà inoltre allo stesso signor Gladstone che una
primogenitura con clausole che la determinano sufficientemente, ma
non con assoluta precisione, vale proprio come se non ci fosse.
Come stiano le cose circa l'ereditarietà delle cariche di capo
presso gli Irochesi ed altri Indiani, lo abbiamo visto. Tutti gli
uffici erano per lo più elettivi all'interno d'una gens e, per
questo fatto, ereditari in essa. In caso di vacanza, veniva
successivamente preferito il parente gentilizio più prossimo: un
fratello o un figlio di una sorella; a meno che non si
presentassero motivi per scavalcarlo. Il fatto che tra i Greci,
sotto il dominio del diritto patriarcale, l'ufficio di basilèus
passasse di regola al figlio o a uno dei figli, non prova altro se
non che qui per i figli c'era la probabilità della successione per
elezione popolare, ma non dà affatto la prova di una successione
ereditaria in forza di legge, senza elezione popolare (17). Si
tratta qui, tra gli Irochesi e i Greci, del primo germe di
particolari famiglie nobili all'interno delle gentes, e tra i
Greci, inoltre, anche del primo germe d'un futuro comando
ereditario o monarchia. È perciò probabile che, tra i Greci, il
basilèus dovesse essere eletto dal popolo, oppure confermato da un
organo riconosciuto dal popolo, consiglio o agorà, la qual cosa
vigeva per il «re» (rex) dei Romani.
Nell'Iliade il
dominatore di uomini, Agamennone, non appare come re supremo dei
Greci, ma come comandante supremo di un esercito federato davanti
ad una città cinta d'assedio. E Ulisse accenna a questa sua
qualità quando scoppia un dissenso tra i Greci, nel passo famoso:
«non è buona cosa quando sono troppi a comandare: uno solo sia il
comandante (18),
ecc.» (dove inoltre c'è l'aggiunta posteriore del ben noto verso
con lo scettro).
Ulisse non tiene qui una conferenza su una forma di governo, ma
esige obbedienza al comandante supremo in guerra. Per i Greci, che
davanti a Troia appaiono solo come esercito, nell'agorà le cose si
svolgono abbastanza democraticamente. Achille, quando parla di
doni, cioè di distribuzione del bottino, non chiama mai a fare le
parti né Agamennone né un altro re, ma «i figli degli Achei», cioè
il popolo. Gli appellativi: generato da Zeus, nutrito da Zeus, non
provano nulla, poiché ogni gens discende da un dio, e quella del
capo tribù da un dio «più nobile», in questo caso Zeus. Anche
coloro che non sono liberi personalmente, come il guardiano dei
porci Eumeo ed altri, sono «divini» (dioi e thèioi) nell'Odissea,
cioè in un'epoca assai posteriore a quella dell'Iliade. Nella
stessa Odissea il nome di eroe viene anche dato all'araldo Mulio e
al cantore cieco Demodoco. In breve, la parola basilèia che gli
scrittori greci adoperano per la cosiddetta monarchia omerica
(poiché il comando degli eserciti era il suo segno distintivo
principale), insieme al consiglio e all'assemblea popolare
significa solo: democrazia militare. (Marx).
Il basilèus aveva, oltre le competenze militari, anche quelle
sacerdotali e giudiziarie: le ultime non erano meglio determinate,
le prime gli erano conferite nella sua qualità di supremo
rappresentante della tribù o della federazione di tribù. Di
competenze civili o amministrative non si parla mai; sembra
tuttavia che egli, per l'ufficio che ricopriva, fosse membro del
consiglio. Tradurre basilèus con könig è dunque
etimologicamente del tutto esatto, poiché könig (kuning) deriva da
kuni, künne e significa capo d'una gens. Ma il significato odierno
della parola re non corrisponde affatto al greco antico basilèus.
Tucidide chiama espressamente patriké,
cioè derivata da gentes, l'antica basilèia, e dice che essa aveva
attribuzioni ben determinate, e quindi limitate (19). E
Aristotele (20) dice che la basilèia
dell'età eroica era stata un comando su uomini liberi, e che il
basilèus era un capo militare, giudice e sommo sacerdote, e che
quindi non aveva un potere di governo nel senso in cui questa
parola sarà adoperata più tardi (21).
Vediamo dunque nella costituzione greca dell'età eroica l'antica
organizzazione gentilizia ancora in pieno vigore, ma già anche
all'inizio della sua fine: diritto patriarcale con eredità del
patrimonio da parte dei figli, per cui venne favorita
l'accumulazione di ricchezza nella famiglia e la famiglia diventò,
rispetto alla gens, una potenza; ripercussione della differenza di
ricchezza sulla costituzione, mediante la formazione dei primi
germi di una nobiltà ereditaria e di una monarchia; schiavitù,
limitata all'inizio ancora soltanto ai prigionieri di guerra, ma
che apre la via all'assoggettamento di veri e propri compagni di
tribù e persino di gens; l'antica guerra di tribù contro tribù,
guerra che già degenera in sistematica rapina per terra e per
mare, per conquistare bestiame, schiavi, tesori, quale regolare
fonte di guadagno; in breve, la ricchezza lodata e apprezzata come
bene supremo, e abuso degli antichi ordinamenti gentilizi per
giustificare la violenta rapina di ricchezze. Mancava ancora solo
una cosa: un'istituzione che non solo assicurasse le ricchezze
degli individui recentemente acquistate contro le tradizioni
comunistiche dell'ordinamento gentilizio, che non solo consacrasse
la proprietà privata, così poco stimata in passato, e dichiarasse
questa consacrazione lo scopo più elevato di ogni comunità umana,
ma che imprimesse anche il marchio del generale riconoscimento
sociale alle nuove forme d'acquisto di proprietà, sviluppantisi
l'una accanto all'altra, e quindi all'aumento continuamente
accelerato della ricchezza. Mancava una istituzione che rendesse
eterni non solo la nascente divisione della società in classi, ma
anche il diritto della classe dominante allo sfruttamento della
classe non abbiente e il dominio di quella classe su questa.
E questa istituzione venne. Fu inventato lo Stato.
Note:
1) Col nome di Pelasgi i Greci designavano le
popolazioni che avevano trovato già attestate nei territori da
essi occupati al tempo dell'immigrazione.
2) George Grote (1794-1871), banchiere e uomo
politico inglese, oltre che storico; scrisse una History of Greece (1846-56)
ispirata dall'ammirazione per la democrazia ateniese del V secolo
a.C., nella quale egli vedeva un sistema singolarmente favorevole
alla libertà di pensiero. Esercitò meritatamente una larga
influenza sulla storiografia posteriore.
3) L'orazione Contro
Eubulide, paragrafo
28, dell'ateniese Demostene (384-322 a.C.).
4) Storico e filosofo greco del IV secolo a. C.;
Engels si riferisce a un passo dell'opera perduta Vita dell'Ellade (un primo tentativo
di storia universale della civiltà) che ci conservato nella voce Patra del lessico di
Stefano Di Bisanzio (circa VI secolo d.C.).
5) Charikles,
Bilder AltgriechischerSitte. Zur genaueren
Kenntnis des griechischenPrivatlebens (Lande. Quadri di
costume greco antico. Per una più esatta conoscenza della vita
privata greca). 2 voll., Leipzig 1840, vol. II, p. 447,
di Wilhelm Adolph Bicker (1796-1846). storico dell'antichità,
professore all'università di Lipsia.
6) «Rigorosa» è un'aggiunta della quarta
edizione.
7) Barthold Georg Niebuhr (1776-1831), autore di
una Rómische
Geschichte (Storia
romana, 1811-32), instaurò il metodo filologico di critica delle
fonti per la storia di Roma antica. Theodor Mommsen (1817-1903),
autore anche lui di una Rómische
Geschichte (1854-56),
e di molte altre opere sul diritto romano e su argomenti speciali
dette analisi penetranti della vita e della storia politica di
Roma antica.
8) Carnale,
in lingua tedesca.
9) Il geografo e storico greco Ecateo Di Mileto
(VI-V secolo a.C.); egli raccontava che mentre la sua famiglia
vantava un capostipite divino alla sedicesima generazione
precedente, i sacerdoti egiziani di Tebe gli avevano mostrato la
serie di 345 statue di sacerdoti che si erano succeduti nella
carica di padre in figlio e gli avevano detto che gli dei avevano
soggiornato in terra solo prima di queste 345 generazioni. Con ciò
Ecateo criticava le tradizioni greche, così ristrette di fronte a
quelle egiziane, e insegnava che si deve rispetto alle memorie
degli altri popoli.
10) Omero, Illiade,
canto II, versi 362-363.
11) Numa Denys Fustel De Coulanges (1830-1889),
storico e filologo francese, studioso dell'antichità e della
Francia medievale. Nella Citè
antique (1864)
dette una pregevole interpretazione della storia greca, ponendo in
primo piano le sue basi sociali, sebbene indulgesse alle eccessive
semplificazioni e facesse un uso non troppo critico delle
testimonianze antiche.
12) Dionisio Di Alicarnasso (retore e storico
greco del I secolo d.C.), Storia
di Roma primitiva, libro II, cap. 12.
13) Eschilo, I
Sette contro Tebe, versi 1005-1025.
14) Eschilo, Le
Supplici, versi 605 sgg.
15) Cit., vol. 1, p. 27.
16) William Ewart Gladstone, Juventus Mundi. The Gods and Men
of the Heroic Age (La
Giovinezza del mondo. Gli
dèi e gli uomini dell'età eroica), London, 1869. II Gladstone
(1809-1898), è lo statista inglese, prima conservatore e poi capo
del partito liberale, che fu primo ministro negli anni 1868-74,
1880-85, 1886, 1892-94.
17) Per esempio nell'Iliade (canto XX, versi 178-186),
Achille dice che è poco probabile che Enea possa succedere al
basilèus Priamo, poiché questi ha figli; a meno che la carica gli
sia assegnata dai Troiani, cioè dall'assemblea. E nell'Odissea (I. 392-398) Telemaco
si lamenta di avere perso la possibilità di succedere al padre
Ulisse, dato che questi è scomparso. Di regola, dunque, la carica
passa di padre in figlio, ma nessuna legge sancisce
l'ereditarietà.
18) Omero, Iliade, canto II, verso 204, al quale
seguono due versi che dicono: uno solo sia il basilèus, cui Zeus
ha concesso «lo scettro e le leggi, perché li governi». L'ultimo
verso è generalmente considerato una tarda aggiunta.
19) Tucidide, La
Guerra del Peloponneso, libro I, cap. 13.
20) Aristotele, Politica, libro III, cap.
10.
21) Come il basilèus greco così anche il capo
militare azteco è stato presentato come un principe moderno.
Morgan sottopone per la prima volta alla critica storica i
resoconti degli Spagnuoli, che prima fraintendevano ed
esageravano, poi deliberatamente mentivano; e prova che i
Messicani si trovavano nel grado medio della barbarie, più
progrediti, tuttavia, degli Indiani Pueblos del Nuovo Messico e
che la loro costituzione, per quel che i resoconti travisati
permettono di conoscere, corrispondeva a una federazione di tre
tribù che aveva rese tributarie un certo numero di altre tribù e
che era retta da un consiglio federale e da un capo militare
federale, del quale ultimo gli Spagnuoli fecero un «imperatore»
[Nota di Engels].
In nessun luogo meglio che nell'antica Atene possiamo seguire —
almeno nella prima fase — come si sia sviluppato lo Stato, in
parte dalla trasformazione degli organi della costituzione
gentilizia, in parte dall'inserimento di nuovi organi, ed infine
dalla loro completa sostituzione con effettive autorità statali;
mentre al posto dell'effettivo «popolo in armi» che proteggeva se
stesso, con le sue gentes, fratrie e tribù, subentrava un «potere
pubblico» armato, al servizio di queste autorità statali, potere
quindi da adoperarsi anche contro il popolo. I cambiamenti di
forma, nelle loro parti essenziali, sono stati esposti da Morgan;
il contenuto economico da cui sono stati prodotti, dovrò in gran
parte aggiungerlo io.
Nell'età eroica, le quattro tribù degli Ateniesi avevano
ancora stanza nell'Attica in territori separati; sembra che anche
le dodici fratrie che le componevano avessero ancora dimora
separata nelle dodici città di Cecrope (1). La
costituzione era quella dell'età eroica: assemblea popolare,
consiglio popolare, basilèus.
All'epoca fino a cui risale la storia scritta, il suolo era già
diviso e passato in proprietà privata, il che è conforme alla
produzione di merci, già relativamente sviluppata verso la fine
dello stadio superiore della barbarie, ed al corrispondente
commercio delle merci. Accanto al grano venivano prodotti anche
vino ed olio; il commercio marittimo sull'Egeo fu sottratto sempre
più ai Fenici e cadde in massima parte in mani attiche. Con la
compra e la vendita di proprietà fondiaria, con la progressiva
divisione del lavoro tra agricoltura e artigianato, commercio e
navigazione, coloro che facevano parte delle gentes, delle fratrie
e delle tribù dovettero assai presto confondersi tra loro, e il
distretto della fratria e della tribù ebbe degli abitanti che, per
quanto membri del popolo, non appartenevano a questi enti, e
perciò erano stranieri nel loro proprio luogo di residenza.
Infatti ogni fratria e ogni tribù amministra in tempi di calma i
propri affari da sola, senza mandare ad Atene a consultare il
consiglio popolare o il basilèus. Chi, però, abitava nel
territorio della fratria o della tribù senza appartenervi,
naturalmente non poteva partecipare a questa amministrazione.
Il funzionamento regolare degli organi della costituzione
gentilizia giunse così a tale disordine che già nell'età eroica un
rimedio si rese necessario. Fu introdotta la costituzione
attribuita a Teseo (2). Il
mutamento consistette innanzitutto nella istituzione di
un'amministrazione centrale ad Atene; cioè una parte degli affari
amministrati fin qui autonomamente dalle tribù furono dichiarati
pubblici e trasferiti al consiglio comune residente in Atene. In
tal modo gli Ateniesi si spinsero un passo più in là di quanto non
fosse andato qualsiasi popolo autoctono in America: al posto della
semplice federazione di tribù abitanti l'una accanto all'altra
subentrò la loro fusione in un unico popolo. Con ciò ebbe origine
un diritto pubblico generale ateniese che stava al di sopra delle
consuetudini giuridiche delle tribù e delle gentes. Il cittadino
ateniese otteneva, in quanto tale, determinati diritti ed una
nuova protezione giuridica anche nel territorio in cui egli era
straniero alla tribù. Ma con ciò era fatto il primo passo verso la
distruzione della costituzione gentilizia; infatti era questo il
primo passo verso l'ulteriore ammissione di cittadini, che erano
stranieri a tutte le tribù dell'Attica e che in tutto e per tutto
erano e rimanevano al di fuori della costituzione gentilizia
ateniese.
Una seconda istituzione attribuita a Teseo fu la divisione di
tutto il popolo, senza considerazione di gens, fratria o tribù, in
tre classi: eupatridi o nobili, geomori o agricoltori, demiurghi o artigiani, e
l'assegnazione ai nobili del diritto esclusivo di occupare uffici
pubblici. Questa divisione rimase in verità inefficiente, fatta
eccezione per l'occupazione di pubblici uffici da parte dei
nobili, poiché essa per altro non dette origine a nessun'altra
differenza giuridica tra le classi (3). Ma è
importante perché mette in luce i nuovi elementi sociali che si
erano sviluppati in silenzio. Mostra che l'occupazione
consuetudinaria degli uffici gentilizi da parte di certe famiglie
già si era trasformata in un diritto poco contestato di queste
famiglie agli uffici, che queste famiglie, anche senza di ciò,
potenti per la loro ricchezza, cominciarono ad unirsi in una loro
classe privilegiata al di fuori delle loro gentes e che lo Stato,
allora allora nascente, consacrò questa pretesa. Essa mostra
inoltre che la divisione del lavoro tra contadini e artigiani si
era già rafforzata sufficientemente per contestare all'antica
organizzazione per gentes e tribù il primato nell'importanza
sociale. Essa proclama infine l'antagonismo inconciliabile tra
società gentilizia e Stato; il primo tentativo di formare uno
Stato consiste nello smembramento delle gentes, poiché divide i
membri di ciascuna gens in privilegiati e non privilegiati e
questi ultimi a loro volta in due classi di mestiere, ponendoli
così l'un contro l'altro.
L'ulteriore storia politica di Atene fino a Solone é nota solo
imperfettamente. L'ufficio del basilèus cadde in disuso; alla
testa dello Stato vennero posti gli arconti eletti tra la nobiltà.
Il dominio della nobiltà crebbe sempre più fino a che, verso il
600 prima della nostra era, divenne insopportabile. E precisamente
il mezzo principale per sopprimere la libertà comune fu il danaro
e l'usura. Principale residenza della nobiltà erano la città di
Atene e i suoi dintorni, poiché qui il commercio marittimo,
inclusavi se pure occasionalmente la pirateria, arricchiva la
nobiltà, concentrando nelle sue mani la ricchezza monetaria. Di
qui l'economia monetaria, che andava sviluppandosi, penetrò come
un acido corrosivo nel modo di esistenza tradizionale delle
comunità rurali fondato su un'economia naturale. La costituzione
gentilizia é assolutamente incompatibile con un'economia
monetaria. La rovina dei piccoli contadini dell'Attica coincise
col rilassamento degli antichi legami gentilizi che li abbracciava
e proteggeva. L'obbligazione e l'ipoteca sui beni (poiché gli
Ateniesi avevano già inventato l'ipoteca) non ebbero riguardi né
per la gens né per la fratria. E l'antica costituzione gentilizia
non conosceva né danaro, né anticipi, né debiti monetari. Perciò
la plutocrazia nobiliare, che si diffondeva sempre più
rigogliosamente, costituì anche un nuovo diritto consuetudinario
per garantire il creditore nei confronti del debitore e per la
consacrazione dello sfruttamento del piccolo contadino da parte
del possessore di danaro. Tutte le campagne dell'Attica erano
piene di cippi ipotecari, su cui era specificato che il fondo che
li portava era ipotecato in favore del tale o del tal altro per
tanto o tant'altro danaro. I campi che non portavano questa
indicazione erano in gran parte già stati venduti e passati a far
parte della proprietà del nobile usuraio perché l'ipoteca o gli
interessi erano scaduti; il contadino poteva essere contento se
gli era permesso di restarvi come fittavolo e di vivere con un
sesto del frutto del suo lavoro, mentre doveva pagarne come fitto
i cinque sesti al nuovo signore. Ma c'è di più. Se il ricavato
della vendita di un fondo non bastava a coprire il debito, o se
esso era stato contratto senza garanzia ipotecaria, il debitore
era costretto a vendere all'estero i suoi figli come schiavi per
soddisfare il creditore. Vendita dei figli da parte del padre:
ecco il primo frutto del diritto patriarcale e della monogamia! E
se non era ancora soddisfatto, il vampiro poteva vendere come
schiavo lo stesso debitore. Questa fu la piacevole aurora della
civiltà presso il popolo ateniese.
Prima, quando le condizioni di vita del popolo ancora
corrispondevano alla costituzione gentilizia, un tale rivolgimento
sarebbe stato impossibile; e qui era avvenuto e non si sapeva
come. Ma torniamo un po' indietro, ai nostri Irochesi. Tra essi
era impensabile uno stato di cose come quello che ora si era
imposto agli Ateniesi loro malgrado, per dir così, e sicuramente
contro la loro volontà. Là il modo di produrre il necessario per
la vita, modo che di anno in anno rimaneva inalterato, non poteva
mai dare origine a conflitti, quali quelli imposti dal di fuori,
né ad alcun antagonismo tra ricchi e poveri, sfruttatori e
sfruttati. Gli Irochesi erano ancora molto lontani dal dominare la
natura, ma entro i limiti naturali che vigevano per essi,
dominavano la propria produzione. A prescindere dai cattivi
raccolti dei loro orticelli, dall'esaurimento della riserva di
pesce nei loro laghi e noi loro fiumi, e della selvaggina nelle
loro foreste, essi sapevano esattamente che cosa potevano ottenere
dal loro modo di procacciarsi il sostentamento. Quel che doveva
risultare era il necessario per la vita, più scarso o più
abbondante che fosse; ma quel che non poteva mai risultare erano
rivolgimenti sociali non voluti, lacerazione dei legami gentilizi,
divisione dei membri della gens e della tribù in classi
contrapposte e in lotta tra loro.
La produzione si muoveva nei limiti più ristretti, ma i produttori
dominavano il loro prodotto. Questo era l'enorme vantaggio della
produzione barbarica, che andò perduto con l'avvento della
civiltà. Riconquistarlo, ma in base al possente dominio, ora
raggiunto, della natura da parte dell'uomo, e in base alla libera
associazione oggi possibile, sarà il compito delle prossime
generazioni.
Altrimenti accadde presso i Greci. Il possesso privato di armenti
e di oggetti di lusso che andava affermandosi portò allo scambio
tra individui e alla trasformazione dei prodotti in merci. Ed é
qui il germe di tutto il rivolgimento che ne seguì. Non appena i
produttori non consumarono più direttamente il loro prodotto, ma
lo passarono in altre mani nello scambio, perdettero il dominio su
di esso. Non sapevano più che cosa ne sarebbe avvenuto; era data
la possibilità che il prodotto, un giorno, venisse adoperato
contro il produttore per sfruttarlo ed opprimerlo. Perciò nessuna
società può mantenere durevolmente il dominio sulla propria
produzione e il controllo sugli effetti sociali del suo processo
di produzione a meno che non abolisca lo scambio tra individui.
Gli Ateniesi dovettero sperimentare quanto rapidamente, dopo il
sorgere dello scambio tra individui e con la trasformazione dei
prodotti in merci, il prodotto faccia sentire il suo dominio sul
produttore. Con la produzione delle merci venne la coltivazione
della terra da parte di individui per proprio conto, e
conseguentemente la proprietà fondiaria individuale. Più tardi
venne il danaro, la merce universale, con la quale tutte le altre
erano scambiabili. Ma, inventando il danaro, gli uomini non
pensavano di creare, con ciò, una nuova potenza sociale, la sola
potenza universale davanti alla quale tutta la società doveva
inchinarsi. E questa nuova potenza, improvvisamente sorta senza
che i suoi creatori lo sapessero o volessero, fu quella che con
tutta la brutalità della sua giovane età fece sentire agli
Ateniesi il suo dominio.
Che cosa c'era da fare? L'antica costituzione gentilizia non
soltanto si era mostrata impotente contro la marcia vittoriosa del
danaro, ma era anche assolutamente incapace di trovare, entro i
suoi limiti, anche solo un po' di spazio per qualcosa come danaro,
creditori e debitori, riscossione coattiva dei debiti. Ma la nuova
potenza sociale esisteva ormai, e pii desideri, nostalgia di
ritorni al buon tempo antico, non scacciavano dal mondo danaro e
usura. E inoltre, furono aperte nella costituzione gentilizia, in
serie, nuove brecce secondarie. La confusione fra i membri della
gens e quelli della fratria era divenuta, di generazione in
generazione, più accentuata su tutto il territorio dell'Attica e
in particolare nella stessa Atene, nonostante che, anche allora,
un Ateniese potesse vendere dei terreni al di fuori della sua
gens, ma non già la sua abitazione. La divisione del lavoro tra i
diversi rami di produzione, agricoltura, artigianato, innumerevoli
sottospecie dell'artigianato, commercio, navigazione, ecc., si era
sviluppata con i progressi dell'industria e dello scambio in
maniera sempre più completa.
La popolazione si divideva ora secondo le sue occupazioni in
gruppi abbastanza saldi, ciascuno dei quali aveva una serie di
nuovi interessi comuni per i quali non vi era posto alcuno nella
gens e nella fratria, che rendevano necessari nuovi uffici per la
loro cura. Il numero degli schiavi era notevolmente aumentato e
doveva già allora aver superato di molto quello degli Ateniesi
liberi (4).
La costituzione gentilizia non conosceva originariamente la
schiavitù, e quindi neanche alcun mezzo per tenere a freno questa
massa non libera. E, alla fine, il commercio aveva portato ad
Atene una moltitudine di stranieri che vi si stabilirono per la
maggiore facilità di guadagnar danaro, pur essendo privi di
diritti e di difesa secondo l'antica costituzione, e, nonostante
la tradizionale tolleranza, rimasero tra il popolo un elemento
estraneo e perturbatore.
In breve, si era giunti alla fine della costituzione gentilizia.
La società si sviluppava sempre più di giorno in giorno, al di
fuori di essa; ed essa non poteva né arrestare né togliere nemmeno
i peggiori mali che erano nati sotto i suoi occhi. Ma lo Stato si
era, intanto, sviluppato in silenzio. I nuovi gruppi formatisi con
la divisione del lavoro, dapprima tra città e campagna, poi tra i
diversi rami di lavoro cittadino, avevano creato nuovi organi per
la tutela dei loro interessi. Erano stati istituiti uffici di ogni
specie. E allora il giovane Stato ebbe bisogno, prima di tutto, di
una sua propria potenza la quale, presso gli Ateniesi, popolo di
navigatori, altro non poteva essere che, in primo luogo, una
potenza navale, per piccole guerre singole e per proteggere le
navi mercantili.
In un'epoca sconosciuta, anteriore a Solone, furono fondate le naucrarie,
piccoli distretti territoriali, dodici in ogni tribù; ogni
naucraria doveva fornire, armare ed equipaggiare una nave da
guerra, e fornire inoltre due cavalieri. Questa istituzione
intaccò doppiamente la costituzione gentilizia: primo, perché
creava un potere pubblico che non coincideva più senz'altro con la
totalità del popolo armato, e in secondo luogo perché essa, per la
prima volta, ripartiva, per pubblici fini, il popolo non secondo i
gruppi di parentela, ma secondo il luogo di comune
residenza. Si vedrà che cosa doveva significare questo
fatto.
