EGEMONIA

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Egemonia


di Bruno Bongiovanni

Sommario: 1. L'egemonia dei Greci. 2. L'eclisse dell'egemonia tra età antica ed età moderna. 3. Il risorgimento dell'egemonia. 4. Conquista della democrazia e conquista dell'egemonia.

1. L'egemonia dei Greci

Sin dalla stagione 'classica' della civiltà greca, il concetto di 'egemonia' subisce, in concomitanza con i vorticosi mutamenti del contesto politico, alcuni slittamenti di significato che, dopo una lunga eclisse sul terreno lessicale, contribuiranno a consegnare all'età contemporanea la ricca dimensione polisemantica del concetto stesso.Con Erodoto la parola ἡγεμονία, dal verbo ἡγέομαι, è ancorata saldamente al significato originario di comando militare. La si trova infatti utilizzata in quella movimentata sezione delle Storie (VI, 2) da cui progressivamente si diparte il racconto della repressione da parte dei Persiani della rivolta delle città greche d'Asia, della distruzione di Mileto, dell'azione di Dario contro Atene e della sconfitta a Maratona dei barbari, vale a dire degli stranieri asiatici. In una situazione siffatta si ha a che fare con un conflitto radicale tra Europa e Asia, tra due mondi che subiscono sì il fascino l'uno dell'altro, ma che non possono non scontrarsi. È questo un confronto di civiltà contrapposte: ci può essere reciproca curiosità esotizzante, ansiosa e sospettosa attesa dell'iniziativa altrui, trattativa, negoziato, ma non convivenza. L'egemonia, in tale contesto, è allora la conduzione di un esercito: la parola evoca il clamore delle armi. In campo, tuttavia, vi è da una parte il potere monocratico dell'Impero persiano, il modello nell'antichità più illustre di quel dispositivo concettuale e storiografico che sarà poi noto come 'dispotismo orientale', e dall'altra un'aggregazione variegata di libere città tra loro diverse, con costumi, tradizioni e costituzioni spesso assai contrastanti. Si riproduce anche in questo caso quella dialettica tra due poli che concorre a disegnare la fisionomia di gran parte del pensiero greco: vi è da un lato infatti l'arroganza monolitica (e pur seducente) dell'uno, e dall'altro la fragile (e pur resistente) poliarchia dei molti. E così, inevitabilmente, l'egemonia si trasforma in un istituto che coinvolge non l'uno, al cui interno sono ben chiari i rapporti tra chi comanda e chi obbedisce, ma i molti, costituiti, proprio in quanto molti, da un insieme di organismi autonomi. Non ci si deve dunque stupire se il conflitto con l'Impero persiano rende necessaria, alla vigilia delle Termopili e di Salamina, una συμμαχία ellenica, vale a dire un'alleanza militare, sotto l'egemonia di Sparta.
Si profila, a questo punto, un primo e decisivo arricchimento del significato originario: si può cioè introdurre il concetto di egemonia solo quando in campo si trovano soggetti affini che, sollecitati magari da cause esogene, si sentono membri di una compagine cui, talora non senza diffidenza, sono irreversibilmente legati da un profondo sentimento di appartenenza. Nella Grecia del V secolo, che proprio grazie al confronto con i Persiani ha percepito la consapevolezza di possedere un'identità culturale, si arriva però ben presto alla rivalità interegemonica tra Atene e Sparta. L'egemonia, sorta per esigenze derivate da un'eccezionale congiuntura militare e quindi provvisoria, si istituzionalizza: gli Ateniesi fondano, sempre con intenti antipersiani, la Lega delio-attica, mentre gli Spartani rafforzano la loro supremazia regionale nel Peloponneso. Gli Stati minori hanno però, almeno in teoria, la facoltà di conservare il proprio νόμοϚ e addirittura la libertà di fare autonomamente la guerra contro gli Stati estranei alla Lega: l'egemonia si presenta così come l'unica forma di unità che lascia persistere le autonomie cittadine. L'egemonia di Atene, tuttavia, grazie all'indiscussa talassocrazia, tende a trasformarsi in un vero e proprio impero commerciale. Ed è proprio il regime democratico ateniese, sviluppatosi con le riforme di Clistene dopo il rovesciamento della tirannide, che paradossalmente, per la sua stessa natura, si proietta verso una dimensione imperiale: nel 461, infatti, il partito popolare, rappresentato da Efialte e da Pericle, ma estromesso dagli uffici politici per l'impossibilità dei ceti popolari di partecipare alla vita civile in ragione della loro situazione economica, impone l'erogazione di un'indennità giornaliera per i membri della βουλή e del tribunale dei giudici popolari. La semplice isonomia, eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, diventa così compiuta democrazia, eguale possibilità per tutti di essere attivamente presenti nelle sedi dove si prendono le decisioni politiche. Si rendono tuttavia sempre più necessari e sempre più onerosi i tributi che, onde finanziare il popolo che partecipa alla vita politica senza attingere alle risorse dei cittadini abbienti, vengono fatti affluire dai quattro distretti (trace, ellespontico, ionico, delle isole) su cui Atene esercita l'egemonia.
Ciò consente di spiegare, tra l'altro, perché, nel regime popolare, i colti e i ricchi, come Pericle, non saranno minacciati e avranno sempre un ruolo preminente in virtù della loro posizione sociale. Da ciò deriva inoltre che proprio il partito popolare, il partito della maggioranza antioligarchica, si riveli un deciso fautore dell'egemonia e della trasformazione dell'egemonia stessa in ἀϱχή: dall'impero sottomesso all'egemonia scaturisce infatti la base materiale del predominio popolare. Il partito oligarchico, invece, sarà piuttosto incline, con le dovute eccezioni, al compromesso con l'oligarchia spartana (perenne mito efficientistico e aristocratico-guerriero di chi vagheggia una società olistica e mira al governo dei pochi) e a non utilizzare l'arma estrema della guerra totale.
Con Tucidide, ateniese favorevole a una prudente correzione in senso oligarchico del regime popolare, il concetto di egemonia, destinato ormai a connotare tanto la magistratura civile quanto il generalato militare, assume una fisionomia che scaturisce dagli eventi posteriori alla guerra antipersiana. Tucidide, com'è noto, è testimone dell'evento che per lui è il più grande di tutti i tempi, vale a dire la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Si tratta non di guerra dei Greci contro i barbari per la salvaguardia di una civiltà, ma della guerra dei Greci tra di loro per l'egemonia. Già Agamennone, si legge nella Guerra del Peloponneso, guidò la spedizione contro Troia perché era il più potente e radunò gli uomini "più col terrore che ricevendo un favore" (I, 9). E qual è la causa della guerra che Tucidide segue con apprensione e insieme con freddezza? La motivazione più profonda - sostiene - è anche la più inconfessata: infatti "la crescita della potenza ateniese e il timore che ormai incuteva agli Spartani resero inevitabile il conflitto" (I, 23).L'esplosione endogena (e cioè la guerra tra affini) si verifica del resto quando si è eguali e quando lo sviluppo impetuoso dell'uno suscita le apprensioni dell'altro e trasforma entrambi in avversari. Gli uomini "sopportano molto peggio la violazione della legge che non l'assenza della legge: nel primo caso sembra loro trattarsi di sopraffazione di un uguale, nel secondo di fatale predominio da parte di chi è più forte" (I, 77). Queste parole sono da Tucidide messe in bocca, come una sorta di lucido monito e insieme di spietato disvelamento, agli ambasciatori di Atene che parlano davanti ai Lacedemoni. Risulta chiaro, da questo discorso, che sotto i Persiani i Greci hanno sopportato soprusi ben peggiori, ma anche che gli stessi Greci, e gli Spartani in particolare, non possono accettare l'egemonia ateniese. La sudditanza nei confronti di un popolo di servi e di despoti è certamente terribile, ma naturale come un cataclisma, mentre la sudditanza nei confronti di chi è simile a noi è la negazione innaturale del giusto corso del mondo.Defilatosi dunque provvisoriamente il nemico assoluto, vale a dire i barbari d'Oriente, la guerra per l'egemonia contrappone i Greci e interferisce con le loro costituzioni. Due volte, infatti, la democrazia sarà travolta ad Atene. Gli Spartani giungeranno ad allearsi proprio con i Persiani per conquistare l'egemonia: la perderanno poi a vantaggio dei Tebani, sino a che i generali macedoni riusciranno a imporre la loro supremazia, la qual cosa, tra l'altro, comporterà la fine del regime popolare ateniese. L'Impero universale ed effimero di Alessandro - contaminato da forme orientali di potere - sarà il primo e ultimo tentativo del mondo ellenico, come già intuirono gli storici antichi, di superare le laceranti antinomie dell'egemonia. Osservando la guerra del Peloponneso, Tucidide aveva ben intravisto la nuova meccanica politica che si stava dispiegando.
Così, quando, nelle Leggi, il dialogo che contiene l'estrema sistemazione del suo pensiero politico, Platone usa a sua volta il termine egemonia, ormai la democrazia ateniese è giunta alla fase della sua decadenza. Il concetto in questione penetra ora all'interno della teoria delle forme di governo, all'interno cioè dell'analisi - comparsa anche questa per la prima volta nelle Storie di Erodoto - che mira a cogliere gli aspetti buoni o cattivi delle costituzioni. Il tiranno, afferma l'ospite ateniese del dialogo che si immagina avvenuto a Creta, non ha bisogno di molte fatiche né di molto tempo. È necessario solo che si orienti subito egli stesso là dove vuole dirigere i cittadini, sia alle pratiche della virtù, sia al contrario: uno Stato "non può dunque mutare legislazione in modo più veloce e facile con altro mezzo che la guida dei potenti", τῃ τῶν δυναστευόντων ἡγεμονίᾳ (Leggi, 711). L'espressione "guida dei potenti" può anche essere tradotta, in questo contesto, "esempio dei potenti". Sempre di egemonia però si tratta, ma l'egemonia riguarda ora non i rapporti tra le città, ma le gerarchie politiche e sociali all'interno di una sola città. Platone ricorre poi alla personalità omerica di Nestore, un uomo che avrebbe potuto essere un tiranno saggio: ma ora, nell'attuale decadenza, non è dato trovare una siffatta figura. Il decisionismo del legislatore buono, un tipo umano irrimediabilmente smarrito nel crepuscolo della πόλιϚ, è certamente cosa migliore delle regole della costituzione democratica: cosa peggiore, invece, è sicuramente il decisionismo del legislatore cattivo.L'egemonia, dunque, anche al di fuori del contesto delle relazioni tra le città, allude all'esercizio di un potere coercitivo, che, pur minoritario o addirittura tirannico, si fonda sul consenso, tanto che i sottoposti sono disponibili a indirizzarsi verso la virtù o verso il suo contrario sulla base dell'esempio di chi sta in alto. Con l'egemonia si scopre infatti che vi è un'inquietante affinità che unisce chi comanda e chi obbedisce: colui che la esercita appartiene allo stesso mondo e allo stesso universo di valori di colui che l'accetta e la subisce. Il conflitto, se conflitto deve esserci, concerne le diverse opzioni egemoniche, non l'esercizio in sé dell'egemonia.

