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Egemonia
di Bruno Bongiovanni
Sommario: 1. L'egemonia dei Greci. 2. L'eclisse dell'egemonia tra
età antica ed età moderna. 3. Il risorgimento dell'egemonia. 4.
Conquista della democrazia e conquista dell'egemonia.
1. L'egemonia dei Greci
Sin dalla stagione 'classica' della civiltà greca, il concetto di
'egemonia' subisce, in concomitanza con i vorticosi mutamenti del
contesto politico, alcuni slittamenti di significato che, dopo una
lunga eclisse sul terreno lessicale, contribuiranno a consegnare
all'età contemporanea la ricca dimensione polisemantica del concetto
stesso.Con Erodoto la parola ἡγεμονία, dal verbo ἡγέομαι, è ancorata
saldamente al significato originario di comando militare. La si
trova infatti utilizzata in quella movimentata sezione delle Storie
(VI, 2) da cui progressivamente si diparte il racconto della
repressione da parte dei Persiani della rivolta delle città greche
d'Asia, della distruzione di Mileto, dell'azione di Dario contro
Atene e della sconfitta a Maratona dei barbari, vale a dire degli
stranieri asiatici. In una situazione siffatta si ha a che fare con
un conflitto radicale tra Europa e Asia, tra due mondi che subiscono
sì il fascino l'uno dell'altro, ma che non possono non scontrarsi. È
questo un confronto di civiltà contrapposte: ci può essere reciproca
curiosità esotizzante, ansiosa e sospettosa attesa dell'iniziativa
altrui, trattativa, negoziato, ma non convivenza. L'egemonia, in
tale contesto, è allora la conduzione di un esercito: la parola
evoca il clamore delle armi. In campo, tuttavia, vi è da una parte
il potere monocratico dell'Impero persiano, il modello
nell'antichità più illustre di quel dispositivo concettuale e
storiografico che sarà poi noto come 'dispotismo orientale', e
dall'altra un'aggregazione variegata di libere città tra loro
diverse, con costumi, tradizioni e costituzioni spesso assai
contrastanti. Si riproduce anche in questo caso quella dialettica
tra due poli che concorre a disegnare la fisionomia di gran parte
del pensiero greco: vi è da un lato infatti l'arroganza monolitica
(e pur seducente) dell'uno, e dall'altro la fragile (e pur
resistente) poliarchia dei molti. E così, inevitabilmente,
l'egemonia si trasforma in un istituto che coinvolge non l'uno, al
cui interno sono ben chiari i rapporti tra chi comanda e chi
obbedisce, ma i molti, costituiti, proprio in quanto molti, da un
insieme di organismi autonomi. Non ci si deve dunque stupire se il
conflitto con l'Impero persiano rende necessaria, alla vigilia delle
Termopili e di Salamina, una συμμαχία ellenica, vale a dire
un'alleanza militare, sotto l'egemonia di Sparta.
Si profila, a questo punto, un primo e decisivo arricchimento del
significato originario: si può cioè introdurre il concetto di
egemonia solo quando in campo si trovano soggetti affini che,
sollecitati magari da cause esogene, si sentono membri di una
compagine cui, talora non senza diffidenza, sono irreversibilmente
legati da un profondo sentimento di appartenenza. Nella Grecia del V
secolo, che proprio grazie al confronto con i Persiani ha percepito
la consapevolezza di possedere un'identità culturale, si arriva però
ben presto alla rivalità interegemonica tra Atene e Sparta.
L'egemonia, sorta per esigenze derivate da un'eccezionale
congiuntura militare e quindi provvisoria, si istituzionalizza: gli
Ateniesi fondano, sempre con intenti antipersiani, la Lega
delio-attica, mentre gli Spartani rafforzano la loro supremazia
regionale nel Peloponneso. Gli Stati minori hanno però, almeno in
teoria, la facoltà di conservare il proprio νόμοϚ e addirittura la
libertà di fare autonomamente la guerra contro gli Stati estranei
alla Lega: l'egemonia si presenta così come l'unica forma di unità
che lascia persistere le autonomie cittadine. L'egemonia di Atene,
tuttavia, grazie all'indiscussa talassocrazia, tende a trasformarsi
in un vero e proprio impero commerciale. Ed è proprio il regime
democratico ateniese, sviluppatosi con le riforme di Clistene dopo
il rovesciamento della tirannide, che paradossalmente, per la sua
stessa natura, si proietta verso una dimensione imperiale: nel 461,
infatti, il partito popolare, rappresentato da Efialte e da Pericle,
ma estromesso dagli uffici politici per l'impossibilità dei ceti
popolari di partecipare alla vita civile in ragione della loro
situazione economica, impone l'erogazione di un'indennità
giornaliera per i membri della βουλή e del tribunale dei giudici
popolari. La semplice isonomia, eguaglianza dei cittadini davanti
alla legge, diventa così compiuta democrazia, eguale possibilità per
tutti di essere attivamente presenti nelle sedi dove si prendono le
decisioni politiche. Si rendono tuttavia sempre più necessari e
sempre più onerosi i tributi che, onde finanziare il popolo che
partecipa alla vita politica senza attingere alle risorse dei
cittadini abbienti, vengono fatti affluire dai quattro distretti
(trace, ellespontico, ionico, delle isole) su cui Atene esercita
l'egemonia.
Ciò consente di spiegare, tra l'altro, perché, nel regime popolare,
i colti e i ricchi, come Pericle, non saranno minacciati e avranno
sempre un ruolo preminente in virtù della loro posizione sociale. Da
ciò deriva inoltre che proprio il partito popolare, il partito della
maggioranza antioligarchica, si riveli un deciso fautore
dell'egemonia e della trasformazione dell'egemonia stessa in ἀϱχή:
dall'impero sottomesso all'egemonia scaturisce infatti la base
materiale del predominio popolare. Il partito oligarchico, invece,
sarà piuttosto incline, con le dovute eccezioni, al compromesso con
l'oligarchia spartana (perenne mito efficientistico e
aristocratico-guerriero di chi vagheggia una società olistica e mira
al governo dei pochi) e a non utilizzare l'arma estrema della guerra
totale.
Con Tucidide, ateniese favorevole a una prudente correzione in senso
oligarchico del regime popolare, il concetto di egemonia, destinato
ormai a connotare tanto la magistratura civile quanto il generalato
militare, assume una fisionomia che scaturisce dagli eventi
posteriori alla guerra antipersiana. Tucidide, com'è noto, è
testimone dell'evento che per lui è il più grande di tutti i tempi,
vale a dire la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Si tratta non
di guerra dei Greci contro i barbari per la salvaguardia di una
civiltà, ma della guerra dei Greci tra di loro per l'egemonia. Già
Agamennone, si legge nella Guerra del Peloponneso, guidò la
spedizione contro Troia perché era il più potente e radunò gli
uomini "più col terrore che ricevendo un favore" (I, 9). E qual è la
causa della guerra che Tucidide segue con apprensione e insieme con
freddezza? La motivazione più profonda - sostiene - è anche la più
inconfessata: infatti "la crescita della potenza ateniese e il
timore che ormai incuteva agli Spartani resero inevitabile il
conflitto" (I, 23).L'esplosione endogena (e cioè la guerra tra
affini) si verifica del resto quando si è eguali e quando lo
sviluppo impetuoso dell'uno suscita le apprensioni dell'altro e
trasforma entrambi in avversari. Gli uomini "sopportano molto peggio
la violazione della legge che non l'assenza della legge: nel primo
caso sembra loro trattarsi di sopraffazione di un uguale, nel
secondo di fatale predominio da parte di chi è più forte" (I, 77).
Queste parole sono da Tucidide messe in bocca, come una sorta di
lucido monito e insieme di spietato disvelamento, agli ambasciatori
di Atene che parlano davanti ai Lacedemoni. Risulta chiaro, da
questo discorso, che sotto i Persiani i Greci hanno sopportato
soprusi ben peggiori, ma anche che gli stessi Greci, e gli Spartani
in particolare, non possono accettare l'egemonia ateniese. La
sudditanza nei confronti di un popolo di servi e di despoti è
certamente terribile, ma naturale come un cataclisma, mentre la
sudditanza nei confronti di chi è simile a noi è la negazione
innaturale del giusto corso del mondo.Defilatosi dunque
provvisoriamente il nemico assoluto, vale a dire i barbari
d'Oriente, la guerra per l'egemonia contrappone i Greci e
interferisce con le loro costituzioni. Due volte, infatti, la
democrazia sarà travolta ad Atene. Gli Spartani giungeranno ad
allearsi proprio con i Persiani per conquistare l'egemonia: la
perderanno poi a vantaggio dei Tebani, sino a che i generali
macedoni riusciranno a imporre la loro supremazia, la qual cosa, tra
l'altro, comporterà la fine del regime popolare ateniese. L'Impero
universale ed effimero di Alessandro - contaminato da forme
orientali di potere - sarà il primo e ultimo tentativo del mondo
ellenico, come già intuirono gli storici antichi, di superare le
laceranti antinomie dell'egemonia. Osservando la guerra del
Peloponneso, Tucidide aveva ben intravisto la nuova meccanica
politica che si stava dispiegando.
Così, quando, nelle Leggi, il dialogo che contiene l'estrema
sistemazione del suo pensiero politico, Platone usa a sua volta il
termine egemonia, ormai la democrazia ateniese è giunta alla fase
della sua decadenza. Il concetto in questione penetra ora
all'interno della teoria delle forme di governo, all'interno cioè
dell'analisi - comparsa anche questa per la prima volta nelle Storie
di Erodoto - che mira a cogliere gli aspetti buoni o cattivi delle
costituzioni. Il tiranno, afferma l'ospite ateniese del dialogo che
si immagina avvenuto a Creta, non ha bisogno di molte fatiche né di
molto tempo. È necessario solo che si orienti subito egli stesso là
dove vuole dirigere i cittadini, sia alle pratiche della virtù, sia
al contrario: uno Stato "non può dunque mutare legislazione in modo
più veloce e facile con altro mezzo che la guida dei potenti", τῃ
τῶν δυναστευόντων ἡγεμονίᾳ (Leggi, 711). L'espressione "guida dei
potenti" può anche essere tradotta, in questo contesto, "esempio dei
potenti". Sempre di egemonia però si tratta, ma l'egemonia riguarda
ora non i rapporti tra le città, ma le gerarchie politiche e sociali
all'interno di una sola città. Platone ricorre poi alla personalità
omerica di Nestore, un uomo che avrebbe potuto essere un tiranno
saggio: ma ora, nell'attuale decadenza, non è dato trovare una
siffatta figura. Il decisionismo del legislatore buono, un tipo
umano irrimediabilmente smarrito nel crepuscolo della πόλιϚ, è
certamente cosa migliore delle regole della costituzione
democratica: cosa peggiore, invece, è sicuramente il decisionismo
del legislatore cattivo.L'egemonia, dunque, anche al di fuori del
contesto delle relazioni tra le città, allude all'esercizio di un
potere coercitivo, che, pur minoritario o addirittura tirannico, si
fonda sul consenso, tanto che i sottoposti sono disponibili a
indirizzarsi verso la virtù o verso il suo contrario sulla base
dell'esempio di chi sta in alto. Con l'egemonia si scopre infatti
che vi è un'inquietante affinità che unisce chi comanda e chi
obbedisce: colui che la esercita appartiene allo stesso mondo e allo
stesso universo di valori di colui che l'accetta e la subisce. Il
conflitto, se conflitto deve esserci, concerne le diverse opzioni
egemoniche, non l'esercizio in sé dell'egemonia.
2. L'eclisse dell'egemonia tra età antica ed età moderna
In lingua latina la parola egemonia non compare. E non per mere
ragioni lessicali. È infatti l'inesorabile spinta propulsiva ed
espansiva della civiltà romana, in altri termini la tendenza ad
assorbire i molti nella originale, policulturale e multietnica
centralizzazione dell'uno, ciò che rende concretamente impraticabile
e anche incomprensibile il concetto greco di egemonia, facendolo di
fatto scomparire per circa due millenni: la dialettica tra l'uno e i
molti diventa ora piuttosto pratica amministrativa, sapienza
giuridica, rigorosa codificazione, complesso e tormentato rapporto
tra il centro e le sconfinate periferie.