Se la costituzione gentilizia non poteva portare alcun aiuto al
popolo sfruttato, rimaneva solo lo Stato, che stava sorgendo. E lo
Stato portò un tale aiuto con la costituzione di Solone (5),
rafforzandosi al tempo stesso di nuovo a spese dell'antica
costituzione. (La maniera in cui si realizzò la sua riforma
nell'anno 594 prima dell'era volgare non ci interessa in questa
sede). Solone apri la serie delle cosiddette rivoluzioni
politiche, e precisamente con un attacco alla proprietà. Tutte le
rivoluzioni fino ad oggi sono state rivoluzioni per la difesa di
un genere di proprietà contro un altro genere di proprietà. Esse
non possono proteggere l'una senza violare l'altra. Nella Grande
Rivoluzione francese, la proprietà feudale fu sacrificata per
salvare la proprietà borghese; in quella di Solone la proprietà
dei creditori dovette soffrire a vantaggio di quella dei debitori.
I debiti furono semplicemente invalidati. I particolari non ci
sono noti con precisione, ma Solone si vanta, nelle sue poesie, di
aver allontanato dai fondi indebitati i cippi ipotecari e di aver
fatto rimpatriare coloro che per debiti erano stati venduti in
terra straniera o vi erano fuggiti (6). Ciò
fu possibile solo mediante un'aperta violazione della proprietà. E
in effetti, dalla prima fino all'ultima, le cosiddette rivoluzioni
politiche sono state tutte compiute a difesa della proprietà di un determinato genere e condotte a
termine mediante confisca, detta anche furto, della proprietà di un altro genere. Tant'è vero
che da due millenni e mezzo la proprietà privata ha potuto essere
mantenuta solo mediante violazione della proprietà.
Ora però ciò che importava era impedire che i liberi Ateniesi
ricadessero in una tale schiavitù. Ciò si ottenne inizialmente con
misure generali, per esempio col proibire i contratti di debito in
cui il pegno fosse costituito dalla persona del debitore. Fu
stabilita inoltre una misura limite per la proprietà fondiaria che
poteva essere posseduta da un individuo, per frenare almeno in
qualche modo la fame arrabbiata, che aveva la nobiltà, di terra
dei contadini. In seguito però ci furono delle modifiche alla
costituzione; le più importanti, per noi, sono le seguenti.
Il consiglio fu portato a 400 membri, 100 per ogni tribù; qui
dunque la tribù rimase ancora la base. Ma fu questo anche l'unico
aspetto sotto il quale l'antica costituzione fu introdotta nel
nuovo organismo statale. Infatti, per il resto, Solone divise i
cittadini in quattro classi, secondo il loro possesso fondiario e
il relativo reddito; 500, 300 e 150 medimni di grano (un medimno è
uguale a 41 litri circa (7)) per
le prime tre classi; chi aveva possedimenti fondiari minori o non
ne aveva affatto rientrava nella quarta classe.
Tutti gli uffici potevano essere ricoperti solo dalle tre classi
superiori, e i più alti solo dalla prima classe.
La quarta classe aveva solo il diritto di prendere la parola e di
votare nell'assemblea popolare, ma in questa assemblea venivano
scelti tutti i funzionari; in essa costoro dovevano rendere conto
del loro operato, in essa venivano fatte tutte le leggi ed in essa
la quarta classe costituiva la maggioranza.
I privilegi aristocratici furono parzialmente rinnovati sotto
forma di privilegi della ricchezza, ma il popolo conservò il
potere decisivo. Inoltre, le quattro classi formavano la base di
una nuova organizzazione dell'esercito. Le due prime classi
fornivano la cavalleria, la terza doveva servire come fanteria
pesante, la quarta come fanteria leggera non munita di corazza, o
come fanteria di marina, e verosimilmente poi fu anche pagata.
Qui viene dunque introdotto nella costituzione un elemento del
tutto nuovo: la proprietà privata. I diritti e i doveri dei
cittadini venivano commisurati secondo la grandezza della loro
proprietà fondiaria, e quanto più prestigio guadagnavano le classi
possidenti, tanto più gli antichi organismi fondati sulla
consanguineità venivano soppiantati; la costituzione gentilizia
aveva subito una nuova sconfitta.
La commisurazione dei diritti politici in base al patrimonio non
era tuttavia una istituzione indispensabile all'esistenza dello
Stato; per quanto abbia avuto una parte importante nella storia
costituzionale degli Stati, moltissimi di essi, e specialmente
quelli meglio sviluppati, non ne hanno avuto bisogno. Anche in
Atene ebbe solo una parte transitoria; dal tempo di Aristide (8) in poi tutti gli
uffici erano aperti ad ogni cittadino.
Durante gli ottant'anni che seguirono, a poco a poco, la società
ateniese prese quella direzione nella quale continuò a svilupparsi
nei secoli successivi. La rigogliosa usura terriera dell'età
presolonica era stata stroncata e così pure la smisurata
concentrazione della proprietà fondiaria. Il commercio,
l'artigianato e l'artigianato artistico, esercitati sempre su più
larga scala mediante il lavoro degli schiavi, diventarono i rami
di produzione dominanti. Si diveniva più illuminati. Invece di
sfruttare i propri concittadini nella vecchia brutale maniera, si
sfruttarono prevalentemente gli schiavi e la clientela non
ateniese. Il possesso mobiliare, la ricchezza in danaro, in
schiavi e navi, crebbe sempre più, ma non fu più ora semplice
mezzo per l'acquisto di possesso fondiario, come nei primi tempi
dal limitato orizzonte, bensì divenne fine a se stesso.
Conseguentemente, da una parte, con la nuova classe di ricchi
industriali e mercanti, si sviluppò una concorrenza vittoriosa
all'antica potenza nobiliare, ma dall'altra fu tolto ai resti
dell'antica costituzione gentilizia anche quell'ultimo terreno
d'azione che le rimaneva.
La gentes, le fratrie e le tribù i cui membri ora erano dispersi
per tutta l'Attica e completamente commisti gli uni agli altri,
erano divenute perciò del tutto inadatte a costituire organismi
politici. Una moltitudine di cittadini ateniesi non apparteneva a
nessuna gens; erano immigrati che erano stati, è vero, ammessi al
godimento del diritto di cittadinanza, ma non erano però stati
ammessi in nessuna delle antiche unioni gentilizie. Accanto a
costoro esisteva un numero sempre crescente di immigrati stranieri
che avevano solo diritto alla protezione.
Intanto, le lotte di parte avevano il loro corso: la nobiltà cercò
di riconquistare i suoi antichi privilegi e riprese il sopravvento
per breve tempo, fino alla rivoluzione di Clistene (9) (509 prima della
nostra era), che la abbatté in modo definitivo; ma con essa
abbatté anche l'ultimo residuo della costituzione gentilizia.
Clistene, nella sua nuova costituzione, ignorò le quattro antiche
tribù fondate su gentes e fratrie. Al loro posto subentrò una
organizzazione del tutto nuova semplicemente in base alla
divisione, già tentata nelle naucrarie, dei cittadini secondo il
luogo di residenza. Non decise più l'appartenenza ad una unione
gentilizia, ma solo il luogo di residenza; non il popolo venne
diviso, ma il territorio, e gli abitanti divennero politicamente
semplice appendice del territorio.
Tutta l'Attica fu divisa in cento distretti comunali, demi, ognuno
dei quali si amministrava autonomamente. I cittadini residenti in
ogni demos (demoti) eleggevano
il loro capo (demarco), il tesoriere, nonché trenta giudici con
giurisdizione su controversie minori. Essi avevano anche un loro
tempio e un dio protettore o eroe di cui eleggevano i sacerdoti.
Il potere supremo del demos risiedeva nell'assemblea dei demoti.
Come giustamente nota Morgan, è il modello delle comunità
cittadine americane autogovernantisi. Il nascente Stato ateniese
incomincia con quella stessa unità con la quale lo Stato moderno,
nella sua forma più alta, finisce.
Dieci di queste unità, demi, formavano una tribù che però, a
differenza dell'antica tribù gentilizia, venne ora chiamata tribù
locale. La tribù locale non era solo un ente politico che si
amministrava autonomamente, ma anche un ente militare; essa
eleggeva il filarco, o capo tribù, che comandava la fanteria, e lo
stratega che comandava il complesso delle truppe reclutate nel
territorio tribale. Essa forniva inoltre cinque navi da guerra con
equipaggio e comandante, e assumeva come suo sacro protettore un
eroe attico dal quale prendeva il nome. Infine eleggeva cinquanta
consiglieri nel consiglio di Atene.
Lo Stato ateniese costituì il punto conclusivo. Esso era retto da
un consiglio composto dai cinquecento eletti delle dieci tribù, e
in ultima istanza dall'assemblea popolare alla quale ogni
cittadino ateniese poteva accedere con diritto di voto; inoltre
arconti ed altri funzionari attendevano ai diversi rami
dell'amministrazione e alle diverse giurisdizioni. In Atene non
esisteva un supremo depositario del potere esecutivo.
Con questa nuova costituzione e con l'ammissione di un grandissimo
numero di persone protette, in parte immigrati, in parte schiavi
affrancati, gli organi della costituzione gentilizia venivano
estromessi dai pubblici affari e naufragavano in associazioni
private ed in sodalizi religiosi. Ma l'influenza morale, il modo
di pensare tradizionale dell'antica età gentilizia si tramandarono
ancora a lungo, e solo gradualmente si estinsero. Cosa che si
manifestò in un'ulteriore istituzione statale.
Abbiamo visto che uno dei caratteri distintivi essenziali dello
Stato consiste in un potere pubblico distinto dalla massa del
popolo. Atene aveva allora solo un esercito popolare ed una flotta
fornita direttamente dal popolo. Esercito e flotta la proteggevano
verso l'esterno e tenevano a freno gli schiavi che, già in quel
tempo, formavano la grande maggioranza della popolazione. Di
fronte ai cittadini il potere pubblico dapprima esistette soltanto
come polizia, la quale è antica quanto lo Stato; perciò gli
ingenui Francesi del XVIII secolo non parlavano di popoli civili,
ma di popoli con polizia (nations policées). Gli Ateniesi
dunque, contemporaneamente al loro Stato, istituirono anche una
polizia, una vera gendarmeria di arcieri appiedati e a cavallo,
cacciatori (Landjäder), come li chiamano nella Germania
meridionale e nella Svizzera. Questa gendarmeria però era formata
di schiavi.
Così degradante appariva l'ufficio di sbirro al libero Ateniese
che egli più volentieri si lasciava arrestare da uno schiavo
armato, anziché prestarsi lui ad una tale azione ignominiosa.
Questo era ancora l'antico spirito gentilizio. Lo Stato non poteva
esistere senza polizia, ma era ancora giovane e gli mancava
l'autorità morale sufficiente per rendere degno di rispetto un
mestiere che appariva necessariamente infame agli antichi membri
della gens.
Quanto lo Stato, ormai compiuto nei suoi tratti principali, fosse
adeguato alla nuova situazione sociale degli Ateniesi, appare
chiaro dal rapido fiorire della ricchezza, del commercio e
dell'industria. L'antagonismo di classe, su cui posavano le
istituzioni sociali e politiche, non era più quello fra nobili e
popolo comune, ma quello fra schiavi e liberi, fra protetti e
cittadini. Al tempo del suo massimo fiorire, tutta la libera
cittadinanza ateniese, donne e bambini compresi, era composta di
circa 90.000 persone accanto alle quali vi erano 365.000 schiavi
di ambo i sessi e 45.000 protetti: stranieri e schiavi liberati.
Per ogni cittadino adulto vi erano quindi per lo meno diciotto
schiavi e più di due protetti. Il gran numero di schiavi dipendeva
dal fatto che molti di loro lavoravano insieme nelle manifatture,
in grandi locali, sotto sorveglianza. Con lo sviluppo del
commercio e dell'industria avvennero però l'accumulazione e la
concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi,
l'impoverimento della massa dei cittadini liberi, ai quali rimase
la scelta: o far concorrenza al lavoro degli schiavi col proprio
lavoro artigiano, il che essi consideravano cosa oltraggiosa e
volgare e che prometteva anche poco successo, o diventare degli
straccioni. Essi fecero quest'ultima cosa per necessità di
circostanze e, poiché formavano la massa, portarono alla rovina
tutto lo Stato ateniese. Non la democrazia ha rovinato Atene, come
asseriscono i maestri di scuola europei, adulatori dei principi,
ma la schiavitù che mise al bando il lavoro del libero cittadino.
La genesi dello Stato ateniese è un modello particolarmente tipico
della formazione dello Stato in generale, perché essa da una parte
si compie in modo assolutamente puro, senza ingerenze di coazione
esterna o interna (l'usurpazione di Pisistrato non lasciò dietro
di sé alcuna traccia della sua breve durata), e dall'altra fa
sorgere immediatamente dalla società gentilizia uno Stato che ha
una forma molto alta di sviluppo: la repubblica democratica; e
infine perché di essa conosciamo a sufficienza tutte le
particolarità essenziali.
Note:
1) Primo. leggendario re di Atene.
2) Teseo era l'eroe nazionale ateniese.
L'unificazione statale delle varie comunità dell'Attica, a lui
attribuita dalla leggenda, avvenne nell'VIII secolo a.C.
3) Nella prima edizione: «poiché le altre due
classi non ottennero diritti particolari».
4) Le cifre sulla popolazione ateniese e sulla
percentuale degli schiavi sono tuttora molto discusse. Ma il
numero degli schiavi di Atene poté arrivare solo più tardi, verso
la meta del V secolo a.C., ad uguagliare all'incirca quello dei
cittadini liberi, restando sempre molto al di sotto della cifra di
365.000, indicata da Engels alla fine di questo capitolo. Anche le
cifre fornite da Engels alla nota 7 nel cap. IX sono molto
superiori al verosimile.
5) Solone (circa 640-circa 559 a.C.) nel 594/3
ebbe pieni poteri per intervenire come «arbitro» e mediatore nei
gravi conflitti sociali di Atene; oltre a liberare i contadini
dalla servitù, fissando anche un limite per la proprietà
fondiaria, e a riformare gli organismi politici conformandoli alle
classi economiche esistenti e limitando decisamente i privilegi
aristocratici, egli introdusse altre disposizioni intese a far
prevalere gli istituti statali su quelli gentilizi e a
incoraggiare l'artigianato e il commercio: libertà di testare per
chi non aveva figli, estensione a tutti del diritto di presentare
accusa scritta, nel pubblico interesse, contro il colpevole di un
delitto a danno di privati, obbligo di insegnare un mestiere ai
figli, facilitazioni per gli artigiani immigrati, riforma dei
pesi. delle misure e delle monete.
6) Dice SOLONE (frammento 24 D.): «Ho strappato
dalla terra i cippi ipotecari, già conficcati in gran numero:
prima essa era schiava, ora è libera. Ho ricondotto ad Atene,
nella patria divina, molti che erano stati venduti, o
ingiustamente o secondo la legge, e molti che erano stati spinti a
fuggire dall'oppressione dei debiti e, vagando per molte terre,
non parlavano più la lingua attica».
7) Esattamente un medimno attico è calcolato
uguale a litri 51,84.
8) Aristide (circa 520-circa 468 a.C.), il
celebre uomo di Stato e generale ateniese. È attribuito a lui il
decreto che ammetteva alla magistratura anche i thetes, la quarta
delle classi soloniane.
9) Clistene fu eletto arconte nel 508/07 a.C.,
dopo il periodo della tirannide di Pisistrato (560-527) e di Ippia
(527-510) e dopo una lunga lotta con l'aristocrazia. La democrazia
da lui istituita è stata definita il primo esempio storico di
rappresentanza proporzionale alla popolazione.
Dalla leggenda della fondazione di Roma risulta che la prima
colonia fu formata da un certo numero di gentes latine (cento,
secondo la leggenda) riunite in una tribù, alle quali si unirono
ben presto una tribù sabina, composta, probabilmente, anch'essa di
cento gentes, e infine una terza tribù formata da elementi
diversi, di cento gentes anch'essa, a quanto pare. Tutto il
racconto mostra a un primo sguardo che qui vi era ormai ben poco
di originario oltre alla gens, e questa stessa gens in qualche
caso non era che una propaggine di una gens madre che continuava
ad esistere nella vecchia patria. Le tribù portavano ben visibile
il marchio di una composizione artificiale, per quanto per lo più
fossero formate da elementi affini e secondo il modello
dell'antica tribù, che era naturale e non artificiale. Con ciò non
rimane escluso che il nucleo di ciascuna delle tre tribù possa
essere stato una antica tribù genuina. L'elemento intermedio, la
fratria, era composta di dieci gentes e si chiamava curia; vi
erano dunque trenta curie.
Che la gens romana fosse la stessa istituzione di quella greca è
riconosciuto; se la gens greca è una forma più progredita di
quella stessa unità sociale della quale i pellirosse americani ci
forniscono la forma originaria, la stessa cosa vale senz'altro
anche per quella romana. Qui possiamo perciò essere più brevi.
La gens romana aveva, per lo meno nei più antichi tempi della
città, la seguente costituzione:
1. Reciproco diritto d'eredità da parte dei membri della stessa
gens; il patrimonio rimaneva nella gens. Poiché nella gens romana,
come in quella greca, dominava già il diritto patriarcale, i
discendenti in linea femminile erano esclusi. Secondo la Legge
delle dodici tavole, il più antico diritto romano scritto che ci
sia noto, ereditavano prima i figli in qualità di eredi naturali,
in mancanza di questi gli agnati (parenti in linea maschile) ed in
loro mancanza i membri della stessa gens. In tutti i casi, il
patrimonio rimaneva nella gens. Noi vediamo qui la graduale
intrusione di nuove determinazioni giuridiche nella consuetudine
gentilizia, causate dall'accresciuta ricchezza e dalla monogamia:
il diritto all'eredità, originariamente eguale per tutti i membri
di una gens, viene dapprima e ben presto, come abbiamo detto
sopra, limitato dalla prassi agli agnati, ai figli e ai loro
discendenti in linea maschile. Nelle dodici tavole, come è chiaro,
l'ordine appare capovolto.
2. Possesso di un luogo di sepoltura comune. La gens patrizia
Claudia, quando da Regillo emigrò a Roma, ricevette un pezzo di
terra e inoltre un luogo di sepoltura comune nella città (1).
Ancora sotto Augusto, la testa di Varo caduto nella selva di
Teutoburgo, fu portata a Roma e riposta nel gentilitius
tumulus (2); la
gens (Quinctilia) aveva dunque ancora un tumulo
particolare.
3. Comuni solennità religiose. Queste, i sacra gentilitia,
sono note.
4. Obbligo di non sposarsi nella gens. Quest'obbligo sembra che a
Roma non sia mai diventato legge scritta; ma il costume rimase. In
nessuna delle numerosissime coppie romane il cui nome ci è stato
tramandato, vi è un unico ed eguale nome gentilizio per marito e
moglie. Il diritto successorio conferma pure questa regola. La
donna perde con le nozze i suoi diritti agnatizi, esce dalla sua
gens, né lei né i suoi figli possono ereditare dal padre di lei o
dai fratelli di costui, poiché altrimenti l'eredità andrebbe
perduta per la gens paterna. Ciò ha senso solo col presupposto che
la donna non possa sposare un membro della sua stessa gens.
5. Un possesso fondiario comune. Questo è sempre esistito nell'età
delle origini, non appena la terra tribale cominciò a essere
spartita. Fra le tribù latine troviamo che il suolo in parte è in
possesso della tribù, in parte della gens, in parte delle
amministrazioni domestiche che difficilmente in quel tempo erano
famiglie singole. Romolo, probabilmente, avrà fatto le prime
spartizioni individuali di terra, assegnandone circa un ettaro
(due jugeri) per ciascuno. Tuttavia, anche più tardi, troviamo
possesso fondiario nelle mani delle gentes, per non parlare
dell'agro pubblico, intorno a cui gira tutta la storia interna
della repubblica.
6. Dovere reciproco dei membri della gens di difendersi e
soccorrersi. Soltanto frammenti di questo dovere rimangono nella
storia scritta; lo Stato romano si presentò subito sin dal
principio in condizioni di tale strapotenza, che il diritto alla
difesa contro le ingiurie passò nelle sue mani. Quando Appio
Claudio (3) fu arrestato, tutta
la sua gens prese il lutto, anche quelli che erano suoi nemici
personali. Al tempo della seconda guerra punica le gentes si
unirono per riscattare i membri di ciascuna di esse che erano
stati fatti prigionieri di guerra; ma il senato lo proibì.
7. Diritto di portare il nome gentilizio (4).
Rimase fino all'età imperiale; si permetteva ai liberti di
assumere il nome gentilizio dei loro padroni d'un tempo, senza
però i diritti gentilizi.
8. Diritto di adottare stranieri nella gens. Esso si estrinsecava
mediante l'adozione in una famiglia (come tra gli Indiani).
L'adozione portava con sé come conseguenza l'ammissione nella
gens.
9. Il diritto di eleggere e deporre il capo non viene menzionato
in nessun luogo, ma poiché nei primi tempi di Roma tutti gli
uffici venivano occupati per elezione o per nomina, dal re
elettivo in giù, e poiché anche i sacerdoti delle curie venivano
eletti da queste curie stesse, possiamo ammettere la stessa cosa
per i capi (principes) delle gentes; per quanto potesse
essere diventata ormai regola nella gens lo sceglierli da una e
medesima famiglia.
Queste erano le competenze di una gens romana. Ad eccezione del
passaggio già compiuto al diritto patriarcale, esse sono il
riflesso fedele dei diritti e doveri di una gens irochese; anche
in questo caso «fa capolino in maniera inequivocabile l'Irochese» (5).
Sulla confusione che domina oggi, anche tra i nostri storici più
qualificati, circa l'ordinamento della gens romana, citiamo un
solo esempio. Nella dissertazione del Mommsen sui nomi propri
romani dell'età repubblicana e augustea (Römische Forschungen, Ricerche romane,
Berlino, 1864, I vol.) si legge:
«Oltre alla totalità dei membri di sesso maschile della stirpe,
eccezione fatta naturalmente per gli schiavi, ma con l'inclusione
degli adottati e dei clienti, il nome gentilizio spetta anche alle
donne... La tribù (così Mommsen traduce qui gens) è... una
comunità, risultante da discendenza comune, sia essa reale o
supposta, o anche fittizia, unita dalla comunanza di feste, di
sepoltura e di eredità, e nella quale potevano e dovevano essere
annoverati tutti gli individui personalmente liberi, quindi anche
le donne. Ma la difficoltà sorgeva nel determinare il nome
gentilizio delle donne sposate. Anche questa difficoltà però non
esistette finché la donna poté sposarsi soltanto con un membro
della sua gens: ed è provato che, per lungo tempo, le donne hanno
trovato maggiore difficoltà a contrarre nozze all'esterno della
loro gens anziché all'interno di essa, come poi, quel diritto, la gentis enuptio,
ancora nel sesto secolo, veniva accordato, a titolo di ricompensa,
come privilegio personale... ma, dove siffatti matrimoni esogamici
avevano luogo, la donna, nei tempi più antichi, doveva
conseguentemente passare alla tribù del marito. Non vi è nulla di
più certo del fatto che la donna, con l'antico matrimonio
religioso, entrava a far parte completamente della comunità legale
e sacrale del marito e usciva dalla propria. Chi non sa che la
donna sposata perde il diritto di successione attivo e passivo nei
confronti dei membri della sua gens, ma che per contro entra in
legame successorio col marito, coi figli ed in generale coi membri
della loro gens? E se essa è adottata dal proprio marito ed entra
nella famiglia di costui, come può restar estranea alla gens del
marito? (pp. 911).»
Il Mommsen afferma dunque che le donne romane appartenenti ad una
gens avrebbero originariamente potuto sposarsi solo all'interno
della loro gens; sicché la gens romana sarebbe stata endogama, non
esogama. Questo punto di vista, che contraddice ogni esperienza
fatta su altri popoli, si fonda soprattutto, per non dire
unicamente, su un solo passo assai controverso di Livio (libro
XXXIX, cap. 19), secondo il quale il senato, nell'anno 568 dalla
fondazione di Roma, 186 anni prima dell'era volgare, stabilì «uti
Feceniae Hispalae datio, deminutio, gentis enuptio, tutoris optio
item esset quasi ei vir testamento dedisset; utique ei ingenuo
nubere liceret, neu quid ei qui eam duxisset, ob id fraudi
ignominiaeve esset». Fecenia Hispala cioè, poteva avere il diritto
di disporre del suo patrimonio, di intaccarlo, di sposarsi al di
fuori della gens, di scegliersi un tutore, proprio come se il
(defunto) marito le avesse lasciato questo diritto per testamento;
essa poteva sposare un uomo libero, e per colui che l'avesse presa
in moglie, il matrimonio non sarebbe stato considerato né
un'azione riprovevole né un'infamia.
Senza dubbio a Fecenia, una liberta, viene attribuito il diritto
di sposarsi all'esterno della gens. E così pure, senza dubbio,
secondo quanto abbiamo detto, il marito aveva il diritto di
trasmettere alla moglie per testamento il diritto di sposarsi,
dopo la sua morte, all'esterno della gens. Ma all'esterno di quale
gens?