2. L'eclisse dell'egemonia tra età antica ed età moderna

In lingua latina la parola egemonia non compare. E non per mere ragioni lessicali. È infatti l'inesorabile spinta propulsiva ed espansiva della civiltà romana, in altri termini la tendenza ad assorbire i molti nella originale, policulturale e multietnica centralizzazione dell'uno, ciò che rende concretamente impraticabile e anche incomprensibile il concetto greco di egemonia, facendolo di fatto scomparire per circa due millenni: la dialettica tra l'uno e i molti diventa ora piuttosto pratica amministrativa, sapienza giuridica, rigorosa codificazione, complesso e tormentato rapporto tra il centro e le sconfinate periferie.
In età romana sorge tuttavia l'istituto della dittatura. Questo istituto, trasformatosi a sua volta in concetto forte del pensiero politico, conoscerà, com'è largamente noto, una grande fortuna all'interno dei dibattiti del mondo moderno e contemporaneo: la storia del concetto di dittatura interferirà inoltre con la storia recente, ottocentesca e novecentesca, del concetto di egemonia. È del resto ben nota l'ambiguità del termine, storicamente inteso vuoi come extrema ratio della salute pubblica vuoi come excusatio, paravento e alibi della tirannide. Praticamente scomparso nel Medioevo (che ha tuttavia conservato l'originario dictare, legato all'universo della parola, da cui deriva il tedesco Dichtung, che vuol dire poesia), il termine ha avuto un significato prevalentemente positivo (anche se raramente usato) sino al XVIII secolo: ha palesato tutta la sua contraddittorietà a partire dalla Rivoluzione francese sino alla seconda metà del XIX secolo (quando il suo uso è diventato molto più frequente), ha avuto infine un significato prevalentemente negativo nel XX secolo, tranne che nell'accezione 'dittatura del proletariato', fatta propria dal bolscevismo marxista-leninista e da questo trasformata, in Unione Sovietica, in caposaldo della dottrina ufficiale dello Stato.
Già in età antica sono presenti due concezioni tra loro assai diverse della dittatura. Nei primi secoli della repubblica la dittatura è una magistratura provvisoria, perfettamente legale, in grado di affiancare i consoli qualora si profili una situazione eccezionale: in caso di guerra cioè o in caso di conflitti sociali particolarmente acuti. È stata considerata, sulla base di una distinzione operata da Jean Bodin e ripresa da Carl Schmitt, non un potere sovrano, ma un potere commissariale conferito per un tempo limitato da una sovranità che risiede altrove, e precisamente nel Senato: serve non a innovare, ma a riportare la situazione perturbata alla normalità civile, vale a dire al silenzio delle armi e alla pace sociale. Dopo la fine della seconda guerra punica (202 a.C.), l'antica dittatura sembra dissolversi e smarrire la sua stessa ragion d'essere. Ricompare però centoventi anni dopo con le guerre civili e Silla viene proclamato dictator rei publicae constituendae causa. Il codice genetico della dittatura risulta ora per sempre modificato. La dittatura di Silla si presenta infatti non come un semplice potere straordinario, ma come un potere straordinario costituente, anche se il fine è la restaurazione e il rafforzamento, con l'ausilio dell'esercito, della vacillante nobilitas senatoria. Cesare è poi nominato dictator perpetuus: l'innovazione è ora permanente. Augusto proibisce infine l'uso del termine dittatura, arcaico marchingegno repubblicano ormai palesemente inutile. Il nome sparisce quando la cosa diventa clamorosamente manifesta, quando l'eccezione diventa la regola. Lo stesso Napoleone, dopo il 18 brumaio, preferirà farsi chiamare prima console e poi imperatore.
Sul piano strettamente tecnico, dunque, la dittatura rimane ancorata all'idea repubblicana della magistratura provvisoria: sul piano emotivo, invece, le vicende storiche dell'istituto, da Silla a Cesare, caricano la stessa dittatura del grave e non incongruo sospetto che ciò che è per legge transitorio può diventare per artifizio - e grazie al monopolio della forza - permanente e quindi liberticida. Il pericolo maggiore per l'integrità della legge, soprattutto in presenza del conflitto sociale e della guerra civile, scaturisce proprio da ciò che è stato escogitato per tutelare e proteggere la legge stessa. Si può così istituire un raffronto e congetturare che l'egemonia dei Greci mira a far gravitare la pur autonoma periferia nell'orbita delle città dominanti, mentre la dittatura dei Romani del I secolo mira a impedire la reazione a catena autodistruttiva del centro (che ha assorbito le periferie) e a dotare, con Cesare e con i Cesari, di un sovrappiù di peso la meccanica propulsiva del dominio imperiale. L'egemonia del V secolo e la dittatura del I - sganciatesi dallo 'spirito' di Salamina e di Zama - non salvarono, del resto, né la democrazia ateniese, né la Repubblica romana. La dittatura repubblicana dei primi secoli, a differenza dell'egemonia dei Greci, conservò tuttavia intatto il suo potere di fascinazione.Per Machiavelli, il dittatore "fatto a tempo e non in perpetuo", colui che può "fare ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno sanza appellagione", è una figura oltremodo positiva. Costituisce anzi, nelle repubbliche che intendono predisporre le tecniche della propria sopravvivenza, una fisiologia legale che può sanare le inevitabili e ricorrenti patologie storiche e politiche: "Dico che quelle repubbliche le quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al dittatore o a simili autoritadi, sempre ne' gravi accidenti rovineranno" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, XXXIV). È evidente il richiamo alla Repubblica romana dei primi secoli, un potere sovrano che seppe prevedere e controllare le risposte istituzionali fornite allo stato d'eccezione.
Montesquieu, invece, fa riferimento alla dittatura quando affronta le leggi relative alla natura dell'aristocrazia: la magistratura provvisoria romana veniva attivata infatti, nel lasso di tempo assai breve in cui veniva esercitata, con il fine di difendere energicamente la libertà e la preminenza degli aristocratici contro il popolo, il quale, peraltro, "agit par sa fougue, et non par ses desseins" (De l'esprit des lois, II, 3).
Poco tempo è dunque necessario per intimidire il popolo e compito della dittatura, presidio legale delle classi superiori, non è vessare la plebe, ma restaurare l'equilibrio sociale che gli appetiti popolari insidiano.Un giudizio positivo sulla dittatura lo si ritrova alla voce corrispondente dell'Encyclopédie, ad opera del cavaliere de Jaucourt. Quanto a Jean-Jacques Rousseau, il ginevrino sostiene che la dittatura, istituto che costituisce un pericolo non per l'abuso, ma per la possibile inflazione e quindi per la perdita di autorità, non mette in nessun modo in forse l'esercizio della volontà generale, dal momento che "il est évident que la première intention du peuple est que l'État ne périsse pas" (Du contrat social, vol. IV, p. 6). Il magistrato che sospende l'autorità legislativa non l'abolisce: egli infatti, secondo la prassi della prima dittatura romana, tutto può fare, tranne le leggi.A Montesquieu, dunque, per usare un linguaggio contemporaneo, su cui torneremo in seguito, la dittatura piace perché restaura l'egemonia degli aristocratici, mentre a Rousseau la dittatura piace perché tutela, in casi particolari ed eccezionali, le leggi che sono il frutto della volontà generale e con esse anche l'egemonia reale (e non meramente aritmetica) della maggioranza popolare. Il modello, ancora una volta, per Montesquieu come per Rousseau, è fornito dall'esperienza e dall'intatto mito politico della prima dittatura repubblicana di Roma.
Tutto cambia con la Rivoluzione francese e in particolare con l'esperimento giacobino (31 maggio 1793-9 termidoro 1794). Ancora prima dell'avvento di Bonaparte la parola dittatura assume dunque un significato negativo, tanto è vero che Robespierre, in un discorso tenuto la sera del 13 messidoro alla Société des Amis de la Liberté et de l'Égalité, deve difendersi dall'accusa, evidentemente infamante, di essere un dittatore, accusa lanciatagli in seno allo stesso Comitato di salute pubblica (Oeuvres, vol. X, p. 134). Ma è soprattutto con l'ultimo discorso (quasi un testamento politico), tenuto l'8 termidoro alla Convenzione, vale a dire il giorno prima della sua caduta, che Robespierre respinge con energia l'accusa di dittatura ai danni della Convenzione stessa, ai danni cioè dell'assemblea legalmente eletta dal popolo sovrano: la dittatura è ora estranea alle istituzioni, interrompe la legalità ed è considerata né più né meno che un'usurpazione illecita e un'espropriazione del potere dei rappresentanti del popolo da parte di una fazione o, peggio, da parte di un uomo solo. Robespierre, che crede nella volontà generale, è inorridito da questa accusa. Avverte persino il repentino spostarsi di un termine da un campo semantico a un altro totalmente opposto: "[...] ce mot de dictature a des effets magiques; il flétrit la liberté; il avilit le gouvernement, il détruit la République; il dégrade toutes les institutions révolutionnaires, qu'on présente comme l'ouvrage d'un seul homme; il rend odieuse la justice nationale, qu'il présente comme instituée par l'ambition d'un seul homme; il dirige sur ce point toutes les haines et tous les poignards du fanatisme et de l'aristocratie. Quel terrible usage les ennemis de la Révolution ont fait du seul nom d'une magistrature romaine!" (Oeuvres, vol. X, p. 142).Ricompare dunque lo spettro della dittatura che si sovrappone alle istituzioni, le sostituisce e poi le disintegra a vantaggio di una minoranza che si fa beffe della legalità e anche del consenso. Finisce così la lunga storia della dittatura degli antichi. Comincia la contraddittoria e drammatica avventura della dittatura dei moderni, alimentata all'inizio, e anche in seguito, dalle riflessioni sulla grande Rivoluzione e sul suo esito cesaristico. È in questo contesto, non più celato tra le pieghe del concetto di dittatura, che si ripresenta il concetto di egemonia.