In età romana sorge tuttavia l'istituto della dittatura. Questo
istituto, trasformatosi a sua volta in concetto forte del pensiero
politico, conoscerà, com'è largamente noto, una grande fortuna
all'interno dei dibattiti del mondo moderno e contemporaneo: la
storia del concetto di dittatura interferirà inoltre con la storia
recente, ottocentesca e novecentesca, del concetto di egemonia. È
del resto ben nota l'ambiguità del termine, storicamente inteso vuoi
come extrema ratio della salute pubblica vuoi come excusatio,
paravento e alibi della tirannide. Praticamente scomparso nel
Medioevo (che ha tuttavia conservato l'originario dictare, legato
all'universo della parola, da cui deriva il tedesco Dichtung, che
vuol dire poesia), il termine ha avuto un significato
prevalentemente positivo (anche se raramente usato) sino al XVIII
secolo: ha palesato tutta la sua contraddittorietà a partire dalla
Rivoluzione francese sino alla seconda metà del XIX secolo (quando
il suo uso è diventato molto più frequente), ha avuto infine un
significato prevalentemente negativo nel XX secolo, tranne che
nell'accezione 'dittatura del proletariato', fatta propria dal
bolscevismo marxista-leninista e da questo trasformata, in Unione
Sovietica, in caposaldo della dottrina ufficiale dello Stato.
Già in età antica sono presenti due concezioni tra loro assai
diverse della dittatura. Nei primi secoli della repubblica la
dittatura è una magistratura provvisoria, perfettamente legale, in
grado di affiancare i consoli qualora si profili una situazione
eccezionale: in caso di guerra cioè o in caso di conflitti sociali
particolarmente acuti. È stata considerata, sulla base di una
distinzione operata da Jean Bodin e ripresa da Carl Schmitt, non un
potere sovrano, ma un potere commissariale conferito per un tempo
limitato da una sovranità che risiede altrove, e precisamente nel
Senato: serve non a innovare, ma a riportare la situazione
perturbata alla normalità civile, vale a dire al silenzio delle armi
e alla pace sociale. Dopo la fine della seconda guerra punica (202
a.C.), l'antica dittatura sembra dissolversi e smarrire la sua
stessa ragion d'essere. Ricompare però centoventi anni dopo con le
guerre civili e Silla viene proclamato dictator rei publicae
constituendae causa. Il codice genetico della dittatura risulta ora
per sempre modificato. La dittatura di Silla si presenta infatti non
come un semplice potere straordinario, ma come un potere
straordinario costituente, anche se il fine è la restaurazione e il
rafforzamento, con l'ausilio dell'esercito, della vacillante
nobilitas senatoria. Cesare è poi nominato dictator perpetuus:
l'innovazione è ora permanente. Augusto proibisce infine l'uso del
termine dittatura, arcaico marchingegno repubblicano ormai
palesemente inutile. Il nome sparisce quando la cosa diventa
clamorosamente manifesta, quando l'eccezione diventa la regola. Lo
stesso Napoleone, dopo il 18 brumaio, preferirà farsi chiamare prima
console e poi imperatore.
Sul piano strettamente tecnico, dunque, la dittatura rimane ancorata
all'idea repubblicana della magistratura provvisoria: sul piano
emotivo, invece, le vicende storiche dell'istituto, da Silla a
Cesare, caricano la stessa dittatura del grave e non incongruo
sospetto che ciò che è per legge transitorio può diventare per
artifizio - e grazie al monopolio della forza - permanente e quindi
liberticida. Il pericolo maggiore per l'integrità della legge,
soprattutto in presenza del conflitto sociale e della guerra civile,
scaturisce proprio da ciò che è stato escogitato per tutelare e
proteggere la legge stessa. Si può così istituire un raffronto e
congetturare che l'egemonia dei Greci mira a far gravitare la pur
autonoma periferia nell'orbita delle città dominanti, mentre la
dittatura dei Romani del I secolo mira a impedire la reazione a
catena autodistruttiva del centro (che ha assorbito le periferie) e
a dotare, con Cesare e con i Cesari, di un sovrappiù di peso la
meccanica propulsiva del dominio imperiale. L'egemonia del V secolo
e la dittatura del I - sganciatesi dallo 'spirito' di Salamina e di
Zama - non salvarono, del resto, né la democrazia ateniese, né la
Repubblica romana. La dittatura repubblicana dei primi secoli, a
differenza dell'egemonia dei Greci, conservò tuttavia intatto il suo
potere di fascinazione.Per Machiavelli, il dittatore "fatto a tempo
e non in perpetuo", colui che può "fare ogni cosa sanza consulta, e
punire ciascuno sanza appellagione", è una figura oltremodo
positiva. Costituisce anzi, nelle repubbliche che intendono
predisporre le tecniche della propria sopravvivenza, una fisiologia
legale che può sanare le inevitabili e ricorrenti patologie storiche
e politiche: "Dico che quelle repubbliche le quali negli urgenti
pericoli non hanno rifugio o al dittatore o a simili autoritadi,
sempre ne' gravi accidenti rovineranno" (Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio, I, XXXIV). È evidente il richiamo alla
Repubblica romana dei primi secoli, un potere sovrano che seppe
prevedere e controllare le risposte istituzionali fornite allo stato
d'eccezione.
Montesquieu, invece, fa riferimento alla dittatura quando affronta
le leggi relative alla natura dell'aristocrazia: la magistratura
provvisoria romana veniva attivata infatti, nel lasso di tempo assai
breve in cui veniva esercitata, con il fine di difendere
energicamente la libertà e la preminenza degli aristocratici contro
il popolo, il quale, peraltro, "agit par sa fougue, et non par ses
desseins" (De l'esprit des lois, II, 3).
Poco tempo è dunque necessario per intimidire il popolo e compito
della dittatura, presidio legale delle classi superiori, non è
vessare la plebe, ma restaurare l'equilibrio sociale che gli
appetiti popolari insidiano.Un giudizio positivo sulla dittatura lo
si ritrova alla voce corrispondente dell'Encyclopédie, ad opera del
cavaliere de Jaucourt. Quanto a Jean-Jacques Rousseau, il ginevrino
sostiene che la dittatura, istituto che costituisce un pericolo non
per l'abuso, ma per la possibile inflazione e quindi per la perdita
di autorità, non mette in nessun modo in forse l'esercizio della
volontà generale, dal momento che "il est évident que la première
intention du peuple est que l'État ne périsse pas" (Du contrat
social, vol. IV, p. 6). Il magistrato che sospende l'autorità
legislativa non l'abolisce: egli infatti, secondo la prassi della
prima dittatura romana, tutto può fare, tranne le leggi.A
Montesquieu, dunque, per usare un linguaggio contemporaneo, su cui
torneremo in seguito, la dittatura piace perché restaura l'egemonia
degli aristocratici, mentre a Rousseau la dittatura piace perché
tutela, in casi particolari ed eccezionali, le leggi che sono il
frutto della volontà generale e con esse anche l'egemonia reale (e
non meramente aritmetica) della maggioranza popolare. Il modello,
ancora una volta, per Montesquieu come per Rousseau, è fornito
dall'esperienza e dall'intatto mito politico della prima dittatura
repubblicana di Roma.
Tutto cambia con la Rivoluzione francese e in particolare con
l'esperimento giacobino (31 maggio 1793-9 termidoro 1794). Ancora
prima dell'avvento di Bonaparte la parola dittatura assume dunque un
significato negativo, tanto è vero che Robespierre, in un discorso
tenuto la sera del 13 messidoro alla Société des Amis de la Liberté
et de l'Égalité, deve difendersi dall'accusa, evidentemente
infamante, di essere un dittatore, accusa lanciatagli in seno allo
stesso Comitato di salute pubblica (Oeuvres, vol. X, p. 134). Ma è
soprattutto con l'ultimo discorso (quasi un testamento politico),
tenuto l'8 termidoro alla Convenzione, vale a dire il giorno prima
della sua caduta, che Robespierre respinge con energia l'accusa di
dittatura ai danni della Convenzione stessa, ai danni cioè
dell'assemblea legalmente eletta dal popolo sovrano: la dittatura è
ora estranea alle istituzioni, interrompe la legalità ed è
considerata né più né meno che un'usurpazione illecita e
un'espropriazione del potere dei rappresentanti del popolo da parte
di una fazione o, peggio, da parte di un uomo solo. Robespierre, che
crede nella volontà generale, è inorridito da questa accusa. Avverte
persino il repentino spostarsi di un termine da un campo semantico a
un altro totalmente opposto: "[...] ce mot de dictature a des effets
magiques; il flétrit la liberté; il avilit le gouvernement, il
détruit la République; il dégrade toutes les institutions
révolutionnaires, qu'on présente comme l'ouvrage d'un seul homme; il
rend odieuse la justice nationale, qu'il présente comme instituée
par l'ambition d'un seul homme; il dirige sur ce point toutes les
haines et tous les poignards du fanatisme et de l'aristocratie. Quel
terrible usage les ennemis de la Révolution ont fait du seul nom
d'une magistrature romaine!" (Oeuvres, vol. X, p. 142).Ricompare
dunque lo spettro della dittatura che si sovrappone alle
istituzioni, le sostituisce e poi le disintegra a vantaggio di una
minoranza che si fa beffe della legalità e anche del consenso.
Finisce così la lunga storia della dittatura degli antichi. Comincia
la contraddittoria e drammatica avventura della dittatura dei
moderni, alimentata all'inizio, e anche in seguito, dalle
riflessioni sulla grande Rivoluzione e sul suo esito cesaristico. È
in questo contesto, non più celato tra le pieghe del concetto di
dittatura, che si ripresenta il concetto di egemonia.
3. Il risorgimento dell'egemonia
La parola egemonia, inesistente in latino, ritorna, in lingua
tedesca e nella particolare situazione storico-politica prussiana,
dopo la rivoluzione parigina del luglio 1830. È pur vero che, nello
straordinario saggio n. 8 del Federalist, Alexander Hamilton aveva
caldeggiato la soluzione federalistica in nome della pace, proprio
per evitare alle ex-colonie americane il destino della rivalità
interegemonica, e che Hegel aveva rimesso in plastica evidenza le
lotte di potenza tra gli Stati (le sue Lezioni sulla filosofia della
storia, tuttavia, vengono pubblicate postume solo nel 1837, a
monarchia orleanista ampiamente consolidata), ma quando la
rivoluzione, che si sperava esaurita, ritorna sulla scena
riproponendo l'autonomia compiuta (e l'egemonia temuta) dello spazio
politico francese, ecco che ricompare, nel nuovo contesto europeo,
il concetto e poi anche la parola 'egemonia'. La sfida è
naturalmente raccolta dai Tedeschi, che privilegiano le ragioni
nazionali: quelli che privilegiano le ragioni liberali e la spinta
verso la democrazia, come il poeta Heinrich Heine, si augurano che
"il canto del gallo francese" possa essere udito anche negli Stati
tedeschi.
Il celebre scritto di Leopold von Ranke, Die grossen Mächte, che
codifica l'impianto storiografico moderno del concetto di egemonia e
che inaugura gli studi sull'anarchia internazionale e sulla politica
di potenza, è pubblicato nel 1833 sulla "Historischpolitische
Zeitschrift", una rivista diretta a Berlino dallo stesso Ranke su
incarico del Ministero degli Esteri prussiano. Questo testo,
ammirevole perché spalanca un nuovo orizzonte agli studi di politica
internazionale, è in realtà anche un tendenzioso pamphlet
antifrancese. La Rivoluzione, infatti, è per Ranke la conseguenza
diretta della politica estera di Luigi XIV e della permanente
ambizione francese di dominare l'Europa. L'anarchia è dunque
soprattutto il frutto avvelenato delle mire espansionistiche di
Richelieu e dei suoi successori. Le cose sono cambiate quando
Federico II, per la prima volta dal tempo degli imperatori sassoni,
ha innalzato la Germania del nord, e in particolare la Prussia, al
rango di grande potenza. La congiunta ascesa austro-prussiana e
l'affermazione del genio tedesco hanno respinto le mire dei Francesi
e imposto un pur precario equilibrio internazionale. La Rivoluzione
francese ha poi consentito al programma del Re Sole di affermarsi
per quasi un quarto di secolo, sino a che la riscossa tedesca ha
riequilibrato a caro prezzo il continente. L'ordine fondato sul
balance of powers non è dunque per Ranke un'idea cosmopolitica della
ragione, ma il prodotto storico e concreto dell'autonomia e dello
sviluppo politico-culturale dell'area tedesca. Risulta comunque
evidente che con Ranke si ripresenta, su scala enormemente allargata
e con gli Stati moderni come protagonisti, la questione delle spinte
egemoniche e dei mezzi per sedarle e per non renderle distruttive.