Se la donna doveva contrarre matrimonio all'interno della sua
gens, come suppone il Mommsen, essa rimaneva in questa gens anche
dopo le nozze. In primo luogo, però, è da provare proprio questa
asserita endogamia della gens. In secondo luogo, se la donna
doveva sposarsi nella gens, lo stesso doveva fare anche l'uomo, il
quale certamente non avrebbe altrimenti mai trovato moglie. E
allora veniamo a questa conclusione: che l'uomo poteva trasmettere
per testamento alla moglie un diritto che egli stesso non
possedeva per sé; cadiamo in un assurdo giuridico. Mommsen se ne
accorge, e suppone perciò che «per il matrimonio esterno alla
schiatta era necessario, secondo il diritto, non solo il consenso
di chi aveva l'autorità di darlo, ma anche di tutti insieme i
membri della gens». Questa è in primo luogo una supposizione molto
ardita, e in secondo luogo è in contraddizione col chiaro
significato letterale del passo. Invece del marito,
questo diritto glielo dà il senato, e glielo dà espressamente, né
più né meno come avrebbe potuto darglielo suo marito, ma quello
che il senato le offre è un diritto assoluto che non dipende da
nessun'altra limitazione; cosicché se lei ne fa uso, neanche il
suo nuovo marito deve patirne danno; il senato conferisce persino
ai consoli e ai pretori, in carica e futuri, il mandato di
prendersi cura che la donna non ne venga in nessun modo
danneggiata. L'ipotesi di Mommsen appare perciò del tutto
inammissibile.
Oppure: la donna sposava un uomo di un'altra gens, rimanendo pero,
essa stessa, nella gens in cui era nata. Allora, secondo il passo
di cui sopra, il marito avrebbe avuto il diritto di permetterle di
contrarre nozze fuori della gens in cui era nata; cioè, egli
avrebbe avuto il diritto di disporre degli affari di una gens a
cui non apparteneva. La cosa è talmente assurda che non è il caso
di perdervi altre parole.
Rimane perciò soltanto l'ipotesi che la donna abbia sposato in
prime nozze un uomo di un'altra gens e sia entrata, con le nozze,
senz'altro nella gens del marito, come anche Mommsen
effettivamente ammette per tali casi. Allora l'intero nesso si
spiega chiaramente. La donna, tolta dal matrimonio alla sua antica
gens e accolta nella nuova unione gentilizia del marito, ha in
questa unione una posizione del tutto particolare. È membro della
gens, ma non ne è consanguinea; il modo stesso della sua
ammissione la esclude a priori da ogni divieto di nozze
all'interno della gens della quale, col matrimonio, è venuta
precisamente a far parte. Essa inoltre è accolta nella gens in
virtù del suo matrimonio, eredita alla morte del marito dal
patrimonio di questo, e quindi dal patrimonio di un membro della
gens. Che cosa vi è di più naturale del fatto che questo
patrimonio rimanga nella gens e che quindi essa abbia il dovere di
sposare in seconde nozze un membro della stessa gens del suo primo
marito e nessun altro? E se una eccezione può esser fatta, chi può
autorizzarla più di colui che le ha lasciato questo patrimonio,
cioè il suo primo marito? Nell'istante in cui egli le lascia una
parte del suo patrimonio e le consente contemporaneamente di
trasferirla, mediante matrimonio, o in seguito a matrimonio, in
una gens straniera, il patrimonio appartiene ancora a lui; egli
dispone dunque, letteralmente, solo della sua proprietà. Per quel
che riguarda la moglie stessa e i suoi rapporti con la gens del
marito, è stato lui ad introdurla in questa gens con un atto di
libera volontà: il matrimonio. Appare quindi egualmente naturale
che egli sia la persona adatta ad autorizzarla ad uscirne
contraendo seconde nozze. In breve, la cosa appare semplice e
intuitiva, non appena lasciamo cadere l'idea strana dell'endogamia
della gens romana e, d'accordo con Morgan, la concepiamo come
originariamente esogama.
Rimane ancora un'ultima ipotesi che ha trovato anch'essa i suoi
sostenitori e certo i più numerosi. Il passo di Livio proverebbe
solo che: «serve affrancate (libertae) non potevano, senza
autorizzazione specifica, e gente
enubere(sposarsi al di fuori della gens) o altrimenti
intraprendere atto alcuno che, legato alla capitis deminutio
minima (6),
avrebbe avuto come risultato l'uscita della liberta dall'unione
gentilizia» (Lange, Römische
Altertümer (7),
Berlino, 1856, I, p. 195), dove vien fatto riferimento allo
Huschke a proposito del passo di Livio da noi citato). Se questa
ipotesi è giusta, il passo non prova assolutamente nulla circa le
condizioni delle Romane pienamente libere, e perciò non si può
assolutamente parlare di un loro obbligo di sposarsi all'interno
della gens.
L'espressione enuptio
gentis appare
in questo solo passo, e al di fuori di questo passo mai più in
tutta la letteratura romana; il vocabolo enubere,
sposarsi fuori, ricorre solo tre volte, sempre in Livio (8) e poi non in
relazione alla gens. L'idea fantastica secondo cui le Romane
potevano sposarsi solo all'interno della loro gens deve a questo
unico passo la sua esistenza. Ma essa non può essere sostenuta in
alcun modo. Infatti, o il passo si riferisce a specifiche
limitazioni particolari per le liberte, ma non prova nulla per le
donne libere (ingenuae), oppure vale anche per queste
ultime, e allora prova che la donna si sposava, di regola, fuori
della sua gens, ma passava con le nozze nella gens del marito.
Quindi prova contro Mommsen e a favore di Morgan.
Ancora quasi 300 anni dopo la fondazione di Roma i vincoli
gentilizi erano così forti che una gens patrizia, quella dei Fabi,
con il consenso del senato, poté intraprendere di propria
iniziativa una spedizione militare contro la vicina città di Vein.
Si sarebbero messi in marcia, a quel che si dice, 306 Fabi, e in
un'imboscata furono tutti uccisi, tranne un solo giovinetto
rimasto indietro, il quale avrebbe perpetuato la gens (9).
Dieci gentes formavano, come dicemmo, una fratria, che a Roma si
chiamava curia ed aveva pubbliche attribuzioni più importanti di
quelle della fratria greca. Ogni curia aveva proprie pratiche
religiose, propri luoghi sacri, propri sacerdoti. Questi ultimi,
nella loro totalità, formavano uno dei collegi sacerdotali romani.
Dieci curie formavano una tribù, che verosimilmente, come le altre
tribù latine, aveva in origine un capo elettivo, insieme capo
militare e sommo sacerdote. La totalità delle tre tribù formava il
popolo romano, populus
romanus.
Al popolo romano poteva dunque appartenere solo chi fosse membro
di una gens, e per mezzo di essa di una curia e di una tribù. La
prima costituzione di questo popolo fu la seguente: i pubblici
affari venivano all'inizio curati dal senato, che, come il Niebuhr
giustamente vide per primo, era composto dai capi delle 300
gentes; proprio per questo, essendo i più anziani delle gentes, si
chiamavano padri, patres,
e tutti insieme, senato (consiglio degli anziani, dasenex = vecchio). La
consuetudine di eleggere sempre dalla stessa famiglia di ogni gens
diede origine anche qui alla prima nobiltà ereditaria; queste
famiglie si chiamarono patrizie e pretesero il diritto esclusivo
di entrare nel senato e di occupare tutti gli uffici. Che il
popolo col tempo abbia accettato questa pretesa e che essa si sia
mutata in un vero diritto, la leggenda lo esprime narrando come
Romolo abbia conferito ai primi senatori ed ai loro discendenti il
patriziato con i suoi privilegi.
Il senato, come la bulè ateniese, aveva voto
decisivo in molti affari, e preparava la deliberazione degli
affari più importanti, specie a proposito di nuove leggi. Queste
venivano decise dall'assemblea popolare, i cosiddetti comitia curiata (assemblea delle
curie). II popolo si riuniva raggruppato in curie, in ogni curia
verosimilmente raggruppato per gentes. Per la deliberazione ognuna
delle trenta curie aveva un voto. L'assemblea delle curie
accettava o respingeva tutte le leggi, eleggeva tutti gli alti
funzionari incluso il rex (il cosiddetto re),
dichiarava la guerra (ma il senato conchiudeva la pace) e
decideva, in qualità di tribunale supremo su appello degli
interessati, in tutti i casi in cui si trattava della condanna a
morte di un cittadino romano.
Infine, accanto al senato e all'assemblea del popolo, vi era il
rex che corrispondeva precisamente al basilèus dei Greci e non era
affatto un re quasi assoluto come ce lo presenta il Mommsen (10).
Anch'egli era capo militare, sommo sacerdote e presiedeva certi
tribunali. Non aveva alcuna competenza civile o potere sulla vita,
la libertà o la proprietà dei cittadini, nella misura in cui
questi poteri non sorgevano dal potere giudiziario ed esecutivo di
chi presiedeva il tribunale. La carica di rex non era ereditaria;
al contrario, il re, probabilmente dietro proposta del suo
predecessore, veniva in un primo tempo eletto dalla assemblea
delle curie e poi, in una seconda assemblea, solennemente
insediato. Che egli potesse anche essere deposto lo testimonia la
sorte di Tarquinio il Superbo.
Come i Greci dell'età eroica, i Romani dei tempi dei cosiddetti re
vivevano in una democrazia militare fondata su gentes, fratrie e
tribú, e sviluppatasi da queste. Anche se le curie e le tribù
erano in parte creazioni artificiose, esse però erano formate
secondo il genuino modello naturale della società dalla quale
provenivano e che le circondava ancora da tutti i lati. Anche se
la nobiltà patrizia originaria aveva già guadagnato terreno, ed i reges, piano
piano, cercavano di ampliare le loro competenze, tutto ciò non
cambia l'originario carattere fondamentale della costituzione, ed
è questa la sola cosa che conta.
Intanto la popolazione della città di Roma e del territorio
romano, ampliato dalle conquiste, aumentava parte per
immigrazioni, parte per l'inclusione degli abitanti dei distretti
sottomessi, per lo più latini. Tutti questi nuovi cittadini (la
questione dei clienti lasciamola, per ora, da parte) vivevano al
di fuori delle antiche gentes, curie e tribù e non formavano,
quindi, una parte del populus
romanus, del popolo romano vero e proprio. Erano
personalmente uomini liberi, potevano possedere proprietà
fondiaria, dovevano pagare le imposte e prestar servizio militare.
Ma non potevano rivestire uffici né prender parte all'assemblea
delle curie, e neppure alla distribuzione delle terre di Stato
conquistate. Essi formavano la plebe, esclusa da tutti i pubblici
diritti. Per il costante aumento del loro numero, la loro
formazione militare e il loro armamento divennero una potenza
minacciosa di fronte al vecchio popolo, chiuso ormai ad ogni
possibilità di accrescimento dall'esterno. A ciò si aggiunse il
fatto che il possesso fondiario era, sembra, distribuito
abbastanza uniformemente tra populus
e plebs, mentre la ricchezza mercantile ed industriale,
d'altronde non ancora molto sviluppata, era prevalentemente in
mano della plebe.
Date le tenebre in cui è avvolta tutta la leggendaria storia delle
origini di Roma, tenebre molto infittite dai tentativi di
spiegazione razionalistico-pragmatici e dai resoconti dei più
tardi studiosi di fonti dalla mentalità giuridica, è impossibile
dire qualcosa di preciso sul tempo, sul corso o l'occasione della
rivoluzione che pose fine all'antica costituzione gentilizia. È
solo certo che la sua causa risiede nelle lotte tra plebs e
populus.
La nuova costituzione, attribuita al rex Servio Tullio (11) e poggiante su
modelli greci e specialmente su Solone, creò una assemblea
popolare che, senza distinzione, includeva o escludeva popolo e
plebe, a seconda che prestavano o no servizio militare. L'insieme
degli uomini che dovevano prestare servizio militare fu diviso
secondo il censo in sei classi. In cinque di queste classi, il
possesso minimo per ognuna era il seguente: 1) 100.000 assi; 2)
75.000; 3) 50.000; 4) 25.000; 5) 11.000; pari, secondo Dureau de
la Malle (12),
all'incirca a 14.000, 10.500, 7.000, 3.600 e 1.570 marchi. La
sesta classe, quella dei proletari, era composta dai meno
abbienti, esenti dal servizio militare e dalle imposte. Nella
nuova assemblea popolare delle centurie (comitia centuriata)
i cittadini si presentavano ordinati in compagnie, con le loro
centurie di cento uomini, ed ogni centuria disponeva di un voto.
Ora, la prima classe dava 80 centurie, la seconda 22, la terza 20,
la quarta 22, la quinta 30, e, per decoro, anche la sesta ne dava
una. Si aggiungeva la cavalleria formata dai più ricchi, con 18
centurie. In tutto dunque 193 centurie: maggioranza dei voti: 97.
Ora, i cavalieri e la prima classe, avevano insieme, da soli, 98
voti e quindi costituivano la maggioranza; se erano d'accordo tra
loro, la decisione definitiva veniva presa senza che gli altri
fossero neppure consultati.
A questa nuova assemblea delle centurie passarono ora tutti i
diritti politici della precedente assemblea delle curie (meno
alcuni di carattere nominale). Le curie e le gentes che le
componevano vennero con ciò, come in Atene, degradate a semplici
sodalizi privati e religiosi, e come tali continuarono a vegetare
ancora assai a lungo, mentre l'assemblea delle curie non tardò a
scomparire. Per estromettere dallo Stato anche le antiche tre
tribù gentilizie, s'introdussero quattro tribù locali, ognuna
delle quali occupava una quarta parte della città, con una serie
di diritti politici.
Così anche a Roma, già prima della soppressione della cosiddetta
monarchia, fu distrutto l'antico ordinamento sociale fondato su
vincoli di sangue personali, al suo posto subentrò una nuova,
reale costituzione dello Stato, fondata sulla divisione
territoriale e sulla diversità di censo. Il potere pubblico era
costituito da quella parte di cittadinanza che doveva prestare
servizio militare, di fronte non soltanto agli schiavi, ma anche
ai cosiddetti proletari esclusi dal servizio militare e dal
portare armi.
Nel quadro di questa nuova costituzione che venne ulteriormente
sviluppata soltanto con l'espulsione dell'ultimo rex Tarquinio il
Superbo, il quale si era arrogato un vero potere regio, e con la
sostituzione del rex con due capi militari (consoli) con uguale
potere d'ufficio (come tra gli Irochesi); nel quadro di questa
costituzione si muove tutta la storia della repubblica romana con
tutte le sue lotte tra patrizi e plebei per l'accesso agli uffici
pubblici e la partecipazione alle terre statali, con la sparizione
finale della nobiltà patrizia, assorbita nella nuova classe dei
grandi possessori di terreni e di danaro che, gradatamente,
incorporarono tutto il possesso fondiario dei contadini rovinati
dal servizio militare, fecero coltivare da schiavi gli enormi
latifondi così sorti, spopolarono l'Italia e con ciò aprirono le
porte non solo all'impero, ma anche ai suoi successori: ai barbari
tedeschi.
Note:
1) Cfr. Livio, Storia romana,
libro II, cap. 22 e Svetonio, Vita
di Tiberio, cap. l.
2) Publio Quintilio Varo, patrizio romano, fece
carriera sotto Augusto. Comandante dell'esercito del Reno,
nell'anno 9 d.C., fu attaccato di sorpresa nella foresta di
Teutoburgo da Arminio, capo dei Cherusci, e sconfitto; le sue tre
legioni furono distrutte ed egli si uccise.
3) Appio Claudio, che appartenne al collegio dei
decemviri (451 a.C.) e secondo una leggenda fu arrestato in
seguito al suo odioso tentativo di violenza ai danni di una
fanciulla, Verginia. Qui Engels si riferisce a Livio, Storia romana,
libro III, cap. 58.
4) Per esempio in «Publio Quintilio Varo» il
primo è il prenome personale, il secondo il gentilizio (della gens
Quintilia), il terzo il cognome di famiglia.
5) Le pagine che seguono, fino al capoverso
«Ancora quasi 300 anni ecc.», sono un'aggiunta della quarta
edizione.
6) Perdita minima di capacità civile (era la
cessazione dell'appartenenza a una famiglia).
7) Antichità romane, di Christian Konrad Ludwig
Lange (1825-1885), dove si fa riferimento alla dissertazione di
Georg Philip Eduard Huschke (1801-1886), De privilegiis
Feceniae Hispalae senatusconsulto concessis (Liv. XXXIX, 19
- Sui privilegi concessi per senatusconsulto a F. H. ecc.),
Göttingen 1822.
8) Storia
romana, IV, 4; X, 23; XXVI, 34.
9) L'episodio, narrato da Livio (II, 50) e da
altri autori, sarebbe avvenuto nel 477 a.C. presso il fiumicello
Cremera. affluente del Tevere.
10) Il rex latino è il celto-irlandese righ (capo tribù) ed
il gotico reiks.
Che questo nome, come originariamente anche il nostro Fürst (cioè
come l'inglese first,
il danese forste:
primo) significasse capo di gens e di tribú, risulta dal fatto che
i Goti, già nel IV secolo, per indicare quello che più tardi si
chiamerà re, il capo militare dell'assemblea di un popolo,
possedevano una parola speciale: thiudans.
Artaserse ed Erode, nella traduzione della Bibbia di Ulfila, non
vengono mai chiamati reiks, ma thiudans, e l'impero
dell'imperatore Tiberio non già reiki, ma thiudinassus. Nel nome
del gotico thiudans, o, come traduciamo imprecisamente, re
Thiudareik, Teodorico, cioè Dietrich, le due denominazioni
confluiscono insieme [Nota di Engels].
11) ll sesto re di Roma, che secondo la
tradizione regnò dal 578 al 535 a.C.; la costituzione a lui
attribuita dovette essere introdotta in età più tarda.
12) Economie
politique des Romains, Paris 1840, dello storico francese
Adolphe Jules Cesar Auguste Dureau De La Malle (1777-1857).
Lo spazio ci vieta di addentrarci nello studio delle istituzioni
gentilizie che ancor oggi in una forma più o meno chiara si
trovano in vigore tra i più diversi popoli selvaggi e barbari, e
ci vieta altresì di metterci sulle loro tracce nella più remota
storia dei popoli civili dell'Asia (1). Le
une e le altre si trovano ovunque. Solo pochi esempi basteranno:
prima ancora che la gens fosse riconosciuta, l'uomo che più si è
preso la briga di fraintenderla, McLennan, l'aveva segnalata e,
nel complesso, esattamente descritta tra i Calmucchi, i Circassi,
i Samoiedi e fra tre popoli indiani : i Varali, i Magari e i
Munnipuri (2).
Recentemente M. Kovalevski l'ha scoperta e descritta tra gli
Psciavi, gli Scevsuri, gli Svaneti ed altre tribù del Caucaso.
Diamo qui solo alcune brevi notizie sulla presenza della gens tra
i Celti e i Germani.
Le più antiche leggi celtiche che si sono conservate ci mostrano
la gens ancora in pieno vigore. In Irlanda essa vive ancor oggi,
per lo meno istintivamente, nella coscienza popolare dopo che gli
Inglesi l'hanno spezzata con la violenza. Nella Scozia, ancor
verso la metà del secolo scorso, la gens era nel suo pieno
fiorire, e anche qui soggiacque solo alle armi, alle leggi e ai
tribunali inglesi.
Le antiche leggi dei Galles che vennero scritte parecchi secoli
prima della conquista inglese (3), al
più tardi nell'XI secolo, mostrano ancora l'agricoltura in comune
da parte di interi villaggi, sia pure solo come residuo
eccezionale di un costume in passato generale. Ogni famiglia aveva
cinque campi che coltivava per sé; inoltre un appezzamento veniva
coltivato in comune e il prodotto distribuito. Che queste comunità
di villaggio rappresentino gentes o suddivisioni di gentes, non è
da porre in dubbio, data l'analogia con l'Irlanda e la Scozia,
anche se un nuovo esame delle leggi del Galles, che non ho il
tempo di fare (i miei estratti sono del 1869 (4)), non
dovesse direttamente provarlo. Ma ciò che direttamente provano le
fonti gallesi e con esse le irlandesi è che nell'XI secolo tra i
Celti il matrimonio di coppia non era ancora stato soppiantato
dalla monogamia.Nel Galles un matrimonio non diventava
indissolubile, o meglio non aveva possibilità di divorzio, che
dopo sette anni. Mancando solo tre notti al compimento dei sette
anni, i coniugi potevano separarsi. Poi veniva effettuata la
divisione: la donna divideva, l'uomo sceglieva la sua parte. I
mobili venivano divisi secondo certe regole assai umoristiche. Se
era l'uomo che scioglieva il matrimonio, doveva restituire alla
moglie la dote con qualche aggiunta; se era la donna, riceveva di
meno. Dei figli due spettavano all'uomo; uno, e precisamente
quello di mezzo, alla donna. Se, dopo la separazione, la donna
prendeva un altro marito e il primo marito se la voleva
riprendere, essa doveva seguirlo anche se era già con un piede nel
nuovo talamo. Ma se i due erano stati insieme sette anni, erano
marito e moglie anche senza precedente matrimonio formale. La
castità delle fanciulle prima del matrimonio non era affatto né
rigorosamente osservata, né richiesta; le leggi in proposito sono
di natura estremamente frivola e per nulla conformi alla morale
borghese. Se una donna commetteva adulterio, il marito poteva
bastonarla (era uno dei tre casi in cui gli era permesso,
altrimenti incorreva in una pena), ma non poteva poi pretendere
alcun'altra soddisfazione, poiché «per un medesimo fallo doveva
esservi espiazione o vendetta, ma non l'una e l'altra cosa insieme (5)». I
motivi per cui la donna poteva chiedere il divorzio senza perdere
le sue pretese al momento della separazione erano i più svariati:
bastava il cattivo alito del marito. Il denaro del riscatto da
pagarsi al capotribù o al re per il diritto della prima notte (gobr
merch, donde il nome medievale marcheta, in
francese marquette)
ha una parte importante nel codice. Le donne avevano il diritto di
voto nelle assemblee popolari. Se aggiungiamo che in Irlanda sono
attestate condizioni analoghe, che pure là i matrimoni temporanei
erano cosa assai comune, e che alla donna in caso di separazione
erano assicurati grandi privilegi perfettamente regolati, perfino
un'indennità per il suo servizio domestico; che là esiste una
«prima moglie» accanto ad altre, e che nella divisione
dell'eredità non viene fatta nessuna differenza tra figli
legittimi e illegittimi, abbiamo un quadro del matrimonio di
coppia di fronte al quale la forma di matrimonio vigente
nell'America del Nord appare severa; ma ciò non può meravigliare
in un popolo dell'XI secolo che, al tempo di Cesare, praticava
ancora il matrimonio di gruppo.
La gens irlandese (sept, la tribù si chiama clainne, clan) è
confermata e descritta non solo dagli antichi codici, ma anche dai
giuristi inglesi del XVII secolo, inviati per trasformare il paese
dei clan in dominio del re d'Inghilterra. Fino a quel tempo il
suolo era stato proprietà comune del clan e della gens, nella
misura in cui i capi non lo avevano già trasformato in loro
dominio privato. Se un membro della gens moriva, e quindi
un'amministrazione domestica si dissolveva, il capo (caput
cognationis lo
chiamarono i giuristi inglesi) procedeva ad una nuova divisione
fondiaria di tutto il territorio tra le altre amministrazioni
domestiche. Probabilmente questa divisione era eseguita
all'ingrosso secondo le regole vigenti in Germania. Ancora oggi si
trovano alcuni campi comunali - quaranta o cinquant'anni fa assai
numerosi - i cosiddetti rundali.
I contadini di un rundale,
fittavoli individuali del suolo una volta appartenente in comune
alla gens e rapinato dal conquistatore inglese, pagano il fitto,
ognuno per il suo pezzo di terra, ma riuniscono il terreno arativo
e prativo di tutti gli appezzamenti, lo dividono secondo la
posizione e la qualità in gewann,
come si chiamano in riva alla Mosella, e dànno a ciascuno la sua
parte di ogni gewann.
Il terreno paludoso e da pascolo viene utilizzato in comune.
Ancora cinquanta anni fa, di tempo in tempo, talvolta ogni anno,
veniva effettuata una nuova divisione. La carta catastale di un
tale villaggio di rundali sembra precisamente
quella di una Gehöferschaft (Comunità
rurale) tedesca delle rive della Mosella o dello Hochwald.
Anche nelle factions sopravvive la gens. I
contadini irlandesi si dividono spesso in partiti che si fondano
su differenze apparentemente assurde o prive di senso, del tutto
incomprensibili agli Inglesi e sembrano non avere altro scopo
fuorché le solenni bastonature in voga tra una fazione e l'altra.
Sono riviviscenze artificiose, surrogati postumi delle gentes
distrutte, che provano, a modo loro, il perdurare dell'istinto
gentilizio ereditato. In molte località, del resto, i membri della
gens si trovano ancora insieme pressapoco nell'antico territorio;
cosi, ancora dopo il 1830, la grande maggioranza degli abitanti
della contea di Monaghan aveva solo quattro cognomi, cioè
discendeva da quattro gentes o clan (6).
In Scozia il tramonto dell'ordinamento gentilizio data dalla
repressione dell'insurrezione del 1745 (7).