3. Il risorgimento dell'egemonia

La parola egemonia, inesistente in latino, ritorna, in lingua tedesca e nella particolare situazione storico-politica prussiana, dopo la rivoluzione parigina del luglio 1830. È pur vero che, nello straordinario saggio n. 8 del Federalist, Alexander Hamilton aveva caldeggiato la soluzione federalistica in nome della pace, proprio per evitare alle ex-colonie americane il destino della rivalità interegemonica, e che Hegel aveva rimesso in plastica evidenza le lotte di potenza tra gli Stati (le sue Lezioni sulla filosofia della storia, tuttavia, vengono pubblicate postume solo nel 1837, a monarchia orleanista ampiamente consolidata), ma quando la rivoluzione, che si sperava esaurita, ritorna sulla scena riproponendo l'autonomia compiuta (e l'egemonia temuta) dello spazio politico francese, ecco che ricompare, nel nuovo contesto europeo, il concetto e poi anche la parola 'egemonia'. La sfida è naturalmente raccolta dai Tedeschi, che privilegiano le ragioni nazionali: quelli che privilegiano le ragioni liberali e la spinta verso la democrazia, come il poeta Heinrich Heine, si augurano che "il canto del gallo francese" possa essere udito anche negli Stati tedeschi.
Il celebre scritto di Leopold von Ranke, Die grossen Mächte, che codifica l'impianto storiografico moderno del concetto di egemonia e che inaugura gli studi sull'anarchia internazionale e sulla politica di potenza, è pubblicato nel 1833 sulla "Historischpolitische Zeitschrift", una rivista diretta a Berlino dallo stesso Ranke su incarico del Ministero degli Esteri prussiano. Questo testo, ammirevole perché spalanca un nuovo orizzonte agli studi di politica internazionale, è in realtà anche un tendenzioso pamphlet antifrancese. La Rivoluzione, infatti, è per Ranke la conseguenza diretta della politica estera di Luigi XIV e della permanente ambizione francese di dominare l'Europa. L'anarchia è dunque soprattutto il frutto avvelenato delle mire espansionistiche di Richelieu e dei suoi successori. Le cose sono cambiate quando Federico II, per la prima volta dal tempo degli imperatori sassoni, ha innalzato la Germania del nord, e in particolare la Prussia, al rango di grande potenza. La congiunta ascesa austro-prussiana e l'affermazione del genio tedesco hanno respinto le mire dei Francesi e imposto un pur precario equilibrio internazionale. La Rivoluzione francese ha poi consentito al programma del Re Sole di affermarsi per quasi un quarto di secolo, sino a che la riscossa tedesca ha riequilibrato a caro prezzo il continente. L'ordine fondato sul balance of powers non è dunque per Ranke un'idea cosmopolitica della ragione, ma il prodotto storico e concreto dell'autonomia e dello sviluppo politico-culturale dell'area tedesca. Risulta comunque evidente che con Ranke si ripresenta, su scala enormemente allargata e con gli Stati moderni come protagonisti, la questione delle spinte egemoniche e dei mezzi per sedarle e per non renderle distruttive.
La parola egemonia - Hegemonie - compare però in sede squisitamente storiografica nella spettacolare Geschichte Alexanders des Grossen di Johann Gustav Droysen, pubblicata sempre nel 1833. Tutta quest'opera, come ha scritto H. Berve, il curatore dell'edizione del 1931, è pervasa dalla convinzione che per la Germania una violenta unificazione politica realizzata dalla Prussia sarebbe l'obiettivo indicato dalla storia. Droysen, del resto, con la monumentale Geschichte der preussischen Politik del 1855-1856, incompiuta e condotta solo fino al 1756, fornirà le basi storiche su cui lo stesso Bismarck imposterà la politica di egemonia prussiana. Il parallelo implicito tra la Macedonia e la Prussia, entrambe aree periferiche e nord-orientali rispetto alla Grecia classica e alla Germania moderna, è senz'altro essenziale per comprendere la nuova e originale fortuna del concetto di egemonia, inteso come supremazia politica, all'interno di un contesto divenuto continentale e potenzialmente mondiale, della parte più compatta ed energica di una nazione ancora divisa. L'egemonia si trasforma così nella forza trainante del nazionalismo cosiddetto 'integrativo'. Ben più che l'equilibrio prussiano-antiegemonico di Ranke, l'aggressiva egemonia macedone-prussiana di Droysen è la risposta che pare vincente alla sfida protoegemonica e conseguentemente rivoluzionario-eversiva della Francia.La filologia classica e il grande scenario internazionale si danno inopinatamente la mano. Nel 1833 riprende così la sua vicenda il termine, inizialmente dotto e calato in un sofisticato contesto antiquario. Nello stesso anno viene formato lo Zollverein. Nel 1841, infine, viene pubblicato Das nationale System der politischen Ökonomie di Friedrich List, risoluta difesa dell'indipendenza nazionale e produttiva dell'area tedesca contro le ipocrite pretese liberistiche e cosmopolitiche della scienza economica di scuola britannica, vale a dire contro l'egemonia commerciale e industriale dell'Inghilterra. Si può dunque sostenere che il concetto di egemonia in età moderna risorge elaborato in area prussiana per fornire un'identità nazionale all'intera Germania, inibita nel suo sviluppo dalle ricorrenti tentazioni egemoniche francesi e dalla schiacciante ed egemonica competitività delle merci britanniche.Risultano così anche più chiari, e meno astrattamente ideologici, i termini della vexata quaestio sul presunto dilemma relativo al primato da attribuirsi, in sede storica, alla politica interna o alla politica estera: è evidente che per il liberale francese Benjamin Constant (avversario di Napoleone) - si veda De l'esprit de conquête et de l'usurpation dans leurs rapports avec la civilisation européenne, del 1814 - la politica di potenza non può non essere il risultato di un regime dispotico (su questo terreno, introducendo la variabile centrale dell'aggressività capitalistica, si collocheranno anche le teorie socialiste dell'imperialismo), ed è altrettanto evidente che per il conservatore prussiano Ranke, che nel Politisches Gespräch del 1836 giudica inutile e inadeguato per i Tedeschi il liberalismo, la costante tentazione egemonica francese, causa ed effetto insieme dell'anarchia internazionale, non può non essere all'origine del regime insieme dispotico e sovversivo di Napoleone.
Il cammino moderno dell'egemonia è comunque ormai segnato. Intorno al 1840, secondo il Littré, il termine compare, sempre come veicolo di riferimenti eruditi al mondo antico, anche in lingua francese. Nel 1847, in lingua inglese, George H. Lewes, autore di una Biographical history of philosophy, scrive che Filippo istituì l'egemonia macedone sulla Grecia: nello stesso anno, George Grote, autore di una History of Greece, usa il termine hegemony come sinonimo di headship. Un anno prima, nel 1846, Cesare Balbo, nel Sommario della storia d'Italia, aveva però già sottratto il termine al contesto antiquario, sostenendo che "noi italiani", a differenza degli anglosassoni (il confronto vale anche per l'indipendenza americana), "siamo lungi da siffatti destini: non abbiamo da conquistare egemonie".
È però Vincenzo Gioberti che, nel Rinnovamento civile d'Italia del 1851, un testo che cerca di ricostruire, dopo la disfatta del 1848-1849, un'ipotesi politica nazionale, fornisce una definizione che avrà una larga fortuna e che sarà presente, sino a Gramsci e oltre, nel dibattito italiano: "Gli antichi chiamavano egemonia quella spezie di primato, di sopreminenza, di maggioranza, non legale né giuridica propriamente parlando, ma di morale efficacia, che fra molte province congeneri, unilingui e connazionali, l'una esercita sopra le altre" (vol. II, p. 203). Gioberti ricorda poi che Pericle, Lisandro, Epaminonda e Filippo ebbero successivamente l'egemonia nella Grecia del V secolo e del IV secolo, la quale egemonia "non suol essere immobile in un luogo, ma mutare secondo i tempi, passando da una all'altra contrada" (ibid., p. 208). Lo stesso Gioberti, che oscilla nel 1851 tra suggestioni democratiche e realistica convinzione della permanente necessità della mediazione sabauda, trascina così il concetto di egemonia nel lessico politico italiano contemporaneo proprio perché, come già Droysen con la Prussia, egli scorge nella possibile egemonia del Piemonte sabaudo, ottenuta in virtù della 'morale efficacia', la strada maestra per giungere all'unificazione italiana.
Il Rinnovamento civile giobertiano conosce, com'è noto, una notevole fortuna, e il concetto di egemonia suscita un certo interesse e anche non pochi entusiasmi, tanto è vero che l'erudito torinese Amedeo Peyron, nominato nel 1848 senatore da Carlo Alberto, con uno scritto assai brillante su L'egemonia greca, comparso nel 1856 sulla torinese "Rivista contemporanea", sente realisticamente il dovere di mettere in guardia gli Italiani contro i poteri taumaturgici dell'egemonia dei Greci: parecchie città, per mantenersi autonome, si applicarono infatti nella Grecia antica al prudente consiglio di affidarsi alla città più potente, con la conseguenza che dall'egemonia tra compagni si passò all'assoluto comando sopra sudditi. Peyron conclude scrivendo che, proprio in ragione delle successive iperconflittuali egemonie (Atene, Sparta, Tebe, Macedonia), la Grecia "sarebbe caduta in tal caos politico da eguagliarsi solo al caos dei sistemi de' Protologi": l'evidente allusione è rivolta al sistema filosofico dello stesso Gioberti.
Il termine comunque è ormai sufficientemente diffuso e tende a uscire dall'ambito erudito per inserirsi nel corrente linguaggio politico e per correlarsi anche alle questioni nazionali e in particolare alla questione tedesca. Così scrive il "Times" del 5 maggio 1860: "Non c'è dubbio che è una gloriosa ambizione ciò che spinge la Prussia a proclamare la propria rivendicazione alla leadership, o, come si esprime quel paese di professori, all'egemonia (hegemony) sulla Confederazione Germanica". È questa, tra l'altro, la prima volta che, in lingua inglese, il termine hegemony, sia pure con un ironico riferimento al "paese dei professori", viene ricondotto al concetto di leadership, notissimo alla sociologia politica del XX secolo. Oggi, del resto, praticamente tutti i dizionari anglosassoni indicano come sinonimi, per quel che riguarda l'uso corrente, hegemony e leadership.
È un fatto, tuttavia, che il concetto di egemonia, almeno nella maggioranza dei casi, tenderà ad assumere una diversa sfumatura di significato (talora appena percettibile, talora vistosa) in rapporto all'oggetto specifico cui verrà accostato: se si tratta infatti dell'egemonia nelle relazioni internazionali (v. Egemonia: Relazioni internazionali) si profila, anche in virtù dell'esperienza del ciclo storico inaugurato dalla formazione 'prussiana' del Kaiserreich, una prevalenza dell'idea della forza (pur non venendo meno la questione del consenso); se invece si tratta dell'egemonia come metodo di lotta politica in una compagine nazionale data e come strumento di direzione politica di un variegato tessuto sociale, si profila, in armonia con la definizione di Gioberti, una prevalenza dell'idea di consenso (pur non venendo meno la questione della forza).