La parola egemonia - Hegemonie - compare però in sede squisitamente
storiografica nella spettacolare Geschichte Alexanders des Grossen
di Johann Gustav Droysen, pubblicata sempre nel 1833. Tutta
quest'opera, come ha scritto H. Berve, il curatore dell'edizione del
1931, è pervasa dalla convinzione che per la Germania una violenta
unificazione politica realizzata dalla Prussia sarebbe l'obiettivo
indicato dalla storia. Droysen, del resto, con la monumentale
Geschichte der preussischen Politik del 1855-1856, incompiuta e
condotta solo fino al 1756, fornirà le basi storiche su cui lo
stesso Bismarck imposterà la politica di egemonia prussiana. Il
parallelo implicito tra la Macedonia e la Prussia, entrambe aree
periferiche e nord-orientali rispetto alla Grecia classica e alla
Germania moderna, è senz'altro essenziale per comprendere la nuova e
originale fortuna del concetto di egemonia, inteso come supremazia
politica, all'interno di un contesto divenuto continentale e
potenzialmente mondiale, della parte più compatta ed energica di una
nazione ancora divisa. L'egemonia si trasforma così nella forza
trainante del nazionalismo cosiddetto 'integrativo'. Ben più che
l'equilibrio prussiano-antiegemonico di Ranke, l'aggressiva egemonia
macedone-prussiana di Droysen è la risposta che pare vincente alla
sfida protoegemonica e conseguentemente rivoluzionario-eversiva
della Francia.La filologia classica e il grande scenario
internazionale si danno inopinatamente la mano. Nel 1833 riprende
così la sua vicenda il termine, inizialmente dotto e calato in un
sofisticato contesto antiquario. Nello stesso anno viene formato lo
Zollverein. Nel 1841, infine, viene pubblicato Das nationale System
der politischen Ökonomie di Friedrich List, risoluta difesa
dell'indipendenza nazionale e produttiva dell'area tedesca contro le
ipocrite pretese liberistiche e cosmopolitiche della scienza
economica di scuola britannica, vale a dire contro l'egemonia
commerciale e industriale dell'Inghilterra. Si può dunque sostenere
che il concetto di egemonia in età moderna risorge elaborato in area
prussiana per fornire un'identità nazionale all'intera Germania,
inibita nel suo sviluppo dalle ricorrenti tentazioni egemoniche
francesi e dalla schiacciante ed egemonica competitività delle merci
britanniche.Risultano così anche più chiari, e meno astrattamente
ideologici, i termini della vexata quaestio sul presunto dilemma
relativo al primato da attribuirsi, in sede storica, alla politica
interna o alla politica estera: è evidente che per il liberale
francese Benjamin Constant (avversario di Napoleone) - si veda De
l'esprit de conquête et de l'usurpation dans leurs rapports avec la
civilisation européenne, del 1814 - la politica di potenza non può
non essere il risultato di un regime dispotico (su questo terreno,
introducendo la variabile centrale dell'aggressività capitalistica,
si collocheranno anche le teorie socialiste dell'imperialismo), ed è
altrettanto evidente che per il conservatore prussiano Ranke, che
nel Politisches Gespräch del 1836 giudica inutile e inadeguato per i
Tedeschi il liberalismo, la costante tentazione egemonica francese,
causa ed effetto insieme dell'anarchia internazionale, non può non
essere all'origine del regime insieme dispotico e sovversivo di
Napoleone.
Il cammino moderno dell'egemonia è comunque ormai segnato. Intorno
al 1840, secondo il Littré, il termine compare, sempre come veicolo
di riferimenti eruditi al mondo antico, anche in lingua francese.
Nel 1847, in lingua inglese, George H. Lewes, autore di una
Biographical history of philosophy, scrive che Filippo istituì
l'egemonia macedone sulla Grecia: nello stesso anno, George Grote,
autore di una History of Greece, usa il termine hegemony come
sinonimo di headship. Un anno prima, nel 1846, Cesare Balbo, nel
Sommario della storia d'Italia, aveva però già sottratto il termine
al contesto antiquario, sostenendo che "noi italiani", a differenza
degli anglosassoni (il confronto vale anche per l'indipendenza
americana), "siamo lungi da siffatti destini: non abbiamo da
conquistare egemonie".
È però Vincenzo Gioberti che, nel Rinnovamento civile d'Italia del
1851, un testo che cerca di ricostruire, dopo la disfatta del
1848-1849, un'ipotesi politica nazionale, fornisce una definizione
che avrà una larga fortuna e che sarà presente, sino a Gramsci e
oltre, nel dibattito italiano: "Gli antichi chiamavano egemonia
quella spezie di primato, di sopreminenza, di maggioranza, non
legale né giuridica propriamente parlando, ma di morale efficacia,
che fra molte province congeneri, unilingui e connazionali, l'una
esercita sopra le altre" (vol. II, p. 203). Gioberti ricorda poi che
Pericle, Lisandro, Epaminonda e Filippo ebbero successivamente
l'egemonia nella Grecia del V secolo e del IV secolo, la quale
egemonia "non suol essere immobile in un luogo, ma mutare secondo i
tempi, passando da una all'altra contrada" (ibid., p. 208). Lo
stesso Gioberti, che oscilla nel 1851 tra suggestioni democratiche e
realistica convinzione della permanente necessità della mediazione
sabauda, trascina così il concetto di egemonia nel lessico politico
italiano contemporaneo proprio perché, come già Droysen con la
Prussia, egli scorge nella possibile egemonia del Piemonte sabaudo,
ottenuta in virtù della 'morale efficacia', la strada maestra per
giungere all'unificazione italiana.
Il Rinnovamento civile giobertiano conosce, com'è noto, una notevole
fortuna, e il concetto di egemonia suscita un certo interesse e
anche non pochi entusiasmi, tanto è vero che l'erudito torinese
Amedeo Peyron, nominato nel 1848 senatore da Carlo Alberto, con uno
scritto assai brillante su L'egemonia greca, comparso nel 1856 sulla
torinese "Rivista contemporanea", sente realisticamente il dovere di
mettere in guardia gli Italiani contro i poteri taumaturgici
dell'egemonia dei Greci: parecchie città, per mantenersi autonome,
si applicarono infatti nella Grecia antica al prudente consiglio di
affidarsi alla città più potente, con la conseguenza che
dall'egemonia tra compagni si passò all'assoluto comando sopra
sudditi. Peyron conclude scrivendo che, proprio in ragione delle
successive iperconflittuali egemonie (Atene, Sparta, Tebe,
Macedonia), la Grecia "sarebbe caduta in tal caos politico da
eguagliarsi solo al caos dei sistemi de' Protologi": l'evidente
allusione è rivolta al sistema filosofico dello stesso Gioberti.
Il termine comunque è ormai sufficientemente diffuso e tende a
uscire dall'ambito erudito per inserirsi nel corrente linguaggio
politico e per correlarsi anche alle questioni nazionali e in
particolare alla questione tedesca. Così scrive il "Times" del 5
maggio 1860: "Non c'è dubbio che è una gloriosa ambizione ciò che
spinge la Prussia a proclamare la propria rivendicazione alla
leadership, o, come si esprime quel paese di professori,
all'egemonia (hegemony) sulla Confederazione Germanica". È questa,
tra l'altro, la prima volta che, in lingua inglese, il termine
hegemony, sia pure con un ironico riferimento al "paese dei
professori", viene ricondotto al concetto di leadership, notissimo
alla sociologia politica del XX secolo. Oggi, del resto,
praticamente tutti i dizionari anglosassoni indicano come sinonimi,
per quel che riguarda l'uso corrente, hegemony e leadership.
È un fatto, tuttavia, che il concetto di egemonia, almeno nella
maggioranza dei casi, tenderà ad assumere una diversa sfumatura di
significato (talora appena percettibile, talora vistosa) in rapporto
all'oggetto specifico cui verrà accostato: se si tratta infatti
dell'egemonia nelle relazioni internazionali (v. Egemonia: Relazioni
internazionali) si profila, anche in virtù dell'esperienza del ciclo
storico inaugurato dalla formazione 'prussiana' del Kaiserreich, una
prevalenza dell'idea della forza (pur non venendo meno la questione
del consenso); se invece si tratta dell'egemonia come metodo di
lotta politica in una compagine nazionale data e come strumento di
direzione politica di un variegato tessuto sociale, si profila, in
armonia con la definizione di Gioberti, una prevalenza dell'idea di
consenso (pur non venendo meno la questione della forza).
4. Conquista della democrazia e conquista dell'egemonia
Com'è noto, nonostante il 1793-1794 e il 18 brumaio, il termine
'dittatura' non è stato subito accantonato, negli ambienti
democratici e poi socialisti, a causa della lacerante meteora
giacobina-robespierrista e della ben più lunga traiettoria
napoleonica. Gli anni della Restaurazione e l'oscurantismo
poliziesco delle potenze della Santa Alleanza hanno anzi favorito le
sette, i comitati segreti di minoranze illuminate e le congiure per
la libertà: lo stesso liberalismo oligarchico e censitario del juste
milieu, spesso pronto a ravvisare nella sovranità popolare
nient'altro che la dittatura tirannica della plebe, ha del resto
alimentato un'opposizione democratica che non ha esitato, in molte
occasioni, a cercare le proprie radici nella mai veramente spenta
tradizione giacobina. A invocare la dittatura, tuttavia, non è stata
solo, nel fervore della cospirazione, la scontata linea genealogica
Babeuf-Buonarroti-Blanqui: persino Saint-Simon, il giovane Mazzini,
Weitling, Cabet, Blanc, Bakunin, Proudhon, Lorenz von Stein, Comte,
Lassalle e molti altri hanno subito, almeno una volta, il fascino
energico della magistratura provvisoria (e della venerata parola
romana) che si affianca poderosamente al moto emancipatore di coloro
che sono privi di mezzi e di diritti. Anche in piena Terza
Repubblica si è ancora parlato, senza suscitare scandalo negli
ambienti democratici, della dittatura liberatrice - e rispettosa
della legalità costituzionale - di uomini come Gambetta, Ferry e
Waldeck-Rousseau.
Vincenzo Gioberti, sempre nel Rinnovamento civile del 1851, ha
addirittura saldato, sicuro di pronunciarsi per il meglio,
l'egemonia alla dittatura: "Ogni egemonia nazionale importa, almen
nei principi, la dittatura; imperocché dovendosi usare celerità
somma, unità, vigore di esecuzione, [...] si debbono evitare le vie
deliberative" (vol. II, p. 271). Non si dimentichi, infine, che
dittatori furono, nel senso classico e protorepubblicano, Simón
Bolívar e Giuseppe Garibaldi.
Solo nel 1849, con il discorso divenuto celebre di Donoso Cortés, ha
compiutamente inizio la parabola controrivoluzionaria della parola
'dittatura', sinonimo della spada aristocratico-militare che resiste
al pugnale rivoluzionario e democratico: secondo il lucido pensatore
spagnolo, che tanta influenza avrà su Carl Schmitt, gli antichi
regimi non hanno evidentemente più risorse autoctone - la
sfolgorante legittimità del trono e dell'altare - per opporsi con
successo al progredire della rivoluzione. La dittatura, tuttavia,
per molti anni continuerà a essere associata al momento culminante e
risolutivo dell'instaurazione della democrazia. Molte voci,
peraltro, si leveranno per mettere in guardia contro i pericoli
dell'istituzionalizzazione della dittatura: tra queste non pochi
francesi sfuggiti con l'esilio a Napoleone III e, in Italia,
Pisacane.