Quale anello di questo ordinamento rappresenti specialmente il
clan scozzese rimane ancora da indagare, ma che tale sia stato è
fuori dubbio. Nei romanzi di Walter Scott (8) vediamo rappresentati
in piena vita questi clan dell'Alta Scozia. È, dice Morgan,
« ...un modello eccellente della gens, nella sua organizzazione e
nel suo spirito; un esempio evidente del dominio della vita della
gens sui suoi membri... Nelle loro contese e nelle vendette di
sangue, nella spartizione del terreno per clan, nella loro
utilizzazione comune del suolo, nella fedeltà dei membri del clan
verso il capo e tra loro, noi troviamo i tratti, ricorrenti
dovunque, della società gentilizia... La discendenza si calcolava
secondo il diritto patriarcale, cosicché i figli dei maschi
rimanevano nei clan, mentre quelli delle donne passavano nei clan
dei rispettivi padri.»
Ma che in Scozia anteriormente dominasse il diritto matriarcale lo
prova il fatto che nella famiglia reale dei Pitti vigeva, secondo
Beda (9), la
successione ereditaria femminile. Anzi, perfino un elemento della
famiglia punalua si era conservato, come tra i Gallesi, così tra
gli Scoti fin nel Medioevo, nel diritto della prima notte, che il
capo del clan o il re era autorizzato ad esercitare su ogni sposa
come ultimo rappresentante dei mariti comuni di un tempo; a meno
che questo diritto non fosse stato riscattato.
Che i. Tedeschi, fino all'epoca delle migrazioni, fossero
organizzati in gentes, è fuor di dubbio. È probabile che essi
abbiano occupato, solo pochi secoli prima della nostra era, il
territorio tra il Danubio, il Reno, la Vistola e il Mare del Nord;
i Cimbri e i Teutoni (10) erano ancora in piena
migrazione, e gli Svevi trovarono sedi stabili solo al tempo di
Cesare. Di essi Cesare dice espressamente che si erano insediati
per gentes e parentele (gentibus cognationibusque(11)), e
sulla bocca di un Romano della gens Julia questo vocabolo gentibus ha un significato
determinato incontrovertibile. Questo valeva per tutti i Tedeschi;
sembra che anche lo stanziamento nelle province romane conquistate (12)sia
avvenuto ancora per gentes. Nel diritto popolare alemanno (13) viene confermato che
il popolo si insediò nel territorio conquistato a sud del Danubio
per stirpi (genealogiae); genealogiae viene adoperato
assolutamente nello stesso senso in cui più tardi si parlerà di
comunità di marca o di villaggio. Recentemente Kovalevski (14) ha espresso
l'opinione che queste genealogiae sarebbero le grandi comunità
domestiche tra cui la terra sarebbe stata divisa, dalle quali si
sarebbero più tardi sviluppate le comunità di villaggio. Lo stesso
valeva probabilmente anche per la fara, con la
quale espressione, presso i Burgundi e i Longobardi, cioè presso
un popolo gotico ed uno erminonico (15) o alto tedesco, si
indicava pressapoco, se non proprio, la stessa cosa che il codice
alemanno indica con la parola genealogia. Se qui si tratti
effettivamente di una gens o di una comunità domestica è cosa che
deve essere esaminata ancora più da vicino.
I monumenti linguistici ci lasciano il dubbio se presso tutti i
Tedeschi esistesse una espressione comune per indicare la gens, e
quale essa fosse. Al greco genos, al latino gens corrisponde
etimologicamente il gotico kuni,
medio alto tedesco künne,
e viene adoperato anche nello stesso senso. Il fatto che il nome
della donna derivi sempre dalla stessa radice, in greco gyne, in slavo zena, in
gotico qvino,
in nordico antico kona, küna, ci
rimanda ai tempi del diritto matriarcale. Tra i Longobardi e i
Burgundi troviamo, come abbiamo detto, fara, che
Grimm fa derivare da un'ipotetica radice fisan,
generare. Io preferirei ritornare alla derivazione più evidente di faran, fahren, cioè
camminare, viaggiare, ritornare, come designazione di un reparto
compatto nella marcia migratoria, naturalmente composto di
consanguinei; designazione che nel corso della migrazione
plurisecolare prima verso est, poi verso ovest, passò poco per
volta alla stessa unione gentilizia. Inoltre abbiamo il gotico sibja,
l'anglosassone sib,
l'antico alto tedesco sippia, sippa, stirpe.
L'antico nordico ha solo il plurale sifjar,
parenti; il singolare sif,
si usa solo come nome di una dea, Sif. E infine si ha nel Canto di
Ildebrando (16) ancora un'altra
espressione, nel punto in cui Ildebrando chiede ad Adubrando «chi
sia tra gli uomini del popolo suo padre... o di quale schiatta tu
sia» (eddo huêlîhhes cnuosles du sîs). Se è esistito un
comune nome tedesco per gens, esso deve essere stato probabilmente
il gotico kuni;
questa ipotesi è avvalorata non solo dalla sua identità con
l'espressione corrispondente delle lingue affini, ma anche dalla
circostanza che da kuni deriva la parola kuning, re,
che originariamente indica un capo di gens o di tribù. La parola sibja, stirpe,
sembra non debba esser presa in considerazione; comunque
nell'antico nordico sifjar non significa solo
consanguinei, ma anche parenti d'acquisto, e abbraccia dunque gli
appartenenti a due gentes per lo meno. Sif dunque, non può
essere stata l'espressione usata per gens.
Come tra i Messicani e i Greci, così tra i Tedeschi l'ordine di
battaglia tanto dello squadrone di cavalleria quanto della colonna
di punta della fanteria, era organizzato per gruppi gentilizi. Se
Tacito dice «per famiglie e parentele (17)»,
questa espressione imprecisa si spiega col fatto che ai suoi
tempi, a Roma, la gens aveva cessato da molto di costituire
un'associazione effettiva.
Decisivo è un passo di Tacito (18) in cui si dice che il
fratello della madre considera suo nipote come suo figlio; alcuni
anzi ritengono il vincolo di sangue tra zio materno e nipote
ancora più sacro e stretto di quello esistente tra padre e figlio;
cosicché, quando vengono richiesti degli ostaggi, il figlio della
sorella vale come garanzia maggiore del figlio carnale di colui
che si vuoi vincolare. Qui abbiamo una prova effettiva di qualcosa
che caratterizza particolarmente i Tedeschi (19),
della gens organizzata secondo il diritto matriarcale, dunque
della gens originaria. Se veniva dato dal membro di una tale gens,
come pegno di una promessa, il proprio figlio e questi cadeva
vittima per rottura del patto da parte del padre, costui doveva
risponderne a se stesso. Ma se veniva sacrificato il figlio della
sorella, veniva violato allora il più sacro diritto della gens e
il più prossimo parente gentilizio, che più di tutti gli altri
aveva il dovere di proteggere il fanciullo o il giovinetto, era
incolpato della sua morte: o non doveva consegnarlo come ostaggio
o doveva mantenere il patto. Se anche non avessimo altre tracce
della costituzione gentilizia tra i Tedeschi, questo solo passo
sarebbe sufficiente (20).
Ancor più decisivo, perché di circa 800 anni posteriore, è un
passo del poema antico-nordico sul crepuscolo degli dèi e sulla
fine del mondo, la Völuspâ (21). In
questa «visione della profetessa», nella quale, come ora Bang e
Bugge(22) hanno provato, sono
mescolati anche elementi cristiani nella descrizione dell'epoca di
universale degenerazione e corruzione che porta alla grande
catastrofe, così si dice: Broedhr
munu berjask ok at bönum verdask,munu systrungar sfjum spilla «I fratelli si
faranno la guerra e diverranno assassini l'uno dell'altro, i figli di sorelle infrangeranno la loro
parentela». Systrungar si chiama il figlio
della sorella della madre, e che costoro rinneghino la reciproca
consanguineità viene considerato dal poeta come un aggravamento
perfino del delitto di fratricidio. L'aggravamento sta nel
systrungar che mette in rilievo la parentela per parte di madre.
Se al suo posto vi fosse syskinabörn,
prole di fratelli e sorelle o syskinasynir,
figli di fratelli e sorelle, la seconda riga non offrirebbe nessun
aggravamento rispetto alla prima, ma al contrario offrirebbe
un'attenuazione. Dunque, anche ai tempi dei Vichinghi, quando fu
composta laVöluspâ, il ricordo del diritto matriarcale non
era ancora sparito in Scandinavia.
Del resto, il diritto matriarcale ai tempi di Tacito aveva già
ceduto il posto al diritto patriarcale, per lo meno tra i
Tedeschi, a lui più noti : i figli ereditavano dal padre; dove non
c'erano figli, ereditavano i fratelli, gli zii per parte di madre
e di padre (23).
L'ammissione del fratello della madre alla eredità coincide con la
conservazione del già ricordato costume, e prova insieme come il
diritto patriarcale tra i Tedeschi fosse a quest'epoca ancora
recente. Anche sino al Medioevo inoltrato troviamo tracce di
diritto matriarcale. Pare che ancora allora non ci si fidasse
molto della paternità, specie tra i servi. Se quindi un feudatario
reclamava da una città un servo della gleba fuggiasco, bisognava
che, per esempio ad Augusta, Basilea e Kaiserslautern, la
condizione di servo della gleba dell'accusato venisse affermata
con giuramento da sei dei suoi consanguinei più prossimi, e, cioè,
esclusivamente di parte materna (Maurer, Städteverfassung (24), I,
p. 381).
Un ulteriore residuo del diritto matriarcale, che proprio allora
volgeva alla fine, ce lo offre il rispetto dei Tedeschi per il
sesso femminile, che riusciva quasi incomprensibile ai Romani. Nei
trattati coi Tedeschi le giovani di famiglie nobili erano
considerate gli ostaggi più vincolanti; l'idea che le loro mogli o
le loro figlie potessero cadere prigioniere o divenire schiave era
per i tedeschi terribile e stimolava più di ogni altra cosa il
loro coraggio in battaglia; essi vedevano qualcosa di sacro e di
profetico nella donna, e ne ascoltavano il consiglio anche negli
affari più importanti. Così Veleda, sacerdotessa dei Bructeri,
sulla Lippe, fu l'animatrice di tutta l'insurrezione batava, con
la quale Civile, alla testa di Tedeschi e Belgi, scosse l'intero
dominio romano nella Gallia. Nella casa il dominio della donna
appare incontestato; essa, insieme ai vecchi ed ai fanciulli, deve
certo prendersi cura di tutti i lavori, mentre il marito va a
caccia o beve o sta in ozio. Così dice Tacito (25); ma,
poiché egli non dice chi si cura dei campi e afferma decisamente
che gli schiavi pagavano soltanto un tributo senza prestare lavoro
servile di sorta (26) la massa degli uomini
adulti deve avere svolto dunque quel poco lavoro che richiedeva la
coltivazione del suolo.
La forma del matrimonio era, come abbiamo detto sopra, quella del
matrimonio di coppia che si avvicinava a poco a poco alla
monogamia. Non era ancora monogamia in senso stretto, poiché la
poligamia era permessa ai nobili. In complesso si teneva
rigorosamente alla castità delle fanciulle (al contrario dei
Celti) e Tacito parla, del pari, con calore particolare
dell'indissolubilità del vincolo coniugale tra i Tedeschi. Solo
l'adulterio da parte della donna è motivo di divorzio, secondo
Tacito (27). Ma
il suo resoconto lascia qui qualche lacuna ed è fin troppo
evidente che egli addita ai Romani dissipati questo specchio di
virtù. Una cosa è certa: se i Tedeschi erano, nelle loro foreste,
questi eccezionali cavalieri di virtù, è bastato però solo un
piccolo contatto con il mondo esterno perché essi si abbassassero
al livello degli altri europei medi. L'ultima traccia della
morigeratezza dei costumi scomparve in mezzo al mondo romano ancor
più rapidamente della lingua tedesca. Basta leggere a questo
proposito Gregorio di Tours (28). Che
nelle foreste vergini della Germania non potesse dominare la
raffinata lussuria dei piaceri dei sensi che dominava a Roma, si
capisce da sé, e anche sotto questo rapporto rimane ancora ai
Tedeschi una superiorità sufficiente di fronte al mondo romano,
senza che ci sia nessun bisogno di attribuire loro nelle cose
carnali una continenza che mai e in nessun luogo è stata praticata
da un intero popolo.
Dalla costituzione gentilizia è sorto l'obbligo di ereditare le
inimicizie così come le amicizie del padre o dei parenti; del pari
è sorto il guidrigildo, l'ammenda al posto della vendetta di
sangue per uccisione o per ferimento. Di questo guidrigildo che,
ancora fino ad una generazione fa, veniva considerato come
un'istituzione specificamente tedesca, e stata provata ora
l'esistenza presso centinaia di popoli, come forma generale
attenuata della vendetta di sangue che ha origine nell'ordinamento
gentilizio. Noi lo troviamo, insieme al dovere di ospitalità, tra
l'altro, presso gli Indiani d'America. La descrizione del modo
come, secondo Tacito (Germania, cap. 21 (29)),
veniva esercitata l'ospitalità è, fin quasi nei minimi
particolari, la stessa che Morgan ci dà dei suoi Indiani.
La controversia accesa e interminabile se i Tedeschi di Tacito
avessero effettuato o no una definitiva ripartizione della terra
coltivabile e del modo di interpretare i passi che vi si
riferiscono, appartiene ormai al passato. Dopo che la coltivazione
in comune della terra da parte della gens, e più tardi da parte di
comunità familiari comunistiche, che Cesare attesta esistente
anche tra gli Svevi, e la susseguente assegnazione di terra a
famiglie singole con ridistribuzione periodica, sono state
dimostrate presso quasi tutti i popoli; da quando è stato assodato
che questa ridistribuzione periodica della terra coltivabile nella
Germania stessa si è mantenuta localmente fino ai nostri giorni,
su tale argomento non c'è bisogno di spendere altre parole. Se i
Tedeschi, dalla coltivazione in comune della terra che Cesare
attribuisce espressamente agli Svevi (tra loro non si trovano né
campi divisi né campi privati, egli dice (30)),
erano passati, nei 150 anni che intercorrono tra quest'epoca e
quella di Tacito, alla coltivazione individuale con
ridistribuzione annuale del suolo, questo fatto rappresenta un
reale progresso. Il passaggio da questo stadio alla piena
proprietà privata del suolo in quel breve intervallo di tempo e
senza alcuna intrusione straniera, è veramente impossibile. Mi
limito quindi a leggere in Tacito ciò che egli dice con aride
parole: essi cambiano (o ridistribuiscono) la terra coltivata ogni
anno, ma vi resta accanto abbastanza terra comune (31). È
questo lo stadio della coltivazione e dell'appropriazione del
suolo che corrisponde esattamente alla costituzione gentilizia di
allora dei Tedeschi (32).
Lascio immutato il precedente capoverso come sta nelle precedenti
edizioni. Nel frattempo però la questione ha preso un altro
indirizzo. Da quando Kovalevski (cfr. più sopra) ha indicato
l'esistenza assai diffusa, se non generale, della comunità
domestica patriarcale, come stadio intermedio tra la famiglia
comunistica matriarcale e la famiglia moderna isolata, non si
discute più, come avveniva ancora tra Maurer e Waitz (33), di
proprietà comune o privata del suolo, ma della forma della proprietà
comune.
Che ai tempi di Cesare esistesse tra gli Svevi non solo proprietà
comune, ma anche coltivazione comune, non vi è dubbio alcuno. Si
discuterà ancora a lungo se l'unità economica fosse la gens o la
comunità domestica, o un gruppo comunistico parentale intermedio
tra i due, o se, secondo le condizioni del suolo, tutti e tre i
gruppi esistessero. Ma ora Kovalevski sostiene che lo stato di
cose descritto da Tacito non presuppone la comunità di marca o di
villaggio, ma la comunità domestica; la comunità di villaggio si
sarebbe sviluppata molto più tardi di questa, in seguito
all'incremento della popolazione.
Ne conseguirebbe che le colonie dei Tedeschi sul territorio da
essi occupato al tempo dei Romani, come su quello sottratto più
tardi a questi ultimi, non consistevano in villaggi, ma in grandi
comunità familiari che comprendevano parecchie generazioni,
coltivavano un tratto adeguato di terreno e insieme ai vicini
utilizzavano la terra incolta circostante, come marca comune. Il
passo di Tacito sull'alternarsi della terra coltivata dovrebbe
dunque in effetti intendersi in senso agronomico: la comunità
coltivava ogni anno un nuovo tratto di terreno e lasciava la terra
coltivata l'anno prima a maggese addirittura la lasciava
rinselvatichire. Data la scarsa popolazione, ci sarebbe rimasta
sempre terra incolta bastante da rendere superfluo qualsiasi
conflitto per il possesso terriero. Solo dopo secoli, quando il
numero dei membri delle comunità familiari crebbe a tal punto che
un'economia comune nelle condizioni di produzione del tempo non
era più possibile, queste comunità si sarebbero dissolte. Campi e
prati, fino allora comuni, sarebbero stati distribuiti con i
criteri noti tra i nuclei familiari singoli ormai in formazione,
dapprincipio temporaneamente, più tardi una volta per sempre,
mentre boschi, pascoli, acque sarebbero rimasti in comune.
Per la Russia questo processo di sviluppo sembra un fatto del
tutto provato storicamente. Per ciò che concerne la Germania, e in
seconda linea tutti gli altri paesi germanici, non si può negare
che questa ipotesi, per molti aspetti, illumina meglio le fonti e
risolve le difficoltà più agevolmente dell'ipotesi finora
sostenuta che fa risalire ai tempi di Tacito la comunità di
villaggio. I più antichi documenti, p. es. il Codex
Laureshamensis (34), si
spiegano meglio in termini di comunità familiare che di comunità
di marca e di villaggio. Questa ipotesi d'altra parte solleva
nuove difficoltà e pone nuovi problemi che non sono ancora stati
risolti. Solo nuove indagini possono portare ad una soluzione; non
posso tuttavia negare che è assai verosimile anche per la
Germania, la Scandinavia e l'Inghilterra l'esistenza dello stadio
intermedio della comunità familiare.
Mentre in Cesare i Tedeschi parte hanno appena preso dimora
stabile, e parte ancora la cercano, ai tempi di Tacito hanno già
dietro di sé un intero secolo di stabilità, a cui corrisponde un
progresso evidente nella produzione dei mezzi di sostentamento.
Abitano in case di tronchi d'albero, le loro vesti ricordano
ancora le originarie dimore nei boschi: un rozzo mantello di lana,
pelli di animali, sottovesti di lino per le donne e i nobili. Si
nutrono di latte, carne, frutti selvatici e, come aggiunge Plinio,
di pappa di avena (35) (ancora oggi cibo
nazionale celtico nell'Irlanda e nella Scozia). La loro ricchezza
consiste in bestiame che è, però, di cattiva razza, i bovini sono
piccoli, di aspetto misero, senza corna; i cavalli sono piccoli ponies e sono poco veloci.
Il denaro era usato raramente e scarsamente, ed era solo denaro
romano. Essi non lavoravano l'oro e l'argento e neppure li
tenevano in conto; raro era il ferro, che, a quanto pare, era
soltanto importato e non estratto, per lo meno tra le tribù del
Reno e del Danubio. La scrittura runica (36) (imitata dai
caratteri greci o latini) era conosciuta solo come scrittura
segreta e veniva adoperata solo per sortilegi religiosi. Erano
ancora in uso sacrifici umani.
In breve, qui abbiamo davanti a noi un popolo che si è appena
sollevato dallo stadio medio della barbarie a quello superiore.
Mentre però le tribù confinanti direttamente con i Romani, data la
facilità d'importare prodotti industriali romani, furono
ostacolate nello sviluppo di una industria metallurgica e tessile
autonoma, senza dubbio una tale industria si formò nel nord-est,
sulle rive del Baltico. I pezzi di armatura trovati nelle paludi
dello Schleswig (lunga spada di ferro, corazza a maglie, elmo
d'argento, ecc., insieme a monete romane della fine del secondo
secolo) e gli oggetti di metallo tedeschi, diffusi mediante la
migrazione dei popoli, mostrano, anche dove derivano da un modello
in origine romano, un tipo del tutto particolare di non scarso
grado di perfezionamento.
L'emigrazione nel civile impero romano segnò ovunque la fine di
questa industria indigena, meno che in Inghilterra. Come questa
industria sia nata ed abbia progredito in maniera unitaria lo
mostrano per esempio le fibbie di bronzo. Quelle trovate in
Borgogna, Rumenia o sulle rive del Mare d'Azov potrebbero
provenire dalla stessa officina di quelle trovate in Inghilterra e
in Svezia e sono egualmente, senza alcun dubbio, di origine
germanica.
Anche la costituzione corrisponde allo stadio superiore della
barbarie. Esisteva in generale, secondo Tacito (37), il
consiglio dei capi (principes), che decideva degli affari
meno importanti e preparava quelli di maggior peso, per sottoporli
alla decisione dell'assemblea popolare. Questa stessa assemblea
popolare, nello stadio inferiore della barbarie, per lo meno là
dove noi la conosciamo, tra gli Americani, esiste dapprima solo
per la gens e non ancora per la tribù e per la federazione di
tribù. I capi (principes) si distinguono inoltre nettamente
dai capi militari (duces) del tutto come tra gli Irochesi.
I primi vivono già in parte di doni di omaggio dei membri della
loro tribù, consistenti in bestiame, grano, ecc.; essi vengono
eletti, come in America, per lo più dalla stessa famiglia; il
passaggio al diritto patriarcale favorisce, come in Grecia e a
Roma, la graduale trasformazione dell'elezione in ereditarietà e
quindi la formazione di una famiglia nobile in ogni gens.
Questa antica nobiltà, la cosiddetta nobiltà di stirpe, scomparve
in gran parte al tempo della migrazione dei popoli o subito dopo.
I capi militari venivano eletti senza riguardo alla loro
discendenza, solo in virtù della loro valentìa. Essi avevano poco
potere e dovevano agire con la forza dell'esempio. Espressamente
Tacito attribuisce ai sacerdoti il vero e proprio potere
disciplinare nell'esercito. Il potere effettivo risiede nella
assemblea popolare. Il re o il capotribù presiede, il popolo
decide, per il no con i mormorii, per il sì con acclamazioni e
rumori di armi. L'assemblea popolare è nello stesso tempo corte di
giustizia: ad essa si sporgono le querele, essa giudica, in essa
vengono emesse le sentenze di morte, e a dir vero la pena di morte
viene inflitta solo per codardia, tradimento verso il popolo e
vizi contro natura (38).
Anche nelle gentes e nelle altre suddivisioni la collettività
giudica sotto la presidenza del capo che, come in tutti i
tribunali primitivi tedeschi, può soltanto dirigere il dibattito e
porre domande. Fin da tempo immemorabile tra i Tedeschi la
sentenza è emessa dalla collettività.
Fin dal tempo di Cesare si erano formate federazioni di tribù; in
alcune di esse c'erano già i re; il capo militare supremo, come
tra i Greci e i Romani, tendeva già alla tirannide, e talvolta ci
riusciva. Tali fortunati usurpatori non erano affatto sovrani
assoluti, tuttavia cominciavano già a infrangere i vincoli della
costituzione gentilizia. Mentre una volta gli schiavi affrancati
occupavano un posto subordinato, perché non potevano far parte di
una gens, ora questi favoriti giungevano spesso, con i nuovi re, a
dignità, ricchezze ed onori. Lo stesso accadde dopo la conquista
dell'impero romano da parte dei capi militari diventati ora re di
vasti paesi. Tra i Franchi, schiavi e liberti del re ebbero una
parte importante, dapprima nella corte, e poi nello Stato; la
nuova nobiltà in gran parte discende da costoro.
Un'istituzione favorì il sorgere della monarchia: le compagnie
militari. Già tra i Pellirosse americani vediamo come, accanto
alla costituzione gentilizia, si formino compagnie private che
conducono la guerra di loro propria iniziativa. Queste compagnie
private erano già divenute, tra i Tedeschi, associazioni
permanenti. Il capo militare che si era fatto un nome, raccoglieva
intorno a sé una schiera di giovani avidi di bottino, legati a
lui, come egli lo era a loro, da vincoli di fedeltà personale. Il
capo si prendeva cura di loro, faceva loro doni, li ordinava
gerarchicamente: una guardia del corpo e truppa agguerrita per le
piccole spedizioni, un corpo di ufficiali addestrati per quelle
più grandi. Per quanto deboli debbano essere state queste
compagnie militari, e deboli appaiono anche più tardi, p. es. in
Italia ai tempi di Odoacre (39),
esse costituivano tuttavia già il germe della decadenza
dell'antica libertà popolare e tale prova dettero di sé durante e
dopo le migrazioni dei popoli. Esse infatti favorirono in primo
luogo il sorgere del potere regio. In secondo luogo, però, come
già osserva Tacito, potevano essere tenute insieme solo mediante
continue guerre e razzie. La rapina divenne un fine. Se il
capitano non aveva da fare nei paraggi dove si trovava, si
trasferiva con i suoi uomini presso altri popoli dove c'era guerra
e prospettiva di bottino. Le truppe ausiliarie tedesche che, sotto
la bandiera romana, combatterono numerose perfino contro i
Tedeschi, erano in parte composte di queste compagnie. I
lanzichenecchi, vergogna e maledizione dei Tedeschi, esistevano
già in germe in queste compagnie. Dopo la conquista dell'impero
romano, questi uomini al seguito del re, insieme ai cortigiani,
schiavi e romani, costituirono il secondo elemento principale
della futura nobiltà.