4. Conquista della democrazia e conquista dell'egemonia

Com'è noto, nonostante il 1793-1794 e il 18 brumaio, il termine 'dittatura' non è stato subito accantonato, negli ambienti democratici e poi socialisti, a causa della lacerante meteora giacobina-robespierrista e della ben più lunga traiettoria napoleonica. Gli anni della Restaurazione e l'oscurantismo poliziesco delle potenze della Santa Alleanza hanno anzi favorito le sette, i comitati segreti di minoranze illuminate e le congiure per la libertà: lo stesso liberalismo oligarchico e censitario del juste milieu, spesso pronto a ravvisare nella sovranità popolare nient'altro che la dittatura tirannica della plebe, ha del resto alimentato un'opposizione democratica che non ha esitato, in molte occasioni, a cercare le proprie radici nella mai veramente spenta tradizione giacobina. A invocare la dittatura, tuttavia, non è stata solo, nel fervore della cospirazione, la scontata linea genealogica Babeuf-Buonarroti-Blanqui: persino Saint-Simon, il giovane Mazzini, Weitling, Cabet, Blanc, Bakunin, Proudhon, Lorenz von Stein, Comte, Lassalle e molti altri hanno subito, almeno una volta, il fascino energico della magistratura provvisoria (e della venerata parola romana) che si affianca poderosamente al moto emancipatore di coloro che sono privi di mezzi e di diritti. Anche in piena Terza Repubblica si è ancora parlato, senza suscitare scandalo negli ambienti democratici, della dittatura liberatrice - e rispettosa della legalità costituzionale - di uomini come Gambetta, Ferry e Waldeck-Rousseau.
Vincenzo Gioberti, sempre nel Rinnovamento civile del 1851, ha addirittura saldato, sicuro di pronunciarsi per il meglio, l'egemonia alla dittatura: "Ogni egemonia nazionale importa, almen nei principi, la dittatura; imperocché dovendosi usare celerità somma, unità, vigore di esecuzione, [...] si debbono evitare le vie deliberative" (vol. II, p. 271). Non si dimentichi, infine, che dittatori furono, nel senso classico e protorepubblicano, Simón Bolívar e Giuseppe Garibaldi.
Solo nel 1849, con il discorso divenuto celebre di Donoso Cortés, ha compiutamente inizio la parabola controrivoluzionaria della parola 'dittatura', sinonimo della spada aristocratico-militare che resiste al pugnale rivoluzionario e democratico: secondo il lucido pensatore spagnolo, che tanta influenza avrà su Carl Schmitt, gli antichi regimi non hanno evidentemente più risorse autoctone - la sfolgorante legittimità del trono e dell'altare - per opporsi con successo al progredire della rivoluzione. La dittatura, tuttavia, per molti anni continuerà a essere associata al momento culminante e risolutivo dell'instaurazione della democrazia. Molte voci, peraltro, si leveranno per mettere in guardia contro i pericoli dell'istituzionalizzazione della dittatura: tra queste non pochi francesi sfuggiti con l'esilio a Napoleone III e, in Italia, Pisacane.
Intanto, nel Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels, pubblicato alla vigilia delle rivoluzioni del 1848, si proclama che tutti i movimenti formatisi sino ad allora erano stati movimenti di minoranze nell'interesse di minoranze: "Il movimento proletario è il movimento indipendente dell'enorme maggioranza nell'interesse dell'enorme maggioranza". Compito della maggioranza proletaria è elevarsi-trasformarsi in classe dominante (herrschende Klasse): così facendo essa procede ipso facto alla conquista della democrazia (die Erkämpfung der Demokratie) e, ineluttabilmente, non può evitare, onde emancipare se stessa autodissolvendosi nella società senza classi a venire, di effettuare interventi dispotici (despotische Eingriffe). Nel 1850 Marx, in Le lotte di classe in Francia, utilizza tre volte l'espressione "dittatura del proletariato": questa stessa espressione compare in quattro testi marx-engelsiani del periodo 1850-1852 (dunque dopo le sconfitte del 1848-1849), in cinque testi marx-engelsiani del periodo 1871-1875 (dopo la Comune di Parigi), in tre testi, ad opera del solo Engels, del periodo 1890-1891. Sempre avrà a che fare con la dittatura della maggioranza della popolazione. Nell'ultimo di questi testi, la critica engelsiana del programma socialdemocratico di Erfurt, si afferma che "la repubblica democratica è la forma specifica della dittatura del proletariato, come è già stato dimostrato dalla grande Rivoluzione francese" e si precisa che l'emancipazione si effettua "attraverso la concentrazione di tutto il potere politico nelle mani dei rappresentanti del popolo".
Che cos'è dunque la dittatura di classe del proletariato - espressione pronunciata la prima volta forse in polemica indiretta con il liberale Guizot che nel 1849 aveva definito la democrazia "il grido della guerra sociale" - se non il principio maggioritario conquistato dai salariati con l'estensione generalizzata dei diritti politici e utilizzato come una macchina bellica (gli "interventi dispotici") lungo il rude cammino che conduce verso una società non divisa in classi? E che cos'è la democrazia, nel pensiero di Marx ed Engels, se non la potenza del numero dittatorialmente (e quindi provvisoriamente) contrapposta alla potenza dell'oligarchia 'borghese' dominante? È opportuno, tra l'altro, ricordare che per Marx nel 1852 il suffragio universale in Inghilterra sarebbe di per sé già una misura socialista, anzi "più socialista" di tutte le avventure tentate e fallite sul continente.
Occorre tuttavia - e questo è il punto che non può essere eluso - concepire il proletariato come un insieme sociale maggioritario, coeso e unitario: Marx stesso, nelle sue opere storiche, politiche, e non di rado anche in quelle critico-economiche, sarà invece costretto a disegnare, con probità sociologica e smentendo spietatamente in anticipo le certezze degli epigoni, una società ben altrimenti complessa, dove i segmenti della società stessa, nelle città e ancor più nelle campagne (il luogo in cui si dispiega l'odiato "idiotismo della vita rustica"), si muovono secondo logiche, mentalità, comportamenti e programmi politici enormemente contrastanti. La classe operaia, in particolare, non sarà mai maggioranza e la società civile faticosamente, ma con successo, resisterà all'aggressione onnipervasiva del modo capitalistico di produzione, dislocandosi in forme che non si identificheranno mai completamente con le leggi evolutive previste non solo da Marx, ma anche da altri social thinkers del XIX secolo.
Eduard Bernstein, nella nuova fase storica apertasi a fine secolo con il venir meno della 'grande depressione', si incaricherà di dimostrare che lo sviluppo della società industriale non procede verso una semplificazione estrema (miseria crescente, aumento progressivo del proletariato, catastrofe redentrice), ma verso un'estrema, e socialmente pluralistica, complessità. Inevitabilmente, nella socialdemocrazia tedesca ed europea, pur non scomparendo le liturgiche citazioni dei 'classici', si parlerà sempre più di 'repubblica democratica' e sempre meno di 'dittatura del proletariato': la conquista della democrazia, affrancatasi sul terreno empirico e sociologico dal cemento mitologico della volontà generale proletaria, si allontanerà progressivamente dai souvenirs, per dirla con Marx, della congiuntura giacobina, drammatico e contraddittorio luogo d'origine, come nella prima metà del secolo XIX ben avevano capito i liberali antidemocratici, della democrazia moderna. L'egemonia, termine ormai sufficientemente diffuso negli ultimi anni del secolo, emerge in lingua russa (gegemonija) quando la socialdemocrazia che si trova a operare nella particolarissima situazione dell'Impero zarista è costretta ad affrontare, sin dagli anni novanta, i problemi posti da un proletariato esplicitamente e per il momento irrimediabilmente minoritario. Nel decennio precedente, del resto, G.V. Plechanov, dopo avere abbandonato il populismo per confluire nella socialdemocrazia internazionale, si era già reso conto che una rivoluzione borghese e liberale era in Russia all'ordine del giorno, e si era inoltre interrogato sul ruolo che l'esiguo proletariato russo avrebbe dovuto o potuto giocare in tale rivoluzione. Si può così comprendere perché, a partire appunto da Plechanov, nel contesto socialdemocratico russo, vale a dire prima del 1917-1918, la parola egemonia è praticamente sinonimo di direzione politica (rukovodstvo, termine che ricorre spessissimo in Lenin) nel corso dell'imminente rivoluzione non proletaria. Il problema è soprattutto quello di decidere a chi spetta l'egemonia-direzione in un moto storico con segno di classe sì borghese - historia non facit saltus, giusta la concezione materialistica della storia -, ma al cui interno la borghesia si è dimostrata e si dimostra drammaticamente inadeguata al compito storico che proprio la storia le assegna. (Non è il caso di entrare nel merito storiografico della discussione e di rilevare che mai ciò che si conviene definire 'borghesia' ha materialmente 'fatto' le rivoluzioni che dottrinariamente vengono chiamate appunto 'borghesi').
Già P. B. Axelrod, il futuro menscevico che sarà sempre un fermo avversario di Lenin, sostiene comunque nel 1901 che la socialdemocrazia può conquistare l'egemonia nella lotta contro l'assolutismo zarista. Si torna dunque a parlare di egemonia quando un soggetto particolarmente energico e dotato di una missione storica si pone e si propone, nel corso di un processo politico e sociale, come leader naturale di una pluralità di soggetti più deboli e oggettivamente interessati all'alleanza o quantomeno all'esito della lotta in corso. Il proletariato, tuttavia, per evidentissime ragioni storiche, è in Russia strutturalmente minoritario, quindi debole: deve perciò essere rafforzato da un sovrappiù di direzione politica. Lenin, a differenza di Axelrod, trae le dovute conseguenze e recupera il giacobinismo. Siamo dunque arrivati alla risoluta svolta bolscevica e l'egemonia del proletariato sugli altri strati sociali può diventare l'egemonia del partito politico sullo stesso proletariato, ritenuto inidoneo, senza la coscienza esterna dei rivoluzionari di professione, a uscire dalle secche economicistiche del tradunionismo. L'egemonia sociale di una minoranza può dunque aver successo solo grazie alla dittatura politica organizzata di una ulteriore e ben più esigua minoranza. In altre parole, poiché sul terreno sociale il proletariato non ha la forza sufficiente, il fattore che sul terreno politico può e deve avere la forza, la socialdemocrazia, può e deve far sì che il proletariato abbia il consenso di tutti i soggetti interessati all'abbattimento dello zarismo. Trova così conferma il fatto che, nel lessico dei bolscevichi, l'egemonia proletaria sugli alleati e la direzione politica della socialdemocrazia si identificano.
Da questo viluppo di problemi, frutto anche della collisione tra la permanente eredità populistica e l'incipiente e talora impetuosa crescita industriale, derivano la proposta leniniana della dittatura democratica degli operai e dei contadini, nonché la strategia, formulata da Parvus e da Trockij, della rivoluzione permanente, che ha come sbocco la dittatura del solo proletariato. Dopo il 1917 il gioco delle parti si preciserà meglio: la dittatura del proletariato si identificherà con la direzione politica e quindi con la forma assunta dallo Stato operaio diretto dal partito bolscevico, mentre l'egemonia del proletariato, un'espressione assai frequente nel lessico di Stalin, costituirà la traduzione sociale del contenuto di classe del nuovo Stato.
Già prima della grande guerra, nell'ambito della socialdemocrazia tedesca, il riferimento alla dittatura del proletariato, nell'accezione 'maggioritaria' di Marx ed Engels, si è fatto assai raro, mentre il termine 'egemonia', proprio per la connessione ormai prevalente con la Weltpolitik e con il lessico delle relazioni internazionali, non è certo frequente. Nel 1909 Karl Kautsky, nel Weg zur Macht, ricorda che Engels ancora nel 1891 sosteneva la parola d'ordine della dittatura del proletariato - abbiamo visto con quale significato - identificandola con il dominio politico (Herrschaft) del proletariato stesso nel quadro della repubblica democratica: l'edizione francese del 1910 traduce Herrschaft con hégémonie, segno ormai di una disinvolta intercambiabilità dei termini. Nel 1924, sette anni dopo la Rivoluzione d'ottobre, Otto Bauer, socialista democratico austriaco certo non pregiudizialmente ostile all'esperienza dei soviet, dimostra, con straordinaria lucidità, di aver compreso la novità dirompente del termine 'egemonia' rispetto alla tradizione socialista: "L'egemonia del proletariato (die Hegemonie des Proletariats) sopra i contadini che sono numericamente predominanti significa in Russia la dittatura di un piccolo partito proletario attivo sulla gran parte della popolazione lavoratrice estranea alla politica" (Der Kampf um die Macht). L'equazione è evidente: l'egemonia del proletariato minoritario (presunto momento del consenso) è resa possibile solo dalla dittatura del partito (realistico momento della forza). Quella che sparisce - e per sempre - è la marxiana dittatura di classe del proletariato, "enorme maggioranza" che agisce "nell'interesse dell'enorme maggioranza". Anzi, proprio quando è comparsa l'egemonia, si è reso evidente, al di là dei persistenti richiami ideologici, che la dittatura marxiana non era altro che un mero e generoso artificio retorico, legato, tra i tanti, alla stagione quarantottesca, alla stagione della lotta tra peuple e juste milieu, tra suffragio universale e suffragio ristretto, in concomitanza con l'innestarsi, a Parigi, Berlino, Vienna, dei moti autonomamente popolari all'interno delle rivoluzioni liberali, democratiche e nazionali d'Europa. È un curioso destino, quindi, quello dell'egemonia nel lessico del movimento operaio e socialista: essa si afferma e si diffonde infatti quando il proletariato non può essere maggioranza compatta per la presenza dirompente dello sviluppo capitalistico (Occidente europeo e nordamericano) o per la carenza di tale sviluppo (Russia zarista e bolscevica). Quando Antonio Gramsci, nel saggio Alcuni temi della quistione meridionale, scritto nel 1926 poche settimane prima dell'arresto e pubblicato solo nel 1930, ricorda che "i comunisti torinesi si erano posti concretamente la quistione dell'egemonia del proletariato, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio", egli usa il termine 'egemonia' nella ortodossa accezione bolscevica, in perfetta sintonia con il linguaggio del gruppo dirigente staliniano che, proprio in quell'anno, sta consolidando il proprio potere nell'URSS. Gramsci, tuttavia, elabora in seguito una teoria dell'egemonia, che, pur non sfuggendo alla forza di gravità del leninismo, è stata universalmente considerata originale. Poco prima di essere arrestato, del resto, egli esprime anche in una lettera-documento al comitato centrale del PCUS le sue preoccupazioni per l'unità del movimento comunista. Così, quando nel 1929 inizia la stesura di quel monumentale labirinto teorico-politico che sono i Quaderni del carcere, è assai probabile che sospetti che nell'esperienza sovietica il momento della forza stia prevalendo in modo prevaricatore sul momento del consenso.
È però attraverso una ricognizione storica sul Partito d'Azione nel Risorgimento italiano, e sul suo fallimento, che egli arriva a sostenere che una classe è dominante in due modi: è cioè dirigente nei confronti degli alleati e dominante, in senso stretto, sugli avversari. Sul polo dirigente egli si sofferma poi in modo particolare. Scopre allora il grande rilievo che vengono ad assumere il ruolo degli intellettuali, la penetrazione culturale e la questione del consenso, obiettivo precipuo, quest'ultimo, degli intellettuali stessi. Ed è così che all'egemonia della tradizione rivoluzionaria russa - che fare quando il proletariato è esigua minoranza? - viene affiancata la concezione 'federalistica' dell'egemonia propria di Gioberti, uno degli autori più citati nei Quaderni e giunto a Gramsci probabilmente grazie anche alla lettura dell'opera di Gentile. Gioberti infatti, nel Rinnovamento, secondo Gramsci, ha esposto, pur vagamente, il concetto "popolare-nazionale" giacobino dell'egemonia politica, vale a dire dell'alleanza tra borghesi-intellettuali e popolo.
La dinamica del processo rivoluzionario nell'ottica gramsciana può così precisarsi. All'inizio vi è il dominio totale dell'avversario. Si ha poi una lotta per l'egemonia nella società civile, una lotta che il partito politico deve essere in grado di pilotare, con l'ausilio degli intellettuali portatori di consenso, sul terreno dell'ideologia e della cultura: ottenuto il consenso nella sfera della società civile, il partito può farsi Stato, esercitare la forza e costruire un nuovo blocco storico.Ha verosimilmente ragione Norberto Bobbio quando congettura, al di là della sconfinata miniera di citazioni che è possibile estrarre dai Quaderni, che in Gramsci la società civile si distingue sia dalla base strutturale che dallo Stato: è anzi, come quest'ultimo, una sovrastruttura, o, hegelianamente, il contenuto etico dello Stato che produce le istituzioni che sono in grado di regolare i bisogni. La base strutturale, gli inferi del tessuto sociale, è preda dell'insormontabile opacità materiale, mentre lo Stato è nelle mani del nemico di classe: è nella società civile intermedia che si può lottare per il consenso e quindi per l'egemonia. In basso i portatori dell'antagonismo di classe sono prigionieri dei bisogni, in alto sono prigionieri della forza: nella società civile, invece, c'è possibilità di movimento e di azione.
La conquista della democrazia, come si vede, che in Marx partiva dal basso per trasformare ottimisticamente in herrschende Klasse il proletariato mitologicamente maggioritario, diventa ora conquista dell'egemonia-consenso (preludio alla conquista della forza-dittatura), perché chi sta in basso non ha né maggioranza omogenea, né coscienza autonoma, né forza. È questa una presa d'atto inconsapevole dell'esaurimento della tradizione 'marxista' e insieme un'originale applicazione del bolscevismo leninista, ottenuta dilatando al massimo la questione del consenso, ai problemi di una improbabile rivoluzione nell'Occidente sviluppato, una rivoluzione che la guerra dei trent'anni del XX secolo, apertasi nel 1914, e l'avvento dei regimi autoritari facevano ancora ritenere irrinunciabile. La conquista dell'egemonia, fondamento della dittatura, sintesi di un complicato e ancipite itinerario lessicale-concettuale che risale insieme a Gioberti e a Plechanov, è così nel suo approdo gramsciano anche una risposta drammatica e in larga misura antitetica alle difficoltà gravissime incontrate dalla conquista della democrazia.