Intanto, nel Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels,
pubblicato alla vigilia delle rivoluzioni del 1848, si proclama che
tutti i movimenti formatisi sino ad allora erano stati movimenti di
minoranze nell'interesse di minoranze: "Il movimento proletario è il
movimento indipendente dell'enorme maggioranza nell'interesse
dell'enorme maggioranza". Compito della maggioranza proletaria è
elevarsi-trasformarsi in classe dominante (herrschende Klasse): così
facendo essa procede ipso facto alla conquista della democrazia (die
Erkämpfung der Demokratie) e, ineluttabilmente, non può evitare,
onde emancipare se stessa autodissolvendosi nella società senza
classi a venire, di effettuare interventi dispotici (despotische
Eingriffe). Nel 1850 Marx, in Le lotte di classe in Francia,
utilizza tre volte l'espressione "dittatura del proletariato":
questa stessa espressione compare in quattro testi marx-engelsiani
del periodo 1850-1852 (dunque dopo le sconfitte del 1848-1849), in
cinque testi marx-engelsiani del periodo 1871-1875 (dopo la Comune
di Parigi), in tre testi, ad opera del solo Engels, del periodo
1890-1891. Sempre avrà a che fare con la dittatura della maggioranza
della popolazione. Nell'ultimo di questi testi, la critica
engelsiana del programma socialdemocratico di Erfurt, si afferma che
"la repubblica democratica è la forma specifica della dittatura del
proletariato, come è già stato dimostrato dalla grande Rivoluzione
francese" e si precisa che l'emancipazione si effettua "attraverso
la concentrazione di tutto il potere politico nelle mani dei
rappresentanti del popolo".
Che cos'è dunque la dittatura di classe del proletariato -
espressione pronunciata la prima volta forse in polemica indiretta
con il liberale Guizot che nel 1849 aveva definito la democrazia "il
grido della guerra sociale" - se non il principio maggioritario
conquistato dai salariati con l'estensione generalizzata dei diritti
politici e utilizzato come una macchina bellica (gli "interventi
dispotici") lungo il rude cammino che conduce verso una società non
divisa in classi? E che cos'è la democrazia, nel pensiero di Marx ed
Engels, se non la potenza del numero dittatorialmente (e quindi
provvisoriamente) contrapposta alla potenza dell'oligarchia
'borghese' dominante? È opportuno, tra l'altro, ricordare che per
Marx nel 1852 il suffragio universale in Inghilterra sarebbe di per
sé già una misura socialista, anzi "più socialista" di tutte le
avventure tentate e fallite sul continente.
Occorre tuttavia - e questo è il punto che non può essere eluso -
concepire il proletariato come un insieme sociale maggioritario,
coeso e unitario: Marx stesso, nelle sue opere storiche, politiche,
e non di rado anche in quelle critico-economiche, sarà invece
costretto a disegnare, con probità sociologica e smentendo
spietatamente in anticipo le certezze degli epigoni, una società ben
altrimenti complessa, dove i segmenti della società stessa, nelle
città e ancor più nelle campagne (il luogo in cui si dispiega
l'odiato "idiotismo della vita rustica"), si muovono secondo
logiche, mentalità, comportamenti e programmi politici enormemente
contrastanti. La classe operaia, in particolare, non sarà mai
maggioranza e la società civile faticosamente, ma con successo,
resisterà all'aggressione onnipervasiva del modo capitalistico di
produzione, dislocandosi in forme che non si identificheranno mai
completamente con le leggi evolutive previste non solo da Marx, ma
anche da altri social thinkers del XIX secolo.
Eduard Bernstein, nella nuova fase storica apertasi a fine secolo
con il venir meno della 'grande depressione', si incaricherà di
dimostrare che lo sviluppo della società industriale non procede
verso una semplificazione estrema (miseria crescente, aumento
progressivo del proletariato, catastrofe redentrice), ma verso
un'estrema, e socialmente pluralistica, complessità.
Inevitabilmente, nella socialdemocrazia tedesca ed europea, pur non
scomparendo le liturgiche citazioni dei 'classici', si parlerà
sempre più di 'repubblica democratica' e sempre meno di 'dittatura
del proletariato': la conquista della democrazia, affrancatasi sul
terreno empirico e sociologico dal cemento mitologico della volontà
generale proletaria, si allontanerà progressivamente dai souvenirs,
per dirla con Marx, della congiuntura giacobina, drammatico e
contraddittorio luogo d'origine, come nella prima metà del secolo
XIX ben avevano capito i liberali antidemocratici, della democrazia
moderna. L'egemonia, termine ormai sufficientemente diffuso negli
ultimi anni del secolo, emerge in lingua russa (gegemonija) quando
la socialdemocrazia che si trova a operare nella particolarissima
situazione dell'Impero zarista è costretta ad affrontare, sin dagli
anni novanta, i problemi posti da un proletariato esplicitamente e
per il momento irrimediabilmente minoritario. Nel decennio
precedente, del resto, G.V. Plechanov, dopo avere abbandonato il
populismo per confluire nella socialdemocrazia internazionale, si
era già reso conto che una rivoluzione borghese e liberale era in
Russia all'ordine del giorno, e si era inoltre interrogato sul ruolo
che l'esiguo proletariato russo avrebbe dovuto o potuto giocare in
tale rivoluzione. Si può così comprendere perché, a partire appunto
da Plechanov, nel contesto socialdemocratico russo, vale a dire
prima del 1917-1918, la parola egemonia è praticamente sinonimo di
direzione politica (rukovodstvo, termine che ricorre spessissimo in
Lenin) nel corso dell'imminente rivoluzione non proletaria. Il
problema è soprattutto quello di decidere a chi spetta
l'egemonia-direzione in un moto storico con segno di classe sì
borghese - historia non facit saltus, giusta la concezione
materialistica della storia -, ma al cui interno la borghesia si è
dimostrata e si dimostra drammaticamente inadeguata al compito
storico che proprio la storia le assegna. (Non è il caso di entrare
nel merito storiografico della discussione e di rilevare che mai ciò
che si conviene definire 'borghesia' ha materialmente 'fatto' le
rivoluzioni che dottrinariamente vengono chiamate appunto
'borghesi').
Già P. B. Axelrod, il futuro menscevico che sarà sempre un fermo
avversario di Lenin, sostiene comunque nel 1901 che la
socialdemocrazia può conquistare l'egemonia nella lotta contro
l'assolutismo zarista. Si torna dunque a parlare di egemonia quando
un soggetto particolarmente energico e dotato di una missione
storica si pone e si propone, nel corso di un processo politico e
sociale, come leader naturale di una pluralità di soggetti più
deboli e oggettivamente interessati all'alleanza o quantomeno
all'esito della lotta in corso. Il proletariato, tuttavia, per
evidentissime ragioni storiche, è in Russia strutturalmente
minoritario, quindi debole: deve perciò essere rafforzato da un
sovrappiù di direzione politica. Lenin, a differenza di Axelrod,
trae le dovute conseguenze e recupera il giacobinismo. Siamo dunque
arrivati alla risoluta svolta bolscevica e l'egemonia del
proletariato sugli altri strati sociali può diventare l'egemonia del
partito politico sullo stesso proletariato, ritenuto inidoneo, senza
la coscienza esterna dei rivoluzionari di professione, a uscire
dalle secche economicistiche del tradunionismo. L'egemonia sociale
di una minoranza può dunque aver successo solo grazie alla dittatura
politica organizzata di una ulteriore e ben più esigua minoranza. In
altre parole, poiché sul terreno sociale il proletariato non ha la
forza sufficiente, il fattore che sul terreno politico può e deve
avere la forza, la socialdemocrazia, può e deve far sì che il
proletariato abbia il consenso di tutti i soggetti interessati
all'abbattimento dello zarismo. Trova così conferma il fatto che,
nel lessico dei bolscevichi, l'egemonia proletaria sugli alleati e
la direzione politica della socialdemocrazia si identificano.
Da questo viluppo di problemi, frutto anche della collisione tra la
permanente eredità populistica e l'incipiente e talora impetuosa
crescita industriale, derivano la proposta leniniana della dittatura
democratica degli operai e dei contadini, nonché la strategia,
formulata da Parvus e da Trockij, della rivoluzione permanente, che
ha come sbocco la dittatura del solo proletariato. Dopo il 1917 il
gioco delle parti si preciserà meglio: la dittatura del proletariato
si identificherà con la direzione politica e quindi con la forma
assunta dallo Stato operaio diretto dal partito bolscevico, mentre
l'egemonia del proletariato, un'espressione assai frequente nel
lessico di Stalin, costituirà la traduzione sociale del contenuto di
classe del nuovo Stato.
Già prima della grande guerra, nell'ambito della socialdemocrazia
tedesca, il riferimento alla dittatura del proletariato,
nell'accezione 'maggioritaria' di Marx ed Engels, si è fatto assai
raro, mentre il termine 'egemonia', proprio per la connessione ormai
prevalente con la Weltpolitik e con il lessico delle relazioni
internazionali, non è certo frequente. Nel 1909 Karl Kautsky, nel
Weg zur Macht, ricorda che Engels ancora nel 1891 sosteneva la
parola d'ordine della dittatura del proletariato - abbiamo visto con
quale significato - identificandola con il dominio politico
(Herrschaft) del proletariato stesso nel quadro della repubblica
democratica: l'edizione francese del 1910 traduce Herrschaft con
hégémonie, segno ormai di una disinvolta intercambiabilità dei
termini. Nel 1924, sette anni dopo la Rivoluzione d'ottobre, Otto
Bauer, socialista democratico austriaco certo non pregiudizialmente
ostile all'esperienza dei soviet, dimostra, con straordinaria
lucidità, di aver compreso la novità dirompente del termine
'egemonia' rispetto alla tradizione socialista: "L'egemonia del
proletariato (die Hegemonie des Proletariats) sopra i contadini che
sono numericamente predominanti significa in Russia la dittatura di
un piccolo partito proletario attivo sulla gran parte della
popolazione lavoratrice estranea alla politica" (Der Kampf um die
Macht). L'equazione è evidente: l'egemonia del proletariato
minoritario (presunto momento del consenso) è resa possibile solo
dalla dittatura del partito (realistico momento della forza). Quella
che sparisce - e per sempre - è la marxiana dittatura di classe del
proletariato, "enorme maggioranza" che agisce "nell'interesse
dell'enorme maggioranza". Anzi, proprio quando è comparsa
l'egemonia, si è reso evidente, al di là dei persistenti richiami
ideologici, che la dittatura marxiana non era altro che un mero e
generoso artificio retorico, legato, tra i tanti, alla stagione
quarantottesca, alla stagione della lotta tra peuple e juste milieu,
tra suffragio universale e suffragio ristretto, in concomitanza con
l'innestarsi, a Parigi, Berlino, Vienna, dei moti autonomamente
popolari all'interno delle rivoluzioni liberali, democratiche e
nazionali d'Europa. È un curioso destino, quindi, quello
dell'egemonia nel lessico del movimento operaio e socialista: essa
si afferma e si diffonde infatti quando il proletariato non può
essere maggioranza compatta per la presenza dirompente dello
sviluppo capitalistico (Occidente europeo e nordamericano) o per la
carenza di tale sviluppo (Russia zarista e bolscevica). Quando
Antonio Gramsci, nel saggio Alcuni temi della quistione meridionale,
scritto nel 1926 poche settimane prima dell'arresto e pubblicato
solo nel 1930, ricorda che "i comunisti torinesi si erano posti
concretamente la quistione dell'egemonia del proletariato, cioè
della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato
operaio", egli usa il termine 'egemonia' nella ortodossa accezione
bolscevica, in perfetta sintonia con il linguaggio del gruppo
dirigente staliniano che, proprio in quell'anno, sta consolidando il
proprio potere nell'URSS. Gramsci, tuttavia, elabora in seguito una
teoria dell'egemonia, che, pur non sfuggendo alla forza di gravità
del leninismo, è stata universalmente considerata originale. Poco
prima di essere arrestato, del resto, egli esprime anche in una
lettera-documento al comitato centrale del PCUS le sue
preoccupazioni per l'unità del movimento comunista. Così, quando nel
1929 inizia la stesura di quel monumentale labirinto
teorico-politico che sono i Quaderni del carcere, è assai probabile
che sospetti che nell'esperienza sovietica il momento della forza
stia prevalendo in modo prevaricatore sul momento del consenso.