Nel complesso dunque vige per le tribù tedesche federate in popoli
quella stessa costituzione che si era sviluppata tra i Greci
dell'età eroica e i Romani della cosiddetta età dei re: assemblea
popolare, consiglio dei capi delle gentes, capo militare che
aspira ad ottenere un effettivo potere regio. Era la più perfetta
costituzione che l'ordinamento gentilizio in generale potesse
sviluppare; era la costituzione modello dello stadio superiore
della barbarie. Se la società superava i limiti entro i quali
questa costituzione era adeguata, per l'ordinamento gentilizio non
rimaneva più nulla da fare; veniva distrutto; e al suo posto
subentrava lo Stato.
Note:
1) Le righe che seguono, fino a «Diamo qui solo
alcune brevi notizie ecc.», sono un'aggiunta di Engels alla quarta
edizione.
2) I Varali vivono nella regione degli attuali
Stati di Bombay e Madhya Pradesh; i Magari nel Nepal occidentale;
i Munnipuri (Manipuri) nello Stato di Manipur e nelle vicine
regioni dell'Unione Indiana e dell'Unione Birmana.
3) La conquista inglese del Galles fu condotta a
termine negli anni 1282-84 sotto Edoardo l.
4) ln quell'anno Engels preparava un'ampia
storia dell'Irlanda.
5) Ancient
Laws and Institutes of Wales (Antiche
leggi e istituti del Galles), vol. I, s. 1., 1841, p. 93. Su
queste leggi Marx aveva richiamato l'attenzione di Engels in due
lettere del 10 e 11 maggio 1870 (Carteggio cit, vol. VI, p. 79
sg.), commentando: «Si trattava assolutamente (fino ai secoli XI
XII) della fantasia del Fourier mise
en pratique.»
6) Durante alcuni giorni passati in Irlanda ho
potuto avere viva coscienza di come il popolo delle campagne viva
laggiù ancora nelle idee dell'età gentilizia. Il proprietario
terriero di cui il contadino è fittavolo, è ancora per costui una
specie di capo clan che deve amministrare la terra nell'interesse
di tutti, al quale il contadino paga il tributo sotto forma di
fitto, ma dal quale deve ricevere soccorso in caso di necessità. E
cosi pure ogni benestante ha il dovere di soccorrere i suoi vicini
più poveri quando essi cadono in miseria. Tale aiuto non è
elemosina, ma è ciò che di diritto spetta al più povero da parte
del più ricco membro del clan o capo del clan. Si comprendono i
lamenti degli economisti e dei giuristi per l'impossibilità di
inculcare nel contadino irlandese il concetto della moderna
proprietà borghese; una proprietà che ha solo diritti e nessun
dovere non entra assolutamente in un cervello irlandese. Si
capisce però anche perché gli Irlandesi, immersi bruscamente con
tali ingenue idee di provenienza gentilizia nella vita delle
grandi città inglesi o americane, tra una popolazione fornita di
una concezione della morale e del diritto del tutto differente
dalla loro, facilmente perdano il senno su ciò che riguarda morale
e diritto, dimentichino ogni limite e cadano spesso nella
demoralizzazione. [Nota di Engels alla quarta edizione].
7) L'insurrezione ispirata dai sostenitori degli
Stuart, che volevano elevare al trono Carlo Edoardo, nipote di
Giacomo II.
8) Walter Scott (1771-1832), il grande scrittore
scozzese, creatore del romanzo storico moderno, uno dei romanzieri
preferiti di Marx. Il suo romanzo Waverley si svolge al tempo
dell'insurrezione del 1745; in Rob
Roy è
descritta la dissoluzione dei clan.
9) Beda Il Venerabile (circa 672-735), monaco
anglosassone, santo e dottore della Chiesa. Engels si riferisce
alla sua Historia
ecclesiastica gentis Anglorum (Storia ecclesiastica
del popolo degli Angli), libro I, cap. 1. I Pitti erano antiche
popolazioni celtiche della Scozia.
10) I Cimbri, tribù germanica originaria dello
Jutland settentrionale, alla fine del II secolo a. C. emigrarono
verso sud insieme con i Teutoni loro vicini; dopo alcuni anni
l'esercito romano comandato da Gaio Mario sconfisse i Teutoni ad
Aquae Sextiae (AixenProvence) e i Cimbri presso Vercelli (102-101
a. C.). Gli Svevi, grande gruppo proveniente dal Brandeburgo,
raggiunsero il Reno verso il 100 a. C.
11) Cesare, La
guerra gallica, libro
VI, cap. 22.
12) Da questo punto fino al capoverso «Come tra
i Messicani e i Greci ecc.» il testo è stato notevolmente ampliato
da Engels nella quarta edizione.
13) Codificazione, risalente ai secoli VI-VlI e
VIII, del diritto consuetudinario degli Alemanni, popolazione
sveva che mosse nel lI secolo a. C. dal Brandeburgo, nei secoli
seguenti attaccò ripetutamente le frontiere dell'impero romano e
infine si trovò divisa in vari gruppi stabiliti in Alsazia, nel
Palatinato, in parte della Svizzera e della Germania meridionale.
14) In Maxim Kovalevski, Pervobytnoe pravo.
Vypusk I.
(Diritto primitivo, fascicolo I), Moskva, 1886.
15) Secondo Tacito e Plinio il Vecchio i Germani
erano divisi in tre grandi gruppi etnici: Erminoni, lngevoni e
Istevoni. I primi comprendevano gli Svevi, i Catti, i Cherusci
ecc.
16) Poema eroico tedesco dell'VIII secolo.
17) Germania,
cap. 7.
18) lvi, cap. 20.
19) La natura particolarmente intima dei vincoli
tra zio materno e nipote, proveniente dal tempo in cui era in
vigore il diritto matriarcale, e che si trova tra parecchi popoli,
è conosciuta dai Greci solo nella mitologia dell'età eroica.
Secondo Diodoro, IV, 34, Meleagro uccide i figli di Testio,
fratelli di sua madre Altea. Costei vede in questa azione un
delitto talmente inespiabile che maledice l'assassino, che è suo
figlio, e gli augura la morte. «Gli dei, a quello che si racconta,
esaudirono i suoi desideri e posero fine alla vita di Meleagro.»
Secondo lo stesso Diodoro (IV, 44), gli Argonauti sbarcano sotto
Eraclea nella Tracia e trovano colà che Fineo, istigato dalla sua
nuova moglie, maltratta vergognosamente i due figli che aveva
avuto dalla sua consorte repudiata, la Boreade Cleopatra. Ma tra
gli Argonauti vi sono anche dei Boreadi, fratelli di Cleopatra,
dunque zii materni dei maltrattati. Questi prendono subito le
parti dei loro nipoti e li liberano, uccidendo i loro guardiani
[Nota di Engels).
Diodoro Siculo, storico del I secolo a. C., scrisse in greco una Biblioteca storica in 40 libri, storia
universale che ci è rimasta solo in parte.
20) La parte che segue, fino al capoverso «Del
resto, il diritto matriarcale ecc.», e un'aggiunta di Engels alla
quarta edizione.
21) E un canto dell'Edda antica,
risalente all'anno 1000 circa; in esso un'indovina racconta le
vicende degli dèi dalle origini fino alla fine del mondo e alla
sua palingenesi. Engels cita i primi versi della strofa 45. Per
gli elementi cristiani di questa predizione cfr. il Vangelo di
Marco. XllI, 12: «E il fratello darà il fratello alla morte. e il
padre il figliuolo».
22) Anton Christian Bang. Voluspaa
og de Sibylliniske Orakler (Völuspâ e gli
oracoli sibillini). Christiania 1879; Sophus Bugge, Studier over de
nordiske Gude-og Heltesagns oprindelse (Studi sull'origine
dei canti mitologici ed eroici nordici), Christiania 1881-89. Il
Bang (1840-1913) era un teologo e storico norvegese; il Bugge
(1833-1907), filologo norvegese, professore a Cristiania (Oslo),
scrisse numerosi saggi sull'antica letteratura scandinava.
23) Tacito, Germania,
cap. 20.
24) Georg Ludwig Von Maurer, Geschichte der
Städteverfassung in Deutschland (Storia degli
ordinamenti delle città in Germania), 4 voll.. Erlangen
1869-1871.
25) Germania,
capp. 8 e 15. Nel 69 d. C. Gaio Giulio Civile, un nobile Batavo,
capeggiò contro i Romani un'insurrezione che ebbe l'appoggio di
Germani d'oltre Reno. Dopo una prima sconfitta, la rivolta si
estese ancora, trascinando tribù galliche, finché le truppe romane
riportarono una vittoria decisiva presso Treviri e infine Civile
dovette capitolare. Veleda fu condotta prigioniera a Roma.
26) Ivi, cap. 25.
27) Ivi, capp. 18 e 19.
28) Vescovo di Tours nel VI secolo, autore di
una Storia dei
Franchi in
cinque libri.
29) Scrive Tacito: «Nessuna altra gente e più
larga nell'offrire banchetti e ospitalità. Si considera un'empietà
chiudere la porta a chiunque: ognuno accoglie preparando mense
proporzionate ai suoi mezzi. Se le provviste vengono a mancare,
colui che aveva dato ospitalità indica all'invitato un'altra casa
ospitale e ve l'accompagna, e vanno non invitati alla casa più
vicina. Ne si fa differenza: vengono accolti con uguale cortesia.
Riguardo al diritto d'ospitalità nessuno distingue fra persone
conosciute e sconosciute. E consuetudine offrire all'ospite in
partenza ciò che egli può chiedere; e anche dall'altra parte si
chiede con la stessa facilità. Gradiscono i regali, ma non mettono
in conto quelli offerti ne si sentono obbligati per quelli
ricevuti».
30) La
Guerra gallica, libro IV, cap. I.
31) Germania,
cap. 26.
32) I tre capoversi seguenti, fino a «Mentre in
Cesare i Tedeschi ecc.», sono un'aggiunta di Engels alla quarta
edizione.
33) Georg Waitz (1813-1886), storico tedesco,
professore a Kiel e a Gottinga, scrisse fra l'altro una Deutsche
Verfassungsgeschichte (Storia
delle costituzioni tedesche), 1844-1878, fondata su una vasta
raccolta di documentazione.
34) Registro di documenti su donazioni,
privilegi, ecc., raccolto nel XII secolo nel convento benedettino
di Lorsch, presso Worms.
35) Plinio Il Vecchio, Storia naturale,
libro XVIII, cap. 17. In questa sua opera di compilazione in 37
libri l'erudito Plinio (23/24-79 d.C.) ci ha lasciato una gran
massa di notizie utili sulle scienze e sulla vita pratica
nell'antichità.
36) Le rune sono i segni alfabetici dell'antica
scrittura germanica e scandinava. Presso i popoli primitivi la
scrittura generalmente considerata di origine soprannaturale, e
anche alle rune si attribuivano poteri magici.
37) Germania,
cap. 11.
38) Ivi, cap. 12.
39) Odoacre (434-493), il condottiero germanico
che assunse il governo dell'Italia e pose fine all'Impero romano
d'occidente (476).
I Tedeschi erano, secondo Tacito, un popolo molto numeroso.
Un'idea approssimativa della forza dei singoli popoli tedeschi la
troviamo in Cesare, che fa ammontare a 180.000, donne e bambini
inclusi, il numero degli Usipeti e dei Tencteri apparsi sulla riva
sinistra del Reno. Dunque circa 100.000 persone per un singolo
popolo (1) : un numero già
notevolmente maggiore, per esempio, della totalità degli Irochesi
nel periodo del loro fiorire, quando, in meno di 20.000,
terrorizzarono tutto il territorio che va dai Grandi Laghi fino
all'Ohio e al Potomac. Se cerchiamo di raggruppare coloro che
abitavano nelle vicinanze del Reno, noti con abbastanza precisione
dai resoconti pervenutici, noi vediamo che un tale singolo popolo
occupa sulla carta, in media, all'incirca lo spazio di un
distretto governativo prussiano, cioè circa 10.000 chilometri
quadrati o 182 miglia geografiche quadrate. La Germania Magna (2) dei Romani, fino alla
Vistola, comprende in cifra tonda 500.000 chilometri quadrati.
Calcolando un numero medio di 100.000 persone per ogni singolo
popolo, il numero complessivo della popolazione della Germania
Magna verrebbe ad essere di 5 milioni. Dieci abitanti per
chilometro quadrato, o 550 per miglio geografico quadrato, cifra
considerevole per un gruppo di popoli barbarici, ma
straordinariamente piccola nella situazione odierna. Con ciò però
non abbiamo certo esaurito il numero dei Tedeschi allora viventi.
Sappiamo che lungo i Carpazi, fino alle foci del Danubio,
abitavano popoli tedeschi di origine gotica, i Bastarni, i Peucini
ed altri, così numerosi che Plinio (3) ne fa la quinta tribù
principale dei Tedeschi, e che essi, che già 180 anni prima
dell'era volgare appaiono al soldo del re di Macedonia Perseo (4),
durante i primi anni dell'impero di Augusto si spingevano ancora
fin nei pressi di Adrianopoli. Calcolandoli solo un milione,
abbiamo all'inizio della nostra era, verosimilmente, per lo meno
sei milioni di Tedeschi.
Dopo l'insediamento in Germania la popolazione dovette aumentare
con crescente celerità. I progressi industriali, sopra ricordati,
proverebbero da soli questo fatto. Gli oggetti rinvenuti delle
paludi dello Schleswig risalgono, secondo le monete romane che vi
sono comprese, al terzo secolo. Verso quest'epoca, quindi, sulle
rive del Baltico fioriva già una sviluppata industria metallurgica
e tessile, un commercio attivo con l'impero romano, e un certo
lusso tra i ricchi; indizi questi di una popolazione alquanto
densa. Intorno a quest'epoca, però, comincia anche la guerra
offensiva generale dei Tedeschi su tutta la linea del Reno, del
vallo di frontiera romano e del Danubio, dal Mar del Nord fino al
Mar Nero; il che prova direttamente l'aumento sempre crescente
della popolazione, che premeva verso l'esterno. Trecento anni durò
la lotta, durante la quale l'intera stirpe principale dei popoli
gotici (eccetto i Goti scandinavi e i Burgundi) marciò verso
sud-est formando l'ala sinistra della grande linea offensiva, al
centro della quale gli alto-tedeschi (Erminoni) avanzarono
sull'alto Danubio e all'ala destra di questi gli Iscevoni,
chiamati ora Franchi, avanzarono sul Reno; agli Ingevoni toccò in
sorte la conquista della Britannia. Alla fine del quinto secolo
l'impero romano era indebolito, dissanguato e aperto senza scampo
alla penetrazione germanica.
Prima eravamo alla culla delle antiche civiltà greche e romane.
Qui siamo alla loro tomba. Su tutti i paesi del bacino
mediterraneo era passata la pialla livellatrice del dominio
mondiale romano e ciò per secoli. Là dove il greco non aveva
opposta resistenza, tutte le lingue nazionali avevano dovuto
cedere di fronte a un latino corrotto; non vi erano più differenze
nazionali, non più Galli, Iberi, Liguri, Norici; tutti erano
diventati Romani. L'amministrazione romana e il diritto romano
avevano disciolto dappertutto le amiche unioni gentilizie e
insieme gli ultimi residui di autonomia, locale e nazionale. La
cittadinanza romana, acquisita da fresca data, non offriva
compenso di sorta: essa non era espressione di una nazionalità, ma
solo della mancanza di nazionalità. Gli elementi di nuove nazioni
esistevano dovunque; i dialetti latini delle varie province si
differenziavano sempre più; i confini naturali che avevano fatto
una volta dell'Italia, della Gallia, della Spagna, dell'Africa,
dei territori autonomi, esistevano ancora ed erano ancora
sensibili. In nessun luogo però esisteva una forza capace di
unificare questi elementi in nazioni nuove, in nessun luogo vi era
ancora traccia di una capacità di sviluppo, di una forza di
resistenza, e meno che mai di una capacità creativa.
L'enorme massa di uomini di quell'enorme territorio era tenuta
unita da un solo vincolo: lo Stato romano; e questo era diventato,
col tempo, il suo peggiore nemico ed oppressore. Le province
avevano annientato Roma; Roma stessa era diventata una città di
provincia come le altre, privilegiata, ma non più a lungo
dominante, non più a lungo centro dell'impero del mondo, non più
sede degli imperatori e vice imperatori, che dimoravano a
Costantinopoli, Treviri, Milano.
Lo Stato romano era divenuto una macchina gigantesca e complicata,
esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi. Imposte, tributi
di Stato, prestazioni di ogni genere spingevano la massa della
popolazione in una povertà sempre maggiore. Al di là dei limiti
della sopportazione fu spinta l'oppressione con le estorsioni dei
governatori, degli esattori d'imposte, dei soldati. A questo aveva
portato il dominio dello Stato romano esteso su tutto il mondo:
esso fondava il suo diritto all'esistenza sulla conservazione
dell'ordine all'interno, sulla difesa contro i barbari
all'esterno. Ma il suo ordine era peggiore del peggiore disordine
e i barbari, da cui lo Stato romano pretendeva di proteggere i
cittadini, erano considerati da costoro come salvatori.
La situazione sociale non era meno disperata. Già fin dagli ultimi
tempi della repubblica il dominio romano aveva mirato allo
sfruttamento senza scrupoli delle province conquistate; l'impero
non aveva abolito questo sfruttamento, al contrario lo aveva
regolato. Quanto più l'impero declinava, tanto più aumentavano i
tributi e le prestazioni, tanto più sfrontatamente i funzionari
predavano ed estorcevano.
Commercio ed industria non erano mai stati occupazione dei Romani,
dominatori di popoli; solo nell'usura essi avevano superato tutto
ciò che c'era stato prima e che ci fu dopo. Ciò che del commercio
era stato da loro trovato e mantenuto andò in rovina con le
estorsioni dei funzionari; ciò che ancora tirava avanti riguarda
la parte orientale, greca, dell'impero, che esce dai limiti della
nostra considerazione. Impoverimento generale, regresso del
commercio, dell'artigianato, dell'arte, diminuzione della
popolazione, decadenza delle città, ritorno dell'agricoltura ad
uno stadio inferiore: questo fu il risultato finale del dominio
mondiale di Roma.
L'agricoltura, il ramo di produzione decisivo in tutto il mondo
antico, ritornava ad esserlo più che mai. In Italia gli enormi
complessi fondiari (latifondi), che a datare dalla fine della
repubblica comprendevano quasi tutto il territorio, erano stati
sfruttati in due modi: o come pascoli, dove la popolazione fu
sostituita da pecore e buoi, alla cui sorveglianza bastavano pochi
schiavi; o come ville, in cui con masse di schiavi si praticava
l'orticoltura in grande stile, in parte per il lusso del
proprietario, in parte a scopo di vendita sui mercati cittadini. I
grandi pascoli erano stati conservati e forse anche allargati; le
ville e la loro orticoltura erano andate in rovina per
l'impoverimento dei loro proprietari e la decadenza delle città.
L'economia dei latifondi, fondata sul lavoro degli schiavi, non
fruttava più; ma era, allora, l'unica forma possibile della grande
agricoltura. La piccola coltivazione era ridiventata la sola forma
redditizia. Tutte le ville, una dopo l'altra, vennero spezzettate
in piccoli appezzamenti e assegnate a fittavoli ereditari che
pagavano una determinata somma o a partiarii, più
amministratori che fittavoli, i quali, in cambio del loro lavoro,
ricevevano la sesta o la nona parte del raccolto annuale.
Prevalentemente, però, questi piccoli appezzamenti venivano
concessi a coloni che pagavano un certo canone annuo, che erano
incatenati alla gleba e potevano essere venduti insieme al loro
appezzamento; essi non erano certo schiavi, ma neppure liberi, non
potevano sposarsi con donne libere, e i matrimoni tra loro erano
considerati non pienamente validi ma, come quelli degli schiavi,
semplici concubinati (contubernium). Essi erano i
precursori dei servi della gleba medievali.
L'antica schiavitù aveva fatto il suo tempo. Essa non dava più un
profitto che valesse la pena, né in campagna, nella grande
agricoltura, né nelle manifatture cittadine: il mercato per i suoi
prodotti era scomparso. La piccola agricoltura, però, e il piccolo
artigianato, in cui si era rattrappita la gigantesca produzione
del periodo aureo dell'impero, non avevano posto per schiavi
numerosi. Nella società vi era ancora posto solo per gli schiavi
domestici e di lusso dei ricchi. Tuttavia la schiavitù morente era
pur sempre sufficiente a far apparire ogni lavoro produttivo come
attività da schiavo, come indegno di un Romano libero, e ognuno
ormai era libero.
Perciò, da un lato il numero crescente di emancipazioni di schiavi
superflui, divenuti un peso, dall'altro aumento qui di coloni e là
di liberi divenuti pezzenti (corrispondenti ai poor whites (5) dei vecchi Stati
schiavisti d'America). Il cristianesimo è completamente innocente
della estinzione graduale della schiavitù antica. Esso l'ha
accettata in pieno per secoli nell'impero romano e più tardi non
ha mai ostacolato il commercio di schiavi esercitato dai
cristiani: né quello esercitato dai Tedeschi del Nord, né quello
esercitato dai Veneziani nel Mediterraneo, né il posteriore
commercio di negri (6).
La schiavitù non rendeva più, ecco perché scomparve. Ma la
schiavitù morente lasciò il suo pungiglione avvelenato nel
dispregio in cui era tenuto il lavoro produttivo dei liberi.
Questo era il vicolo cieco nel quale andò a cacciarsi il mondo
romano: la schiavitù era economicamente impossibile, il lavoro
degli uomini liberi era moralmente al bando. L'una non poteva più
essere, l'altro non poteva ancora essere la forma fondamentale
della produzione sociale. Solo una completa rivoluzione poteva
portare un rimedio a questo stato di cose.
Nelle province la situazione non era migliore. Il maggior numero
di notizie ci proviene dalla Gallia. Qui, accanto ai coloni,
c'erano anche i piccoli contadini liberi. Per proteggersi dai
soprusi di funzionari, di giudici e di usurai, essi si ponevano
spesso sotto la protezione, il patronato, di un potente e
precisamente facevano ciò non solo gli individui, ma intere
comunità, cosicché nel IV secolo gli imperatori proibirono più
volte questo costume. Ma che utilità arrecava questa protezione a
coloro che la richiedevano? Il patrono poneva loro come condizione
che trasferissero a lui la proprietà del loro pezzo di terra,
assicurando loro l'usufrutto di essa vita natural durante: trucco
di cui la santa Chiesa si accorse e che imitò bravamente nel corso
del IX e X secolo, per accrescere il regno di Dio e i suoi propri
possessi fondiari.
È vero che, verso il 475, Salviano, vescovo di Marsiglia, inveisce
e si sdegna ancora contro tale furto e racconta che la pressione
dei funzionari romani e dei grandi proprietari terrieri era
diventata così crudele che molti «Romani» fuggivano nelle terre
già occupate dai barbari, e che i cittadini romani colà
domiciliati di null'altro avevano paura se non di tornare di nuovo
sotto il dominio romano (7).
Che allora genitori, di frequente, a causa della miseria
vendessero come schiavi i loro figli, lo prova una legge
promulgata contro questo costume.
Come compenso per aver liberato i Romani dal loro proprio Stato, i
barbari tedeschi si presero due terzi dell'intero territorio e se
lo divisero tra loro. La divisione avvenne secondo la costituzione
gentilizia; dato il numero proporzionalmente piccolo dei
conquistatori, grandissime estensioni di terreno rimasero
indivise, in parte in possesso di tutto il popolo, in parte delle
singole tribù e gentes. In ciascuna gens le terre arative e
prative vennero sorteggiate tra le singole comunità domestiche in
parti uguali; non sappiamo se si effettuassero spartizioni
periodicamente ripetute; in ogni modo, queste spartizioni
cessarono presto nelle province romane e le parti individuali
divennero proprietà privata alienabile, allodio. Boschi e pascoli
rimasero indivisi per uso pubblico; quest'uso, come il modo di
coltivare la terra spartita, fu regolato secondo l'antico costume
e secondo le decisioni della collettività. Quanto più a lungo la
gens risiedeva nel suo villaggio e quanto più Tedeschi e Romani a
poco a poco si fondevano, tanto più il vincolo veniva perdendo il
suo carattere di parentela per acquistare un carattere
territoriale; la gens scomparve nella comunità della marca in cui,
tuttavia, abbastanza spesso si trovano ancora tracce della sua
origine nella parentela dei suoi membri.
Così la costituzione gentilizia, almeno nei paesi dove la comunità
di marca rimase in vita — Francia del Nord, Inghilterra, Germania,
Scandinavia — insensibilmente si trasformò in una costituzione a
carattere locale e acquisì la capacità di ingranarsi nello Stato.
Ma, tuttavia, conservò il suo naturale carattere democratico che
distingue tutta la costituzione gentilizia e, pur nella
degenerazione che più tardi dovette subire, mantenne un poco della
costituzione gentilizia e insieme un'arme nelle mani degli
oppressi, valida fino alla nostra epoca.
Se il vincolo di sangue nella gens andò presto perduto, ciò fu la
conseguenza del fatto che, anche nella tribù e nell'insieme del
popolo, i suoi organi degenerarono in seguito alla conquista.
Sappiamo che l'assoggettamento di individui è incompatibile con la
costituzione gentilizia. Lo vediamo qui su vasta scala. I popoli
tedeschi, ora signori delle province romane, dovevano organizzare
quel che avevano conquistato. Non potevano però né accogliere la
massa dei Romani nelle gentes né dominarli per mezzo di esse. Alla
testa degli enti amministrativi locali romani, che frattanto in
gran parte continuavano ad esistere, si doveva mettere un
sostituto dello Stato romano, e questo poteva essere soltanto un
altro Stato.