Relazioni internazionali

di Luigi Bonanate

sommario: 1. Introduzione. 2. L'egemonia classica. 3. L'egemonia nel mondo moderno. 4. Egemonia e potenza. 5. Verso la rinascita contemporanea dell'egemonia. 6. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Nelle sue applicazioni internazionalistiche, l'idea di egemonia offre un esempio estremamente significativo delle difficoltà incontrate dalla teoria delle relazioni internazionali persino a consolidare un linguaggio specialistico, nel quadro del tentativo di affermarsi come disciplina autonoma e scientifica. Parola dall'etimologia (greca) chiara e univoca, significando 'direzione', 'guida', essa è stata assunta - e abbandonata - soventissimo, nei secoli, quale concettualizzazione di un particolare modo di essere nei rapporti tra entità sovrane, prevalentemente gli Stati: Gioberti ad esempio la utilizzava con riferimento all'egemonia "che fra molte province congeneri, unilingui e connazionali, l'una esercita sopra le altre" (Del rinnovamento civile d'Italia, 1851, vol. II, p. 203) e Gramsci a quella che un gruppo dirigente esercita su una società (v. Carnevali, 1989; v. Vivanti, 1978). Ma con il passar del tempo moltissimi sinonimi le si sono affiancati - gli scrittori interessati a discutere la parabola dei grandi Stati nella storia facendo riferimento alla 'supremazia' come alla 'preponderanza', alla 'dominazione' o alla 'leadership' (e persino all''imperialismo'). Valga per tutti l'esempio del grande storico John Robert Seeley, il quale in un libro dedicato a L'espansione dell'Inghilterra definiva la "tendenza all'espansione" (cioè uno dei modi di definire l'egemonia, appunto) come "un fenomeno profondo, persistente, necessario" (v. Seeley, 1883, pp. 16-17; si noti inoltre che, nelle pagine della Ricapitolazione finale, Seeley farà riferimento invece alla "preminenza" dell'Inghilterra); cosicché nel linguaggio internazionalistico la scelta tra un sostantivo e l'altro è risultata, di tempo in tempo, più sovente casuale che volontaria, tanto che uno dei più prestigiosi e attenti teorici delle relazioni internazionali, Raymond Aron (v., 1959, p. 18), ebbe a utilizzare la parola egemonia "faute d'un meilleur terme", come praticamente tutti i manuali scolastici di storia dimostrano.
È tuttavia possibile individuare alcune circostanze, e alcuni contesti culturali, nei quali all'egemonia si è invece fatto riferimento con intenzioni specialistiche in vista di una concettualizzazione che mirava a dimostrarsi non priva di capacità esplicative. Tale è stato il destino dell'egemonia particolarmente in due momenti storici, uno legato alla teoria del cosiddetto Stato-potenza, che ha dominato la ricerca storiografica tedesca dalla seconda metà del secolo scorso alla metà del nostro, mentre l'altro, molto più recentemente, ha visto nella struttura bipolare del sistema politico internazionale un caso particolarmente interessante e perspicuo di egemonia (con luci e ombre, pregi e difetti - come vedremo - nonché particolari connotati ideologici), non privo di significativi riferimenti alle prospettive della filosofia della storia. Questi diversi momenti verranno ora analizzati in profondità, dopo averli fatti precedere da una ricostruzione storico-concettuale del termine, e giustapponendo loro l'esemplificazione di altri riferimenti all'egemonia meno intensi (specialmente nell'ambito della storiografia diplomatica), da un lato, e da un tentativo di sistematizzazione terminologico-interpretativa, che discuta l'eventuale pregnanza e specificità dell'egemonia come chiave esplicativa di un particolare fenomeno della vita di relazione tra gli Stati, dall'altro.

2. L'egemonia classica

Fin dalle sue prime apparizioni - ma ancora nelle attuali - 'egemonia' (v. Schaefer, 1932) appare come una parola contraddistinta da un destino 'fatale', intrecciata com'è con l'idea di una sorte già stabilita per chi la conquisterà e proprio per ciò sarà inevitabilmente condannato al declino. Già nelle pagine iniziali de La guerra del Peloponneso, "l'egemonia sui vicini" denota, secondo Tucidide, l'esistenza di rapporti di disuguaglianza tra i deboli, che accettano di "asservirsi ai più forti", e i potenti che cercano di "sottomettere le città più deboli". L'egemonia è poi addirittura alle origini - se non ne è addirittura la causa - del conflitto mortale tra le due massime città-Stato dell'epoca, Sparta, la potenza egemone per terra, e Atene, egemone per mare, spinte - ciascuna - da una sorta di legge di natura, o meglio da tre istinti naturali (come Tucidide li definisce): "l'amore della gloria, la paura, l'utile" (I. 76, 2). Questo è il destino della potenza ("è sempre accaduto che il più debole fosse oppresso dal più forte", ibid.) di Atene, la città di Tucidide, la quale per aver saputo suscitare e guidare la guerra patriottica contro i Persiani aveva creduto di essersi guadagnata il diritto all'egemonia su tutta la Grecia libera, non comprendendo che la perdita dell'indipendenza non avrebbe potuto essere tollerata dalle altre città, una volta sconfitto il nemico comune.
Nell'analizzare i meccanismi che presiedono alla formazione delle alleanze (in una pagina modernissima) Tucidide contrappone poi all'egemonia un altro (ben più fortunato) concetto interpretativo tipico del linguaggio internazionalistico, al quale l'egemonia sarà poi sempre associata per contrasto: l'equilibrio, che per quanto "determinato da una paura reciproca è la sola garanzia per un'alleanza" (III. 11,2). La natura schematica del gioco della politica internazionale è così delineata: egemonia o equilibrio, dominare o essere dominati. Ma non si tratta - com'è intuitivo - di individuare con queste parole degli 'stati di cose', quanto di segnalare delle tendenze, delle linee direttrici comuni alla politica estera di qualsivoglia Stato, cosicché ne risulta il disegno di un alternarsi continuo di Stati che crescono e di altri che declinano, in una successione incessante e immodificabile: nelle parole di Alcibiade, "ci potrebbe essere per noi stessi il rischio di venire da altri dominati se non fossimo noi stessi a dominare altri" (VI. 18,3). Rischio che va tuttavia accettato come tendenza inevitabile, come già Aristotele intravvede ("i Laconi si sono mantenuti finché hanno combattuto; decaddero, invece, quando ebbero conquistato l'impero giacché non sapevano vivere in ozio", La politica, II (B), 9, 1271b), e come poi Polibio - sempre a proposito della stessa potenza - precisa esplicitando il connotato dell'alternanza dei destini (del resto comprendendolo nella sua teoria ciclica): "Quando gli Spartani tentarono di acquistare l'egemonia sui Greci, corsero ben presto il rischio di perdere pure la loro indipendenza" (Storie, VI, 50).
Non mai realizzatasi nel mondo greco - ché lo stesso immenso impero di Alessandro il grande durò poco più di un decennio (336-323 a.C.) - una vera e propria situazione di egemonia si concretizza storicamente per la prima volta nel periodo imperiale romano, celebrato dal Carme secolare di Orazio, e considerato come un periodo nel quale i Romani esercitavano un vero e proprio "diritto di sovranità universale" da Montesquieu, il quale nel cap. IX delle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) associa, a sua volta, grandezza e declino, onnipotenza e decadenza, cogliendo la natura profonda della condizione egemonica - cioè la sua provvisorietà, o fatale destino - in questa sentenza: Roma "perse la sua libertà perché troppo aveva realizzato la sua opera". Del resto, anche se le guerre possono scoppiare per caso, non è casuale che a combatterle si trovino determinati Stati, o popoli, come quello romano appunto, il quale aveva "per fine lo imperio e la gloria e non la quiete" (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, IX).Come l'esempio dei due casi storici ricordati evidenzia, l'osservazione del mondo antico consente di aggiungere alla definizione dell'egemonia l'elemento della superiorità culturale, cui certamente è sensibile chi preferisca questa parola ad altri meno impegnativi sinonimi, come preponderanza, dominio, ecc. L'egemonia non è infatti esclusivamente un portato della superiorità militare, delle conquiste territoriali, della capacità di controllare commerci e scambi, ma anche - se non di più - della superiorità culturale, espressione di un primato intellettuale e scientifico prodotto da un più accelerato sviluppo, che rappresenta la condizione stessa dell'affermazione politica internazionale.