È però attraverso una ricognizione storica sul Partito d'Azione nel
Risorgimento italiano, e sul suo fallimento, che egli arriva a
sostenere che una classe è dominante in due modi: è cioè dirigente
nei confronti degli alleati e dominante, in senso stretto, sugli
avversari. Sul polo dirigente egli si sofferma poi in modo
particolare. Scopre allora il grande rilievo che vengono ad assumere
il ruolo degli intellettuali, la penetrazione culturale e la
questione del consenso, obiettivo precipuo, quest'ultimo, degli
intellettuali stessi. Ed è così che all'egemonia della tradizione
rivoluzionaria russa - che fare quando il proletariato è esigua
minoranza? - viene affiancata la concezione 'federalistica'
dell'egemonia propria di Gioberti, uno degli autori più citati nei
Quaderni e giunto a Gramsci probabilmente grazie anche alla lettura
dell'opera di Gentile. Gioberti infatti, nel Rinnovamento, secondo
Gramsci, ha esposto, pur vagamente, il concetto "popolare-nazionale"
giacobino dell'egemonia politica, vale a dire dell'alleanza tra
borghesi-intellettuali e popolo.
La dinamica del processo rivoluzionario nell'ottica gramsciana può
così precisarsi. All'inizio vi è il dominio totale dell'avversario.
Si ha poi una lotta per l'egemonia nella società civile, una lotta
che il partito politico deve essere in grado di pilotare, con
l'ausilio degli intellettuali portatori di consenso, sul terreno
dell'ideologia e della cultura: ottenuto il consenso nella sfera
della società civile, il partito può farsi Stato, esercitare la
forza e costruire un nuovo blocco storico.Ha verosimilmente ragione
Norberto Bobbio quando congettura, al di là della sconfinata miniera
di citazioni che è possibile estrarre dai Quaderni, che in Gramsci
la società civile si distingue sia dalla base strutturale che dallo
Stato: è anzi, come quest'ultimo, una sovrastruttura, o,
hegelianamente, il contenuto etico dello Stato che produce le
istituzioni che sono in grado di regolare i bisogni. La base
strutturale, gli inferi del tessuto sociale, è preda
dell'insormontabile opacità materiale, mentre lo Stato è nelle mani
del nemico di classe: è nella società civile intermedia che si può
lottare per il consenso e quindi per l'egemonia. In basso i
portatori dell'antagonismo di classe sono prigionieri dei bisogni,
in alto sono prigionieri della forza: nella società civile, invece,
c'è possibilità di movimento e di azione.
La conquista della democrazia, come si vede, che in Marx partiva dal
basso per trasformare ottimisticamente in herrschende Klasse il
proletariato mitologicamente maggioritario, diventa ora conquista
dell'egemonia-consenso (preludio alla conquista della
forza-dittatura), perché chi sta in basso non ha né maggioranza
omogenea, né coscienza autonoma, né forza. È questa una presa d'atto
inconsapevole dell'esaurimento della tradizione 'marxista' e insieme
un'originale applicazione del bolscevismo leninista, ottenuta
dilatando al massimo la questione del consenso, ai problemi di una
improbabile rivoluzione nell'Occidente sviluppato, una rivoluzione
che la guerra dei trent'anni del XX secolo, apertasi nel 1914, e
l'avvento dei regimi autoritari facevano ancora ritenere
irrinunciabile. La conquista dell'egemonia, fondamento della
dittatura, sintesi di un complicato e ancipite itinerario
lessicale-concettuale che risale insieme a Gioberti e a Plechanov, è
così nel suo approdo gramsciano anche una risposta drammatica e in
larga misura antitetica alle difficoltà gravissime incontrate dalla
conquista della democrazia.
Relazioni internazionali
di Luigi Bonanate
sommario: 1. Introduzione. 2. L'egemonia classica. 3. L'egemonia nel
mondo moderno. 4. Egemonia e potenza. 5. Verso la rinascita
contemporanea dell'egemonia. 6. Osservazioni conclusive. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Nelle sue applicazioni internazionalistiche, l'idea di egemonia
offre un esempio estremamente significativo delle difficoltà
incontrate dalla teoria delle relazioni internazionali persino a
consolidare un linguaggio specialistico, nel quadro del tentativo di
affermarsi come disciplina autonoma e scientifica. Parola
dall'etimologia (greca) chiara e univoca, significando 'direzione',
'guida', essa è stata assunta - e abbandonata - soventissimo, nei
secoli, quale concettualizzazione di un particolare modo di essere
nei rapporti tra entità sovrane, prevalentemente gli Stati: Gioberti
ad esempio la utilizzava con riferimento all'egemonia "che fra molte
province congeneri, unilingui e connazionali, l'una esercita sopra
le altre" (Del rinnovamento civile d'Italia, 1851, vol. II, p. 203)
e Gramsci a quella che un gruppo dirigente esercita su una società
(v. Carnevali, 1989; v. Vivanti, 1978). Ma con il passar del tempo
moltissimi sinonimi le si sono affiancati - gli scrittori
interessati a discutere la parabola dei grandi Stati nella storia
facendo riferimento alla 'supremazia' come alla 'preponderanza',
alla 'dominazione' o alla 'leadership' (e persino
all''imperialismo'). Valga per tutti l'esempio del grande storico
John Robert Seeley, il quale in un libro dedicato a L'espansione
dell'Inghilterra definiva la "tendenza all'espansione" (cioè uno dei
modi di definire l'egemonia, appunto) come "un fenomeno profondo,
persistente, necessario" (v. Seeley, 1883, pp. 16-17; si noti
inoltre che, nelle pagine della Ricapitolazione finale, Seeley farà
riferimento invece alla "preminenza" dell'Inghilterra); cosicché nel
linguaggio internazionalistico la scelta tra un sostantivo e l'altro
è risultata, di tempo in tempo, più sovente casuale che volontaria,
tanto che uno dei più prestigiosi e attenti teorici delle relazioni
internazionali, Raymond Aron (v., 1959, p. 18), ebbe a utilizzare la
parola egemonia "faute d'un meilleur terme", come praticamente tutti
i manuali scolastici di storia dimostrano.
È tuttavia possibile individuare alcune circostanze, e alcuni
contesti culturali, nei quali all'egemonia si è invece fatto
riferimento con intenzioni specialistiche in vista di una
concettualizzazione che mirava a dimostrarsi non priva di capacità
esplicative. Tale è stato il destino dell'egemonia particolarmente
in due momenti storici, uno legato alla teoria del cosiddetto
Stato-potenza, che ha dominato la ricerca storiografica tedesca
dalla seconda metà del secolo scorso alla metà del nostro, mentre
l'altro, molto più recentemente, ha visto nella struttura bipolare
del sistema politico internazionale un caso particolarmente
interessante e perspicuo di egemonia (con luci e ombre, pregi e
difetti - come vedremo - nonché particolari connotati ideologici),
non privo di significativi riferimenti alle prospettive della
filosofia della storia. Questi diversi momenti verranno ora
analizzati in profondità, dopo averli fatti precedere da una
ricostruzione storico-concettuale del termine, e giustapponendo loro
l'esemplificazione di altri riferimenti all'egemonia meno intensi
(specialmente nell'ambito della storiografia diplomatica), da un
lato, e da un tentativo di sistematizzazione
terminologico-interpretativa, che discuta l'eventuale pregnanza e
specificità dell'egemonia come chiave esplicativa di un particolare
fenomeno della vita di relazione tra gli Stati, dall'altro.
2. L'egemonia classica
Fin dalle sue prime apparizioni - ma ancora nelle attuali -
'egemonia' (v. Schaefer, 1932) appare come una parola
contraddistinta da un destino 'fatale', intrecciata com'è con l'idea
di una sorte già stabilita per chi la conquisterà e proprio per ciò
sarà inevitabilmente condannato al declino. Già nelle pagine
iniziali de La guerra del Peloponneso, "l'egemonia sui vicini"
denota, secondo Tucidide, l'esistenza di rapporti di disuguaglianza
tra i deboli, che accettano di "asservirsi ai più forti", e i
potenti che cercano di "sottomettere le città più deboli".
L'egemonia è poi addirittura alle origini - se non ne è addirittura
la causa - del conflitto mortale tra le due massime città-Stato
dell'epoca, Sparta, la potenza egemone per terra, e Atene, egemone
per mare, spinte - ciascuna - da una sorta di legge di natura, o
meglio da tre istinti naturali (come Tucidide li definisce):
"l'amore della gloria, la paura, l'utile" (I. 76, 2). Questo è il
destino della potenza ("è sempre accaduto che il più debole fosse
oppresso dal più forte", ibid.) di Atene, la città di Tucidide, la
quale per aver saputo suscitare e guidare la guerra patriottica
contro i Persiani aveva creduto di essersi guadagnata il diritto
all'egemonia su tutta la Grecia libera, non comprendendo che la
perdita dell'indipendenza non avrebbe potuto essere tollerata dalle
altre città, una volta sconfitto il nemico comune.
Nell'analizzare i meccanismi che presiedono alla formazione delle
alleanze (in una pagina modernissima) Tucidide contrappone poi
all'egemonia un altro (ben più fortunato) concetto interpretativo
tipico del linguaggio internazionalistico, al quale l'egemonia sarà
poi sempre associata per contrasto: l'equilibrio, che per quanto
"determinato da una paura reciproca è la sola garanzia per
un'alleanza" (III. 11,2). La natura schematica del gioco della
politica internazionale è così delineata: egemonia o equilibrio,
dominare o essere dominati. Ma non si tratta - com'è intuitivo - di
individuare con queste parole degli 'stati di cose', quanto di
segnalare delle tendenze, delle linee direttrici comuni alla
politica estera di qualsivoglia Stato, cosicché ne risulta il
disegno di un alternarsi continuo di Stati che crescono e di altri
che declinano, in una successione incessante e immodificabile: nelle
parole di Alcibiade, "ci potrebbe essere per noi stessi il rischio
di venire da altri dominati se non fossimo noi stessi a dominare
altri" (VI. 18,3). Rischio che va tuttavia accettato come tendenza
inevitabile, come già Aristotele intravvede ("i Laconi si sono
mantenuti finché hanno combattuto; decaddero, invece, quando ebbero
conquistato l'impero giacché non sapevano vivere in ozio", La
politica, II (B), 9, 1271b), e come poi Polibio - sempre a proposito
della stessa potenza - precisa esplicitando il connotato
dell'alternanza dei destini (del resto comprendendolo nella sua
teoria ciclica): "Quando gli Spartani tentarono di acquistare
l'egemonia sui Greci, corsero ben presto il rischio di perdere pure
la loro indipendenza" (Storie, VI, 50).
Non mai realizzatasi nel mondo greco - ché lo stesso immenso impero
di Alessandro il grande durò poco più di un decennio (336-323 a.C.)
- una vera e propria situazione di egemonia si concretizza
storicamente per la prima volta nel periodo imperiale romano,
celebrato dal Carme secolare di Orazio, e considerato come un
periodo nel quale i Romani esercitavano un vero e proprio "diritto
di sovranità universale" da Montesquieu, il quale nel cap. IX delle
Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur
décadence (1734) associa, a sua volta, grandezza e declino,
onnipotenza e decadenza, cogliendo la natura profonda della
condizione egemonica - cioè la sua provvisorietà, o fatale destino -
in questa sentenza: Roma "perse la sua libertà perché troppo aveva
realizzato la sua opera". Del resto, anche se le guerre possono
scoppiare per caso, non è casuale che a combatterle si trovino
determinati Stati, o popoli, come quello romano appunto, il quale
aveva "per fine lo imperio e la gloria e non la quiete"
(Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II,
IX).Come l'esempio dei due casi storici ricordati evidenzia,
l'osservazione del mondo antico consente di aggiungere alla
definizione dell'egemonia l'elemento della superiorità culturale,
cui certamente è sensibile chi preferisca questa parola ad altri
meno impegnativi sinonimi, come preponderanza, dominio, ecc.