Gli organi della costituzione gentilizia dovevano in tal modo
trasformarsi in organi statali e, sotto la spinta delle
circostanze, molto rapidamente. Il più diretto rappresentante del
popolo conquistatore era però il capo militare. La sicurezza del
territorio conquistato all'interno e all'esterno richiedeva un
rafforzamento della sua potenza. Era venuto il momento di
trasformare il capo militare in monarca e questa trasformazione fu
effettuata.
Prendiamo il regno dei Franchi. Qui al vittorioso popolo dei Salii (8) toccarono in
incontrastato possesso non solo i vasti domini dello Stato romano,
ma anche tutte le immense terre che non erano state distribuite
alle grandi e piccole comunità di regione e di marca e
specialmente tutti i grandi complessi forestali. La prima cosa che
fece il re dei Franchi, che da semplice capo militare supremo si
era trasformato in un effettivo sovrano, fu di trasformare questa
proprietà popolare in beni della corona, di rubarli al popolo e di
regalarli o di darli in beneficio al suo seguito. Questo seguito,
composto originariamente dalla sua scorta militare personale e
dagli altri sottocapi militari, si rafforzò presto non solo con
Romani, cioè Galli romanizzati, i quali ben presto gli divennero
indispensabili, grazie alla loro conoscenza dell'arte dello
scrivere, alla loro cultura, alla loro conoscenza della lingua
romanza locale, del latino letterario, nonché del diritto locale,
ma anche con schiavi, servi, liberti che costituivano la sua corte
e tra i quali sceglieva i favoriti. A tutti costoro furono dati,
prima quasi sempre in dono, poi sotto forma di benefici, che
inizialmente duravano per lo più quanto durava la vita del re,
appezzamenti della terra del popolo, e così si creò, a spese del
popolo, la base di una nuova nobiltà.
E non basta. L'ampia estensione di questo regno non poteva esser
governata con i mezzi dell'antica costituzione gentilizia. Il
consiglio dei capi, anche se non fosse divenuto da molto tempo
antiquato, non avrebbe potuto radunarsi, e venne presto sostituito
dai consiglieri permanenti del re. L'antica assemblea popolare
continuò ad esistere apparentemente, ma divenne anch'essa, sempre
più, una semplice assemblea dei sottocapi dell'esercito e della
nobiltà di nuova formazione. I liberi contadini, proprietari
terrieri, la massa del popolo franco, furono logorati e rovinati
dalle interminabili guerre civili e di conquista, le ultime
frequenti in ispecie sotto Carlo Magno, così come una volta, negli
ultimi tempi della repubblica, lo erano stati i contadini romani.
Essi, che in origine avevano formato tutto l'esercito e, dopo la
conquista della Francia, il nucleo di esso, all'inizio del IX
secolo erano così impoveriti che appena un uomo su cinque poteva
andare sotto le armi. Al posto del bando di leva di contadini
liberi, direttamente emesso dal re, nacque un esercito composto da
servi dei nobili di recente data, e tra questi vi erano anche i
contadini vincolati, i discendenti di coloro che una volta avevano
riconosciuto come solo padrone il re e prima ancora non ne avevano
riconosciuto alcuno, neppure un re.
Sotto i successori di Carlo si completò la rovina del ceto
contadino franco, causata da guerre intestine, dall'indebolimento
del potere regio, dalle corrispettive prepotenze da parte dei
nobili, a cui si aggiunsero inoltre i conti di regione, istituiti
da Carlo, che cercavano di rendere ereditaria la loro carica, e
finalmente dall'invasione dei Normanni. Cinquant'anni dopo la
morte di Carlo Magno il regno dei Franchi giaceva ai piedi dei
Normanni, incapace di resistere non meno di quanto lo fosse stato
quattrocento anni prima l'impero romano ai piedi dei Franchi.
E l'impotenza verso l'esterno e l'ordine, anzi il disordine,
sociale interno erano quasi eguali. I liberi contadini franchi si
trovavano in una situazione analoga a quella dei loro
predecessori: i coloni romani. Rovinati dalle guerre e dai
saccheggi, poiché il potere regio era troppo debole per
proteggerli, avevano dovuto mettersi sotto la protezione dei
nobili di recente data o della Chiesa. Ma questa protezione doveva
costar loro cara. Come già i contadini della Gallia, così essi
dovettero trasferire nelle mani del signore la proprietà del loro
pezzo di terra, e riceverla da costui come fondo a canone in forme
diverse e mutevoli, ma sempre solo in cambio di prestazione di
servigi e di tributi; una volta posti in questa posizione di
dipendenza, essi finirono col perdere anche la libertà personale e
dopo poche generazioni erano per lo più già servi della gleba.
Il libro catastale (9) di Irminone
nell'Abbazia di Saint-Germain-des-Près, una volta fuori ed ora
facente parte di Parigi, mostra quanto rapidamente si compì il
tramonto dei contadini liberi. Nei vasti possedimenti fondiari di
questa abbazia disseminati nei dintorni, risiedevano allora, sotto
Carlo Magno, 2.788 comunità domestiche quasi senza eccezione
franche, con nomi tedeschi. Tra queste vi erano 2.080 coloni, 35
liti (10), 220
schiavi e solo 8 residenti liberi! La pratica, tacciata di empietà
da Salviano, per cui il signore protettore si faceva trasferire in
proprietà il pezzo di terra del contadino restituendoglielo solo
in uso vita natural durante, era allora attuata comunemente dalla
Chiesa nei riguardi dei contadini. Le corvées che ora venivano
sempre più in uso, avevano avuto il loro modello nelle angarie romane, lavori
forzati per lo Stato, come nei servizi prestati dai membri delle
marche tedesche, per costruzioni di ponti, strade ed altri fini
comuni. In apparenza, dunque, la massa della popolazione, dopo
quattro secoli, era tornata completamente al punto di partenza.
Ma questo fatto prova solo due cose : primo, che l'articolazione
sociale e la distribuzione della proprietà nell'impero romano al
suo tramonto erano in perfetta corrispondenza con il grado di
produzione agricola ed industriale dell'epoca, dunque erano state
inevitabili; secondo, che questo livello di produzione durante i
quattro secoli che seguirono non era né sostanzialmente disceso né
sostanzialmente salito: quindi, con pari necessità era tornato a
generare la stessa distribuzione della proprietà e le stesse
classi della popolazione.
La città aveva perduto, negli ultimi secoli dell'impero romano, il
suo dominio di una volta sulla campagna e nei primi secoli della
dominazione tedesca non l'aveva riacquistato. Ciò presuppone un
basso grado di sviluppo tanto dell'agricoltura quanto
dell'industria. Questa situazione nel suo complesso, produce
necessariamente grossi proprietari terrieri che dominano piccoli
contadini che ne dipendono. Quanto poco fosse possibile innestare
in una simile società, da una parte, l'economia latifondistica
romana, con gli schiavi, dall'altra la nuova grande coltura
fondata sulle corvées,
lo provano gli esperimenti imponenti, ma passati senza quasi
lasciare traccia di sé, delle famose ville imperiali di Carlo
Magno. Gli esperimenti furono continuati dai conventi per i quali
soltanto furono fruttuosi. I conventi però erano enti sociali
fuori della norma, fondati sul celibato; essi potevano fare, sì,
cose eccezionali, ma proprio per questo dovevano anche rimanere
eccezioni.
Eppure, passi avanti se ne erano fatti durante questi quattro
secoli! Noi ritroviamo, è vero, anche alla fine, quasi le stesse
classi principali esistenti all'inizio, ma gli uomini che
formavano queste classi erano mutati. Era scomparsa l'antica
schiavitù, scomparsi i liberi poveri diventati straccioni, che
disprezzavano il lavoro come cosa da schiavi. Tra il colono romano
e il nuovo servo c'era stato il libero contadino franco.
L'«inutile ricordo e la lotta vana» della romanità al tramonto
erano morti e sepolti.
Le classi sociali del IX secolo si erano formate non nella
putrefazione di una civiltà in decadenza, ma nelle doglie del
parto di una civiltà nuova. La nuova generazione, sia padroni che
servi, era una generazione di uomini paragonata a quella dei suoi
predecessori romani. Il rapporto tra potenti signori terrieri e
contadini al loro servizio, rapporto che per questi ultimi era
stata la forma di una rovina senza scampo nel mondo antico, era
ora per i primi il punto di partenza di un nuovo sviluppo. E
tuttavia, per quanto questi quattro secoli appaiano improduttivi,
pure essi lasciarono dietro di sé un prodotto importante: le
nazionalità moderne, nuova forma e organizzazione dell'umanità
dell'Europa occidentale per la storia futura.
I Tedeschi avevano in effetti ravvivato l'Europa e perciò la
dissoluzione degli Stati del periodo germanico finì non nella
sottomissione normanno-saracena, ma nella trasformazione
progressiva in feudalesimo dei benefici e della sottomissione a
scopo di protezione (raccomandazione), e con un così rilevante
aumento di popolazione che, appena due secoli più tardi, i forti
salassi delle crociate furono sopportati senza danno.
Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i Tedeschi infusero
nuova vita all'Europa morente? Era forse un potere miracoloso
innato nella stirpe tedesca come ci vengono predicando i nostri
storici sciovinisti? In nessun modo. I Tedeschi erano,
specialmente in quel periodo, una stirpe ariana assai dotata e in
pieno sviluppo di vita. Non furono però le loro specifiche qualità
nazionali a ringiovanire l'Europa, ma semplicemente la loro
barbarie, la loro costituzione gentilizia.
La loro valentia personale, il loro valore, il loro senso della
libertà e l'istinto democratico che vedeva in tutte le faccende di
pubblico interesse faccende proprie, in breve tutte le qualità che
i Romani avevano perdute e che erano le sole in grado di formare,
col fango del mondo romano, nuovi Stati e di far sviluppare nuove
nazionalità, che cosa altro erano se non i tratti caratteristici
dei barbari dello stadio superiore, frutto della costituzione
gentilizia?
Se essi trasformarono l'antica forma della monogamia e mitigarono
il dominio dell'uomo nella famiglia, dando alla donna una
posizione più elevata di quella che il mondo classico avesse mai
conosciuta, che cosa gliene diede la possibilità, se non la loro
barbarie, le loro consuetudini gentilizie, il loro retaggio,
ancora vivo, dell'epoca matriarcale?
Se essi, per lo meno in tre dei più importanti paesi, Germania,
Francia del Nord e Inghilterra, salvarono un elemento della
genuina costituzione gentilizia, sotto forma delle comunità di
marca, trasferendolo nello Stato feudale e con ciò diedero alla
classe oppressa, ai contadini, anche sotto la più crudele servitù
della gleba medievale, una coesione locale ed uno strumento di
resistenza, che né gli antichi schiavi né i proletari moderni
hanno avuto a portata di mano, a che cosa si deve ciò, se non alla
loro barbarie, alla loro maniera esclusivamente barbarica di
colonizzare su base gentilizia?
E infine, se poterono sviluppare e rendere esclusiva quella
mitigata forma di servitù, già esercitata in patria, e che anche
nell'impero romano prese gradatamente il posto della schiavitù,
forma che, come per primo Fourier mise in evidenza, offre agli
asserviti i mezzi per una liberazione graduale come classe (fournit aux
cultivateurs des moyens d'affranchissement collectif et
progressif (11));
forma che perciò si eleva molto più in alto della schiavitù, nella
quale solo era possibile l'immediato affrancamento individuale
senza uno stadio di transizione (soppressione della schiavitù in
seguito a ribellione vittoriosa l'antichità non ne conosce),
mentre nei fatti i servi della gleba del Medioevo riuscirono
progressivamente ad affrancarsi come classe, a che cosa dobbiamo
ciò, se non alla loro barbarie, in forza della quale essi non
erano ancora arrivati alla schiavitù sviluppata, né all'antica
schiavitù del lavoro, né a quella domestica orientale?
Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo
romano fu la barbarie. Infatti solo dei barbari sono in grado di
ringiovanire un mondo che soffre di civiltà morente. E lo stadio
supremo della barbarie, verso il quale e nel quale i Tedeschi si
erano sforzati di innalzarsi prima della migrazione dei popoli,
era precisamente il più favorevole a questo processo. E questo
spiega tutto.
Note:
1) La cifra qui riportata viene confermata da un
passo di Diodoro sui Celti della Gallia: «Nella Gallia abitano
molte popolazioni di numero ineguale. Le più numerose hanno circa
200.000 abitanti; le meno numerose 50.000» (Diodoro Siculo, V,
25). Dunque in media 125.000 persone. I singoli popoli della
Gallia, per il più alto grado di progresso raggiunto, sono da
considerarsi senza dubbio un po' più numerosi di quelli della
Germania [Nota di Engels].
2) Nome che i geografi romani davano al
territorio compreso fra il Reno e la Vistola.
3) Plinio Il Vecchio, Storia naturale,
libro IV, cap. 14.
4) Ultimo re di Macedonia (dal 179 al 168 a.C.),
fu sconfitto a Pidna (168) dai Romani, che smembrarono il suo
Stato
5) «Poveri bianchi»: così erano chiamati i
bianchi poveri e declassati delle zone in cui il proletariato
negro era preponderante.
6) Secondo il vescovo Liutprando di Cremona, a
Verdun nel X secolo, cioè durante il Sacro Impero germanico, il
ramo principale dell'industria era la fabbricazione di eunuchi che
venivano esportati con grossi guadagni in Spagna per gli harem dei
Mori [Nota di Engels].
Liutprando, Antapodosis,
libro VI, cap. 6. Liutprando (circa 920-972), di nobile origine
longobarda, cortigiano e diplomatico, vescovo di Cremona dal 961,
ebbe importanti incarichi da Berengario II e Ottone I.
7) Salviano Di Marsiglia, De Gubernatione
Dei (Il
Governo di Dio), libro V, cap. 8. Salviano (V secolo), vescovo di
Marsiglia, nella sua opera attacca la decadenza e la corruzione
dei Romani, cui contrappone i migliori costumi dei barbari.
8) Erano il gruppo di germani Franchi che dopo
la vittoria di Clodoveo a Soissons (486 o 487) prevalse in Gallia.
9) Detto generalmente Polittico;
inventario delle proprietà del convento di Saint-Germain-des-Près,
con i contadini ivi occupati e le sue entrate, compilato nel IX
secolo dall'abate Irminone.
10) Contadini semiliberi.
11) «Fornisce ai coltivatori mezzi di
affrancamento collettivo e progressivo». Charles
Fourier, Théorie des quatre mouvements et des destinées
générales (Teoria
dei quattro movimenti e dei destini generali), in, Oeuvres
complétes, III ediz., vol. I, Parts
1846, p. 220 (la prima edizione era apparsa anonima a Lione nel
1808).
Abbiamo seguito ora il dissolvimento della costituzione gentilizia
nei tre grandi esempi singoli dei Greci, dei Romani e dei
Tedeschi. Indaghiamo ora, per concludere, le condizioni economiche
generali che minarono l'organizzazione gentilizia della società
già nello stadio superiore della barbarie, e la eliminarono
completamente con l'ingresso della civiltà. Per tale ricerca il Capitale di Marx ci sarà tanto
necessario quanto il libro di Morgan.
Nata nello stadio medio, sviluppatasi ulteriormente in quello
superiore dello stato selvaggio, la gens, per quanto possiamo
giudicare dalle fonti in nostro possesso, raggiunge il suo
rigoglio nello stadio inferiore della barbarie. Cominciamo dunque
da questo stadio di sviluppo.
Qui, dove devono servirci di esempio i Pellirosse d'America,
troviamo la costituzione gentilizia completamente formata. Una
tribù si è articolata in più gentes, per lo più in due: queste
gentes originarie, crescendo il numero della loro popolazione, si
dividono ciascuna in più gentes figlie di fronte alle quali la
gens madre si presenta come fratria; la stessa tribù si scinde in
più tribù, in ognuna delle quali ritroviamo, in gran parte, le
antiche gentes; una federazione riunisce, per lo meno in singoli
casi, le tribù affini. Questa semplice organizzazione è del tutto
sufficiente per le condizioni sociali da cui è nata. Essa non è
altro che il loro proprio e naturale raggruppamento, essa è in
grado di appianare tutti i conflitti che sorgano all'interno della
società così organizzata. All'esterno la guerra accomoda ogni
cosa; essa può finire con l'annientamento di una tribù, mai però
col suo soggiogamento. La grandiosità, ma anche il limite della
costituzione gentilizia consiste nel fatto che non vi è posto, in
essa, per il dominio e per il servaggio. All'interno non vi è
ancora alcuna distinzione tra diritti e doveri; per gli Indiani il
problema se prendere parte alle pubbliche faccende, se la vendetta
di sangue e il guidrigildo siano un diritto o un dovere, non
esiste. Un tale problema sembrerebbe loro altrettanto assurdo
quanto il domandarsi se mangiare, dormire, andare a caccia siano
un diritto o un dovere. Tanto meno vi può essere divisione della
tribù e della gens in classi distinte. E questo fatto ci spinge
all'indagine della base economica di un tale stato di cose.
La popolazione è straordinariamente rada: si fa più densa solo nel
luogo di residenza della tribù, intorno al quale si estende
anzitutto in largo cerchio il territorio adibito alla caccia, poi
la foresta neutrale di protezione che la divide da altre tribù. La
divisione del lavoro è del tutto naturale, essa sussiste solo tra
i due sessi. L'uomo fa la guerra, va a cacciare e a pescare,
procura la materia prima per gli alimenti e gli strumenti
necessari per procacciarseli. La donna ha cura della casa, della
preparazione degli alimenti e delle vesti, cucina, tesse e cuce.
Ognuno dei due è padrone nel suo campo: l'uomo nella foresta, la
donna nella casa. Ognuno è proprietario degli strumenti che ha
fabbricato e adopera: l'uomo delle armi, degli strumenti di caccia
e di pesca, la donna delle suppellettili domestiche.
L'amministrazione domestica è comunistica per alcune e, spesso,
molte famiglie (1). Ciò
che viene fatto o utilizzato in comune è proprietà comune: la
casa, l'orto, il lungo battello. Ma qui e soltanto qui è valido
ciò che giuristi ed economisti hanno farneticato per la società
civile: la «proprietà creata con il proprio lavoro», ultimo
menzognero pretesto giuridico su cui ancora si sorregge l'odierna
proprietà capitalistica.
Ma gli uomini non rimasero dappertutto a questo stadio. In Asia
trovarono animali che si lasciavano addomesticare e una volta
addomesticati si lasciavano allevare. La bufala selvaggia doveva
essere cacciata, quella domestica forniva ogni anno un vitello e
inoltre latte. Un certo numero di tribù più progredite, gli
Ariani, i Semiti, e forse anche i Turani (2),
praticarono, come loro ramo principale di lavoro, dapprima
l'addomesticamento del bestiame, più tardi anche l'allevamento e
la cura di esso, Tribù di pastori si separarono dalla restante
massa dei barbari; prima
grande divisione sociale del lavoro. Le tribù di pastori
producevano viveri non solo in maggiore quantità rispetto agli
altri barbari, ma anche di diversa qualità. Queste tribù avevano,
rispetto alle altre, non solo assai più latte, latticini e carne,
ma anche pelli, lana, pelo caprino e filati e tessuti che
aumentavano con l'aumento della quantità della materia prima. Con
ciò divenne, per la prima volta, possibile un regolare scambio.
Negli stadi anteriori potevano aver luogo solo scambi occasionali;
un'abilità particolare nell'approntamento di armi e strumenti di
lavoro può portare ad una temporanea divisione del lavoro. Così in
molti luoghi sono stati trovati resti inequivocabili di officine
della tarda età della pietra per la fabbricazione di strumenti di
pietra; gli artefici che in questi lavori perfezionavano la loro
abilità, verosimilmente lavoravano per conto della collettività,
come ancora lavorano gli artigiani stabili di comunità gentilizie
indiane. In nessun caso, in questo stadio di sviluppo poteva
sorgere uno scambio diverso da quello che si verificava
all'interno della tribù, e anche questo rimase un avvenimento
eccezionale. Ma ora, dopo la separazione delle tribù di pastori,
troviamo già esistenti tutte le condizioni per lo scambio tra i
membri di tribù differenti e per il perfezionamento e il
consolidamento di esso come istituzione regolare. Originariamente
lo scambio avveniva fra tribù e tribù per mezzo dei rispettivi
capi delle gentes; ma quando gli armenti cominciarono a passare in
proprietà speciale (3), lo
scambio individuale prevalse sempre maggiormente per divenire
infine l'unica forma. Il principale articolo che le tribù di
pastori offrivano in cambio ai loro vicini era il bestiame; esso
divenne la merce in base alla quale venivano valutate tutte le
altre, e che dovunque veniva accettata volentieri nello scambio
con quelle; in breve il bestiame assunse la funzione di danaro e
già in questo stadio veniva usato come danaro. Tale era la
necessità e la rapidità con cui si sviluppò, già all'inizio dello
scambio di merci, il bisogno di una merce-danaro.
L'orticoltura, verosimilmente estranea ai barbari asiatici dello
stadio inferiore, apparve tra loro al più tardi nello stadio
medio, come precorritrice dell'agricoltura. Il clima
dell'altopiano turanico non permette pastorizia senza riserve di
foraggio per il lungo e rigido inverno; la coltura prativa e la
cerealicoltura qui erano dunque condizione indispensabile per la
pastorizia. Lo stesso vale per le steppe a nord del Mar Nero. Se,
però, dapprima i cereali furono prodotti per il bestiame, presto
divennero anche alimento per gli uomini. La terra coltivata rimase
ancora proprietà tribale, all'inizio assegnata in godimento alla
gens, più tardi da questa alle comunità domestiche, infine agli
individui; questi potevano accamparvi certi diritti di possesso,
ma nulla di più.
Fra le conquiste industriali di questo stadio, due hanno
particolare importanza. La prima è il telaio , la seconda è la
fusione dei minerali metallici e la lavorazione dei metalli. Il
rame e lo zinco [stagno ndr] e la lega da essi risultante, il
bronzo, furono di gran lunga i più importanti: iI bronzo fornì
strumenti utili ed armi, senza poter però soppiantare gli
strumenti di pietra; ciò fu possibile solo al ferro, ed estrarre
il ferro era cosa che ancora non si sapeva fare. Oro e Argento
cominciarono a venire adoperati per gioie e ornamenti ed erano già
pregiati molto più del rame e del bronzo.
L'aumento della produzione in tutti i rami - allevamento del
bestiame, agricoltura, artigianato domestico - diede alla
forza-lavoro umana la capacità di creare un prodotto maggiore di
quanto fosse necessario al suo mantenimento. L'aumento della
produzione fece aumentare contemporaneamente la quantità di lavoro
quotidiano che toccava ad ogni membro della gens, della comunità
domestica e della famiglia singola. Si sentiva ora il bisogno di
introdurre nuove forze-lavoro. La guerra le fornì; i prigionieri
di guerra furono mutati in schiavi. La prima grande divisione
sociale del lavoro, con l'aumento della produttività del lavoro e
quindi della ricchezza e con l'ampliamento del campo di produzione
che aveva determinato, dato l'insieme delle condizioni storiche
esistenti, portò necessariamente dietro di sé la schiavitù. Dalla
prima grande divisione sociale del lavoro, nacque la prima grande
scissione della società in due classi: padroni e schiavi,
sfruttatori e sfruttati.
Come e quando gli armenti passarono da possesso comune della tribù
o della gens a proprietà dei singoli capi di famiglia, non lo
sappiamo ancora. Ma questo fatto deve essere accaduto
essenzialmente in questo stadio. Con gli armenti e le altre nuove
ricchezze si effettuò nella famiglia una rivoluzione. La
produzione era sempre stata affare dell'uomo, ed erano stati di
sua proprietà i mezzi di produzione che egli aveva costruito. Gli
armenti erano il nuovo mezzo di produzione, perciò prima
addomesticarli e in seguito custodirli era lavoro che spettava
all'uomo. A lui dunque apparteneva il bestiame, a lui le merci e
gli schiavi avuti in cambio di bestiame. Ogni eccedenza che ora la
produzione forniva spettava all'uomo: la donna partecipava
all'usufrutto, ma non alla proprietà. Il guerriero e il cacciatore
«selvaggio» si erano accontentati di avere il secondo posto nella
casa, dopo la donna; il pastore «più mite», facendosi forte della
sua ricchezza, si spinse al primo posto, e respinse la moglie al
secondo. Ed essa non poteva lamentarsi. La divisione del lavoro
nella famiglia aveva regolato la ripartizione tra marito e moglie;
essa era rimasta la stessa e tuttavia ora rovesciava i rapporti
domestici fino allora esistenti, semplicemente perché la divisione
del lavoro all'esterno della famiglia era mutata. La stessa causa
che assicurava alla donna il suo precedente dominio nella casa, il
fatto, cioè, che il suo lavoro fosse limitato alla casa,
assicurava adesso il dominio dell'uomo nella casa; il lavoro
domestico della donna scomparve ora al cospetto del lavoro
produttivo dell'uomo: questo era tutto, quello, invece,
un'aggiunta insignificante.
Appare fin da ora chiaro che l'emancipazione della donna e la sua
equiparazione all'uomo è e resta impossibile finché la donna sarà
esclusa dal lavoro sociale produttivo e rimarrà limitata al lavoro
domestico privato. L'emancipazione della donna diviene possibile
solo quando essa può partecipare su vasta scala sociale alla
produzione, e il lavoro domestico non la impegna ancora che in
misura insignificante. E ciò è divenuto possibile solo con la
grande industria moderna la quale non soltanto permette il lavoro
della donna su vasta scala, ma lo esige formalmente e tende sempre
più a trasformare lo stesso lavoro domestico privato in una
industria pubblica.