3. L'egemonia nel mondo moderno

È probabilmente proprio la complessità del nodo che lega inestricabilmente sviluppo socioeconomico e dominio su scala internazionale che ha affascinato gli studiosi del mondo moderno, e in particolare delle sue origini, contraddistinte dalla nascita di una forma organizzativa nuova - lo Stato centralizzato (cioè lo Stato moderno) -, che ha come caratteristica fondamentale il riconoscimento dell'appartenenza a un sistema di Stati. Da ciò discende la necessità del consolidarsi di uno degli apparati vitali della nuova concezione: l'esercito, inteso come strumento di conquista e di egemonia (appunto) più che di mera difesa. E così, a partire dal XVI secolo, iniziano a formarsi in Europa imponenti complessi statuali come la Spagna, la Francia e l'Inghilterra, la cui espansione territoriale, prima continentale e quindi mondiale, darà vita ad altrettanti progetti egemonici. La grande differenza che corre tra l'egemonia del mondo antico e quella di cui ora tratteremo riguarda il connotato della concorrenzialità, escluso anticamente quando un'egemonia declinava più per consunzione interna che sotto la pressione di una nuova potenza emergente, e determinante invece nel gioco politico internazionale del mondo moderno (nonché poi di quello contemporaneo), contraddistinto da scontri egemonici tra potenze concorrenti - Spagna contro Inghilterra, Inghilterra contro Francia, Germania contro Francia e Russia, infine Unione Sovietica contro Stati Uniti.
Coerentemente alle trasformazioni del mondo moderno, nel quale l'egemonia quasi esclusivamente politica dell'età antica non è neppure immaginabile, lo sviluppo del sistema internazionale che consegue al consolidarsi dei primi Stati nazionali (nella formazione dei quali la dimensione coloniale ed espansiva è a sua volta determinante) ha immense conseguenze, che si estrinsecano particolarmente nei rapporti economici internazionali o più precisamente nel commercio mondiale. Questo spostamento (o arricchimento) dell'asse della vita di relazione tra unità autonome e separate ha spinto uno degli studiosi più originali del mondo moderno - Immanuel Wallerstein - a racchiudere le tendenze dominanti dello sviluppo di quella che egli chiama "l'economia-mondo" proprio nella formula dell'egemonia, definita "come una situazione in cui le merci di un dato Stato centrale sono prodotte con tale efficienza che sono assai competitive anche in altri Stati centrali, e di conseguenza il dato Stato centrale sarà il primo beneficiario di un mercato mondiale massimamente libero" (v. Wallerstein, 1980; tr. it., p. 52).
Benché l'impostazione di questo autore lo porti a prediligere le variabili di tipo economico, egli riconosce tuttavia la pervasività del fenomeno egemonico anche a livello politico, ideologico e culturale; anch'egli infine ne ammette la connaturata provvisorietà, come se nessuno potesse mantenersi all'apice della potenza: "non appena uno Stato diventa davvero egemone, comincia a declinare" (ibid., p. 53). Wallerstein cerca di spiegare la ragione di ciò con il fatto che della forza trainante dell'egemone si avvantaggiano anche gli altri Stati (beneficiando delle sue scoperte scientifiche e tecnologiche, delle innovazioni organizzative, ecc.), il che finisce per far crescere anche la potenza di questi ultimi nel momento in cui la spinta dell'egemone si esaurisce o entra in una fase di stagnazione o di naturale rallentamento. E poiché la superiorità egemonica si estrinseca materialmente nei settori della produzione, del commercio e della finanza, "vi è probabilmente soltanto un breve momento nel quale una data potenza centrale può manifestare simultaneamente la sua superiorità" (ibid., p. 53).
Ma quali sono concretamente i momenti storici nei quali tale congiunzione di condizioni offre a uno Stato lo scettro egemonico? Wallerstein ne individua tre, contraddistinti dall'egemonia della Repubblica delle Province Unite (1625-1672), da quella britannica (1815-1873) e da quella statunitense (1945-1967), che sarebbero caratterizzati da alcune analogie. In tutti e tre i casi si sarebbe avuta, in primo luogo, la successione nella superiorità agroalimentare, commerciale e finanziaria; questo sviluppo sarebbe stato contraddistinto, in secondo luogo, dal predominio di un'ideologia liberal-globalistica, dalla quale sarebbe quindi disceso, in terzo luogo, il riconoscimento della necessità di dotarsi di una forza militare di portata globale. Questi tre casi sarebbero infine uniti da un denominatore comune: l'esser stati tutti favoriti dall'esito di una guerra trentennale (quella dei Trent'anni, 1618-1648; quella del periodo delle coalizioni antinapoleoniche, 1792-1815; quella infine del periodo 1914-1945) (v. Wallerstein, 1983, pp. 101-104 e passim).
Per quanto siamo qui di fronte a un disegno di grande efficacia esplicativa - e tralasciando per ora la discussione sull'egemonia nel mondo contemporaneo (alla quale si ritornerà più avanti) - è difficile sfuggire alla sensazione che la programmaticità dell'impostazione teorica (nonché ideologica) finisca per costringere Wallerstein a qualche semplificazione imposta dall'economicità (nonché dall'economicismo) del suo modello. Infatti, risulta non del tutto evidente la situazione egemonica olandese, frutto congiunturale più che endogeno e strutturale (v. Haitsma Mulier, 1986, pp. 422-423), così come la situazione egemonica statunitense, cosicché le maglie della rete teorica sembrano fin troppo larghe; d'altro canto l'esiguità dei casi che rientrano nel modello, escludendo periodi nei quali la superiorità di questa o quella potenza viene solitamente definita proprio egemonica (si pensi all'età di Carlo V e al sogno imperiale del figlio Filippo II, oppure a quella del Re Sole Luigi XIV, che per almeno un ventennio dominò la politica europea, o ancora a un'altra stagione dell'egemonia britannica, quella del primo Settecento, dovuta proprio alla simmetrica sconfitta francese) (su questi periodi v., rispettivamente, Gaeta, 1986; v. Casey, 1986; v. Zeller, 1955), finisce per limitarne la portata euristica. È vero forse che l'idea stessa di egemonia si trova stretta tra progetti di dominazione irrealizzabili (come quelli di Carlo V o del Re Sole) da una parte, e dall'altra più modeste anche se meno pregnanti progettazioni pratiche: ma come escludere, ad esempio, che l'Impero ottomano sia stato una potenza egemone oppure che l'Austria abbia esercitato un'egemonia sulle cose italiane nell'età della Restaurazione ("L'egemonia austriaca sulla penisola era dunque totale": v. Ratti, 1986, p. 87); e altresì che - secondo letture forse più ingenue, ma pur sempre corrette, quali quelle storico-diplomatiche - tutta quanta la storia delle relazioni internazionali possa esser letta come un'incessante lotta per l'egemonia, prima europea e poi mondiale?