L'egemonia non è infatti esclusivamente un portato della superiorità
militare, delle conquiste territoriali, della capacità di
controllare commerci e scambi, ma anche - se non di più - della
superiorità culturale, espressione di un primato intellettuale e
scientifico prodotto da un più accelerato sviluppo, che rappresenta
la condizione stessa dell'affermazione politica internazionale.
3. L'egemonia nel mondo moderno
È probabilmente proprio la complessità del nodo che lega
inestricabilmente sviluppo socioeconomico e dominio su scala
internazionale che ha affascinato gli studiosi del mondo moderno, e
in particolare delle sue origini, contraddistinte dalla nascita di
una forma organizzativa nuova - lo Stato centralizzato (cioè lo
Stato moderno) -, che ha come caratteristica fondamentale il
riconoscimento dell'appartenenza a un sistema di Stati. Da ciò
discende la necessità del consolidarsi di uno degli apparati vitali
della nuova concezione: l'esercito, inteso come strumento di
conquista e di egemonia (appunto) più che di mera difesa. E così, a
partire dal XVI secolo, iniziano a formarsi in Europa imponenti
complessi statuali come la Spagna, la Francia e l'Inghilterra, la
cui espansione territoriale, prima continentale e quindi mondiale,
darà vita ad altrettanti progetti egemonici. La grande differenza
che corre tra l'egemonia del mondo antico e quella di cui ora
tratteremo riguarda il connotato della concorrenzialità, escluso
anticamente quando un'egemonia declinava più per consunzione interna
che sotto la pressione di una nuova potenza emergente, e
determinante invece nel gioco politico internazionale del mondo
moderno (nonché poi di quello contemporaneo), contraddistinto da
scontri egemonici tra potenze concorrenti - Spagna contro
Inghilterra, Inghilterra contro Francia, Germania contro Francia e
Russia, infine Unione Sovietica contro Stati Uniti.
Coerentemente alle trasformazioni del mondo moderno, nel quale
l'egemonia quasi esclusivamente politica dell'età antica non è
neppure immaginabile, lo sviluppo del sistema internazionale che
consegue al consolidarsi dei primi Stati nazionali (nella formazione
dei quali la dimensione coloniale ed espansiva è a sua volta
determinante) ha immense conseguenze, che si estrinsecano
particolarmente nei rapporti economici internazionali o più
precisamente nel commercio mondiale. Questo spostamento (o
arricchimento) dell'asse della vita di relazione tra unità autonome
e separate ha spinto uno degli studiosi più originali del mondo
moderno - Immanuel Wallerstein - a racchiudere le tendenze dominanti
dello sviluppo di quella che egli chiama "l'economia-mondo" proprio
nella formula dell'egemonia, definita "come una situazione in cui le
merci di un dato Stato centrale sono prodotte con tale efficienza
che sono assai competitive anche in altri Stati centrali, e di
conseguenza il dato Stato centrale sarà il primo beneficiario di un
mercato mondiale massimamente libero" (v. Wallerstein, 1980; tr.
it., p. 52).
Benché l'impostazione di questo autore lo porti a prediligere le
variabili di tipo economico, egli riconosce tuttavia la pervasività
del fenomeno egemonico anche a livello politico, ideologico e
culturale; anch'egli infine ne ammette la connaturata provvisorietà,
come se nessuno potesse mantenersi all'apice della potenza: "non
appena uno Stato diventa davvero egemone, comincia a declinare"
(ibid., p. 53). Wallerstein cerca di spiegare la ragione di ciò con
il fatto che della forza trainante dell'egemone si avvantaggiano
anche gli altri Stati (beneficiando delle sue scoperte scientifiche
e tecnologiche, delle innovazioni organizzative, ecc.), il che
finisce per far crescere anche la potenza di questi ultimi nel
momento in cui la spinta dell'egemone si esaurisce o entra in una
fase di stagnazione o di naturale rallentamento. E poiché la
superiorità egemonica si estrinseca materialmente nei settori della
produzione, del commercio e della finanza, "vi è probabilmente
soltanto un breve momento nel quale una data potenza centrale può
manifestare simultaneamente la sua superiorità" (ibid., p. 53).
Ma quali sono concretamente i momenti storici nei quali tale
congiunzione di condizioni offre a uno Stato lo scettro egemonico?
Wallerstein ne individua tre, contraddistinti dall'egemonia della
Repubblica delle Province Unite (1625-1672), da quella britannica
(1815-1873) e da quella statunitense (1945-1967), che sarebbero
caratterizzati da alcune analogie. In tutti e tre i casi si sarebbe
avuta, in primo luogo, la successione nella superiorità
agroalimentare, commerciale e finanziaria; questo sviluppo sarebbe
stato contraddistinto, in secondo luogo, dal predominio di
un'ideologia liberal-globalistica, dalla quale sarebbe quindi
disceso, in terzo luogo, il riconoscimento della necessità di
dotarsi di una forza militare di portata globale. Questi tre casi
sarebbero infine uniti da un denominatore comune: l'esser stati
tutti favoriti dall'esito di una guerra trentennale (quella dei
Trent'anni, 1618-1648; quella del periodo delle coalizioni
antinapoleoniche, 1792-1815; quella infine del periodo 1914-1945)
(v. Wallerstein, 1983, pp. 101-104 e passim).
Per quanto siamo qui di fronte a un disegno di grande efficacia
esplicativa - e tralasciando per ora la discussione sull'egemonia
nel mondo contemporaneo (alla quale si ritornerà più avanti) - è
difficile sfuggire alla sensazione che la programmaticità
dell'impostazione teorica (nonché ideologica) finisca per
costringere Wallerstein a qualche semplificazione imposta
dall'economicità (nonché dall'economicismo) del suo modello.
Infatti, risulta non del tutto evidente la situazione egemonica
olandese, frutto congiunturale più che endogeno e strutturale (v.
Haitsma Mulier, 1986, pp. 422-423), così come la situazione
egemonica statunitense, cosicché le maglie della rete teorica
sembrano fin troppo larghe; d'altro canto l'esiguità dei casi che
rientrano nel modello, escludendo periodi nei quali la superiorità
di questa o quella potenza viene solitamente definita proprio
egemonica (si pensi all'età di Carlo V e al sogno imperiale del
figlio Filippo II, oppure a quella del Re Sole Luigi XIV, che per
almeno un ventennio dominò la politica europea, o ancora a un'altra
stagione dell'egemonia britannica, quella del primo Settecento,
dovuta proprio alla simmetrica sconfitta francese) (su questi
periodi v., rispettivamente, Gaeta, 1986; v. Casey, 1986; v. Zeller,
1955), finisce per limitarne la portata euristica. È vero forse che
l'idea stessa di egemonia si trova stretta tra progetti di
dominazione irrealizzabili (come quelli di Carlo V o del Re Sole) da
una parte, e dall'altra più modeste anche se meno pregnanti
progettazioni pratiche: ma come escludere, ad esempio, che l'Impero
ottomano sia stato una potenza egemone oppure che l'Austria abbia
esercitato un'egemonia sulle cose italiane nell'età della
Restaurazione ("L'egemonia austriaca sulla penisola era dunque
totale": v. Ratti, 1986, p. 87); e altresì che - secondo letture
forse più ingenue, ma pur sempre corrette, quali quelle
storico-diplomatiche - tutta quanta la storia delle relazioni
internazionali possa esser letta come un'incessante lotta per
l'egemonia, prima europea e poi mondiale?
4. Egemonia e potenza
Non si può afferrare il significato profondo dell'idea di egemonia
se non la si ricollega a una filosofia della storia, rispetto alla
quale essa rappresenta una delle due teorie ritenute fondamentali
per interpretare la storia internazionale - l'altra essendo la
teoria dell'equilibrio (v. Cesa, 1987). Addirittura si potrebbe
sostenere che egemonia ed equilibrio offrono all'internazionalista
tutto il bagaglio concettuale di cui egli necessita (o almeno, così
è stato per secoli) per l'interpretazione della storia. Ma mentre il
ricorso all'immagine dell'equilibrio non incontra quasi opposizione
nella letteratura teorica delle relazioni internazionali (v.
tuttavia Bonanate, 1976, cap. 4), l'egemonia sembra aver
contraddistinto specialmente la cultura tedesca tra la seconda metà
del XIX secolo e la prima metà del XX. Il nume tutelare che presiede
all'interpretazione della politica internazionale in chiave
'mondiale' (intendendo con ciò che alcuni Stati abbiano avuto dal
destino dei compiti civilizzatori di portata mondiale) è certamente
il Ranke di Le grandi potenze, il quale può essere considerato
l'antesignano della contrapposizione specifica tra egemonia ed
equilibrio, rappresentando la prima un pericolo e il secondo il suo
antidoto, dato che proprio contro "la preponderanza [subito prima
chiamata egemonia] e lo strapotere si allearono le potenze minori,
formando leghe e confederazioni. Fu così che nacque il concetto di
un equilibrio europeo" (v. Ranke, 1833; tr. it., p. 80. L'autore si
riferisce qui all'egemonia francese nell'età successiva alla pace di
Nimega del 1678).
Acquista così forza l'ipotesi (già vagamente riconducibile alla
lettura dei pochi passi internazionalistici di Hobbes, Pufendorf,
Spinoza) - che diventerà poi anche una dottrina - che la natura
della politica internazionale sia una lotta per la supremazia; lo
ripeterà all'inizio del XX secolo Otto Hintze ("L'intera storia del
sistema europeo degli Stati è una catena di tentativi dell'una o
dell'altra potenza di ottenere la supremazia, contro i quali le
altre potenze cercano di conservare la loro indipendenza o
addirittura la loro esistenza": v. Hintze, 1913; tr. it., p. 152),
introducendo tuttavia ancora una complicazione con il riferimento
che egli fa all'imperialismo, sostanzialmente utilizzato come
sinonimo di egemonia: cercando di cogliere le linee tendenziali
della politica futura, egli immagina infatti che diversi
imperialismi siano destinati a controbilanciarsi in un sistema di
equilibrio, mosso certo dall'aspirazione alla supremazia, ma
limitato dalle controtendenze tipiche dell'equilibrio; in
conclusione "questa situazione dei rapporti mondiali ci sembra
meglio esprimibile con le parole 'politica mondiale' che non con la
parola 'imperialismo' richiamante l'idea del dominio universale" (v.
Hintze, 1907; tr. it., p. 204).
Ma prima di affrontare l'analisi di un'altra opera che ha segnato
più specificamente la storia del concetto di egemonia, conviene
soffermarsi ora sull'ambiguità che il riferimento all'imperialismo
potrebbe creare, indotta dalla duplicità di usi cui quest'ultimo
concetto è stato sottoposto: se nell'accezione di Hintze
l'imperialismo non è altro che un concetto neutrale o descrittivo,
inteso a rappresentare la tendenza all'impero tipica dell'età della
corsa europea alle colonie, è evidente che tutt'altro significato
esso assumerà pochi anni dopo nell'accezione leniniana, con
connotati ben altrimenti specifici, riferendosi a una fase
storicamente determinata dello sviluppo dello Stato capitalistico,
il quale - prima ancora di giungere all'inevitabile tappa estrema
dello scontro con altri analoghi Stati - tenderà, più che a dar vita
a veri e propri imperi formali, a conquistare il controllo dei
mercati e delle attività finanziarie a livello mondiale, mirando
cioè non alla mera potenza, ma piuttosto a un globale controllo
politico, economico e culturale su altri paesi o altre regioni del
mondo - senza che rapporti formali-istituzionali vengano
necessariamente a consolidare tali situazioni (v. Lenin, 1917).
La distinzione, che di per sé potrebbe apparire scolastica, acquista
piena rilevanza quando la si applichi alla vicenda fondamentale che
agli Stati tocca di affrontare: la guerra, che - se riferita a un
contesto caratterizzato esclusivamente dalla lotta per la potenza -
apparirà mera conseguenza dell'anarchia internazionale e dunque
occasione incessantemente ripresentantesi nella storia fin tanto che
esisteranno gli Stati (il che, del resto, è tipico del pensiero
realistico al quale la dottrina tedesca dello Stato-potenza e
dell'egemonia si rifà); se giudicata invece nell'ottica della teoria
dell'imperialismo essa apparirà dapprima come una necessità per la
conquista dei mercati, poi come una tendenza inevitabile della
concorrenza intercapitalistica e quindi - infine -
interimperialistica (v. Monteleone, 1979).