Con l'effettivo dominio dell'uomo nella casa era caduta l'ultima
barriera alla sua autocrazia. La quale fu confermata ed eternata
dalla caduta del diritto matriarcale, dall'introduzione del
diritto patriarcale, dal trapasso graduale del matrimonio di
coppia nella monogamia. Però questo fatto produsse uno strappo
dell'antica costituzione gentilizia: la famiglia singola divenne
una potenza e si drizzò minacciosa di fronte alla gens.
Il prossimo passo avanti ci conduce allo stadio superiore della
barbarie, al periodo nel quale tutti i popoli civili vivono la
loro età eroica: l'età della spada di ferro, ma anche del vomere e
dell'ascia di ferro. Il ferro era diventato soggetto all'uomo e fu
l'ultima e la più importante di tutte le materie prime che ebbero
nella storia una parte rivoluzionaria; l'ultima... fino alla
patata (4). Il
ferro portò alla coltivazione di superfici più vaste, al
dissodamento di estese zone boscose, fornì all'artigiano strumenti
di una durezza e di un taglio a cui né la pietra né alcun altro
metallo noto poteva resistere. E tutto ciò gradualmente; il primo,
ferro era spesso ancora più debole del bronzo. L'arme di pietra
sparì solo lentamente, e non solo nel Canto di
Ildebrando, ma anche nella battaglia di Hastings (5) del 1066, comparvero
ancora le asce di pietra in battaglia. Ma il progresso ora fu
incessante, meno interrotto e più rapido. La città, con le sue
case di pietra o di mattoni, cinta di mura di pietra, di torri e
di bastioni, divenne la sede centrale della tribù o della
federazione di tribù: notevole passo avanti questo nell'edilizia,
ma anche segno di aumentato pericolo e aumentato bisogno di
difesa. La ricchezza crebbe rapidamente, ma come ricchezza di
individui; la tessitura, la lavorazione dei metalli e gli altri
mestieri artigiani che sempre più si differenziavano l'uno
dall'altro, spiegarono una varietà e un'abilità sempre maggiori
nella produzione; la coltivazione della terra forniva, oltre ai
cereali, legumi e frutta, anche olio e vino, di cui si era appresa
la preparazione. Attività così svariate non potevano più essere
esercitate da uno stesso individuo; apparve la seconda grande
divisione del lavoro: l'artigianato si separò
dall'agricoltura. L'aumento continuo della produzione e quindi
della produttività del lavoro elevò il valore della forza-lavoro
umana; la schiavitù ancora nascente e sporadica nello stadio
precedente, diventa ora un elemento essenziale del sistema
sociale; gli schiavi cessano di essere semplici ausiliari e
vengono spinti a dozzine al lavoro, nei campi e nelle officine.
Con la divisione della produzione nei due grandi rami principali,
agricoltura e artigianato, nasce la produzione direttamente per lo
scambio, la produzione di merci e con essa il commercio non
soltanto all'interno ed entro i limiti della tribù, ma anche sul
mare. Tutto ciò però era ancora assai poco sviluppato; i metalli
nobili cominciavano a diventare merce-danaro prevalente e
universale, ma non erano ancora coniati e venivano scambiati
ancora in base al loro peso grezzo.
Accanto alla differenza tra liberi e schiavi appare quella tra
ricchi e poveri; con la nuova divisione del lavoro appare una
nuova scissione della società in classi. Le differenze dei
possessi tra i singoli capifamiglia spezzano l'antica comunità
familiare comunistica, dovunque si era mantenuta fino allora, e
con essa la coltivazione comune del suolo a pro e per conto di
questa comunità. La terra coltivabile è assegnata per lo
sfruttamento a famiglie singole, dapprima per un periodo di tempo,
più tardi una volta per sempre. Il passaggio alla piena proprietà
privata si compie gradualmente e parallelamente a quello dal
matrimonio di coppia alla monogamia. La famiglia singola comincia
a divenire l'unità economica della società.
La maggiore densità della popolazione costringe a stabilire legami
più stretti all'interno come all'esterno. La federazione di tribù
affini diviene dappertutto necessaria e presto lo diviene anche la
loro fusione e conseguentemente la fusione dei territori separati
delle tribù in un territorio comune del popolo. Il capo militare
del popolo - rex, basilèus, thiudans - diviene un
funzionario permanente indispensabile. Dove non c'era già, compare
l'assemblea popolare. Capo militare, consiglio, assemblea
popolare, formano gli organi della società gentilizia che si
sviluppa progressivamente in una democrazia militare. Militare,
poiché la guerra e l'organizzazione per la guerra sono ora
divenute funzioni regolari della vita del popolo. Le ricchezze dei
vicini eccitano l'avidità di popoli che già vedono nella conquista
della ricchezza uno dei primi scopi della loro esistenza. Essi
sono barbari: reputano più facile ed anche più onorevole diventare
ricchi con la rapina che con il lavoro. La guerra, che una volta
era fatta solo per vendicare soprusi o per estendere il territorio
divenuto insufficiente, viene ora condotta a fine di semplice
rapina, diventa ramo permanente di produzione. Non invano le mura
si ergono minacciose intorno alle nuove città fortificate. Nei
loro fossati sta spalancata la tomba della costituzione gentilizia
e le loro torri si proiettano già nella civiltà. Non diversamente
vanno le cose nell'interno. Le guerre di rapina accrescono la
potenza sia dei supremi capi militari che dei sottocapi;
l'elezione consuetudinaria dei loro successori nella stessa
famiglia, specie dopo l'introduzione del diritto patriarcale,
passa a poco a poco in eredità, dapprima tollerata, poi reclamata
e infine usurpata; si pongono le fondamenta della monarchia e
della nobiltà ereditarie.
Così gli organi della costituzione gentilizia recidono le radici
che avevano nel popolo, nella gens, nella fratria, nella tribù e
l'intera costituzione gentilizia si capovolge nel suo opposto: da
organizzazione di tribù avente per scopo il libero ordinamento dei
propri affari diventa organizzazione per il saccheggio e
l'oppressione dei vicini e, corrispondentemente, i suoi organi, da
strumenti della volontà popolare, si trasformano in organi
autonomi per dominare ed opprimere il proprio popolo. Ma ciò non
sarebbe mai stato possibile se la cupidigia di ricchezze non
avesse diviso i membri di una stessa gens in ricchi e poveri, se
«la differenza di ricchezze all'interno della stessa gens non
avesse trasformato l'unità degli interessi in antagonismo tra i
membri della stessa gens» (Marx) e se l'estendersi della schiavitù
non avesse già cominciato a far considerare il lavoro, che produce
il necessario per la vita, come degno solo di uno schiavo e come
più disonorevole della rapina.
Con ciò siamo giunti alle soglie della civiltà. Essa si apre con
un nuovo progresso della divisione dei lavoro. Nello stadio più
basso gli uomini producevano solo direttamente per il fabbisogno
proprio. Gli atti di scambio casuali erano isolati, riguardavano
solo il superfluo che si produceva accidentalmente. Nello stadio
medio della barbarie, tra popoli pastori, troviamo già un possesso
di bestiame che, data una certa entità dell'armento, produce
regolarmente una eccedenza sul fabbisogno umano proprio e, ad un
tempo, una divisione del lavoro tra popoli pastori e tribù più
arretrate, prive d'armenti e, conseguentemente, due diversi stadi
di produzione esistenti l'uno accanto all'altro e conseguentemente
le condizioni per uno scambio regolare. Lo stadio superiore della
barbarie ci fornisce l'ulteriore divisione del lavoro tra
agricoltura e artigianato e conseguentemente la produzione di una
parte sempre crescente di prodotti di lavoro al diretto fine dello
scambio, conseguentemente lo scambio tra produttori individuali si
innalza al rango di necessità di vita per la società. La civiltà
consolida ed, accresce tutte queste precedenti divisioni del
lavoro, specie acuendo l'antagonismo tra città e campagna (per cui
la città può dominare economicamente la campagna, come
nell'antichità, o anche la campagna la città, come nel Medioevo)
ed aggiunge una terza divisione del lavoro che le è peculiare e di
importanza decisiva: genera una classe che non si occupa della
produzione, ma solo dello scambio dei prodotti, i mercanti.
Fin qui ogni inizio di formazione di classi si era avuto
esclusivamente nel campo della produzione; le persone che vi
partecipavano si dividevano in dirigenti ed esecutori, oppure
anche in produttori su grande e su piccola scala. A questo punto
si presenta, per la prima volta, una classe che, senza prendere
una parte qualsiasi alla produzione, se ne appropria la direzione
nel suo complesso, assoggettandosi economicamente i produttori;
classe che si fa mediatrice indispensabile tra due produttori e li
sfrutta entrambi. Col pretesto di liberare i produttori dalla
fatica e dal rischio dello scambio e di estendere lo smercio dei
loro prodotti verso mercati lontani, e quindi di diventare la
classe più utile della popolazione, si forma una classe di
parassiti, di veri e propri scrocconi sociali che, in compenso di
prestazioni effettive di pochissimo conto, si porta via il meglio
della produzione sia indigena che straniera, acquista rapidamente
ricchezze enormi e l'influenza sociale corrispondente, ed appunto
perciò nell'epoca della civiltà è chiamata ad onori sempre nuovi e
a un controllo sempre maggiore della produzione, finché alla fine
genera perfino un prodotto che le è proprio: le crisi commerciali
periodiche.
Al grado di sviluppo che ci sta davanti la giovane classe dei
mercanti non ha certamente ancora nessun presentimento delle
grandi cose che l'aspettano. Si forma e si rende indispensabile e
ciò basta. Ma con questa classe si forma ildanaro metallico,
la moneta di conio e, con il danaro metallico, un nuovo strumento
di dominio dei non produttori sui produttori e sulla loro
produzione. La merce delle merci che contiene in sé occultamente
tutte le altre era stata scoperta, il mezzo magico che può mutarsi
a piacere in ogni cosa desiderabile e desiderata. Chi l'aveva
dominava il mondo della produzione; e chi ne aveva più di tutti?
Il mercante. Il culto del danaro era sicuro nelle sue mani. Egli
si preoccupò che fosse ben chiaro come tutte le merci, e quindi
tutti i produttori di merci, dovessero prostrarsi in atto
d'adorazione davanti al danaro. Egli dimostrò praticamente come
tutte le altre forme di ricchezza diventino solo pura parvenza di
fronte a questa incarnazione della ricchezza in quanto tale. Mai
più la potenza del danaro si è presentata con tale brutalità e
violenza primitive come in questo suo periodo di gioventù. Dopo la
compra di merci mediante danaro, venne l'anticipazione di danaro e
con essa l'interesse e l'usura. E nessuna legislazione posteriore
getta, senza riguardo e rimedio, il debitore ai piedi del
creditore usuraio, come quella dell'antica Atene e quella
dell'antica Roma, che nacquero entrambe spontaneamente come
diritti consuetudinari, senza altra costrizione che quella
economica.
Accanto alla ricchezza in merci e schiavi, accanto alla ricchezza
in danaro sorse anche quella in possesso fondiario. Il diritto di
possesso degli individui su quegli appezzamenti di terra ceduti
loro originariamente dalla gens e dalla tribù, si era a tal punto
consolidato che questi appezzamenti finirono con l'appartenere
loro in proprietà ereditaria. Negli ultimi tempi essi avevano
soprattutto cercato di affrancare gli appezzamenti dal diritto che
su questi aveva l'unione gentilizia e che costituiva una pastoia.
La pastoia fu sciolta, ma insieme, poco dopo, fu sciolta anche la
nuova proprietà fondiaria. Proprietà piena e libera del suolo
significava non solo possibilità di possedere il suolo senza
limiti e restrizioni, ma anche possibilità di alienarlo. Finché il
suolo era appartenuto alla gens questa possibilità non era
esistita. Ma il nuovo possessore di terra, quando tolse
definitivamente la pastoia costituita dalla proprietà suprema
della gens e della tribù, spezzò anche il vincolo che fino ad
allora lo aveva legato indissolubilmente al suolo. Che cosa
volesse dire ciò, glielo mostrò chiaramente il danaro, inventato
contemporaneamente alla proprietà terriera privata. Il suolo
poteva ora diventare merce che si vendeva ed ipotecava. La
proprietà fondiaria era stata appena introdotta che fu inventata
l'ipoteca (cfr. Atene). Come l'eterismo e la prostituzione si
attaccano alle calcagna della monogamia, così l'ipoteca si attacca
da questo momento alle calcagna della proprietà terriera. Voi
avete voluto avere la piena, libera ed alienabile proprietà della
terra: orbene, tenetevela - tu
l'as voulu, Gorge Dandin (6).
Così, con l'espansione commerciale, col danaro e l'usura, con la
proprietà fondiaria e l'ipoteca, la concentrazione e
l'accentramento della ricchezza nelle mani di una classe poco
numerosa progredirono rapidamente e insieme progredì
l'impoverimento crescente delle masse e la massa crescente dei
poveri. La nuova aristocrazia della ricchezza, in quanto non era
coincisa già dall'inizio con l'antica nobiltà ereditaria, spinse
quest'ultima definitivamente in una posizione secondaria (ad
Atene, a Roma e tra i Tedeschi). E accanto a questa divisione dei
liberi in classi, secondo la ricchezza, si verificò, specie in
Grecia, un enorme aumento del numero degli schiavi (7), il
cui lavoro forzato formò la base su cui si elevò la sovrastruttura
di tutta la società.
Vediamo ora dunque che cosa era accaduto della costituzione
gentilizia durante questo rivolgimento sociale. Di fronte ai nuovi
elementi che erano maturati ed emersi senza la sua partecipazione,
essa rimaneva impotente. Il suo presupposto era che i membri di
una gens ovvero di una tribù risiedessero, riuniti, in uno stesso
territorio e lo abitassero esclusivamente. Ciò era scomparso da
lungo tempo. Dovunque gentes e tribù si erano mescolate tra loro,
dovunque schiavi, protetti e stranieri abitavano in mezzo ai
cittadini. La stabilità acquistata verso la fine dello stadio
medio della barbarie, fu di nuovo infranta dalla mobilità e
mutabilità della residenza prodotte dal commercio, dal cambiamento
di attività, dal variare del possesso terriero. I membri degli
enti gentilizi non potevano più riunirsi per la tutela dei propri
affari comuni; venivano ancora curate a mala pena soltanto cose
senza importanza, come le feste religiose. Dalla rivoluzione dei
rapporti di produzione e dal mutamento conseguente
dell'organizzazione sociale erano nati, accanto ai bisogni e agli
interesse alla cui tutela erano chiamati e qualificati gli enti
gentilizi, nuovi bisogni e nuovi interessi che non solo erano
estranei all'antico ordinamento gentilizio, ma lo ostacolavano in
ogni modo. Gli interessi dei gruppi artigiani sorti dalla
divisione del lavoro, i bisogni particolari della città in
antagonismo con quelli della campagna, esigevano nuovi organi;
ognuno di questi gruppi, però, era composto di persone
appartenenti alla gentes, fratrie e tribù più disparate, esso
comprendeva perfino stranieri; questi organi dovettero formarsi
dunque al di fuori della costituzione gentilizia, accanto ad essa
e quindi contro di essa. E, d'altra parte, in ogni ente gentilizio
questo conflitto degli interessi si affermava e raggiungeva il suo
culmine poiché ricchi e poveri, usurai e debitori erano riuniti
nella stessa gens e nella stessa tribù. Si aggiungeva a ciò la
massa della nuova popolazione estranea alle unioni gentilizie, la
quale, come a Roma, era suscettibile di divenire una potenza nel
paese e che d'altronde era troppo numerosa per essere gradatamente
assorbita nei gruppi e nelle tribù consanguinee.
Di fronte a questa massa, le unioni gentilizie erano come enti
chiusi, privilegiati; l'originaria democrazia naturale si era
mutata in un'aristocrazia odiosa. Infine la costituzione
gentilizia era venuta fuori da una società che non conosceva
antagonismi interni ed era anche adeguata solo ad una tale
società. Essa non aveva altro mezzo di coercizione al di fuori
dell'opinione pubblica. Ma ora era sorta una società che, in forza
di tutte le sue condizioni economiche di vita, aveva dovuto
dividersi in liberi e schiavi, in ricchi sfruttatori e poveri
sfruttati, una società che non solo non poteva riconciliare questi
antagonismi, ma doveva sempre più spingerli al loro culmine. Una
tale società poteva sussistere solo o nella lotta aperta continua
di queste classi tra loro, oppure sotto il dominio di una terza
potenza che, stando apparentemente al di sopra delle classi in
conflitto, ne comprimesse il conflitto aperto, e permettesse che
la lotta delle classi si combattesse, tutt'al più nel campo
economico, in forma cosiddetta legale. La costituzione gentilizia
aveva fatto il suo tempo. Essa era stata distrutta dalla divisione
del lavoro e dal suo risultato: la divisione della società in
classi. Essa fu sostituita dallo Stato.
Abbiamo esaminato sopra nei loro particolari le tre forme
principali nelle quali lo Stato si eleva sulle rovine della
costituzione gentilizia. Atene offre la forma più pura e più
classica; qui lo Stato nasce direttamente e in prevalenza dai
conflitti di classe che si sviluppano all'interno della stessa
società gentilizia. A Roma la società gentilizia diventa
un'aristocrazia chiusa in mezzo ad una plebe numerosa che sta al
di fuori di essa, priva di diritti, ma piena di doveri; la
vittoria della plebe distrugge l'antica costituzione gentilizia ed
innalza sulle sue rovine lo Stato, nel quale aristocrazia
gentilizia e plebe ben presto si dissolvono entrambe. Presso i
Tedeschi vincitori dell'impero romano, infine, lo Stato sorge
direttamente dalla conquista di grandi territori stranieri, per il
cui dominio la costituzione gentilizia non offriva alcun mezzo.
Poiché, però, a questa conquista non sono legate né una seria
lotta con la popolazione preesistente, né una progressiva
divisione del lavoro; poiché il grado di sviluppo economico dei
conquistati è quasi identico a quello dei conquistatori e la base
economica della società rimane dunque l'antica, la costituzione
gentilizia può continuare a mantenersi per secoli sotto forma
mutata, territoriale, come costituzione di marca, e perfino nelle
posteriori famiglie nobiliari e patrizie e, anzi, perfino
rifiorire, in forma attenuata e per un certo tempo, in famiglie
contadine, come nel Dithmarschen (8).
Lo Stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società
dall'esterno e nemmeno «la realtà dell'idea etica», «l'immagine e
la realtà della ragione», come afferma Hegel (9). Esso
è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato
stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è
avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è
scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare.
Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi
economici in conflitto non distruggano se stessi e la società in
una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in
apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo
mantenga nei limiti dell'«ordine»; e questa potenza che emana
dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si
estranea sempre più da essa, è lo Stato.
Nei confronti dell'antica organizzazione gentilizia il primo segno
distintivo dello Stato è la divisione dei cittadini secondo il
territorio. Le antiche unioni gentilizie, formate e tenute
insieme da vincoli di sangue, come abbiamo visto, erano diventate
inadeguate, in gran parte perché presupponevano un legame dei loro
membri a un determinato territorio e questo legame aveva da gran
tempo cessato di esistere. Il territorio era rimasto, ma gli
uomini erano divenuti mobili. Si prese quindi come punto di
partenza la divisione territoriale e si lasciò che i cittadini
esercitassero i loro doveri e i loro diritti pubblici là dove si
stabilivano, senza tener conto né della gens né della tribù.
Questa organizzazione di cittadini sulla base del domicilio, è
comune a tutti gli Stati, perciò ci appare naturale; ma abbiamo
visto come ci siano volute dure e lunghe lotte prima che essa
potesse sostituire, ad Atene e a Roma, l'antica organizzazione per
stirpi.
Il secondo punto è l'istituzione di una forza pubblica che non coincide più
direttamente con la popolazione che organizza se stessa come
potere armato. Questa forza pubblica particolare è necessaria
perché un'organizzazione armata autonoma della popolazione è
divenuta impossibile dopo la divisione in classi. Gli schiavi
fanno anch'essi parte della popolazione; i 90.000 cittadini
ateniesi formano, di fronte ai 365.000 schiavi, solo una classe
privilegiata. L'esercito popolare della democrazia ateniese era
una forza pubblica aristocratica di fronte agli schiavi e li
teneva a freno; ma anche per tenere a freno i cittadini si rese
necessaria una gendarmeria, come abbiamo detto sopra. Questa forza
pubblica esiste in ogni Stato e non consta semplicemente di uomini
armati, ma anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena
di ogni genere, di cui nulla sapeva la società gentilizia. Essa
può essere assai insignificante e pressoché inesistente in società
con antagonismi di classe ancora poco sviluppati e su territori
remoti come talvolta e in qualche luogo negli Stati Uniti
d'America. Essa però si rafforza nella misura in cui gli
antagonismi di classe all'interno dello Stato si acuiscono e gli
Stati tra loro confinanti diventano più grandi e popolosi. Basta
guardare la nostra Europa di oggi, in cui la lotta di classe e la
concorrenza nelle conquiste ha portato il potere pubblico a
un'altezza da cui minaccia di inghiottire l'intera società e
perfino lo Stato.
Per mantenere questo potere pubblico sono necessari i contributi
dei cittadini: le imposte.
Esse erano completamente ignote alla società gentilizia. Ma noi
oggi le conosciamo fin troppo bene. Col progredire della civiltà,
anche le imposte non bastano più; lo Stato firma cambiali per il
futuro, ricorre a prestiti, a debiti
pubblici. E anche di questo la vecchia Europa ne sa
qualcosa.
In possesso della forza pubblica e del diritto di riscuotere
imposte, i funzionari appaiono ora come organi della società al di sopra della società. La
libera, volontaria stima che veniva tributata agli organi della
costituzione gentilizia non basta loro, anche se potessero
riscuoterla; depositari di un potere che li estrania dalla
società, essi devono farsi rispettare con leggi eccezionali in
forza delle quali godono di uno speciale carattere sacro e
inviolabile. Il più misero poliziotto dello Stato dell'epoca
civile ha più «autorità» di tutti gli organi della società
gentilizia presi insieme, ma il principe più potente, e il
maggiore statista o generale dell'età civile possono invidiare
all'ultimo capo gentilizio la stima spontanea e incontestata che
gli viene tributata. L'uno sta proprio in mezzo alla società,
l'altro è costretto a voler rappresentare qualcosa al di fuori e
al di sopra di essa.
Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli
antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al
conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe
più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa
anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento
per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo
Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al
fine di mantener sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu
l'organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi
o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per
lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.
Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in
lotta hanno forze pressoché eguali, cosicché il potere statale, in
qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa
autonomia di fronte ad entrambe. Così la monarchia assoluta dei
secoli XVII e XVIII che mantenne l'equilibrio tra nobiltà e
borghesia; così il bonapartismo del primo e specialmente del
seconde impero francese che si valse del proletariato contro la
borghesia e della borghesia contro il proletariato. L'ultimo
prodotto del genere, in cui dominatori e dominati appaiono
egualmente comici, è il nuovo impero tedesco di nazione
bismarckiana: qui si mantiene l'equilibrio tra capitalisti e
operai truffandoli entrambi a tutto vantaggio dei signorotti
terrieri della Prussia.
Nella maggior parte degli Stati. storici i diritti spettanti ai
cittadini sono, inoltre, graduati secondo il censo, e con ciò
viene espresso direttamente il fatto che lo Stato è
un'organizzazione della classe possidente per proteggersi dalla
classe non possidente. Così fu già nelle classi censitarie
ateniesi e romane. Così fu nello Stato feudale del Medioevo, dove
il potere politico era commisurato al possesso fondiario. Così nel
censo elettorale degli Stati rappresentativi moderni. Questo
riconoscimento politico della differenza di possesso non è
tuttavia per nulla essenziale. Al contrario, esso indica un grado
basso dello sviluppo statale. La più alta forma di Stato, la
repubblica democratica, che nelle condizioni della nostra società
moderna diventa sempre più una necessità inevitabile, ed è la
forma di Stato in cui, soltanto, può essere combattuta l'ultima
lotta decisiva tra borghesia e proletariato, la repubblica
democratica non conosce più affatto ufficialmente le differenze di
possesso. In essa la ricchezza esercita il suo potere
indirettamente, ma in maniera tanto più sicura. Da una parte nella
forma della corruzione diretta dei funzionari, della quale
l'America è il modello classico, dall'altra nella forma
dell'alleanza tra governo e Borsa, alleanza che tanto più
facilmente si compie quanto maggiormente salgono i debiti
pubblici, e quanto più le società per azioni concentrano nelle
loro mani, non solo i trasporti, ma anche la stessa produzione e
trovano a loro volta il loro centro nella Borsa.
Oltre l'America un esempio evidente di ciò è l'attuale repubblica
francese, ed anche l'onesta Svizzera ha dato in questo campo un
bel contributo. Che però a questa alleanza fraterna tra governo e
Borsa non sia necessaria una repubblica democratica lo dimostra
oltre l'Inghilterra, il nuovo impero tedesco dove non si può dire
chi il suffragio universale abbia elevato più in alto, se Bismarck
o Bleichröder(10). E
infine la classe possidente domina direttamente per mezzo del
suffragio universale. Finché la classe oppressa, dunque nel nostro
caso il proletariato, non sarà matura per la, propria
auto-emancipazione, sino allora, nella sua maggioranza, essa
riconoscerà l'ordinamento sociale esistente come il solo possibile
e, dal punto di vista politico, sarà la coda della classe
capitalistica, la sua estrema ala sinistra. Ma, nella misura in
cui essa matura verso la propria auto-emancipazione, nella stessa
misura essa si costituisce in partito particolare ed elegge i
propri rappresentanti e non quelli dei capitalisti. I1 suffragio
universale è dunque la misura della maturità della classe operaia.