4. Egemonia e potenza

Non si può afferrare il significato profondo dell'idea di egemonia se non la si ricollega a una filosofia della storia, rispetto alla quale essa rappresenta una delle due teorie ritenute fondamentali per interpretare la storia internazionale - l'altra essendo la teoria dell'equilibrio (v. Cesa, 1987). Addirittura si potrebbe sostenere che egemonia ed equilibrio offrono all'internazionalista tutto il bagaglio concettuale di cui egli necessita (o almeno, così è stato per secoli) per l'interpretazione della storia. Ma mentre il ricorso all'immagine dell'equilibrio non incontra quasi opposizione nella letteratura teorica delle relazioni internazionali (v. tuttavia Bonanate, 1976, cap. 4), l'egemonia sembra aver contraddistinto specialmente la cultura tedesca tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX. Il nume tutelare che presiede all'interpretazione della politica internazionale in chiave 'mondiale' (intendendo con ciò che alcuni Stati abbiano avuto dal destino dei compiti civilizzatori di portata mondiale) è certamente il Ranke di Le grandi potenze, il quale può essere considerato l'antesignano della contrapposizione specifica tra egemonia ed equilibrio, rappresentando la prima un pericolo e il secondo il suo antidoto, dato che proprio contro "la preponderanza [subito prima chiamata egemonia] e lo strapotere si allearono le potenze minori, formando leghe e confederazioni. Fu così che nacque il concetto di un equilibrio europeo" (v. Ranke, 1833; tr. it., p. 80. L'autore si riferisce qui all'egemonia francese nell'età successiva alla pace di Nimega del 1678).
Acquista così forza l'ipotesi (già vagamente riconducibile alla lettura dei pochi passi internazionalistici di Hobbes, Pufendorf, Spinoza) - che diventerà poi anche una dottrina - che la natura della politica internazionale sia una lotta per la supremazia; lo ripeterà all'inizio del XX secolo Otto Hintze ("L'intera storia del sistema europeo degli Stati è una catena di tentativi dell'una o dell'altra potenza di ottenere la supremazia, contro i quali le altre potenze cercano di conservare la loro indipendenza o addirittura la loro esistenza": v. Hintze, 1913; tr. it., p. 152), introducendo tuttavia ancora una complicazione con il riferimento che egli fa all'imperialismo, sostanzialmente utilizzato come sinonimo di egemonia: cercando di cogliere le linee tendenziali della politica futura, egli immagina infatti che diversi imperialismi siano destinati a controbilanciarsi in un sistema di equilibrio, mosso certo dall'aspirazione alla supremazia, ma limitato dalle controtendenze tipiche dell'equilibrio; in conclusione "questa situazione dei rapporti mondiali ci sembra meglio esprimibile con le parole 'politica mondiale' che non con la parola 'imperialismo' richiamante l'idea del dominio universale" (v. Hintze, 1907; tr. it., p. 204).
Ma prima di affrontare l'analisi di un'altra opera che ha segnato più specificamente la storia del concetto di egemonia, conviene soffermarsi ora sull'ambiguità che il riferimento all'imperialismo potrebbe creare, indotta dalla duplicità di usi cui quest'ultimo concetto è stato sottoposto: se nell'accezione di Hintze l'imperialismo non è altro che un concetto neutrale o descrittivo, inteso a rappresentare la tendenza all'impero tipica dell'età della corsa europea alle colonie, è evidente che tutt'altro significato esso assumerà pochi anni dopo nell'accezione leniniana, con connotati ben altrimenti specifici, riferendosi a una fase storicamente determinata dello sviluppo dello Stato capitalistico, il quale - prima ancora di giungere all'inevitabile tappa estrema dello scontro con altri analoghi Stati - tenderà, più che a dar vita a veri e propri imperi formali, a conquistare il controllo dei mercati e delle attività finanziarie a livello mondiale, mirando cioè non alla mera potenza, ma piuttosto a un globale controllo politico, economico e culturale su altri paesi o altre regioni del mondo - senza che rapporti formali-istituzionali vengano necessariamente a consolidare tali situazioni (v. Lenin, 1917).
La distinzione, che di per sé potrebbe apparire scolastica, acquista piena rilevanza quando la si applichi alla vicenda fondamentale che agli Stati tocca di affrontare: la guerra, che - se riferita a un contesto caratterizzato esclusivamente dalla lotta per la potenza - apparirà mera conseguenza dell'anarchia internazionale e dunque occasione incessantemente ripresentantesi nella storia fin tanto che esisteranno gli Stati (il che, del resto, è tipico del pensiero realistico al quale la dottrina tedesca dello Stato-potenza e dell'egemonia si rifà); se giudicata invece nell'ottica della teoria dell'imperialismo essa apparirà dapprima come una necessità per la conquista dei mercati, poi come una tendenza inevitabile della concorrenza intercapitalistica e quindi - infine - interimperialistica (v. Monteleone, 1979).
L'apparato concettuale sinteticamente riassunto nella parola egemonia sprigiona tutta la sua potenzialità esplicativa nell'opera di un altro studioso tedesco, Ludwig Dehio, il quale - scrivendo poco dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e volendo trovare una spiegazione della tragedia nella quale il suo paese aveva trascinato il mondo (per aver voluto dare "l'assalto all'inespugnata vetta dell'egemonia": v. Dehio, 1948; tr. it., p. 196) - coglie in quella parola ben più che delle occasioni interpretative, giungendo a disegnarvi intorno addirittura una vera e propria legge storica. Secondo tale legge tutta quanta la storia del 'sistema degli Stati' (formula alternativa rispetto a quella di 'sistema internazionale', utilizzata dai politologi per esprimere la loro distanza da un'impostazione tanto più densa di riferimenti di valore e di direttrici interpretative) non è altro che un incessante ciclo ritmico, fatto di ondate e frapposti avvallamenti (v. Dehio, 1948; tr. it., pp. 129-130), che regola grandi progetti egemonici così come il loro inevitabile fallimento. Dagli albori della storia moderna fino alla seconda guerra mondiale, quattro sono i grandi disegni egemonici sognati: quello della Spagna tra Carlo V e Filippo II, quello della Francia di Luigi XIV, quello della Francia sotto Napoleone, infine quello della Germania hitleriana (si noti come tra i protagonisti di tali tentativi non figuri la potenza più frequentemente definita egemonica, con riferimento allo stesso arco temporale, cioè la Gran Bretagna, da Dehio considerata una "potenza laterale", come la Russia, essendo destinate entrambe a un ruolo sussidiario ovvero di contrappeso "contro la fusione del centro" continentale, o Francia o Germania dunque: v. Dehio, 1948; tr. it., p. 106; v. Dehio, 1953; tr. it., p. 114); e altrettanti sono i fallimenti di questi progetti, che sono assunti a scansione storiografica da Dehio fin dalla disposizione del sommario della sua opera.
Ma qual è la ragione non superabile del destino fallimentare di ogni progetto egemonico? In generale, e un po' astrattamente, essa consiste nell'indesiderabilità stessa dell'affermarsi, e più ancora del consolidarsi, di situazioni egemoniche, le quali provocherebbero in sostanza la fine della storia che - se è ciclica - non può certo arrestarsi a contemplare una qualche definitiva costellazione di Stati vassalli di una grande potenza dominante. La storia è come la "molla dell'orologio dell'antico sistema degli Stati" (v. Dehio, 1948; tr. it., p. 129), che si carica e ricarica spontaneamente grazie alla naturale funzione adempiuta dall'equilibrio di potenza, dato che "è legge fondamentale che gli spazi esterni, a occidente come a oriente, direttamente o indirettamente, agiscano come contrappesi contro la fusione del centro" (v. Dehio, 1948; tr. it., p. 106). L'equilibrio, in altri termini, svolge la funzione di custode della libertà precludendo la concretizzazione dei sogni egemonici delle potenze centrali (continentali) alle quali - in una logica geopolitica, del resto prevalentemente praticata dalla cultura tedesca della prima metà del secolo (v. Whittlesey, 1971) - si oppongono, ancora sempre per un destino naturale, le potenze laterali, insulari o marginali che siano, del sistema.Per aver riposto tanta fiducia nella legge storica dell'egemonia, Dehio potrebbe meritarsi persino i rimproveri che Croce, nelle pagine vigorose della Storia d'Europa nel secolo decimonono, muoveva ai suoi maestri culturali, Treitschke in primis, proprio per l'acritica accettazione della legge dell'egemonia (è curioso, a questo proposito, che Gramsci, a sua volta, nella sua analisi della filosofia di Croce, si rifacesse a quella pagina crociana per criticarne il mascheramento dell'egemonia con un generico richiamo alla "storia della libertà": v. Gramsci, 1975, vol. II, p. 1236). È un fatto, ad ogni modo, che neppure Dehio riesca a sfuggire al dubbio che il cataclisma smisurato della seconda guerra mondiale possa aver infranto il meccanismo ciclico egemonia-equilibrio: pur assistendo al consolidarsi di un nuovo asse mondiale e non più europeo, che ha ai suoi estremi due potenze un tempo laterali (Stati Uniti e Unione Sovietica), egli ipotizza che abbia potuto innescarsi una nuova fase storica dell'umanità, o del processo di civilizzazione, portata da un "ordinamento pacifico mondiale" (v. Dehio, 1948; tr. it., p. 246), che tuttavia, per realizzarsi, dovrebbe provocare l'estinzione di quell'istituzione che pur è stata il grande e assoluto protagonista della storia interpretata da Dehio - lo Stato - la cui connaturata e insopprimibile aspirazione è la potenza. Quasi preso dalla vertigine di un'immagine del mondo a-statuale, non a caso l'archivista tedesco chiude la sua opera - nel nome di Burckhardt - evocando l'Ellade libera "che non vuole piegarsi alla supremazia di uno dei suoi membri" (v. Dehio, 1948; tr. it., p. 248).
Ma non si può considerare terminato il capitolo dedicato alla dottrina tedesca dell'egemonia senza fare riferimento a un'opera notissima - più per la diffusione raggiunta che per la sua profondità - pubblicata subito prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e non priva di qualche compiacimento 'demoniaco' tipico dell'epoca: Hegemonie di Heinrich Triepel, che cercò di fondere in un'opera dotta e pedantesca analisi giuridica, sociologica, storiografica e politologica dell'egemonia, trasformata in questo modo in un vero e proprio passe-partout, capace di spiegare ogni piega della storia della civiltà. Ma l'opera è tutt'altro che priva di un valore intrinseco, prevalentemente legato al tentativo - quasi unico - di offrire una definizione generale e concettuale del fenomeno egemonico. Così, una volta ritualmente ribadita la coessenzialità tra egemonia e dottrina della politica di potenza, Triepel individua nel concetto di 'direzione' l'essenza dell'egemonia - il che vale tanto per i rapporti interindividuali quanto per quelli della politica interna o internazionale - cosicché la definizione che egli propone fa consistere l'egemonia in un "rapporto di direzione fra uno Stato e uno o parecchi altri Stati" (v. Triepel, 1938; tr. it., p. 129).
Sulla base di questa idea, che dunque va al di là delle alternative linguistiche già viste, e insistendo sulla funzione di guida che uno Stato riveste nei confronti di altri, Triepel intraprende un complesso cammino di precisazioni e distinzioni, giungendo a tipizzare non meno di 13 coppie di confliggenti concezioni dell'egemonia. Tra queste, alcune concorrono a offrire tuttavia un'immagine originale e perspicua del fenomeno egemonico: in primo luogo infatti Triepel critica le diverse concezioni statiche, come quelle implicite in un rapporto di 'predominio' (che echeggiano l'uso prevalente anche della parola egemonia, sovente considerata interscambiabile con 'predominio'), che non sarebbe altro che un semplice indicatore di relazione e di confronto, inadatto dunque a esprimere il senso dell'esercizio di un compito direttivo, di promozione di una politica voluta dallo Stato dirigente.Un programma davvero egemonico consiste invece in una forma di progressivo assorbimento di altri Stati (così come fu per l'Impero romano, poi per la Francia napoleonica, o per l'Impero britannico), capace cioè di tradursi in "potenza addomesticata, e se il forte, in virtù della propria decisione, benché egli possa diventare dominatore, si decide a non dominare, ma a dirigere, allora noi abbiamo da fare con quell'autoaddomesticamento della potenza che è comune alla vera egemonia" (v. Triepel, 1938; tr. it., p. 155). La peculiarità dello spirito direttivo (quasi una superiorità paternalistica, che spinge l'egemone a condurre alleati o sudditi attraverso i pericoli della politica di potenza) è tale da distinguerlo pure da un'altra forma di rapporto sovente definito egemonico, quello imperialistico, rispetto al quale Triepel (diversamente da Hintze) rivendica una sostanziale autonomia dell'egemonia, che discende dal fatto che mentre l'imperialismo non sarebbe altro che una categoria molto generale (non riferendosi ad altro che a una "aspirazione alla estensione di potenza verso grandi spazi": ibid., p. 197), l'egemonia ha invece un suo contenuto specifico che si coglie in quella missione che allo Stato dirigente compete per natura. Non ci si stupirà che per Triepel l'egemonia non possa andar separata dal riferimento a una funzione civilizzatrice e che quindi si possano distinguere, parallelamente alle vicende dei popoli, delle egemonie "della salita" e altre "della discesa" (ibid., pp. 201 ss.). E mentre tra le seconde ci sarebbe quella britannica, tra quelle in ascesa si troverà naturalmente quella prussiana (non parendo possibile a Triepel, coerentemente al suo modello, che l'"egemonia collettiva delle grandi potenze nella Società delle Nazioni" - ibid., p. 314 - esprima una vera ed efficace direttiva generale), che per quanto anch'essa ormai esaurita potrebbe trasfondere alla nuova Germania "la sua benedizione come una sorgente di forza tedesca e di unità tedesca" (ibid., p. 638).