L'apparato concettuale sinteticamente riassunto nella parola
egemonia sprigiona tutta la sua potenzialità esplicativa nell'opera
di un altro studioso tedesco, Ludwig Dehio, il quale - scrivendo
poco dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e volendo
trovare una spiegazione della tragedia nella quale il suo paese
aveva trascinato il mondo (per aver voluto dare "l'assalto
all'inespugnata vetta dell'egemonia": v. Dehio, 1948; tr. it., p.
196) - coglie in quella parola ben più che delle occasioni
interpretative, giungendo a disegnarvi intorno addirittura una vera
e propria legge storica. Secondo tale legge tutta quanta la storia
del 'sistema degli Stati' (formula alternativa rispetto a quella di
'sistema internazionale', utilizzata dai politologi per esprimere la
loro distanza da un'impostazione tanto più densa di riferimenti di
valore e di direttrici interpretative) non è altro che un incessante
ciclo ritmico, fatto di ondate e frapposti avvallamenti (v. Dehio,
1948; tr. it., pp. 129-130), che regola grandi progetti egemonici
così come il loro inevitabile fallimento. Dagli albori della storia
moderna fino alla seconda guerra mondiale, quattro sono i grandi
disegni egemonici sognati: quello della Spagna tra Carlo V e Filippo
II, quello della Francia di Luigi XIV, quello della Francia sotto
Napoleone, infine quello della Germania hitleriana (si noti come tra
i protagonisti di tali tentativi non figuri la potenza più
frequentemente definita egemonica, con riferimento allo stesso arco
temporale, cioè la Gran Bretagna, da Dehio considerata una "potenza
laterale", come la Russia, essendo destinate entrambe a un ruolo
sussidiario ovvero di contrappeso "contro la fusione del centro"
continentale, o Francia o Germania dunque: v. Dehio, 1948; tr. it.,
p. 106; v. Dehio, 1953; tr. it., p. 114); e altrettanti sono i
fallimenti di questi progetti, che sono assunti a scansione
storiografica da Dehio fin dalla disposizione del sommario della sua
opera.
Ma qual è la ragione non superabile del destino fallimentare di ogni
progetto egemonico? In generale, e un po' astrattamente, essa
consiste nell'indesiderabilità stessa dell'affermarsi, e più ancora
del consolidarsi, di situazioni egemoniche, le quali provocherebbero
in sostanza la fine della storia che - se è ciclica - non può certo
arrestarsi a contemplare una qualche definitiva costellazione di
Stati vassalli di una grande potenza dominante. La storia è come la
"molla dell'orologio dell'antico sistema degli Stati" (v. Dehio,
1948; tr. it., p. 129), che si carica e ricarica spontaneamente
grazie alla naturale funzione adempiuta dall'equilibrio di potenza,
dato che "è legge fondamentale che gli spazi esterni, a occidente
come a oriente, direttamente o indirettamente, agiscano come
contrappesi contro la fusione del centro" (v. Dehio, 1948; tr. it.,
p. 106). L'equilibrio, in altri termini, svolge la funzione di
custode della libertà precludendo la concretizzazione dei sogni
egemonici delle potenze centrali (continentali) alle quali - in una
logica geopolitica, del resto prevalentemente praticata dalla
cultura tedesca della prima metà del secolo (v. Whittlesey, 1971) -
si oppongono, ancora sempre per un destino naturale, le potenze
laterali, insulari o marginali che siano, del sistema.Per aver
riposto tanta fiducia nella legge storica dell'egemonia, Dehio
potrebbe meritarsi persino i rimproveri che Croce, nelle pagine
vigorose della Storia d'Europa nel secolo decimonono, muoveva ai
suoi maestri culturali, Treitschke in primis, proprio per l'acritica
accettazione della legge dell'egemonia (è curioso, a questo
proposito, che Gramsci, a sua volta, nella sua analisi della
filosofia di Croce, si rifacesse a quella pagina crociana per
criticarne il mascheramento dell'egemonia con un generico richiamo
alla "storia della libertà": v. Gramsci, 1975, vol. II, p. 1236). È
un fatto, ad ogni modo, che neppure Dehio riesca a sfuggire al
dubbio che il cataclisma smisurato della seconda guerra mondiale
possa aver infranto il meccanismo ciclico egemonia-equilibrio: pur
assistendo al consolidarsi di un nuovo asse mondiale e non più
europeo, che ha ai suoi estremi due potenze un tempo laterali (Stati
Uniti e Unione Sovietica), egli ipotizza che abbia potuto innescarsi
una nuova fase storica dell'umanità, o del processo di
civilizzazione, portata da un "ordinamento pacifico mondiale" (v.
Dehio, 1948; tr. it., p. 246), che tuttavia, per realizzarsi,
dovrebbe provocare l'estinzione di quell'istituzione che pur è stata
il grande e assoluto protagonista della storia interpretata da Dehio
- lo Stato - la cui connaturata e insopprimibile aspirazione è la
potenza. Quasi preso dalla vertigine di un'immagine del mondo
a-statuale, non a caso l'archivista tedesco chiude la sua opera -
nel nome di Burckhardt - evocando l'Ellade libera "che non vuole
piegarsi alla supremazia di uno dei suoi membri" (v. Dehio, 1948;
tr. it., p. 248).
Ma non si può considerare terminato il capitolo dedicato alla
dottrina tedesca dell'egemonia senza fare riferimento a un'opera
notissima - più per la diffusione raggiunta che per la sua
profondità - pubblicata subito prima dello scoppio della seconda
guerra mondiale, e non priva di qualche compiacimento 'demoniaco'
tipico dell'epoca: Hegemonie di Heinrich Triepel, che cercò di
fondere in un'opera dotta e pedantesca analisi giuridica,
sociologica, storiografica e politologica dell'egemonia, trasformata
in questo modo in un vero e proprio passe-partout, capace di
spiegare ogni piega della storia della civiltà. Ma l'opera è
tutt'altro che priva di un valore intrinseco, prevalentemente legato
al tentativo - quasi unico - di offrire una definizione generale e
concettuale del fenomeno egemonico. Così, una volta ritualmente
ribadita la coessenzialità tra egemonia e dottrina della politica di
potenza, Triepel individua nel concetto di 'direzione' l'essenza
dell'egemonia - il che vale tanto per i rapporti interindividuali
quanto per quelli della politica interna o internazionale - cosicché
la definizione che egli propone fa consistere l'egemonia in un
"rapporto di direzione fra uno Stato e uno o parecchi altri Stati"
(v. Triepel, 1938; tr. it., p. 129).
Sulla base di questa idea, che dunque va al di là delle alternative
linguistiche già viste, e insistendo sulla funzione di guida che uno
Stato riveste nei confronti di altri, Triepel intraprende un
complesso cammino di precisazioni e distinzioni, giungendo a
tipizzare non meno di 13 coppie di confliggenti concezioni
dell'egemonia. Tra queste, alcune concorrono a offrire tuttavia
un'immagine originale e perspicua del fenomeno egemonico: in primo
luogo infatti Triepel critica le diverse concezioni statiche, come
quelle implicite in un rapporto di 'predominio' (che echeggiano
l'uso prevalente anche della parola egemonia, sovente considerata
interscambiabile con 'predominio'), che non sarebbe altro che un
semplice indicatore di relazione e di confronto, inadatto dunque a
esprimere il senso dell'esercizio di un compito direttivo, di
promozione di una politica voluta dallo Stato dirigente.Un programma
davvero egemonico consiste invece in una forma di progressivo
assorbimento di altri Stati (così come fu per l'Impero romano, poi
per la Francia napoleonica, o per l'Impero britannico), capace cioè
di tradursi in "potenza addomesticata, e se il forte, in virtù della
propria decisione, benché egli possa diventare dominatore, si decide
a non dominare, ma a dirigere, allora noi abbiamo da fare con
quell'autoaddomesticamento della potenza che è comune alla vera
egemonia" (v. Triepel, 1938; tr. it., p. 155). La peculiarità dello
spirito direttivo (quasi una superiorità paternalistica, che spinge
l'egemone a condurre alleati o sudditi attraverso i pericoli della
politica di potenza) è tale da distinguerlo pure da un'altra forma
di rapporto sovente definito egemonico, quello imperialistico,
rispetto al quale Triepel (diversamente da Hintze) rivendica una
sostanziale autonomia dell'egemonia, che discende dal fatto che
mentre l'imperialismo non sarebbe altro che una categoria molto
generale (non riferendosi ad altro che a una "aspirazione alla
estensione di potenza verso grandi spazi": ibid., p. 197),
l'egemonia ha invece un suo contenuto specifico che si coglie in
quella missione che allo Stato dirigente compete per natura. Non ci
si stupirà che per Triepel l'egemonia non possa andar separata dal
riferimento a una funzione civilizzatrice e che quindi si possano
distinguere, parallelamente alle vicende dei popoli, delle egemonie
"della salita" e altre "della discesa" (ibid., pp. 201 ss.). E
mentre tra le seconde ci sarebbe quella britannica, tra quelle in
ascesa si troverà naturalmente quella prussiana (non parendo
possibile a Triepel, coerentemente al suo modello, che l'"egemonia
collettiva delle grandi potenze nella Società delle Nazioni" -
ibid., p. 314 - esprima una vera ed efficace direttiva generale),
che per quanto anch'essa ormai esaurita potrebbe trasfondere alla
nuova Germania "la sua benedizione come una sorgente di forza
tedesca e di unità tedesca" (ibid., p. 638).
5. Verso la rinascita contemporanea dell'egemonia
L'opera di Triepel chiude la stagione più fortunata dell'egemonia -
specie quanto al consolidarsi di una sua area di applicazione -
grazie in particolare all'accentuazione di quello che è l'elemento
peculiare della parola, non sempre ricompreso nell'uso generico che
se ne è fatto specialmente nell'ambito della storiografia
diplomatica: intendiamo il riferimento alla dinamicità connaturata
all'azione dello Stato egemone o guida, il quale non si limita a
conseguire e contemplare (per così dire) i suoi trionfi, ma si
impegna in una missione - se apprezzabile oppure no, se consensuale
o coercitiva, sono problemi di un altro ordine - di sviluppo
collettivo (di civilizzazione, direbbero gli autori sopra
ricordati), di allargamento più che di mero consolidamento della
sfera egemonica, come nel perseguimento di un dovere morale.
Ma dopo la fine della seconda guerra mondiale due fattori
determinano una vera e propria dislocazione dell'area semantica del
termine. Per un verso, infatti, il ripugnante ricordo di ciò che il
delirio egemonico hitleriano avrebbe voluto fare delle razze e dei
popoli e, per un altro, la pratica ingeneratasi nei critici della
politica estera statunitense di definire egemonici i rapporti che
quella potenza andava instaurando con gli alleati (vincitori e vinti
della guerra) determinarono il prevalere di un'accoglienza
completamente negativa della parola, il ricorso alla quale finiva
per identificare anche le preferenze ideologiche di chi la usava.È
un fatto, ad ogni modo, che i risultati della seconda guerra
mondiale siano stati tali da generare la formazione di due imponenti
coalizioni di Stati - i due blocchi - la cui contrapposizione non
atteneva a condizioni di potenza pura e semplice, ma rinviava a due
incompatibili progetti politico-ideologici. La contrapposizione tra
mondo liberaldemocratico e mondo socialista rivoluzionario - con i
relativi programmi di 'liberazione' dei popoli oppressi
dall'avversario - era talmente radicale che, nell'impossibilità di
ricorrere a una nuova inaccettabile guerra (perché probabilmente
nucleare), i due blocchi finirono per dar vita a una forma di lotta
tanto nuova che per definirla fu necessario adottare una nuova
formula, quella della 'guerra fredda', combattuta tra egemonie
contrapposte, appunto, invece che tra eserciti.