Più non può né potrà mai essere nello Stato odierno; ma ciò è
sufficiente. Il giorno in cui il termometro del suffragio
universale segnerà per gli operai il punto di ebollizione, essi
sapranno, e lo sapranno anche i capitalisti, quel che dovranno
fare.
Lo Stato non esiste dunque dall'eternità. Vi sono state società
che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e
dì potere statale. In un determinato grado dello sviluppo
economico, necessariamente legato alla divisione della società in
classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato
una necessità. Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio
di sviluppo della produzione nel quale l'esistenza di queste
classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un
ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così
ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente
lo Stato. La società che riorganizza la produzione in base a una
libera ed eguale associazione di produttori, relega l'intera
macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel
museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di
bronzo.
La civiltà è dunque, secondo quanto abbiamo detto precedentemente,
lo stadio di sviluppo della società, nel quale la divisione del
lavoro, lo scambio tra individui da essa generato e la produzione
che li abbraccia entrambi, giungono al completo dispiegamento e
rivoluzionano tutta quanta la precedente società.
La produzione in tutti i precedenti stadi della società era
essenzialmente una produzione comune, così come anche il consumo
avveniva con la diretta distribuzione dei prodotti all'interno di
comunità comunistiche più o meno grandi. Questa comunanza della
produzione aveva luogo entro i limiti più angusti; ma portava con
sé il dominio dei produttori sul loro processo di produzione e sul
loro prodotto. Essi sanno che cosa avverrà del loro prodotto e lo
consumano senza che esso lasci le loro mani, e la produzione,
finché viene condotta su questa base, non può soverchiare i
produttori né produrre, di fronte a loro, lo spettro di potenze
estranee; il che accade regolarmente ed inevitabilmente nella
civiltà.
Ma in questo processo di produzione si insinua lentamente Ia
divisione del lavoro. Essa mina la comunanza della produzione e
dell'appropriazione, innalza a regola prevalente l'appropriazione
individuale e produce con ciò lo scambio tra individui: cose che
abbiamo indagato sopra. Gradatamente, la produzione delle merci
diventa la forma dominante.
Con la produzione delle merci, produzione non più per il consumo
proprio, ma per lo scambio, i prodotti passano necessariamente in
altre mani. Il produttore, nello scambio, dà via il suo prodotto e
non sa più che cosa ne sarà. Appena entra in giuoco il danaro e,
col danaro, il mercante in funzione d'intermediario tra i
produttori, il processo di scambio diventa ancora più intricato e
la sorte finale dei prodotti ancora più incerta. I mercanti sono
molti e nessuno di essi sa cosa fa l'altro. Le merci ora non
passano semplicemente di mano in mano, ma anche di mercato in
mercato; i produttori hanno perduto il controllo sulla produzione
complessiva della loro cerchia e i mercanti non sono riusciti ad
ottenerla. Prodotto e produzione finiscono in balìa del caso.
Ma il caso è soltanto uno dei poli di un nesso di cui l'altro polo
ci chiama necessità. Nella natura, in cui sembra a sua volta
dominare il caso, abbiamo da lungo tempo indicato, per ogni
singolo campo, l'intera necessità e la regolarità che si affermano
in questo caso. Ma ciò che vale per la natura, vale anche per la
società. Quanto più un'attività sociale, una serie dì avvenimenti
sociali assumono una portata troppo vasta per il controllo
consapevole degli uomini e sfuggono ad essi soverchiandoli, quanto
più sembra che questi fatti siano abbandonati al puro caso, tanto
più in questo caso si affermano come per necessità naturale le
leggi peculiari e inerenti ad essa. Tali leggi dominano anche le
casualità della produzione e dello scambio delle merci; di fronte
all'individuo che produce e a quello che scambia, esse stanno come
potenze estranee, da principio perfino sconosciute, e la cui
natura deve prima essere faticosamente indagata e approfondita.
Queste leggi economiche della produzione delle merci si modificano
nei diversi stadi di sviluppo di questa forma di produzione; ma,
nel complesso, l'intero periodo della civiltà sta sotto il loro
dominio. E, ancora oggi, il prodotto domina i produttori; ancora
oggi la produzione complessiva della società viene regolata non da
un piano elaborato in comune, ma da leggi cieche che si affermano
con forza elementare e in ultima istanza nelle tempeste delle
periodiche crisi commerciali.
Abbiamo visto sopra che, in uno stadio di sviluppo della
produzione piuttosto antico, la forza lavoro umana viene resa
capace di generare un prodotto considerevolmente maggiore di
quanto è necessario per il mantenimento dei produttori e abbiamo
anche visto come questo stadio di sviluppo, per l'essenziale, sia
quello stesso nel quale sono nate la divisione del lavoro e lo
scambio tra individui. Non passò molto tempo che fu scoperta la
grande «verità» che anche l'uomo può essere una merce; che
l'energia umana è scambiabile e utilizzabile trasformando l'uomo
in uno schiavo. Gli uomini avevano appena cominciato ad esercitare
lo scambio, che divennero già essi stessi oggetto di scambio.
L'attivo si mutò in passivo, sia che gli uomini lo volessero o
meno.
Con la schiavitù, che raggiunse nell'epoca della civiltà il suo
sviluppo più pieno, si presentò la prima grande scissione della
società in una classe sfruttatrice e una sfruttata. Questa
scissione è perdurata per tutto il periodo della civiltà. La
schiavitù è la prima forma dello sfruttamento, peculiare al mondo
antico; segue ad essa la servitù della gleba del Medioevo e il
lavoro salariato dei tempi moderni. Sono queste le tre grandi
forme del servaggio caratteristiche delle tre grandi epoche della
civiltà; la schiavitù, prima aperta poi mascherata, le accompagna
sempre.
Lo stadio della produzione delle merci con cui comincia la
civiltà, viene, in termini economici, indicato dall'introduzione
1) del danaro metallico e con esso del capitale monetario,
dell'interesse e dell'usura; 2) della classe dei commercianti come
classe intermediaria tra i produttori; 3) della proprietà
fondiaria privata e dell'ipoteca; 4) del lavoro degli schiavi come
forma di produzione dominante. La forma di famiglia che
corrisponde alla civiltà e che con essa arriva a dominare
definitivamente è la monogamia, il dominio dell'uomo sulla donna e
la famiglia singola come unità economica della società. La società
civilizzata. si riassume nello Stato che, in tutti i periodi
tipici, è senza eccezione Io Stato della classe dominante ed in
ogni caso rimane essenzialmente una macchina per tenere sottomessa
la classe oppressa e sfruttata. Caratteristico della civiltà è
anche: da una parte la stabilizzazione dell'antagonismo tra città
e campagna come base dell'intera divisione sociale del lavoro,
dall'altra l'introduzione del testamento col quale il proprietario
può disporre della sua proprietà anche dopo la sua morte. Questa
istituzione, che colpisce in pieno l'antica costituzione
gentilizia, era sconosciuta ad Atene fino ai tempi di Solone; a
Roma fu introdotta presto, ma non sappiamo quando (11); tra
i Tedeschi la introdussero i preti perché il buon Tedesco potesse
lasciare liberamente alla Chiesa la sua eredità.
Con questa costituzione fondamentale la civiltà ha compiuto cose
che l'antica società gentilizia non era per nulla in grado di
compiere, ma le ha compiute mettendo in moto, e sviluppando a
spese di tutte le altre loro disposizioni, le passioni e gli
istinti più sordidi degli uomini. La cupidigia mera e cruda fu lo
spirito motore della civiltà dal suo primo giorno ad oggi;
ricchezza, e sempre ricchezza, poi ancora ricchezza, ma ricchezza
non della società, bensì di questo singolo miserabile individuo,
fu l'unico fine che decidesse. Se tuttavia il progressivo sviluppo
della scienza e, in ripetuti periodi, il più bel fiore dell'arte
le son caduti in grembo, ciò è accaduto perché senza arte e
scienza la conquista perfetta della ricchezza, ai nostri tempi,
non sarebbe stata possibile.
Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da
parte di un'altra, l'intero sviluppo della civiltà si muove in una
contraddizione permanente. Ogni progresso della produzione è
contemporaneamente un regresso della situazione della classe
oppressa, cioè della grande maggioranza. Ogni beneficio per gli
uni è necessariamente un danno per gli altri, ogni emancipazione
di una classe è una nuova oppressione per un'altra classe. Ci
offre la prova più evidente di ciò l'introduzione delle macchine,
i cui effetti sono oggi noti in tutto il mondo. E se tra i
barbari, come abbiamo visto, la differenza tra diritti e doveri
quasi non esisteva, la civiltà rende chiari la differenza e
l'antagonismo tra gli uni e gli altri anche al cervello più
stupido, assegnando ad una classe quasi tutti i diritti e
all'altra quasi tutti i doveri.
Ma ciò non deve essere. Quello che è bene per la classe dominante
deve esserlo per tutta quanta la società con la quale la classe
dominante s'identifica. Quanto dunque, la civiltà progredisce,
tanto più essa deve coprire col manto della carità i danni che
essa stessa, di necessità, ha generato; deve abbellirli o negarli,
in breve deve introdurre un'ipocrisia convenzionale che era
sconosciuta sia alle precedenti forme di società che ai primi
stadi della civiltà, e che culmina nell'asserzione che lo
sfruttamento della classe oppressa viene esercitato dalla classe
sfruttatrice unicamente e solamente nell'interesse della stessa
classe sfruttata, e se questa non gliene dà atto e perfino si
ribella, è questa la più vile ingratitudine verso i benefattori,
gli sfruttatori (12).
Ed ora per concludere, ecco il giudizio di Morgan sulla civiltà:
Dall'inizio della civiltà l'aumento della ricchezza è divenuto
così enorme, le sue forme sono diventate cosi svariate, la sua
applicazione così estesa, la sua amministrazione così abile
nell'interesse dei proprietari, che questa ricchezza, nei
confronti del popolo, è divenuta
una potenza incontrollabile. Lo spirito umano
rimane perplesso e interdetto davanti alla sua stessa creazione.
Ma tuttavia verrà il tempo in cui la ragione umana si rafforzerà
fino a dominare la ricchezza, in cui stabilirà saldamente sia il
rapporto dello Stato verso la proprietà che lo Stato protegge, sia
i limiti dei diritti dei proprietari. Gli interessi della società
precedono assolutamente gli interessi individuali, e gli uni e gli
altri devono essere portati a un rapporto giusto ed armonico. La
semplice caccia alla ricchezza non è la meta finale dell'umanità,
se il progresso rimane la legge del futuro come lo è stata del
passato. Il tempo trascorso dall'inizio della civiltà è solo una
piccola frazione dell'esistenza passata dell'umanità, solo una
piccola frazione delle epoche ancor da venire. La dissoluzione
della società si drizza minacciosa dinanzi a noi come conclusione
di un corso storico il cui unico scopo finale è la proprietà,
poiché un simile corso contiene sé gli elementi della propria
distruzione. Democrazia nel governo, fraternità nella società,
eguaglianza dei diritti e privilegi, istruzione per tutti,
consacreranno il prossimo stadio superiore della società a cui
tendono costantemente esperienza, scienza e ragione. Sarà una
resurrezione, in una forma più elevata, della libertà,
dell'eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes (Morgan, Ancient Society,
p. 562).
Note:
1) Specialmente sulla costa nord-ovest
dell'America, cfr. Bancroft. Tra gli Haidah delle isole Regina
Carlotta vi sono comunità domestiche che comprendono fino a 700
persone sotto uno stesso tetto. Tra i Nootca intere tribù vivevano
sotto lo stesso tetto [Nota di Engels].
2) Gli abitanti dei territori che formano il
Turkestan; nel secolo scorso si chiamavano complessivamente Turani
i popoli che parlavano lingue uralo-altaiche (turco, mongolico
ecc.).
3) Nella prima edizione: «in proprietà privata».
4) Come è noto, la patata è originaria
dell'America meridionale e in Europa è diventata oggetto di
coltivazione sistematica a partire dal XVIII secolo.
5) La battaglia in cui i Normanni con Guglielmo
il Conquistatore (1027-1087) sconfissero gli Anglosassoni e si
assicurarono la conquista dell'Inghilterra.
6) «L'hai voluto, Georges Dandin» Dalla commedia
di Moliére, Georges
Dandin, atto
I, scena 9.
7) Per il loro numero ad Atene cfr. sopra. A
Corinto ai tempi del massimo splendore ammontavano a 460.000; in
Egina a 470.000. In entrambi i casi erano il decuplo della
popolazione di cittadini liberi [Nota di Engels].
8) ll primo storico che ha avuto per lo meno
un'idea approssimativa della natura della gens fu il Niebuhr e
ciò, compresi però anche gli errori che senz'altro vi ha
trasportati, egli lo deve alla sua familiarità con le stirpi del
Dithmarschen [Nota di Engels].
Il Dithmarschen, una regione nella parte sud-occidentale dello
Schleswig-Holstein, si conquistò progressivamente l'autonomia nel
XII secolo e rimase di fatto indipendente fino al 1559, quando fu
spartito fra il regno di Danimarca e il ducato di Holstein.
Durante l'indipendenza vi si svilupparono comunità contadine
autonome, che in parte conservarono le loro prerogative anche dopo
la conquista e fino alla seconda metà del secolo XIX.
9) Georg Wilhei.M Friedrich
Hegel. (1770-1831), Grundlinien der
Philosophie des Rechts (Lineamenti
di filosofia del diritto), paragrafi 257 e 360
10) Gerson Von Bleichröder (1822-1893), grande
banchiere di Berlino e banchiere personale di Bismarck.
11) Il System
der erworbenen Rechte [Sistema
dei diritti acquisiti, Lipsia. 1861] di Lassalle, ha nella sua
seconda parte come principale caposaldo il principio che il
testamento romano è antico quanto Roma, che nella storia romana
non c'è stato mai un
periodo senza testamento e
che il testamento invece è nato nell'epoca preromana dal culto dei
morti. Lassalle, da fedele vecchio hegeliano, fa derivare le
disposizioni del diritto romano non dalle condizioni sociali dei
Romani, ma dal «concetto speculativo» della volontà e giunge in
tal modo a tale asserzione totalmente contraria alla storia. Non
ci si può meravigliare di ciò, in un libro che, in base allo
stesso concetto speculativo, giunge al risultato che nell'eredità
romana il trasferimento del patrimonio sia stato un puro
accessorio. Lassalle non solo presta fede alle illusioni dei
giuristi romani, specie dei primi tempi, ma anche li supera [Nota
di Engels].
12) Mi proponevo inizialmente di porre la
brillante critica della civiltà, che si trova qua e là nelle opere
di Charles Fourier, accanto a quella di Morgan e alla mia.
Purtroppo me ne manca il tempo. Osservo qui, solo, che già in
Fourier monogamia e proprietà fondiaria sono considerate le
caratteristiche principali della civiltà e che egli chiama la
civiltà una guerra tra i ricchi e i poveri. E allo stesso modo, si
trova già nei suoi scritti la profonda comprensione che in tutte
le società difettose, divise da antagonismi. le famiglie singole (les
familles, incohérentes) sono le unità economiche [Nota di
Engels].
Un esempio di matrimonio di gruppo di recente scoperta (1)
Di fronte alla recente moda che impone a certi etnografi
razionalistici di negare l'esistenza del matrimonio di gruppo, il
seguente rapporto che traduco dalle Russkie Viedomosti (Notizie
Russe) di Mosca, 14 ottobre 1892 vecchio stile, mi sembra
piuttosto interessante. Non solo vi si trova l'espressa
constatazione di un matrimonio di gruppo in pieno vigore, cioè dei
diritto del reciproco commercio sessuale tra una serie di uomini e
una serie di donne, ma vi è constatata anche l'esistenza di una
forma di tale matrimonio strettamente affine al matrimonio punalua
degli Hawaiani, quindi alla fase più evoluta e più classica del
matrimonio di gruppo. Mentre il tipo della famiglia punalua
consiste di una serie di fratelli (carnali e più lontani), i quali
sono coniugati con una serie di sorelle carnali e più distanti,
troviamo qui sull'isola di Sachalin che un uomo è coniugato con
tutte le mogli dei suoi fratelli e con tutte le sorelle di sua
moglie, il che significa, considerando la cosa da parte femminile,
che sua moglie ha diritto al libero commercio sessuale con i
fratelli del marito e coi mariti delle sue sorelle. L'unica
differenza fra questo tipo di matrimonio e la forma tipica del
matrimonio punalua risiede dunque nel fatto che i fratelli del
marito e i mariti delle sorelle non sono necessariamente le stesse
persone.
È da notare inoltre che anche questo caso conferma quanto dicevo
nell'Origine della famiglia, quarta edizione, pp. 28-29:
che il matrimonio di gruppo non ha affatto l'aspetto che gli
conferisce la fantasia, ispirata ai bordelli, del nostro filisteo;
che i coniugi del matrimonio di gruppo non conducono affatto in
pubblico quella vita lasciva che il filisteo pratica in segreto,
che questa forma di matrimonio si differenzia bensì nella pratica,
per lo meno nei casi ancora oggi esistenti, dal matrimonio di
coppia poco fisso o anche dalla poligamia solo in quanto il
costume ammette una serie di casi di commercio sessuale che
altrimenti sottostarebbero a severe sanzioni. La graduale
estinzione dell'esercizio pratico di questi diritti dimostra
soltanto che questa forma di matrimonio è essa stessa ormai in
stato di estinzione, il che viene confermato anche dal suo
verificarsi così raro.
Tutta la descrizione è interessante del resto perché dimostra
ancora una volta quanto siano simili e addirittura identiche nei
tratti fondamentali le istituzioni sociali di tali popoli
primitivi giunti a uno stadio di sviluppo press'a poco uguale. La
maggior parte di quanto si dice di questi mongoloidi di Sachalin
può estendersi alle tribù dravidiche dell'India, agli abitanti
delle isole dei Mari del Sud nell'epoca della loro scoperta, ai
Pellirosse d'America. Il rapporto enuncia:
Nella seduta del 10 ottobre (stile vecchio = 22 ottobre stile
nuovo) della sezione antropologica della Società degli amici delle
scienze naturali in Mosca, N. A. Ianciuk lesse un'interessante
comunicazione del signor Sternberg sui Giliaki, tribù poco
studiata dell'isola Sachalin che si trova nello stadio più evoluto
dello stato selvaggio. I Giliaki non conoscono né agricoltura né
arte vasaria, si nutrono soprattutto con la caccia e con la pesca,
riscaldano l'acqua in tinozze di legno, gettandovi pietre
incandescenti, ecc. Di particolare interesse sono le loro
istituzioni rispetto alla famiglia e alla gens. Il Giliako chiama
padre non solo il padre carnale, ma anche tutti i fratelli della
madre; egli chiama sue madri tanto le mogli di questi fratelli
quanto le sorelle di sua madre; i figli di tutti questi «padri» e
di tutte queste «madri» egli li chiama fratelli e sorelle. L'uso
di questi appellativi esiste, come è noto, anche presso gli
Irochesi e presso altre tribù indiane dell'America del Nord, come
pure presso alcune tribù dell'India. Mentre però presso queste
tribù non corrisponde più, da lungo tempo, ai rapporti reali,
presso i Giliaki quest'uso serve alla designazione di uno stato
ancora oggi in vigore. Ancor oggi ogni Giliako
detiene diritti coniugali sulle mogli dei fratelli e sulle
sorelle della moglie; per lo meno l'esercizio di tali
diritti non e considerato cosa illecita. Questi residui del
matrimonio di gruppo su base gentilizia ricordano il noto
matrimonio punalua esistito nelle isole Sandwich ancora nella
prima metà del nostro secolo. Questa forma dei rapporti familiari
e gentilizi costituisce la base di tutto l'ordinamento gentilizio
e della costituzione sociale dei Giliaki.
La gens di un Giliako consiste di tutti i fratelli del padre,
fratelli vicini e lontani, effettivi e nominali, dei loro padri e
delle loro madri (?), dei figli dei suoi fratelli e dei propri
figli. Si capisce che una gens così costituita possa comprendere
una massa enorme di persone. La vita entro la gens si svolge
secondo i principi seguenti. Il matrimonio all'interno della gens
è vietato in modo assoluto. La moglie di un Giliako defunto passa
mediante decisione della gens a uno dei fratelli carnali o
nominali del marito. La gens provvede al sostentamento di tutti i
componenti inabili al lavoro. «Tra di noi non vi sono poveri»,
disse un Giliako al sig. Sternberg, e chi è bisognoso viene
nutrito dallachal (gens)».
I membri della gens sono uniti inoltre da comuni solennità e
sacrifici, da feste, da un comune luogo di sepoltura, ecc.
La gens garantisce a ognuno dei suoi membri la vita e la sicurezza
da attacchi di estranei alla gens; come mezzo di repressione vige
la vendetta di sangue, il cui esercizio è tuttavia molto diminuito
sotto la dominazione russa. Le donne sono del tutto escluse dalla
vendetta di sangue gentilizia. In singoli casi, del resto molto
rari, la gens adotta anche membri di altre gentes. Vige la norma
generale che il patrimonio di un defunto non possa uscire dalla
gens; sotto quest'aspetto presso i Giliaki è letteralmente in
vigore la nota prescrizione delle dodici tavole: si suos heredes
non habet, gentiles familiam habento — se non ha eredi
propri, dovranno ereditare i membri della gens. Non ha luogo alcun
avvenimento importante nella vita del Giliako senza che vi
partecipi la gens. Non moltissimo tempo fa, una o due generazioni
più addietro, il membro più anziano della gens era il capo della
comunità, lo «starosta» della gens; al giorno d'oggi la
funzione degli anziani della gens è limitata quasi esclusivamente
alla direzione delle cerimonie religiose. Le gentes spesso sono
disperse su località molto distanti le une dalle altre, ma anche
così separati i membri della gens continuano a serbare il ricordo
reciproco, a essere ospiti l'uno dell'altro, a prestarsi reciproco
aiuto e reciproca protezione, ecc. Senza necessità estrema il
Giliako non abbandona mai i membri della propria gens o le sue
tombe. L'organizzazione gentilizia ha dato un'impronta nettamente
definita a tutta la vita mentale dei Giliaki, al loro carattere,
ai loro costumi e alle loro istituzioni. La consuetudine di
trattare tutto in comune, la necessità di intervenire
incessantemente negli interessi dei membri della gens, la
solidarietà nei casi della vendetta di sangue, l'obbligo e
l'abitudine della coabitazione, con dieci o anche più membri, in
grandi tende (yurtas), in breve il trovarsi in certo modo
sempre fra il popolo, tutto ciò ha conferito ai Giliako un
carattere socievole, comunicativo. Il Giliako è straordinariamente
ospitale, ama accogliere bene i suoi ospiti ed essere a sua volta
ospite. II bel costume dell'ospitalità si manifesta
particolarmente in epoche difficili. In un anno di carestia in cui
il Giliako non abbia nulla da masticare né per sé né per i suoi
cani, egli non stende la mano in cerca di elemosina, si reca
tranquillamente ospite presso qualcuno ed è nutrito in tal modo,
spesso per un tempo piuttosto lungo.
Presso i Giliaki dell'isola di Sachalin non si verificano quasi
affatto reati motivati da egoismo. Il Giliako custodisce i suoi
tesori in un magazzino che non viene mai chiuso. Egli è così
sensibile all'onta che, non appena sia convinto reo di un'azione
obbrobriosa, va nel bosco e si impicca. L'omicidio è rarissimo e
si verifica quasi esclusivamente in uno stato d'ira; in nessun
caso però è dovuto a cupidigia. Trattando con il prossimo il
Giliako manifesta onestà, fidatezza e coscienziosità.
Malgrado il loro lungo stato di soggezione ai Manciuri divenuti
Cinesi, malgrado la perniciosa influenza della regione amurica, i
Giliaki hanno conservato, dal punto di vista della morale, molte
virtù delle tribù primitive. Ma le sorti del loro ordinamento
sociale sono ineluttabili. Una o due altre generazioni, e i
Giliaki del continente saranno diventati russi completamente, e
insieme ai benefici della civiltà si saranno appropriati anche le
sue manchevolezze. I Giliaki dell'isola di Sachalin, lontani più o
meno dai centri di colonizzazione russa, probabilmente potranno
mantenersi nel loro stato genuino per un po' più di tempo. Ma
anche tra di loro comincia a farsi sentire l'influenza del
vicinato russo. Il commercio li conduce nei villaggi, vanno a
Nikolaievsk a lavorare, e ogni Giliako che torna al luogo natio da
questi lavori, porta con sé la stessa atmosfera che l'operaio
porta dalla città nel suo villaggio russo. Inoltre il lavoro nella
città, con le sue alterne vicende, annulla sempre più quella
originaria eguaglianza che costituisce un tratto predominante
nella economia di questi popoli, semplice e priva di artificio.
L'articolo del signor Sternberg che contiene anche notizie sulle
idee e sugli usi religiosi dei Giliaki e sulle loro istituzioni
giuridiche, uscirà integralmente nella Rivista Etnografica
(Etnograficeskoie Obozrenie).
Note:
1) Articolo pubblicato nella «Neue Zeit»,
XI, 1892-93, vol. I, n. 12, pp. 373-375.