5. Verso la rinascita contemporanea dell'egemonia

L'opera di Triepel chiude la stagione più fortunata dell'egemonia - specie quanto al consolidarsi di una sua area di applicazione - grazie in particolare all'accentuazione di quello che è l'elemento peculiare della parola, non sempre ricompreso nell'uso generico che se ne è fatto specialmente nell'ambito della storiografia diplomatica: intendiamo il riferimento alla dinamicità connaturata all'azione dello Stato egemone o guida, il quale non si limita a conseguire e contemplare (per così dire) i suoi trionfi, ma si impegna in una missione - se apprezzabile oppure no, se consensuale o coercitiva, sono problemi di un altro ordine - di sviluppo collettivo (di civilizzazione, direbbero gli autori sopra ricordati), di allargamento più che di mero consolidamento della sfera egemonica, come nel perseguimento di un dovere morale.
Ma dopo la fine della seconda guerra mondiale due fattori determinano una vera e propria dislocazione dell'area semantica del termine. Per un verso, infatti, il ripugnante ricordo di ciò che il delirio egemonico hitleriano avrebbe voluto fare delle razze e dei popoli e, per un altro, la pratica ingeneratasi nei critici della politica estera statunitense di definire egemonici i rapporti che quella potenza andava instaurando con gli alleati (vincitori e vinti della guerra) determinarono il prevalere di un'accoglienza completamente negativa della parola, il ricorso alla quale finiva per identificare anche le preferenze ideologiche di chi la usava.È un fatto, ad ogni modo, che i risultati della seconda guerra mondiale siano stati tali da generare la formazione di due imponenti coalizioni di Stati - i due blocchi - la cui contrapposizione non atteneva a condizioni di potenza pura e semplice, ma rinviava a due incompatibili progetti politico-ideologici. La contrapposizione tra mondo liberaldemocratico e mondo socialista rivoluzionario - con i relativi programmi di 'liberazione' dei popoli oppressi dall'avversario - era talmente radicale che, nell'impossibilità di ricorrere a una nuova inaccettabile guerra (perché probabilmente nucleare), i due blocchi finirono per dar vita a una forma di lotta tanto nuova che per definirla fu necessario adottare una nuova formula, quella della 'guerra fredda', combattuta tra egemonie contrapposte, appunto, invece che tra eserciti.
Ciascuno dei due blocchi, poi, non rappresentava una coalizione tra pari, ma aveva dato vita a una struttura gerarchica, con uno Stato dominante ('egemone') il quale era considerato tale non soltanto per la sua forza materiale (anche se ovviamente questo elemento non poteva essere trascurato), ma più ancora e prevalentemente per la funzione di direzione ideologica assunta nei confronti degli alleati-sudditi: capitalismo americano e socialismo sovietico divennero così i due modelli rispetto ai quali milioni di cittadini sparsi per la maggior parte del globo si trovarono a doversi schierare, quando possibile, o altrimenti a subirli.Non c'è neppure bisogno di sottolineare che i blocchi si nutrirono della reciproca sfida (vera o presunta), ma dovettero fronteggiare anche importanti movimenti di contestazione, interni alla coalizione. Così le correnti radicali della storiografia contemporanea e dell'analisi economica, sia statunitense che europea, svolsero un'intensa opera di critica ideologica nei confronti dell'egemonismo degli Stati Uniti e/o della loro leadership (v. Kolko, 1972; v. Migone, 1974), tanto che lo stesso Raymond Aron - nella sua opera sulla politica estera statunitense del secondo dopoguerra - si sentì obbligato a precisare, proprio per fronteggiare il successo dell'accusa di egemonismo nei confronti degli Stati Uniti, che il termine egemonia nel caso in questione non aveva "altro senso originario che quello di leadership militare" (v. Aron, 1973, p. 264). Ma non va dimenticato che non soltanto l'egemonismo statunitense era oggetto di critica radicale, perché qualche cosa di analogo andava succedendo - tra gli anni sessanta e settanta - anche all'Unione Sovietica, accusata a sua volta dalla Cina di egemonismo e in ciò accomunata agli Stati Uniti, ovviamente, insieme ai quali essa sarebbe stata protesa alla "ricerca vana dell'egemonia mondiale" (v. Leninism or..., 1970, p. 32). Ma mentre la critica nei confronti della superpotenza statunitense restava nell'alveo della critica leninista dell'imperialismo, la spaccatura tra i due più grandi Stati socialisti del mondo assumeva ben altra rilevanza, perché il terreno scelto per lo scontro ideologico era proprio quello dell'atteggiamento sovietico verso i suoi alleati: i Cinesi sostenevano infatti che la cosiddetta 'dottrina Brežnev', imponendo agli alleati dell'Unione Sovietica l'obbligo di commisurare la loro libertà d'azione ai superiori interessi dell'Unione Sovietica stessa - la quale per parte sua offriva loro la più ampia protezione nei confronti dell'aggressione imperialistica -, non era altro che "un imperialismo con l'etichetta di 'socialismo', una vera e propria dottrina dell'egemonia e un neo-colonialismo che si mette completamente a nudo" (ibid., p. 47).
L'aspetto più specificamente rilevante - dal nostro punto di vista - non è ovviamente la correttezza o meno di questi giudizi (certamente ideologici, prima ancora che analitici), quanto piuttosto il fatto che il consolidarsi di tali situazioni egemoniche sia stato considerato tanto originale e significativo da dar vita persino a un settore di studi specifico, a cui normalmente si fa riferimento come alla 'teoria della stabilità egemonica'. Si tenga presente poi che la riflessione sulla rinascita dell'egemonia si inserisce anche in un altro filone di studi più direttamente collegato alla vivacissima rinascita della ricerca sulla ciclicità della storia, con riferimento al ruolo che la guerra ha nel determinare il passaggio da un'età all'altra, cosicché, mentre la prima impostazione guarda alla situazione egemonica come a un elemento pacifico, la seconda la osserva invece nella sua dimensione conflittuale. Ma vediamole per ordine. L'ipotesi racchiusa nella teoria della stabilità egemonica - che si propone di offrire un principio che possa spiegare la progressiva pacificazione della vita internazionale - muove principalmente da considerazioni di natura economica, e giunge a sostenere che gli Stati abbiano creato nel tempo dei meccanismi capaci di irreggimentare (porre sotto controllo) i problemi internazionali di interesse collettivo, il che avverrebbe particolarmente grazie alla funzione stabilizzatrice esercitata dallo Stato egemone. In sostanza in un sistema internazionale, come quello dell'ultimo ventennio, contraddistinto da una stratificazione internazionale nella quale una serie di alleati ha raggiunto un'altissima interdipendenza economica con il suo leader, si può sostenere che: 1) la possibilità che nella politica internazionale si realizzi una situazione di ordine dipende direttamente dalla presenza di un potere dominante e unico (ciò vale, in pratica, per i due casi dell'egemonia statunitense e di quella sovietica); 2) lo Stato egemone deve possedere una preponderante quantità di risorse economiche (controllo sulle materie prime, sui capitali, sui mercati, superiorità produttiva), grazie alle quali gli sarà possibile, oltre che mantenere la propria superiorità, orientare anche le scelte sia degli alleati che dei paesi terzi (v. Keohane, 1984, pp. 31-32).Fin qui nulla di particolarmente nuovo, se non fosse per la conclusione che ne viene tratta, e cioè che da tale assetto tutti i partecipanti - e non soltanto lo Stato egemone - trarrebbero dei benefici derivanti essenzialmente dallo sviluppo di un sistema economico internazionale aperto e cooperativo. L'egemonia produce stabilità, regolazione, mutui benefici, e può essere dunque considerata un vero e proprio 'bene pubblico' (capace di non dare vita a occasioni di rivalità o di esclusione, come la salute, il benessere, l'ordine, ecc.). Stando così le cose (e osservato tuttavia che questa 'teoria' in realtà non fa altro che descrivere la dinamica dei rapporti interni alle grandi coalizioni), il problema teorico che immediatamente sorge riguarda l'eventualità o meglio il fatto che quando lo Stato egemone entra in una fase di declino - quel declino già tante volte paventato per gli Stati Uniti e che intanto si è già verificato in Unione Sovietica - all'ordine che aveva eretto possa succedere una fase di disordine, dapprima economico e poi anche politico, da cui potrebbe sorgere un nuovo conflitto egemonico (v. Kindleberger 1973).
Le risposte possono essere diverse: da un primo punto di vista, si può sostenere che al posto di un'egemonia piena (di uno Stato solo) si costituirà un'egemonia collettiva (un caso già ipotizzato da Triepel: v., 1938; tr. it., p. 237): ciò non potrà che tradursi in un beneficio per la collettività, dato che consentirebbe lo sviluppo di rapporti collaborativi più egualitari - come in un processo di apprendimento cibernetico (learning) - dando vita inoltre a un sistema internazionale più democratico (v. Snidal, 1985). Si potrebbe d'altra parte negare che tale declino sia avvenuto, come fa chi - osservando la sostanziale continua superiorità statunitense in fatto di sicurezza militare, produzione industriale, finanza, sviluppo scientifico - esclude in termini di fatto che gli Stati Uniti non siano più la potenza egemone, e non soltanto del mondo occidentale (v. Russett, 1985; v. Strange, 1987). Ma esiste infine anche la possibilità che il declino sia un fato inscritto nel destino delle grandi potenze, e che non si tratti dunque d'altro che di registrarlo quando avvenga. Questa terza eventualità apre un ventaglio di possibili sviluppi.
Se - oltre alle possibilità naturali o alle circostanze accidentali che attengono alla vita reale degli Stati - si tiene conto delle modificazioni nella potenza relativa che si possono determinare, non è affatto da escludere l'eventualità dello scoppio di una guerra diretta proprio a verificare i nuovi rapporti di forza: si tratta di quella 'guerra egemonica' alla quale Robert Gilpin assegna la funzione di scandire il ritmo ciclico del mutamento internazionale (val la pena ricordare quali siano, secondo questo autore, i presupposti per lo scoppio di una tale guerra: il restringersi dello spazio e delle opportunità, dovuto a una sorta di invecchiamento del sistema; la diffusa percezione che si stia verificando un mutamento storico, che il controllo della situazione incominci a sfuggire ai governanti: v. Gilpin, 1981, pp. 273-279); contraddistingue questa impostazione l'idea che il ciclo storico sia lineare, fatto cioè esclusivamente di alternanze tra periodi di ordine egemonico e di guerre per l'egemonia.Un passo avanti significativo è forse invece fatto da chi - pur sempre ragionando secondo una logica ciclica - fa della guerra egemonica nulla più che un elemento di rottura di un ampio divenire. Il caposcuola di questa impostazione è George Modelski, il quale intravvede nella storia politica internazionale il succedersi di quattro fasi tipiche: la guerra egemonica (che egli chiama globale, dopo aver accusato un certo fastidio per il ricorso alla parola 'egemonia'), la fase della dominazione da parte di una potenza mondiale, la fase di delegittimazione, la fase di deconcentrazione, ovvero quella in cui il futuro egemone lancia la sua sfida (v. Modelski, 1987, pp. 17-18 e 40).
L'interesse di questa impostazione - così come di quella di Goldstein, il quale ha proposto una più ampia analisi ciclica della storia internazionale - non può tuttavia restare confinato alla semplice individuazione delle diverse fasi: precisando che il ciclo al quale pensa assomiglia a una spirale - un ciclo tridimensionale, dunque, e non lineare - Goldstein (v., 1988) orienta la sua ricerca addirittura in direzione di una previsione cronologica, applicando una scansione in fasi, ricavata da alcuni spunti pionieristici di Nikolaj Kondrat´ev (un economista russo che aveva elaborato negli anni venti una teoria dei cicli economici, fondata su una minuziosa raccolta di serie statistiche sull'andamento dei prezzi nei secoli, sia delle materie prime sia dei beni di consumo come delle retribuzioni e dei redditi), in base alla quale il ritmo dei cicli sarebbe scandito da periodi all'incirca secolari.

6. Osservazioni conclusive

Per quanto questo tipo di previsione possa essere effettivamente riferito a quella dimensione dell'immaginario collettivo che si rifugia nei miti tradizionali dell'età dell'oro (irrimediabilmente perduta) e del tramonto della civiltà (ineluttabilmente imminente) (v. Grunberg, 1990), essa è in realtà emblematica dell'importanza che all'egemonia è stata assegnata dalla nostra cultura: di servire oltre e più che a descrivere uno stato di cose, a valutarlo, a giudicarne il destino; non è un caso che uno dei libri di maggior successo degli ultimi anni sia stato dedicato proprio all'ascesa e al declino delle grandi potenze (v. Kennedy, 1987), così come che l'ipotesi del declino (sempre presente in ogni teoria dell'egemonia, la quale quindi non risulta mai scevra di un qualche elemento pessimistico o fatalistico) non sia a sua volta che la conseguenza della liquidazione (se così si può dire) del retaggio della seconda guerra mondiale, guerra egemonica per eccellenza, nei suoi scopi (per quanto riguardava il Terzo Reich) e nei suoi risultati (dal punto di vista statunitense e sovietico): era innegabile, già prima degli eventi clamorosi e inattesi del 1989 in Europa orientale, che l'irriducibile ostilità tra i due blocchi si fosse progressivamente ridotta finendo per perdere le sue stesse ragioni, e che - per poco che ci si lasci prendere dalle logiche predittive - in un così lungo periodo di distensione tra le grandi potenze si possa leggere il segno del declino. E che ogni declino sia foriero di una sfida portata da nuove potenze emergenti verso le potenze egemoni non è che un'altra lezione classica impartitaci dalla storia.In realtà la parola 'egemonia' - come accade sovente - ha due significati, e non uno soltanto e univoco: essa indica un disegno politico consapevolmente perseguito - e allora si tratterà di verificare la corrispondenza tra il progetto e i suoi risultati - ma esprime anche un giudizio sulla storia, se una situazione egemonica sia un bene o un male. Essa infine è strettamente connessa alla guerra, perché è quest'ultima che crea e distrugge ogni egemonia. Accomuna ad ogni modo tutti coloro che la utilizzano come strumento interpretativo la sensazione della provvisorietà di uno stato di cose - quello della realtà internazionale - che sembra rifuggire da ogni consolidamento, e appare anzi in incessante, instabile e perpetuo movimento.