Ciascuno dei due blocchi, poi, non rappresentava una coalizione tra
pari, ma aveva dato vita a una struttura gerarchica, con uno Stato
dominante ('egemone') il quale era considerato tale non soltanto per
la sua forza materiale (anche se ovviamente questo elemento non
poteva essere trascurato), ma più ancora e prevalentemente per la
funzione di direzione ideologica assunta nei confronti degli
alleati-sudditi: capitalismo americano e socialismo sovietico
divennero così i due modelli rispetto ai quali milioni di cittadini
sparsi per la maggior parte del globo si trovarono a doversi
schierare, quando possibile, o altrimenti a subirli.Non c'è neppure
bisogno di sottolineare che i blocchi si nutrirono della reciproca
sfida (vera o presunta), ma dovettero fronteggiare anche importanti
movimenti di contestazione, interni alla coalizione. Così le
correnti radicali della storiografia contemporanea e dell'analisi
economica, sia statunitense che europea, svolsero un'intensa opera
di critica ideologica nei confronti dell'egemonismo degli Stati
Uniti e/o della loro leadership (v. Kolko, 1972; v. Migone, 1974),
tanto che lo stesso Raymond Aron - nella sua opera sulla politica
estera statunitense del secondo dopoguerra - si sentì obbligato a
precisare, proprio per fronteggiare il successo dell'accusa di
egemonismo nei confronti degli Stati Uniti, che il termine egemonia
nel caso in questione non aveva "altro senso originario che quello
di leadership militare" (v. Aron, 1973, p. 264). Ma non va
dimenticato che non soltanto l'egemonismo statunitense era oggetto
di critica radicale, perché qualche cosa di analogo andava
succedendo - tra gli anni sessanta e settanta - anche all'Unione
Sovietica, accusata a sua volta dalla Cina di egemonismo e in ciò
accomunata agli Stati Uniti, ovviamente, insieme ai quali essa
sarebbe stata protesa alla "ricerca vana dell'egemonia mondiale" (v.
Leninism or..., 1970, p. 32). Ma mentre la critica nei confronti
della superpotenza statunitense restava nell'alveo della critica
leninista dell'imperialismo, la spaccatura tra i due più grandi
Stati socialisti del mondo assumeva ben altra rilevanza, perché il
terreno scelto per lo scontro ideologico era proprio quello
dell'atteggiamento sovietico verso i suoi alleati: i Cinesi
sostenevano infatti che la cosiddetta 'dottrina Brežnev', imponendo
agli alleati dell'Unione Sovietica l'obbligo di commisurare la loro
libertà d'azione ai superiori interessi dell'Unione Sovietica stessa
- la quale per parte sua offriva loro la più ampia protezione nei
confronti dell'aggressione imperialistica -, non era altro che "un
imperialismo con l'etichetta di 'socialismo', una vera e propria
dottrina dell'egemonia e un neo-colonialismo che si mette
completamente a nudo" (ibid., p. 47).
L'aspetto più specificamente rilevante - dal nostro punto di vista -
non è ovviamente la correttezza o meno di questi giudizi (certamente
ideologici, prima ancora che analitici), quanto piuttosto il fatto
che il consolidarsi di tali situazioni egemoniche sia stato
considerato tanto originale e significativo da dar vita persino a un
settore di studi specifico, a cui normalmente si fa riferimento come
alla 'teoria della stabilità egemonica'. Si tenga presente poi che
la riflessione sulla rinascita dell'egemonia si inserisce anche in
un altro filone di studi più direttamente collegato alla vivacissima
rinascita della ricerca sulla ciclicità della storia, con
riferimento al ruolo che la guerra ha nel determinare il passaggio
da un'età all'altra, cosicché, mentre la prima impostazione guarda
alla situazione egemonica come a un elemento pacifico, la seconda la
osserva invece nella sua dimensione conflittuale. Ma vediamole per
ordine. L'ipotesi racchiusa nella teoria della stabilità egemonica -
che si propone di offrire un principio che possa spiegare la
progressiva pacificazione della vita internazionale - muove
principalmente da considerazioni di natura economica, e giunge a
sostenere che gli Stati abbiano creato nel tempo dei meccanismi
capaci di irreggimentare (porre sotto controllo) i problemi
internazionali di interesse collettivo, il che avverrebbe
particolarmente grazie alla funzione stabilizzatrice esercitata
dallo Stato egemone. In sostanza in un sistema internazionale, come
quello dell'ultimo ventennio, contraddistinto da una stratificazione
internazionale nella quale una serie di alleati ha raggiunto
un'altissima interdipendenza economica con il suo leader, si può
sostenere che: 1) la possibilità che nella politica internazionale
si realizzi una situazione di ordine dipende direttamente dalla
presenza di un potere dominante e unico (ciò vale, in pratica, per i
due casi dell'egemonia statunitense e di quella sovietica); 2) lo
Stato egemone deve possedere una preponderante quantità di risorse
economiche (controllo sulle materie prime, sui capitali, sui
mercati, superiorità produttiva), grazie alle quali gli sarà
possibile, oltre che mantenere la propria superiorità, orientare
anche le scelte sia degli alleati che dei paesi terzi (v. Keohane,
1984, pp. 31-32).Fin qui nulla di particolarmente nuovo, se non
fosse per la conclusione che ne viene tratta, e cioè che da tale
assetto tutti i partecipanti - e non soltanto lo Stato egemone -
trarrebbero dei benefici derivanti essenzialmente dallo sviluppo di
un sistema economico internazionale aperto e cooperativo. L'egemonia
produce stabilità, regolazione, mutui benefici, e può essere dunque
considerata un vero e proprio 'bene pubblico' (capace di non dare
vita a occasioni di rivalità o di esclusione, come la salute, il
benessere, l'ordine, ecc.). Stando così le cose (e osservato
tuttavia che questa 'teoria' in realtà non fa altro che descrivere
la dinamica dei rapporti interni alle grandi coalizioni), il
problema teorico che immediatamente sorge riguarda l'eventualità o
meglio il fatto che quando lo Stato egemone entra in una fase di
declino - quel declino già tante volte paventato per gli Stati Uniti
e che intanto si è già verificato in Unione Sovietica - all'ordine
che aveva eretto possa succedere una fase di disordine, dapprima
economico e poi anche politico, da cui potrebbe sorgere un nuovo
conflitto egemonico (v. Kindleberger 1973).
Le risposte possono essere diverse: da un primo punto di vista, si
può sostenere che al posto di un'egemonia piena (di uno Stato solo)
si costituirà un'egemonia collettiva (un caso già ipotizzato da
Triepel: v., 1938; tr. it., p. 237): ciò non potrà che tradursi in
un beneficio per la collettività, dato che consentirebbe lo sviluppo
di rapporti collaborativi più egualitari - come in un processo di
apprendimento cibernetico (learning) - dando vita inoltre a un
sistema internazionale più democratico (v. Snidal, 1985). Si
potrebbe d'altra parte negare che tale declino sia avvenuto, come fa
chi - osservando la sostanziale continua superiorità statunitense in
fatto di sicurezza militare, produzione industriale, finanza,
sviluppo scientifico - esclude in termini di fatto che gli Stati
Uniti non siano più la potenza egemone, e non soltanto del mondo
occidentale (v. Russett, 1985; v. Strange, 1987). Ma esiste infine
anche la possibilità che il declino sia un fato inscritto nel
destino delle grandi potenze, e che non si tratti dunque d'altro che
di registrarlo quando avvenga. Questa terza eventualità apre un
ventaglio di possibili sviluppi.
Se - oltre alle possibilità naturali o alle circostanze accidentali
che attengono alla vita reale degli Stati - si tiene conto delle
modificazioni nella potenza relativa che si possono determinare, non
è affatto da escludere l'eventualità dello scoppio di una guerra
diretta proprio a verificare i nuovi rapporti di forza: si tratta di
quella 'guerra egemonica' alla quale Robert Gilpin assegna la
funzione di scandire il ritmo ciclico del mutamento internazionale
(val la pena ricordare quali siano, secondo questo autore, i
presupposti per lo scoppio di una tale guerra: il restringersi dello
spazio e delle opportunità, dovuto a una sorta di invecchiamento del
sistema; la diffusa percezione che si stia verificando un mutamento
storico, che il controllo della situazione incominci a sfuggire ai
governanti: v. Gilpin, 1981, pp. 273-279); contraddistingue questa
impostazione l'idea che il ciclo storico sia lineare, fatto cioè
esclusivamente di alternanze tra periodi di ordine egemonico e di
guerre per l'egemonia.Un passo avanti significativo è forse invece
fatto da chi - pur sempre ragionando secondo una logica ciclica - fa
della guerra egemonica nulla più che un elemento di rottura di un
ampio divenire. Il caposcuola di questa impostazione è George
Modelski, il quale intravvede nella storia politica internazionale
il succedersi di quattro fasi tipiche: la guerra egemonica (che egli
chiama globale, dopo aver accusato un certo fastidio per il ricorso
alla parola 'egemonia'), la fase della dominazione da parte di una
potenza mondiale, la fase di delegittimazione, la fase di
deconcentrazione, ovvero quella in cui il futuro egemone lancia la
sua sfida (v. Modelski, 1987, pp. 17-18 e 40).
L'interesse di questa impostazione - così come di quella di
Goldstein, il quale ha proposto una più ampia analisi ciclica della
storia internazionale - non può tuttavia restare confinato alla
semplice individuazione delle diverse fasi: precisando che il ciclo
al quale pensa assomiglia a una spirale - un ciclo tridimensionale,
dunque, e non lineare - Goldstein (v., 1988) orienta la sua ricerca
addirittura in direzione di una previsione cronologica, applicando
una scansione in fasi, ricavata da alcuni spunti pionieristici di
Nikolaj Kondrat´ev (un economista russo che aveva elaborato negli
anni venti una teoria dei cicli economici, fondata su una minuziosa
raccolta di serie statistiche sull'andamento dei prezzi nei secoli,
sia delle materie prime sia dei beni di consumo come delle
retribuzioni e dei redditi), in base alla quale il ritmo dei cicli
sarebbe scandito da periodi all'incirca secolari.
6. Osservazioni conclusive
Per quanto questo tipo di previsione possa essere effettivamente
riferito a quella dimensione dell'immaginario collettivo che si
rifugia nei miti tradizionali dell'età dell'oro (irrimediabilmente
perduta) e del tramonto della civiltà (ineluttabilmente imminente)
(v. Grunberg, 1990), essa è in realtà emblematica dell'importanza
che all'egemonia è stata assegnata dalla nostra cultura: di servire
oltre e più che a descrivere uno stato di cose, a valutarlo, a
giudicarne il destino; non è un caso che uno dei libri di maggior
successo degli ultimi anni sia stato dedicato proprio all'ascesa e
al declino delle grandi potenze (v. Kennedy, 1987), così come che
l'ipotesi del declino (sempre presente in ogni teoria dell'egemonia,
la quale quindi non risulta mai scevra di un qualche elemento
pessimistico o fatalistico) non sia a sua volta che la conseguenza
della liquidazione (se così si può dire) del retaggio della seconda
guerra mondiale, guerra egemonica per eccellenza, nei suoi scopi
(per quanto riguardava il Terzo Reich) e nei suoi risultati (dal
punto di vista statunitense e sovietico): era innegabile, già prima
degli eventi clamorosi e inattesi del 1989 in Europa orientale, che
l'irriducibile ostilità tra i due blocchi si fosse progressivamente
ridotta finendo per perdere le sue stesse ragioni, e che - per poco
che ci si lasci prendere dalle logiche predittive - in un così lungo
periodo di distensione tra le grandi potenze si possa leggere il
segno del declino. E che ogni declino sia foriero di una sfida
portata da nuove potenze emergenti verso le potenze egemoni non è
che un'altra lezione classica impartitaci dalla storia.In realtà la
parola 'egemonia' - come accade sovente - ha due significati, e non
uno soltanto e univoco: essa indica un disegno politico
consapevolmente perseguito - e allora si tratterà di verificare la
corrispondenza tra il progetto e i suoi risultati - ma esprime anche
un giudizio sulla storia, se una situazione egemonica sia un bene o
un male. Essa infine è strettamente connessa alla guerra, perché è
quest'ultima che crea e distrugge ogni egemonia. Accomuna ad ogni
modo tutti coloro che la utilizzano come strumento interpretativo la
sensazione della provvisorietà di uno stato di cose - quello della
realtà internazionale - che sembra rifuggire da ogni consolidamento,
e appare anzi in incessante, instabile e perpetuo movimento.